L’immaturità insopportabile dei genitori
"Gli sdraiati" parla di adulti incapaci di essere grandi
di Francesco Vannutelli / 24 novembre 2017
Un incontro dal potenziale enorme. Quello tra uno dei libri italiani di maggior successo degli ultimi anni e il cinema di un’autrice capace di unire sguardo d’autore e commedia popolare. Gli sdraiati passa dalle pagine di Michele Serra al grande schermo attraverso la regia di Francesca Archibugi.
A Milano, Giorgio Selva è un autore/giornalista/presentatore televisivo molto famoso e molto borghese come sanno esserlo gli intellettuali di sinistra. Tito è il figlio diciassettenne che ha in affido condiviso con l’ex moglie Livia. Non c’è molto dialogo tra padre e figlio, nonostante tutti i tentativi di Giorgio. Tito è sfuggente, sempre in compagnia dei suoi amici – una «banda di froci», come si chiamano tra di loro – e del tutto refrattario alle semplici richieste del padre («A che ora torni?»; «Mangi a casa?»; «Butta lo yogurt»). Nella migliore delle tradizioni, l’incontro con una ragazza cambierà il ragazzo anche nel rapporto con il padre.
Francesca Archibugi è, fin dall’esordio del 1988 con Mignon è partita, l’autrice più interessante del cinema italiano contemporaneo. Il suo sguardo si è spesso fissato sull’infanzia e l’adolescenza (Il grande cocomero, L’albero delle pere, Lezioni di volo) e sul loro difficile rapporto con il mondo degli adulti. Difficile per l’incapacità degli adulti di rivestire il loro ruolo di guida, soprattutto, non per un’inadeguatezza dei giovani.
Con Il nome del figlio nel 2015 ha spostato la macchina da presa su un gruppo di borghesi adulti in un interno. Un bambino è in arrivo, e già solo la gravidanza riesce a proiettare in un baratro di risentimenti i grandi. Gli sdraiati rappresenta un po’ una sintesi dei temi tipici del suo cinema.
Partendo dal romanzo/lettera di Serra, Archibugi si concentra quasi esclusivamente sul padre mantenendo in una posizione defilata il figlio e la sua crescita. È un’analisi dell’incapacità degli adulti di oggi di relazionarsi con i ragazzi. Non per una distanza generazionale che li pone ai tradizionali poli opposti, ma per quell’assoluta immaturità comune a molti genitori che li fa comportare troppo come amici, o piuttosto aspiranti tali, che come padri o madri. In assenza di ogni capacità di essere se non autoritari quanto meno carismatici, questi adulti incompleti cercano la strada dell’amicizia, del lasciar fare. Nel tentativo di farsi perdonare colpe più o meno consapevoli nella distruzione del nucleo familiare originale, nel tentativo di avvicinarsi al figlio solo con l’affetto, Selva, e come lui molti genitori reali e di finzione, finisce per ottenere solo il risultato opposto. È lui, l’adolescente emotivo, lo sdraiato sulla sua posizione di celebrità, di normalità borghese tradizionale e tradizionalista.
Tanto cinema recente e recentissimo ha evidenziato come i ragazzi d’oggi siano molto meglio di come piace pensare agli adulti. Basti pensare ad alcuni film degli ultimi due anni, a Piuma di Roan Johnson, Tutto per una ragazza di Molaioli, Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni. Gli sdraiati è il primo film a guardare soprattutto all’altro lato del rapporto, a un padre che si sente escluso e vorrebbe essere più coinvolto. Il problema del film della Archibugi è che questa centralità di Selva finisce per essere totalizzante, con una figura centripeta che annulla ogni possibilità agli spunti laterali, più interessanti, più profondi. A Claudio Bisio viene lasciata piena libertà di interpretare un mix del Serra originale e Fabio Fazio così riconoscibile da non suscitare molta empatia. Anche perché, per usare un termine usato in passato da altri per descrivere i giovani, Selva è un bamboccione incapace di muoversi da solo. Ha sempre bisogno di essere spinto dalle donne, che nel film hanno proprio un ruolo di ispiratrici di crescita, sia in Selva padre che figlio. L’immaturità irritante di questo padre è rappresentata con un eccesso di bonaria condiscendenza, nonostante Archibugi non lo sottragga dalle sue responsabilità, ma è troppo poco.
Ci sarebbero poi da fare altri due discorsi, che vanno al di là del film. Il primo è un problema che riguarda molto cinema italiano: le colonne sonore. Senza nulla levare a un grande musicista come Battista Lena, autore delle musiche originali del film, ma davvero stiamo ancora agli arpeggetti di chitarra per sottolineare i momenti drammatici? Ma non si riesce a fare qualcosa di meglio, a chiedere agli autori qualcosa di più del minimo indispensabile? Se avete visto The Place di Paolo Genovese avrete notato anche voi l’inadeguatezza di quelle chitarre elettriche che partivano dopo ogni frase più o meno a effetto, quel senso inevitabile di provinciale che la musica dava a tutto il film. In Gli sdraiati c’è lo stesso errore.
Il secondo discorso riguarda uno dei personaggi secondari del film, Rosalba, interpretata da Antonia Truppo. Truppo è brava, ha vinto due David di Donatello di fila con Lo chiamavano Jeeg Robot e Indivisibili. Qui recita in un credibilissimo milanese, fa benissimo la donna semplice, ma sembra che venga costretta a fare un ruolo che Micaela Ramazzotti non ha voluto o potuto fare.
(Gli sdraiati, di Francesca Archibugi, 2017, commedia, 103’)
LA CRITICA
Con un eccesso di indulgenza verso tutte le parti in causa – giovani e vecchi – Gli sdraiati non riesce a essere più di una commedia generazionale che si appoggia su tutti gli stereotipi classici del genere.
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