I nerd non salveranno il mondo, ma intanto lo plasmano

Intervista a Vanni Santoni in occasione dell'uscita di "La stanza profonda"

di / 17 maggio 2017

Il nuovo romanzo di Vanni Santoni, La stanza profonda (Laterza, 2017), è nella dozzina dello Strega. È un libro dalle fattezze ibride, che racconta il mondo dei giochi di ruolo analizzandone meccaniche, idiosincrasie e atmosfere. Dopo aver narrato la free tekno in Muro di casse, Santoni sceglie un’altra subcultura che con il passare del tempo è stata in grado di influenzare innumerevoli aspetti del nostro presente. Ho posto alcune domande all’autore, chiedendogli di spiegare ai lettori di Flanerí alcune caratteristiche delle stanze profonde, del rapporto che hanno con la cultura di massa e con la scrittura.


Sulla bandella di La stanza profonda c’è scritto che il passatempo di cui racconti ha contribuito a gettare le basi di un «immaginario divenuto egemone» e di parte della nostra vita quotidiana (soprattutto quella online). Come è avvenuta questa lenta opera di conquista, secondo te? Un breve saggio di Fulvio Gatti, I nerd salveranno il mondo (Las Vegas Edizioni), individua alcuni responsabili di questa rivincita: la saga di Star Wars, i film di Iron Man e compagni, The Big Bang Theory e l’affermarsi di Internet. Sei d’accordo?

È evidente che quella che un tempo era una nicchia oggi è diventato, appunto, parte della cultura di massa più mainstream. Tutti i bambini leggono Harry Potter, tutti sono andati al cinema a vedere i film di Peter Jackson tratti dal Signore degli anelli, tutti guardano Game of Thrones in tv. Questi tre, assieme alla diffusione capillare dei videogiochi, mi sembrano gli elementi chiave di tale processo. Star Wars e i fumetti Marvel sono discorsi molto diversi, che hanno sempre avuto anche una dimensione mainstream e che hanno più volte toccato ambiti per niente nerd. Allo stesso modo, l’affermarsi di Internet, essendo un cambiamento antropologico radicale, paragonabile all’invenzione della stampa a caratteri mobili, trascende qualunque discorso sulle sottoculture, per quanto all’inizio abbia innervato quella degli smanettoni, e quindi anche dei nerd, per ovvie ragioni di affinità tecnologica. Dubito altresì che i nerd possano «salvare il mondo», al massimo lo hanno conquistato e hanno salvato se stessi diventando i “forti” della nostra contemporaneità – del resto abbiamo davanti agli occhi ciò che hanno fatto personaggi considerati “nerd” come Gates, Jobs o peggio che mai Zuckerberg: creare delle multinazionali senza cuore e mettersi la coscienza a posto buttando qualche milione in beneficienza. Non mi pare un gran risultato, inoltre nel momento in cui i nerd diventano il potere… Be’, per certi versi non sono più nerd, almeno nell’accezione che aveva il termine un tempo.


Ho letto una volta che un buon libro deve essere come una lasagna, cioè deve avere tanti strati. Trovo che il tuo sia un’ottima lasagna, e di tutti gli strati che possiede uno ha attirato la mia attenzione in modo particolare: la stanza profonda come luogo del subconscio e dell’archetipo; come mondo ctonio dove altri mondi vengono creati, plasmati e vissuti; come spazio creativo in cui si gioca secondo regole complesse e condivise a un gioco che è (quasi) tutto nella mente del partecipante. A partire da questa considerazione ti pongo le seguenti domande.

1) Sono convinto che molte stanze profonde (giochi di ruolo, generi musicali e artistici, movimenti, subculture…) necessitino di una certa dedizione per essere raggiunte, come se fosse presente una serie di barriere da superare o un percorso esoterico da portare a termine. Sei d’accordo? Credi che questa “barriera”, che è per alcuni respingente e per altri affascinante, sia una caratteristica da preservare affinché la comunità che racchiude possa continuare a esistere?

È senz’altro vero, spesso nelle sottoculture c’è una dimensione iniziatica, un codice da assimilare se non, a volte, anche un percorso interiore in qualche modo inevitabile. Questo è ancora più marcato nelle due che ho preso in analisi, la free tekno ovvero i rave, e i giochi di ruolo, perché si tratta di fenomeni con una forte componente rituale – l’unico libro a essere presente nella bibliografia di entrambi è infatti Il processo rituale di Victor Turner – e il cui focus è decisamente quello della creazione di mondi altri, che siano indotti attraverso musica ritmata, psichedelici e tecniche di trance o strumenti analogici quali carta, dadi e matite.
Detto ciò, è normale che un fenomento, finché resta underground, mantenga dei tratti di purezza che inevitabilmente si perdono quando esce alla luce del sole. Quindi capisco bene una certa tensione: da un lato si vorrebbe che la cultura a cui si appartiene e che ci regala gioie trovasse un maggior riconoscimento (o almeno non venisse criminalizzata dai giornali); dall’altro si capisce che un tale riconoscimento corrisponderebbe a una maggior partecipazione di massa e questa, a sua volta, a un imbastardimento dei tratti della sottocultura, quando non una sua cooptazione da parte della cultura di massa, la quale corrisponde alla giustamente temuta “commercializzazione”.


