Kid A, un esercizio mentale
Considerazioni sul quarto album dei Radiohead
di Luigi Ippoliti / 2 ottobre 2020
Esseri umani stilizzati che fluttuano in mondi in fiamme, strani orsi che vagano in universi alieni: i blips, di fatto l’unica pubblicità che promuoveva il quarto album dei Radiohead. Nessun videoclip. Solo una serie di video brevissimi pensati da Stanley Donwood. Una manciata di secondi. Il senso di smarrimento che si prova guardandoli, adesso come allora, è lo stesso di cui è pieno Kid A. E Kid A compie vent’anni: se fosse uscito oggi, non sarebbe cambiato nulla. La grandezza intrinseca di un album che ha segnato il 2000 è il suo sguardo perenne verso ciò che ancora non c’è. E che forse non ci sarà.
I Radiohead tre anni prima avevano fatto uscire Ok Computer e il peso specifico di quest’album sugli anni novanta lo conosciamo ora, ma lo conoscevamo anche a fine millennio. Lì veniva materialmente scardinata l’idea di pop rock e trasformata in qualcosa che non era ancora stato sperimentato. La responsabilità che i Radiohead si erano messi addosso era enorme, e trovare la chiave per il successore che potesse confermare la mole di idee di Ok Computer era una prova che probabilmente, in quegli anni, solo i Radiohead potevano provare ad affrontare.
Poteva succedere qualsiasi cosa: immaginare un passo indietro dei Radiohead verso certi spunti alla The Bends, oppure un calco di Ok Computer, probabilmente meno ispirato. Quello che sarebbe successo dopo non è così scontato come poi è stato scritto. Il 2000 sarebbe potuto essere un momento di normalizzazione di un gruppo che aveva già dato moltissimo.
I Radiohead optano per una sorta di tabula rasa su cui ricostruire qualcosa di completamente nuovo. Guardando quello che succedeva quell’anno, i Coldplay uscivano a luglio con Parachutes. Il suono va daI brit pop a Ok Computer. I Coldplay, prima della sterzata verso un abisso da cui stanno uscendo piano piano solo ora, sono stati più o meno ufficialmente eredi dei Radiohead. Parachutes gira in questo modo perché è esistito Ok Computer. Questo era il segno di quanto quanto fosse forte la mano di Yorke su quello che sarebbe accaduto. Mentre Chris Martin si prodigava a scrivere un lavoro che suonasse perfettamente per l’inizio del nuovo millennio, i Radiohead avevano già tracciato una direzione verso un futuro che era già diverso da quello di Ok Computer. Erano già altro da loro stessi.
Il 2 ottobre di venti anni fa. L’album elettronico dei Radiohead, si è sempre detto. La svolta elettronica. Fino a un certo punto. Perché semplificare Kid A a elettronica non rende l’idea di quello che è quest’album. Ci sono Aphex Twin e gli Auterche, ma anche il krautrock, dai Can ai Neu!. Ma anche il free-jazz, l’ambient.
Il piano sghembo e una cassa ritta che se ne sta sullo sfondo, su cui ruota la voce di Yorke con cui si diverte a giocare Johnny Greenwood con il suo Kaos Pad, è l’inizio di Kid A. “Everything in Its Right Place“, brano figlio del burnout post Ok Computer: non ci sarebbe potuto essere miglior incipit per dare vita a un album tanto sospeso tra il materiale e l’immateriale. Segue “Kid A“, forse una delle canzoni meno intellegibili della carriera dei Radiohead: Yorke non canta, ma parla ed è di nuovo Johnny Greenwood a modificare la voce, filtrandola con il vocoder e scrivendo la melodia con le Onde Martenot.
A questo punto ci siamo resi conto che i Radiohead non sono più quello che pensavamo fossero. Siamo in un’ altra zona, Kid A è un enorme incubo che si insinua nella psiche, un suono che proviene da non si sa dove.
Qui c’è una prima svolta, e il passaggio al brano successivo è una martellata, ma rientra in una logica su cui si basa tutta l’architettura dell’album. “The National Anthem” è un pezzo influenzato da Charlie Mingus. Il testo è ridotto all’osso, frenetico. A sorreggere tutto, il basso distorto di Colin Greenwood che si porta sulle spalle tutti i quasi sei minuti della canzone. La chiusa è un jazz caotico, una tempesta che ci prepara alla calma. Entriamo forse nel momento più alto dei Radiohead. “How to Disappear Completely“. La genesi della canzone è più che risaputa: tutto nasce da un consiglio di Michael Stipe per reggere la pressione dei tour. Qui Yorke scrive uno dei suoi testi più intimi di sempre e regala uno dei climax più struggenti e riusciti. La chiusa finale con i lamenti di Yorke che si fanno carico dell’enorme tasso emotivo prodotto dalle parole, dalle Onde Martenot, dal basso che sembra disegnato, è Radiohead nel suo significato più profondo.
“Treefingers” è ambient e serve per spezzare. Entriamo nell’altra sezione dell’album che ci presenta due brani che sembrano fuori fuoco rispetto a tutto il resto, ma che in realtà sono esempi dello smarrimento profuso lungo tutto in Kid A. Hanno solo una forma diversa. Forse più “Optimistic” , con la sua struttura più lineare rispetto a “In Limbo“, un brano che aleggia nell’album come un fantasma. Un binomio che getta le basi per quello che sta per accadere.
“Idioteque“. La sua genesi sembra uno scarica barile di Johnny Greenwood a Yorke. Il chitarrista infatti, dopo aver prodotto una cinquantina di minuti con la drum machine, va da Yorke e sostanzialmente gli dice: vedi cosa riesci a tirarci fuori. Yorke da quel materiale sente 40 secondi che trova geniali. Da lì viene costruito uno dei brani più famosi dei Radiohead. “Idioteque” è un mosaico di immagini tra ansia e postmoderno. “Ice age coming”. È la catastrofe.
Meglio la versione “Morning Bell” di Kid A o dell’album che sarebbe uscito sei mesi dopo, Amnesiac? Quella del primo dei due album gemelli ha Phil Selway in primissimo piano, con una ritmica insistente che va a incastrarsi al piano suonato da Yorke. “Morning Bell” suona come la conseguenza di “Idioteque”, una marcia, un vero e proprio esercito di zombi che avanza verso la fine del mondo.
Chiude l’album “Motion Picture Soundtrack“, che allenta la tensione tirata fuori dalle ultime due canzoni. Un brano composto prima di “Creep“, a cui i Radiohead hanno saputo che veste dare solo una decina di anni dopo: quello della colonna di un un film Disney anni ’50 scritto in un futuro senza futuro.
Per quello che può valere, Kid A è stato uno dei pochissimi album a cui la rivista americana Pitchfork ha dato 10 su 10. Il fatto è comunque emblematico per capire quest’album e l’importanza che ha avuto e che continua ad avere. Kid A è un esercizio mentale. Il 2 ottobre del 2040 staremo ancora qui a parlarne come un album del futuro.
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