L’odore del sangue in un continente alla deriva

Un confronto tra Parise e Tarabbia

di / 9 novembre 2022

Copertina di Il Continente bianco di Tarabbia

Per quanto ben raccontate, ci sono storie che non possono esaurirsi in un solo libro. Ho sempre pensato che L’odore del sangue fosse una di queste. Scritto di getto nell’estate del 1979 da un Parise appena scampato a un infarto, e pubblicato postumo nel 1997 (Rizzoli) con pochissimi interventi redazionali, questo mirabile romanzo imperfetto continua, ancora oggi, a interrogarci sulla sua natura, a tratti ridondante, eccedente, per niente rifinita.

Nelle sue molteplici ripetizioni, nel suo tornare costantemente alla radice del problema, questa vicenda editoriale ci pone un irrisolvibile dilemma: L’odore del sangue è la storia di un’incompiuta o è la storia di un’ossessione? O forse, trattandosi senza dubbio di entrambe le cose, sarebbe più corretto chiedersi quanto l’assenza di revisioni al testo abbia reso L’odore del sangue un’incompiuta, e quanto la sua idea di fondo, basata sull’attorcigliarsi dei protagonisti sugli stessi pensieri, lo renda un romanzo ossessivo.

Ciò che è certo è che in questa trama minima sono sempre rimbalzate possibilità infinite, ed è piuttosto curioso che a quarantatré anni di distanza il premio Campiello Andrea Tarabbia abbia deciso di farsi carico, con Il Continente bianco (Bollati Boringhieri), di una riscrittura che è forse più corretto definire variazione su tema.

«Potrei dire che si tratta di un libro che avrei voluto scrivere, ma ovviamente non avrebbe molto senso: è già stato scritto, può soltanto essere riletto».

Ma che cos’è L’odore del sangue? Certamente è la storia di due borghesi romani – Filippo, psicanalista, e Silvia, moglie trascurata – del loro matrimonio “aperto” funestato dalla relazione di lei con un giovane fascistello che spodesta il marito dal suo ruolo di “padrone di casa”, fino al tragico epilogo. Ma è anche il disperato tentativo da parte di due persone che hanno da poco superato la mezza età di sopravviversi, di scampare alla morte rispecchiandosi nella gioventù altrui. Una vicenda all’apparenza semplice, in parte ispirata da un fatto di cronaca avvenuto a Bologna, e in altra (grande) parte dall’amore tormentato tra Parise e Giosetta Fioroni, come rivelato poco tempo fa dalla pittrice.

Più che cercare parole nuove per la stessa storia, Tarabbia sembra voler effettuare un cambio di prospettiva, raccontando i fatti, attualizzandoli, dal punto di vista del giovane amante (Marcello Croce) e del Continente bianco, il gruppo eversivo di cui egli è parte. E questa è già una novità piuttosto  rilevante: il dottor Filippo P*** (Parise?) e Silvia, i loro tradimenti reciproci e autorizzati, scivolano in secondo piano, per dar voce a un personaggio che in L’odore del sangue (da qui in poi ODS) resta soltanto immaginato, evocato, conteso. Diversa è persino la sua descrizione: presupposta, in Parise, esplicita, in Tarabbia.

In Parise, il ragazzo senza nome viene indovinato dallo psicanalista come «bello», «mediterraneo, mezzo arabo o indio», appartenente a Ordine Nuovo e a «quella borghesia romana detta generone, fascista e papalina, che produce figli nullafacenti, debolissimi, fragilissimi, così deboli e fragili nonostante gli atteggiamenti politici, le palestre, il virilume». Indossa «un paio di blue jeans e scarpe da ginnastica, una catena d’oro al collo con una croce».

Silvia lo descrive come «un ragazzo di 25 anni», «di ottima famiglia», «muscoloso», «antipatico», «solitario», «ispido», «ignorantissimo», «impresentabile», con i capelli «ricci e fitti, un groviglio in cui il pettine non riesce a passare» e «il mito della forza fisica, della virilità», un passato di epilettico e di autolesionista.

Copertina Odore del Sangue di Parise

Tarabbia, privando lo psicanalista dello status di voce narrante, arricchisce e moltiplica la figura di Marcello Croce, oltre a battezzarlo. Da un lato abbiamo il Filippo di Il Continente bianco (da qui in poi CB), che asseconda la sua versione parisiana nell’ostinarsi a vedere il suo rivale come un giovanotto senza arte né parte, ignorante e brutale: «È un fascista, fa parte di una di quelle mezze bande che occupano abusivamente. […] Ha fatto un anno di Sociologia e l’ha abbandonata, ha tentato di fare l’attore ma non ci era tagliato. Quella è gente che gira con un tirapugni nei pantaloni, che maneggia coltelli e armi da fuoco».

Dall’altro lato, invece, abbiamo la descrizione della voce narrante: «È  un individuo delicato, fragile all’apparenza. Sembra uno di quei Cristi disegnati nei libriccini del catechismo per bambini: biondi, buoni, puliti e calmi anche nel mezzo di una tormenta di sabbia o di un incendio che sembra dirti che non ci saranno problemi, se lo seguirai. […] C’è una patina di levità, nel suo volto, di dolcezza perfino. […] Ma allo stesso tempo c’è qualcos’altro, qualcosa che si muove sotto questa patina e la fa tremare. Un dolore, forse. O una rabbia». Marcello, nella descrizione di chi lo conosce da vicino, acquisisce una bellezza angelica e, soprattutto, i crismi di un leader assai consapevole del proprio credo politico, specializzato nell’arte della manipolazione.

