Resistere non serve a niente?

Un orientamento letterario sull’ufficio

di / 16 maggio 2022

Ufficio vintage Curry

In principio fu Bartleby, antesignano e santo protettore dello sciopero bianco. Era soltanto il 1853 quando Herman Melville, con il leggendario preferirei di no del suo scrivano, metteva in crisi l’autorità di un avvocato di Wall Street abituato all’obbedienza dei suoi dipendenti.

Storie vecchie, storie da XIX secolo, così lontane per modi e maniere da ispirare quasi tenerezza. Eppure fa un certo effetto notare come pochi decenni di protocapitalismo fossero già stati sufficienti per tratteggiare le dinamiche da ufficio, un micro-habitat che ancora oggi governa l’esistenza di gran parte delle persone, suddividendole in team e in spazi comuni, organizzandole in turni di lavoro e turni di riposo.

L’ufficio, così come lo conosciamo oggi, aveva trovato una prima sistemazione, per quanto provvisoria, «al piano superiore del numero tale di Wall Street», ospitando alcuni dei suoi archetipi più classici.

Il narratore del racconto, un avvocato prossimo ai sessanta, si barcamena nel quieto vivere della sua posizione apicale senza ulteriori ambizioni. L’unica cosa che lo turba è il cambiamento, come testimoniato, ancor prima dell’avvento di Bartleby, dalla sua estemporanea rimostranza nei confronti dell’abrogazione della carica di magistrato dell’Alta Corte di Giustizia, mansione «non particolarmente gravosa ma assai ben remunerata».

E cosa dire di Turkey, il veterano affetto da quello che oggi definiremmo burnout, che all’efficienza mattutina sostituisce una vulcanica e disastrosa condotta pomeridiana? In quanto individuo incapace di migliorare la propria condizione, e forse per questo motivo particolarmente apprezzato dall’avvocato, Turkey rifiuta con vigore la proposta di una riduzione dell’impiego a part-time.

«“Con rispetto, signore, […] io mi considero il vostro braccio destro. E al mattino mi limito a ben disporre le mie colonne, ma al pomeriggio mi pongo alla loro testa, e valorosamente vado all’assalto del nemico: così”, e diede una violenta stoccata con il righello».

Questa immagine di valoroso condottiero evocata da Turkey, assai poco consona alle meccaniche mansioni del copista legale, suggerisce due necessità che ancora oggi continuano a muovere gli impiegati: la professione di fedeltà nei confronti della figura di comando (il bravo soldato fedele) e la disperata ricerca di un senso nella professione svolta (il braccio destro che si mette al comando delle truppe).

Purtroppo per Turkey, la realtà descritta da Melville è ben lontana da un emozionante campo di battaglia. Come nota Gianni Celati nell’introduzione del racconto: «Nel nostro ufficio tutto è moto meccanico, dalla copiatura dei documenti al comportamento dei copisti. Tale moto è regolato da una specie di congegno spastico, che dipende dai modi in cui si sfogano le diverse idiosincrasie dei copisti […]. Questo ufficio ha tutto ciò che ci vuole per essere beatamente burocratico, cioè insensatamente meccanico».

Un modello ancora distante dalle Silicon Valley e dalle frenetiche ambizioni americane, forse più simile alla realtà della piccola impresa italiana, all’interno della quale la lenta sedimentazione di consuetudini riproduce in scala 1:2 il prototipo della vita in famiglia, là «dove le maniere e i manierismi umani possono ancora sfogarsi in modo inutile, con strani congegni di abitudini regolati dalle loro eccentricità» (Celati).

Facciamo ora un salto di mezzo secolo, nel bel mezzo del boom economico statunitense. In una cultura dominata dalla produzione e dai consumi, l’ufficio abbandona del tutto le piccole grettezze di famiglia per trasformarsi in una vera e propria savana dove il più debole è destinato a soccombere.