2) Nel romanzo scrivi che dentro alla stanza profonda ha luogo una «partenogenesi vertiginosa di possibilità», quasi un atto creativo permanente, un atto immaginativo che non è mero fantasticare ma un vero e proprio approccio costruttivo. Essendo tu stato un giocatore, credi che questo continuo processo di creazione abbia affinato alcune tue abilità? Se sì, quali?

Non so se ha affinato alcune mie abilità. Di sicuro ha espanso la mia coscienza, che mi pare qualcosa di più rilevante – avendo a che fare con la dimensione intellettuale più pura e confinando addirittura con quella spirituale – delle semplici skills. Posso però dire, e per esperienza diretta, che per quanto gli scenari dei giochi di ruolo siano stati la prima cosa che ho scritto, non hanno avuto un’utilità diretta nella mia attività di autore letterario: i due medium sono diversi, storie, personaggi e materiali rispondono a esigenze diverse – anche quando ho scritto i due fantasy Terra ignota, e ora che sto scrivendo il loro prequel L’impero del sogno, non ho utilizzato niente che venisse dalle decine di ambientazioni che avevo concepito. Credo che l’eredità sia più indiretta: penso per esempio al progetto SIC, da cui è nato il romanzo storico In territorio nemico: il metodo SIC, nel suo superamento della “staffetta” per cercare modalità di narrazione di gruppo che siano veramente collettive, deve molto ai giochi di ruolo; o ancora, come mi hanno fatto notare su Stay nerd, la forma di Personaggi precari ha forse dei debiti con la creazione di migliaia di mini-schede di PNG, ovvero comprimari, tipica dell’attività di dungeon master – è vero che è un progetto inventato da zero, i suoi ascendenti nobili, che siano Wilcock, Perec, Manganelli o Pontiggia, li ho letti tutti dopo, quando ne ho scoperto l’esistenza dalle recensioni dei critici che tracciavano paralleli tra Personaggi precari e alcuni dei loro lavori come La sinagoga degli iconoclasti, Mi ricordo, Centuria o Vite di uomini non illustri.


3) Uno degli ingredienti base del gioco di ruolo è il coinvolgimento. Nel romanzo parli di spazio mentale condiviso e di concentrazione. Come descriveresti l’atmosfera che si crea durante una partita? Su quali sensazioni lavora? Ritieni che esistano altri aggregatori sociali che operano sulle medesime coordinate?

Mi sembra che il gioco di ruolo, quello “puro”, fatto con il minimo di apparato – schede, dadi, matite; mappe quando servono – sia ancora qualcosa di molto avanzato, proprio per la sua caratteristica di svilupparsi interamente nel “cloud” dell’immaginazione condivisa dei giocatori. Qualcosa di avanzato e tuttora unico, nel suo incrociare narrazione, teatro d’improvvisazione, proiezione psichica, virtualità, persistenza, attività demiurgica.


4) Chi abita la stanza profonda è, in genere, un amante del complesso e del dettaglio: studia manuali, è preparato su ogni aspetto della sua passione e da questa sapienza trae spesso una strana forma di piacere. Ciò che è in grado di minacciare tutto questo è la semplificazione. Quali danni credi che possa arrecare alla stanza profonda?

Per quanto i GdR siano percepiti da fuori come qualcosa di molto complicato, che richiede l’assimilazione di quantità enormi di regole, la storia del medium è un alternarsi di cicli di complessità e semplificazione, rispetto al quale ha vinto la seconda. Oggi, per esempio, un gioco molto popolare è Savage Worlds, la cui caratteristica principale è la rapidità con cui si possono creare personaggi e mettersi a giocare. Se una volta il mito di molti giocatori, me compreso, erano macrosistemi come il Rolemaster o lo Hero System, volti a coprire con regole dettagliate ogni situazione, specie a livello tattico, o a garantire livelli impensati di personalizzazione ai personaggi, successivamente, con il crescere dell’importanza di ambientazione e storytelling – pietra miliare in questo senso è Vampiri: The Masquerade – la tendenza è stata di andare verso sistemi di regole più snelli e di buon senso, onde evitare che l’eccesso di regole e sottoregole rallentasse il narrato e il vissuto dei giocatori, mentre l’aspirazione alla complessità si è spostata nella raffinatezza e nel dettaglio dell’ambientazione, piuttosto che nel pacchetto-regole. È chiaro che la bontà di un master sta anche nel mantenere il giusto equilibrio tra precisione delle regole e fluidità della campagna, decidendo quali adattare e quali no, e rispondendo anche alle esigenze dei giocatori in tal senso. Una caratteristica importante dei giochi di ruolo è il fatto di essere medium flessibili, le regole contenute nei manuali sono solo una base, che poi inevitabilmente viene adattata con house rules generate e concertate giocando.


