Il vangelo laico
di Demetrio Paolin

A proposito di “Anatomia di un profeta”

di / 7 aprile 2020

copertina di Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin

Mai come di questi tempi ci sembra alieno quel profluvio di parole, quella verbigerazione di storie, quell’affabulazione continua – una malefica concrezione che ci studia con occhietti piccoli e iniettati di sangue celandosi fra le maglie dell’etichetta “storytelling” – a cui ci sottomette il catino delle patrie lettere. Occorre dosare le parole, perché finalmente le frasi di cartapesta rimbalzano sul muro di gomma della realtà. Auspicando, dunque, che – per molto tempo ancora – rimangano a mezz’aria i pennini tremebondi degli scrittori svegliatisi nella presunta nuova consapevolezza dei tempi di peste, ci troviamo a leggere con diletto chi invece sulla bilancia della letteratura ha da sempre soppesato rigorosamente ogni virgola.

Nel novero, a dire il vero non molto nutrito, c’è sicuramente Demetrio Paolin che già con Conforme alla gloria aveva dimostrato di saper sfidare all’arma bianca le grandi questioni del rapporto fra uomo e mondo. L’indagine di Paolin ha come epicentro l’assurdità del male – o forse sarebbe meglio chiamarlo Male – e la possibilità che ci sia una salvezza per l’uomo, sulla terra o altrove non è dato dirlo. Con Anatomia di un profeta (Voland, 2020) si rinnovano gli interrogativi dell’autore e assumono una forma più libera, speculativa, confessionale.

Libera perché la narrazione di Paolin si sfilaccia in mille episodi, lacerti di un’esistenza che non sappiamo dire se vera o inventata. In Anatomia di un profeta si legano varie traiettorie di vita: quella di Patrick, bambino dall’umore indecifrabile che si avvicina a gradi passi alla morte, quella della voce narrante che si chiede costantemente se in quella porzione di mondo che è stato chiamato ad abitare, le Langhe negli anni Novanta, troverà mai una via di fuga al dolore. A ciò si accompagna una corposa tensione biblica: è narrata, fra la storiografia e l’allucinazione, la vita del profeta Geremia, colui che più di altri ha penetrato il mistero del Male nella Bibbia. Allo stesso modo si evoca il Dio scontento su cui si interrogava Geremia, a riprova che la penna di Paolin viaggia spedita sulla pagina alla ricerca di un qualche nocciolo di verità.

Si diceva anche della portata speculativa di questo piccolo Zibaldone che per comodità chiameremo romanzo. Paolin organizza un prosimetro che alterna momenti prettamente narrativi a intermezzi lirici, seguiamo le tribolazioni del bambino Patrick e ci arrampichiamo nei saliscendi emotivi dei versi di Geremia. Digressioni saggistiche ci spronano a riflettere sulle parabole disegnate dall’autore, sulla dialettica fra creazione estetica – che sia di carattere letterario o religioso, come quelle di Geremia – e tentativo di trovare una catarsi al dolore. Il testo si infrange poi in una miriade di note che precisano, indicano altre vie, ritrattano o approfondiscono ciò che c’è scritto nel corpo principale: una sorta di carteggio con se stesso che Paolin ha voluto mascherare nel racconto di Patrick e Geremia.

Proprio in ciò risiede il punto nodale di Anatomia di un profeta: la portata umana e confessionale di quanto scritto. Fregandosene di collocazioni editoriali e correnti estetiche, Paolin dirige la sua scrittura verso i territori e le domande che gli premono maggiormente. E cerca di rispondersi attraverso la forma più congeniale: che sia la prosa, la poesia, il saggio, l’autobiografismo o la parabola biblica. Si tratta di un tipo di narrazione che si tiene insieme grazie al rigore morale dello scrivente e che, come un testo filosofico, occorre compulsare in maniera proattiva.

Non ci troviamo di fronte a un moralismo bieco, pessimista o antimoderno. Al contrario ritroviamo una voce appassionata, colta sì negli affanni che dona il nostro passaggio nel mondo, ma venata dalla giusta emotività, comprensione, capacità di rispecchiarsi nei mali altrui e nelle vite più disparate, dalle più vicine fino alle esistenze disgraziate. Nelle pagine di Paolin c’è la volontà di allargare lo spettro della comprensione umana di fronte all’ignoto della nostra condizione, e non solo con le armi dell’intelletto, ma soprattutto con la possibilità di implementare l’Altro nel nostro sistema di vita, una sfida al Male lanciata in nome della sopravvivenza.

Ancora una volta torno a pensare che, nel disastro evocato quotidianamente, il compito della letteratura sia saggiare le possibilità della morale umana, in modo da rinegoziare il rapporto fra uomo e natura, e famiglia, e società. Paolin ha scelto di farlo attraverso la simbologia che gli è propria – quella cristiana – problematizzando gli interrogativi e le idiosincrasie della sua vita interiore. Per questo ci dona non tanto un “romanzo” o “romanzo-saggio” o come lo si vuole chiamare, ma una libbra della sua carne. Di certi breviari morali dovremmo fare tesoro, con grazia.

(Demetrio Paolin, Anatomia di un profeta, Voland, 2020, pp. 256, euro 17, articolo di Giovanni Bitetto)
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