Lo racconta alla perfezione Barbara O’Brien (pseudonimo) nel suo Operatori e Cose (Adelphi, 2021), diario-confessione che attraversa la parentesi schizofrenica dell’autrice, una brillante impiegata che di punto in bianco si convince di essere cavia di un esperimento ordito da strane entità (gli Operatori) che manovrano in segreto le azioni degli esseri umani (definiti Cose).

Del libro si è giustamente sottolineata l’unicità dell’esperienza clinica della scrittrice – condotta in giro per gli Stati Uniti dai suoi deliri e poi guarita in tempi relativamente rapidi proprio grazie a questa “terapia d’urto” generata dall’inconscio – e l’esattezza della sua cronaca, mentre non si è forse dedicato il giusto spazio alla prima parte, nella quale O’Brien descrive con sorprendente lucidità le dinamiche predatorie dell’ufficio.

Negli anni trascorsi come impiegata alla Knox Company, l’autrice ha modo di osservare, prima, e di cadere vittima, poi, di uno dei più spietati esemplari di «carnivoro aziendale»: l’Operatore dell’Uncino.

L’Operatore dell’Uncino, spiega O’Brien, programma la sua ascesa con pazienza e calcolo, il suo agire non è mosso da antipatie personali, ma da un naturale senso di competizione che lo spinge a rimuovere tutto ciò che avverte come ostacolo. La sua caccia si articola in più fasi: appena entra in un’azienda individua l’Uomo di Potere, «la persona che emana l’odore più forte», e cerca di carpirne le debolezze.

«Dove c’è potere, in genere c’è anche il tipo di punto debole che lui cerca. Il punto debole è una cosa semplice: un segreto senso di insicurezza. Chi lo possiede ne è così acutamente consapevole che lo tiene nascosto in una scatolina in modo da non doverlo guardare e riconoscere. In compenso è estremamente suscettibile al riguardo, e il minimo segno che qualcuno possa sospettarne l’esistenza lo fa ammattire».

Una volta individuato il punto debole, l’Operatore costruisce «l’arma capace di ferire quel senso di insicurezza» per poi farla impugnare a una terza figura, l’uomo in ascesa, inconsapevole esecutore della propria fine. Per trasformare l’uomo in ascesa in kamikaze, è sufficiente anche in questo caso colpire il suo tallone d’Achille più comune, e cioè la «sensazione di non essere apprezzato quanto merita dai suoi capi». Insicurezza del comandante, insoddisfazione del comandato, e il gioco è fatto.

Il precario equilibrio dell’ufficio si basa quindi su un accordo implicito secondo il quale il titolare non deve mai avvertire la propria inadeguatezza e il dipendente non deve mai far trasparire la propria frustrazione.

«Godere della fiducia di Jim significava che lui poteva dimostrarmi quanto poco ne sapesse sul suo lavoro, nella certezza assoluta che io non avrei mai rivelato a nessuno la sua ignoranza. Significava inoltre, e questo era ancora più importante, che parlando con lui non gli avrei mai fatto capire che era un idiota senza un briciolo del background necessario a fare il suo lavoro, e che io lo sapevo».

Sullo sfondo di questo scontro fra titani, manovrato dall’Operatore dell’Uncino a colpi di malelingue e sviolinate, ci sono i dipendenti “comuni”. Consapevoli di non avere il talento necessario per uncinare una posizione più alta, gli impiegati si fanno più piccoli possibile. La paura di diventare a proprie spese pedine funzionali al gioco dell’Operatore dell’Uncino è tale da suggerire un comportamento poco appariscente, perché l’ufficio è diventato ormai territorio di conquista, e qualsiasi confidenza o esternazione potrebbe risultare fatale.

Sempre nello stesso periodo, ma al di qua dell’oceano, Giuseppe Pontiggia raccontava la parabola di un giovane impiegato nel romanzo breve La morte in banca (1959). Entrato in banca per finanziarsi gli studi universitari, Carabba – questo il nome del protagonista – viene man mano fagocitato dall’ambiente, in un processo di metamorfosi impiegatizia che conosce stadi progressivi. A un iniziale senso di curiosa estraneità con cui Carabba osserva i colleghi durante la fase di apprendistato, subentra l’idea di poter coltivare una doppia vita – lavoratore di giorno, studente la sera – a sua volta soppiantata dalla definitiva consapevolezza di aver silenziosamente preferito alle aspirazioni universitarie la sicurezza del posto fisso e di una routine costruita su fogli presenza, pause pranzo e fughe verso casa («Sono le sei. È finita»).