5) Spesso ho sentito “esponenti della cultura nerd” lamentarsi di fronte all’imporsi del loro immaginario. Lamentano la perdita di tante cose di cui abbiamo parlato: complessità, stratificazione, richiesta di dedizione. Lamentano, forse, l’apertura della stanza profonda e l’erosione delle sue caratteristiche fondamentali, vendute come sono alla massa e al consumismo sfrenato. Cosa ne pensi a riguardo?

La cultura di massa cerca sempre di divorare le sottoculture. È nella sua natura. Ruba le loro idee e la loro estetica, cerca di cooptarle in sistemi commerciali e monetizzarle, e quando non ci riesce le stigmatizza e le reprime. Che fare, dunque? Penso che si debba, semplicemente, e continuamente, inventarsi qualcosa di nuovo. Le sottoculture hanno un loro ciclo vitale, nascono come scintille, crescono in nicchie, diventano controculture in grado di impattare la realtà e cambiarla, subiscono gli assalti di quella stessa realtà, si ritirano in subculture con loro precisi codici di riferimento, infine si disperdono, poco importa se questa dispersione avviene per marginalizzazione e annientamento o per cooptazione e fagogitazione. È ovvio che in un mondo in cui tutti i bambini leggono Harry Potter, tutti i ragazzi (e tutti i genitori, pure) guardano Game of Thrones, tutte le famiglie giocano ai videogiochi, inizia a diventare quasi assurdo parlare di “sottocultura nerd”: alcuni suoi tratti, oggi, e anzitutto l’immaginario fantasy, sono semplicemente aspetti del più pieno mainstream e quindi, sì, parte della magia se ne è andata per sempre. Dall’altro lato, però, resta almeno la pur magra soddisfazione di aver avuto ragione da prima.


In La stanza profonda scrivi che il manuale è quasi un medium a sé. Hai mai scritto un manuale? Hai mai pensato di scrivere, ora che hai anni di esperienza di editing e di corsi di scrittura alle spalle, un manuale di scrittura (sempre che abbia senso scriverne uno)?

Di manuali ne ho scritti una dozzina, in realtà. Dopo alcuni anni con sistemi “ufficiali” ho creato infatti il mio sistema di regole, che abbiamo utilizzato per quindici anni, cambiando ambientazione, e quindi di fatto manuale, ogni anno: per quanto il core ruleset rimanesse più o meno lo stesso, ogni volta ambientazione e quindi razze, classi, incantesimi o tecnologie, tutto, cambiavano e li riscrivevo ex novo, oltre a ritoccare le regole con i suggerimenti portati dai giocatori durante la campagna. Non ho mai pensato di pubblicarne uno, sia perché era comunque un sistema molto derivativo – ogni volta che trovavamo un concetto o una regola interessante da qualche parte la includevamo – sia perché ho cominciato a scrivere i miei giochi nel ’98 o ’99, quando ormai l’industria era bella che collassata, e quindi non pareva né utile né plausibile l’idea di pubblicare un proprio sistema. Circa la scrittura: non credo che si possa insegnare, almeno non nei termini in cui si insegnano altre tecniche o altre materie, perché a scrivere si impara leggendo e scrivendo, ed è proprio questo che cerco di trasmettere nei miei corsi. Dieta, ovvero letture adeguate e abbondanti, e disciplina. E poi faccio tanto lavoro di editing dal vivo sui testi, che è una cosa che posso fare dal vivo ma che è diversa dall’insegnamento tout-court. In realtà ho cominciato a insegnare scrittura nella speranza di trovare possibili autori emergenti da lanciare con la collana Tunué, poi a quanto pare la mia esperienza pregressa di docente ha creato una sinergia interessante con la mia idea di “non-insegnamento” della scrittura, tant’è che minimum fax mi ha chiesto di farne un piccolo libro, che dovrebbe uscire a metà dell’anno prossimo.


Nel romanzo sono presenti alcune citazioni, da Cărtărescu a Giorgio Vasta. Io li definirei entrambi scrittori “da stanza profonda”, in quanto i loro lavori richiedono un certo grado di dedizione e di immersione. Quali sono secondo te gli autori che oggi sono capaci di creare opere complesse in grado di attirare i lettori in “mondi altri” (a me viene in mente Volodine, per esempio)?

