L’eros e la ricerca di Dio

A proposito di “Il ciarlatano” di Isaac Bashevis Singer

di / 25 febbraio 2020

Copertina di Il ciarlatano di Singer

Forse, contro la marea montante dell’antisemitismo di ritorno, a qualcosa potrebbero valere anche i libri (ove mai davvero i libri possano qualcosa, da sé, contro la brutalità del reale!), i libri come questo Il ciarlatano (Adelphi, 2019) di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel nel 1978. Uscito solamente a puntate sul giornale yiddish americano Forverts fra il 1967 e il 1968, e mai più ristampato in volume, viene ritrovato ora, fra le carte dell’archivio di Singer, nella stesura originale manoscritta, in yiddish, e in una traduzione inglese, servite entrambe di base per questa italiana, di Elena Loewenthal, che ora finalmente ci arriva, come un inaspettato, fascinoso dono postumo dello scrittore.

Ecco: se un dubbio dovesse mai sfiorare le crasse menti dei poveri antisemitucci di queste nostre infelici giornate, un dubbio, s’intende, su quanto la cultura e l’educazione ebraica possano affinare una mente umana, e portarla a livelli di profondità e di brillantezza non di altro meritevoli che della stessa commossa ammirazione che ci prende per le musiche di Mozart, per la pittura di Vermeer, per la scienza di Galileo o di Darwin; bene, se un tale dubbio potesse essere sollevato in quelle misere menti, questo libro è uno di quelli che lo dissiperebbero, trionfalmente.

Ciò che contraddistingue, infatti, questo veramente “ultimo” romanzo di Singer (anche se qualche altra sorpresa, su quanto può ancora venir fuori dalle carte di Singer, ce la promette la scheda finale a cura di Elisabetta Zevi), ambientato nel mondo della diaspora ebraico-polacca a New York, è di certo, al primo e più immediato livello di lettura, la spericolata perizia affabulatoria con cui viene orchestrata intorno al protagonista Hertz Minsker, il Ciarlatano del titolo (ma vedremo presto in che senso, tutto speciale, va inteso questo termine), una vorticosa costellazione di almeno quattro figure femminili principali, più qualcuna minore.

Il legame fra loro e Hertz è, naturalmente, come in quasi ogni storia di Singer, quello dell’attrazione sessuale: irresistibile, eternamente ritornante, è forse la cifra principale di quella che vorremmo chiamare la ebraicità di questo autore, il suo presentarci l’eros come forza distruttiva, che nemmeno la ritualità del matrimonio è capace di esorcizzare, o incanalare una volta per tutte entro argini di normalità. E dunque, l’adulterio.

Hertz, che di suo ha strappato Bronia, la sua seconda moglie, a un altro uomo e ai due figli rimasti a farsi ingoiare nel gorgo delle persecuzioni hitleriane a Varsavia, a sua volta è l’amante di Minna, la moglie del suo migliore amico e ricco benefattore Morris (in realtà, Moshe, con un tradimento delle proprie origini di cui arriverà a vergognarsi, amaramente) Kalisher; mentre Bessie, invano innamorata di lui, finirà per gettarlo nelle braccia di Miriam, profuga polacca che si presta a impersonare, in ambigue sedute assai poco “spiritiche”, la prima moglie morta di Hertz.

Questo viluppo di casi umani, già di per sé difficile da dipanare, non fa che complicarsi quando ricompare, emergendo da non meno tortuose peripezie di fuga dall’Europa nazista, il primo marito di Minna, Krimsky, e si dà a contattare con ogni mezzo la ex moglie, per spillarle denari con la vendita di quadri di conclamata inautenticità, incappando invece ora in Hertz, ora in lei stessa, inviperita eppure implorante di non rovinarle la vita. Finché, ultima ed esilarante complicazione, sopravviene quella – vagamente reciproca delle martellanti richieste di Otello per Desdemona – dell’indizio sbadatamente lasciato da Hertz nel letto dei suoi incontri con Minna e ritrovato proprio dal marito di lei, Morris.

Non staremo qui ad insistere sulla straordinaria abilità con cui Singer orchestra, sul nudo strumento di un dialogo fitto, senza una sbavatura, un solo termine superfluo, le scene fra i personaggi a vario titolo coinvolti nell’adulterio e nel suo disvelamento: quello che ci preme notare, invece, è il fatto che il fazzolettino dal bordino rosso incautamente dimenticato da Hertz nel letto del suo migliore amico a cui sta rubando la moglie, innesca in realtà, proprio nella mente di Morris, una crisi che finirà per incrinarne tutta l’esistenza, e farla deragliare verso un quasi medioevale riconoscimento della vanitas vanitatum.

Ed è qui, a nostro parere, che emerge ancora più sfolgorante quella che chiamavamo l’ebraicità di Singer: perché questa crisi si svolge tutta entro i modi di pensare specifici della cultura ebraica, densa di assillanti riferimenti alla Torah, certo, ma anche e soprattutto al secolare patrimonio delle cavillose interpretazioni degli oscuri, spesso ambigui quando non contraddittori, dettami dell’Altissimo, confluite nella Gemarah e negli altri testi della tradizione rabbinica.

Diciamolo francamente: questo non è, o non è soltanto, il turbinoso, dolente e buffonesco – secondo la classica mescolanza di alto e basso, di ghigno e di lamento, tipica di certo ebraismo mitteleuropeo – benché mai pochadistico, romanzo della “carriera di un libertino”: questo è il romanzo della introvabilità di Dio. E, ciò nonostante, della sua mai dissetata ricerca.

Da qui, dalla dolorante impossibilità umana di abbandonare definitivamente la ricerca di un Padre di cui non si riesce in alcun modo a intuire la presenza, nel belluino mondo spalancato alle cavalcate di Hitler, di Stalin, non meno che allo spregiudicato homo homini lupus che detta legge all’ombra della statua della Libertà, da questa scabra urgenza di farGli domande, nascono le pagine più alte del libro.

Come quelle in cui Hertz Minsker finisce per rivelarsi, certo il libertino impenitente – per quanto consapevole, in lucide, puntute autoanalisi, non meno infarcite di riferimenti alla Scrittura, del proprio sguazzare nel fango – cui bastano poche frasi dettegli da una qualunque camerierina di bar a rinfocolare l’inesausto furore amatorio, ma anche, e sicuramente di più, l’uomo di ragione che fa, ai suoi interlocutori ma ovviamente a noi che lo leggiamo, le insistenti, cocciute, mai esaudite domande sul perché del male nel mondo, e sul grande, inspiegabile silenzio di Dio.

O, se non sulla sua vera e propria cattiveria, di sicuro sulla sua difettività: «è un Dio debole, oppresso. Siede da qualche parte in un ghetto celeste e porta una stella gialla. Ha un certo numero di discepoli […] ma non è in grado di aiutarli».

Che poi l’uomo provi, come farà Hertz in molti dei dialoghi del libro, a innalzare contro questo Dio corrucciato e bisbetico una pericolante architettura di non meno assurde formulazioni edonistico-cabalistiche, dovrebbe, a prima vista, giustificare la classifica di ciarlatano che gli viene data dal titolo (e da qualcuna delle molte vittime della sua divorante sessualità), ma serve, a guardar bene, a farci sentire quanto ci sia fraterno questo povero, umanissimo essere vivente, solo – per quante donne egli si affanni a trascinarsi dietro – di fronte alla vanità dei tentativi di vincere l’inspiegabilità di questo nostro esistere.

 

(Isaac Bashevis Singer, Il ciarlatano, Adelphi, 2019, 268 pp., euro 20, articolo di Mario Massimo)

 

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