Pontiggia si sofferma in particolare su due reparti: il Portafoglio incasso, una sezione dominata dal frastuono della calcolatrici che prevede mansioni elementari, e lo Sconto, un ufficio «stranissimo», fumoso e dagli spazi angusti, nel quale l’obiettivo è quello di galleggiare sempre nella media degli anni precedenti in modo da non turbare gli standard di produzione.

«La statistica creava uno stato di tensione, di sorveglianza reciproca, di ipocrisia. […] Si rientrava così nella norma, si diminuiva la media delle proprie pratiche e si detestava il collega che la manteneva ancora alta».

«Dopo si cambia», ripetono in continuazione i colleghi di fronte agli errori e alle piccole ingenuità di Carabba, come se i veterani fossero ormai al corrente del fatto che, negli uffici, ciascun dipendente è legato al medesimo destino, unico e circolare per tutti gli impiegati.

Mansioni meccaniche, elementari, alienanti, ma non solo. Nei libri si parla anche di lavoro creativo da ufficio, come nel caso di La festa è finita di Eugenio Vendemiale (CaratteriMobili, 2014),  perla nascosta della letteratura italiana anni Dieci che dedica una manciata di pagine al settore editoriale.

Assunto da un piccolo editore di Firenze, il protagonista alter ego dell’autore è presto chiamato ad accantonare la sua idea romantica di redazione per fare i conti con quello che lui definisce “lo snobismo degli sconfitti”, ovvero l’atteggiamento di superiorità intellettuale che i colleghi attuano nei confronti del mondo esterno per rigettare l’idea di non essere nient’altro che impiegati della cultura («Okay, voi avete avuto tutto dalla vita, siete belli e brillanti, ma vediamo un po’ se sapete coniugare il verbo cuocere»).

La casa editrice di La festa è finita non è un gigantesco loft acceso da discussioni alte e da riunioni vivaci. Fuori dagli spazi dell’editore – un «Cecchi Gori abbellito» che occupa un raffinato ufficio pieno di libri – c’è soltanto una tana di risentimento occupata da sei redattori («Gente peggio vestita, peggio ridotta, non la si trova neanche nelle sacche di vera emarginazione, al liceo»). Il bilancio di Vendemiale non può che essere impietoso:

«Ho fatto orari da ufficio, ho compilato indici dei nomi. […] In questa storia meschina, di colleghi trascurati, tette sbirciate fumando, otto ore di lavoro quando si aspetta il sabato e ci si sente precipitare alla domenica, poca luce tutto il giorno […], ecco, in tutta questa meschinissima storia davvero non c’è romanzo. Non c’è nessuna poesia».

Avere l’impressione di svolgere un lavoro coinvolgente e sufficientemente creativo da dare un senso alla propria vita è diventata negli ultimi decenni quasi un’ossessione, soprattutto per le generazioni che si sono affacciate al mondo del lavoro a cavallo della crisi economica, attratte per motivi contingenti non tanto dalle proprietà, ma dalle esperienze. Ce lo racconta Anna Wiener in La valle oscura (Adelphi, 2020), cronaca autobiografica che narra il percorso lavorativo dell’autrice nell’ambito del tech.

Nelle start up della Silicon Valley, gli angusti cubicoli e gli stanzoni affollati di gente vengono sostituiti da confortevoli open space con divani e calcetti in cui si sbocconcella cibo tutto il giorno e si bevono elaborate miscele di caffè. L’ufficio diventa un salotto per agevolare l’integrazione tra sfera privata e sfera professionale. Non è più una questione di aziendalismo, ma di totale identificazione con l’azienda («Noi eravamo l’azienda, e l’azienda eravamo noi»).