Volodine mi sembra un ottimo esempio. Metterei anche László Krasznahorkai, riscoperto di recente nel mondo anglosassone, e da lì anche da noi, grazie alla vittoria del Man Booker Prize con Satantango, che però è del 1985, così come Georgi Gospodinov, bulgaro, lui pure tra i migliori romanzieri contemporanei. Rimanendo in Europa citerei anche Mathias Énard, per quanto sia evidente il suo debito verso Claudio Magris, mentre uscendo dal continente e restando tra i viventi citerei senz’altro William T. Vollmann e ovviamente il maestro Thomas Pynchon, mentre una scrittrice più giovane, ma che ha certamente le abilità per raggiungere quel livello, è la messicana Valeria Luiselli.


Ti pongo una domanda sulla tua attività di editor. Ho letto su Facebook che consigli agli aspiranti scrittori di farsi le ossa sulle riviste specializzate, in particolare consigli loro di scrivere recensioni e articoli riguardanti i libri e la letteratura. In che modo sono connesse la lettura e la formazione di uno scrittore? Ci sono autori che consigli a tutti (durante i corsi, per esempio), oppure ogni autore ha bisogno di leggere libri affini a quello che sta scrivendo o che vuole scrivere?

La lettura è tutto. Chi vuole scrivere deve passare il grosso del suo tempo a leggere. Deve arrivare ad avere una conoscenza almeno decorosa dei classici antichi, moderni e contemporanei e lavorare sempre per tappare tutti i buchi e trasformarla prima o poi in una conoscenza buona; quando lo ha fatto, e può quindi cominciare a scrivere seriamente, dovrà anche leggere le cose più interessanti che escono, per avere almeno una minima idea di dove sta andando il campo letterario di cui aspira a far parte; infine, dovrà creare dei percorsi di lettura specifici per quello che sta scrivendo – questo al di là degli ovvi materiali di ricerca. Chi vuole scrivere deve leggere, leggere, leggere, altrimenti è impossibile che gli venga fuori qualcosa di decente. Tutto il resto è marginale.


Io sono un grande appassionato di libri che parlano di libri e di libri il cui tema è l’atto stesso dello scrivere. Secondo te quali sono i migliori titoli appartenenti a questo non-genere, quelli che ti sono piaciuti di più?

È un campo in cui recentemente è sorta una montagna molto alta e grande e selvaggia, che si chiama 2666 e con cui dobbiamo continuare a fare i conti. Il classico moderno del filone, invece, è certamente Illusioni perdute. Una lettura più leggera, non elevata quanto i capolavori di Bolaño e Balzac, ma con i suoi momenti, specie nella prima parte, è L’informazione di Martin Amis. Un libro eccellente e di uscita recentissima è infine Leggenda privata di Michele Mari, che fra le tante cose è anche la storia della formazione di uno scrittore.


Per salutarci mi potresti dire un brano che ti è rimasto dai tempi dei rave, un ricordo goliardico del tuo periodo da giocatore di ruolo e un aneddoto dal mondo dell’editing?

Non mi piace la postura nostalgica, quindi linko (a) un set che viene sì da figure storiche della scena rave – Ixi degli Spiral Tribe, iniziatori della free tekno, e Maskk dei Kernel Panik, la tribe italiana storicamente più importante – ma che risale solo a quattro anni fa; (b) l’ultimo disco di Ajja, a testimonianza che «moriremo goani» (cfr. Muro di casse).
Per quanto riguarda i giochi di ruolo non posso che citare l’“Iveco”, ma è qualcosa che capiranno solo i miei ex giocatori… lo faccio apposta, tanto per rimanere misterici e iniziatici come ci si aspetta da dei giocatori di ruolo.
Un aneddoto interessante, almeno antropologicamente, tratto dal mio lavoro di editor, e nello specifico da quella parte del lavoro che riguarda la selezione dei testi (l’altra metà, quella che riguarda il lavoro sul testo con l’autore, è meno gravida di aneddoti, dato che si tratta di dialogare in modo solitamente molto civile con una persona in cui si è deciso di credere e che è in genere motivata a far bene), mi è capitato giusto due giorni fa: un aspirante autore mi ha mandato il manoscritto copiato direttamente nei messaggi privati su Facebook, naturalmente solo pochi secondi dopo l’approvazione della richiesta d’amicizia.


Buona fortuna per lo Strega!

Grazie! Critici da 66 ai lupi tutti!

 

(Vanni Santoni, La stanza profonda, Laterza, 2017, pp. 156, euro 14)
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