Asburgo, Europa

A proposito di “La cripta dei cappuccini” di Joseph Roth

di / 6 febbraio 2020

«La morte incrociava le ossa sopra i bicchieri dai quali bevevamo»: è l’epitaffio incancellabile di questo memorandum sulla finiis Austriae di Joseph Roth. La cripta dei cappuccini (Adelphi, 1974, ed. or. 1938) si presenta solo formalmente come seguito di La marcia di Radetzky, in cui lo scrittore austriaco narrava le vicende del casato dei Trotta. Il giovane protagonista di questo libro è l’ultima espressione, la più decadente, di quella famiglia: di giorno dorme; trascorre le notti coi rampolli della società viennese; è innamorato di Elizabeth, sorella di uno dei suoi amici, ma non può e non vuole dichiararsi, perché teme di inchiodare una tendenza esistenziale votata all’effimero, al superficiale, con le catene pesanti del vero amore.

Le visite a Vienna di Joseph Branco, un cugino sloveno, coi baffi e la faccia scura, e dell’amico di questi, il vetturino Manes Reisiger (galiziano ed ebreo come lo stesso Roth), metteranno in moto una serie di avvenimenti destinati a mutare per sempre la vita del giovane Trotta. Per lui, i due uomini rappresentano l’espressione più autentica dell’Impero asburgico: un tetto caotico ma (apparentemente) sicuro, dove convivono non senza difficoltà austriaci e ungheresi, cechi e slovacchi, sloveni e croati, serbi e bosniaci, e poi ancora montenegrini, rumeni, polacchi, italiani, ucraini. Una sorta di Europa unita ante litteram, miscuglio di tradizioni, lingue e religioni diverse, che si ritrovano tutte insieme a celebrare il Kaiser Francesco Giuseppe nel giorno del suo compleanno.

Quando Trotta decidere di raggiungere Branco e Reisiger in Galizia, viene sorpreso dallo scoppio della Prima guerra mondiale: sceglierà di combattere al loro fianco, abbandonando i commilitoni del suo reggimento. Joseph Roth ha conosciuto davvero l’esercito e la guerra, nonostante abbia svelato la burocrazia e l’ottusità del militarismo austro-ungarico, soffermandosi sulla contraddizione di una generazione cresciuta in maniera indolente, ma proprio per questo destinata alla morte in battaglia.

Dopo la sconfitta, infatti, l’Impero sarà destinato a sgretolarsi sotto la spinta degli Stati nazionali: degli Asburgo resteranno solo i sarcofaghi, conservati sotto la cripta dei cappuccini, nel centro di Vienna. Proprio alle tombe renderà omaggio il reduce Trotta, nel 1918, a guerra finita, dopo anni trascorsi come prigioniero dei russi e nascosto in Siberia. Tornerà alla cripta ancora, vent’anni più tardi, nel giorno dell’Anschluss alla Germania nazista, che metterà fine alla parola Austria. Joseph Roth, esule in Olanda, dove pubblica questo libro proprio nel 1938, ormai malato e alcolista, morirà qualche settimana dopo.

La cripta dei cappuccini racchiude in sé una metafora semplice e potente, al tempo stesso testimonianza storica e tragedia esistenziale, l’inabissarsi di un mondo e il declino di un uomo. Trotta e la generazione perduta alla quale appartiene, che poi è la stessa di Roth, si identifica con l’Impero Asburgico, le rovine imperiali e la disfatta storica sono le ferite insanabili di un uomo che ha perso la sua identità. Perché in questa parabola, profetica e lucida, vi è racchiuso anche il destino tragico che attende la civiltà ebrea mitteleuropea, di cui Roth faceva parte.

 

 

(Joseph Roth, La cripta dei cappuccini, Adelphi, 1989, prima ed. ita. 1974, trad. di Laura Terreni, 195 pp., euro 10, recensione di Domenico Ippolito)
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