Senza cartellini da timbrare e orari di lavoro da rispettare rigidamente, è il dipendente stesso ad autocontrollarsi, a stigmatizzare atteggiamenti di colleghi reputati non abbastanza coinvolti nella mission aziendale. Wiener ci racconta di uno smart working che rende i lavoratori isolati e sostituibili, di uffici che somigliano sempre più a luoghi di svago dove si suona la chitarra, si gira a piedi scalzi e si preparano cocktail, di uscite aziendali fortemente incoraggiate.

«I pasti in ufficio non erano un’opportunità per legare o un gesto d’attenzione, ma una decisione aziendale – un incentivo a restare lì, fermarsi più a lungo, continuare a sgobbare».

In un contesto del genere, l’essere sull’orlo di un esaurimento, o depressi, o soltanto infelici, non deriva più da una specifica situazione personale, ma da un disturbo globale che coinvolge intere categorie professionali e che, poco alla volta, si normalizza nel quotidiano lavorativo. Stress e sindromi varie sono ormai trattate come un male ordinario, un riflesso “da ufficio”.

Espressioni estreme di questo fenomeno si ritrovano sia nel racconto di Daniel Orozco “Orientamento”, sia nel recentissimo serial con regia di Ben Stiller Severance (prodotto, ironia della sorte, o forse no, da Apple Tv…).

In “Orientamento” assistiamo a un assurdo dialogo-monologo di un tutor che affianca un nuovo assunto alla sua prima giornata di lavoro. Tra una procedura insensata e un’informazione contraddittoria, tra amori non corrisposti e colleghi emarginati, affiorano in modo estemporaneo figure inquietanti, come Kevin Howard («Lui è un serial killer. Quello che chiamano lo Sgozzatore della Moquette, responsabile di diverse mutilazioni in citta. Non dovremmo saperlo quindi tu fa’ finta di niente») o John LaFountaine («Non è pericoloso, le sue scorribande nel territorio proibito del bagno femminile niente più che una fregola innocua»).

Grottesco a parte, è interessante notare come Orozco intenda rappresentare un ufficio nel quale la patologia viene relegata a semplice stranezza, un tic eccentrico da tollerare per non guastare l’ambiente. L’aspetto più mostruoso che forse vuole suggerirci “Orientamento” è che in uno scenario alienante come quello appena descritto, l’unico spazio per l’espressione della soggettività è tracciato dalla pazzia, tutto il resto è una catena di non-sense e di protocolli burocratici da assecondare senza porsi troppe domande.

Ma se riuscissimo a scollegare il cervello per otto ore al giorno vivremmo meglio fuori dal lavoro?

In Severance (2022), gli impiegati della Lumon, oscura multinazionale dal business non meglio precisato, si sottopongono volontariamente alla procedura di “scissione”, un’operazione che cancella tutti i ricordi dell’esistenza esterna quando ci si trova in ufficio, e viceversa. Vita privata e vita lavorativa non si toccano mai, ma l’individuo, anziché beneficiarne, finisce per sdoppiarsi in due io malinconicamente orfani l’uno dell’altro. La serie scritta da Dan Erickson ci dimostra che la costruzione di una doppia vita a compartimenti stagni come possibile exit strategy apre una voragine di controindicazioni non soltanto etiche e sociali, ma anche psicologiche.

La letteratura sembra quindi rivelarci che ogni tentativo di ribellione ai meccanismi dell’ufficio è vano, poiché l’ufficio tende a riprodurre le sue dinamiche in qualsiasi ambiente o contesto.

Chissà, forse il mite e imperscrutabile Bartleby era l’unico che aveva già capito tutto: «Tutto ciò che l’utilitarismo considera il male per il mondo, l’ozio, l’inerzia, la vita senza scopo, il pensiero che riposa silenziosamente in sé, qui ricompare come potenza dello scrivano che attraversa con inespugnabile riserbo il farnetico della vita» (Gianni Celati).

 

Fonte immagine: Chris Curry su Unsplash

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