L’altro grande elemento di novità, come detto, è l’inserimento di un narratore alter ego dello scrittore Andrea Tarabbia, che entra in scena da paziente del dottor Filippo per poi diventare protagonista di un romanzo di fatto sprovvisto di attori principali. Qui incontriamo il primo bivio: Il Continente bianco abbandona presto la strada del ménage à trois per introdurre una riflessione sulla difficoltà della scrittura, sulla legittimità di autodesignarsi narratori di una storia, sulla distanza di sicurezza, o, al contrario, la vicinanza, che dovrebbe assumere chi si fa carico di raccontarla.

«Scrivere vuol dire anche sopportare il dolore degli altri, e un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio».

Chi è l’Andrea Tarabbia del romanzo? Un infiltrato che vuole scoperchiare il rigurgito neofascista della Roma sotterranea o un inconsapevole biografo di un movimento nero in fase di addestramento?

La sua, quella di un individuo che si definisce «mite, ai limiti dell’ordinario», sembra essere una continua lotta interiore tra istinto e logos, natura e cultura, spirito primordiale di conservazione e civiltà («Io credo che tu voglia distruggere il mondo tanto quanto lo voglio io»), è il tentativo di domare il Male che ci spaventa di più, il Male inestirpabile che serpeggia dentro ognuno di noi.

L’odore del sangue di cui parla Parise è «l’odore più profondo essenziale ed unico della vita» – il sesso, la gelosia, la gioventù –, quello di Tarabbia ha più a che fare con la morte, un profumo funebre pronto a essere infiammato.

«Ti affascinano cose terribili e questo fascino ti spaventa, perché hai paura che, nascosto dentro questo sentimento, ci sia qualcosa che dice che, nel tuo profondo, sei un uomo peggiore di quello che credi di essere».

Differente è anche il personaggio di Filippo. In ODS è un uomo che cerca di apparire sempre controllato, solido, la sua vita si divide tra Roma e il Nord Italia, dove trascorre la maggior parte del tempo in compagnia della giovane amante. Il suo spirito libertino maschera in fondo una indole moralista e annoiata, la preoccupazione per Silvia è in realtà paura di non essere più amato, l’interpretazione analitica dei comportamenti della compagna è un vano tentativo di comprendere l’improvvisa fuoriuscita dallo schema della moglie.

«Io avevo bisogno di essere amato più che di amare, e Silvia di amare più che di essere amata».
«Non potevo stare solo, non potevo stare senza una madre […] La sola madre che avevo avuto durante la mia vita era Silvia».

Al pari del Marcello di CB, Filippo mostra altresì una certa abilità nella manipolazione. La strategia per essere amato da Silvia è sempre la fuga, l’abbandono, così come quella per riconquistarla è il plagio («Noi possiamo salvare solo chi possiamo controllare», afferma Marcello in un passaggio).

Il dottor P***  in CB si mostra invece arreso in partenza, sconfitto dal suo giovane rivale ancor prima di essere cacciato da casa. Lo troviamo per la maggior parte del tempo spaparanzato su una poltrona di un bar a mangiucchiare stuzzichini e a sorseggiare aperitivi, leccando le proprie ferite nella consapevolezza di aver perso la sua collocazione nel mondo, sia in senso sociale che abitativo (Marcello lo definisce «asessuato», «asettico»).

Destituito dalla moglie, sconfitto da un ragazzo, il Filippo di CB sembra inabissarsi con eleganza nel suo stato di maschio in crisi, al contrario del suo omologo di ODS, che lotta furiosamente contro ciò che percepisce come una sorte malevola, ma che è egli stesso ad alimentare.

E proprio il destino è un elemento che in entrambi i romanzi viene spesso evocato, sebbene da personaggi differenti. In ODS è Filippo ad avvertire una destino sventurato, un destino «interamente previsto» perché in fondo da egli stesso fomentato, spinto alle estreme conseguenze attraverso una morbosa ricerca di motivazioni e di conferme.

«Si direbbe che lo voglia provocare tu questo destino orribile, si direbbe che tu non ami affatto Silvia, come dici, ma la odi e la vuoi punire. Insomma, si direbbe che la vuoi uccidere perché si è innamorata di un altro.  Ma non con passione, Filippo, con la forza cieca della passione, bensì con l’intenzione scientifica di provocarle un brutto destino».

In CB è soprattutto il personaggio Tarabbia a chiamare in causa  «i cattivi presagi» e un destino inevitabile riferendosi alla storia di Silvia e Filippo, ma ammiccando in realtà a un’altra vicenda personale legata a una donna moldava (Anna) che lo scrittore cerca di dimenticare accettando di seguire il Continente bianco. In questa storia sfuggente, che affiora con ritrosia tra le pagine, emerge una delle grandi questioni dello scrivere: un autore può raccontare un soggetto letterario e al tempo stesso proteggerlo? Un epilogo drammatico non è più interessante di un finale lieto, e per questo auspicabile?

Se si protegge qualcuno di cui si vuole scrivere si altera il mondo, lo si piega alle proprie voglie e perfino al proprio senso di giustizia, e un mondo piegato a tutto questo è un mondo giusto, senza scandalo né orrore, ma non è un mondo che può entrare in un libro. Un po’ come il Filippo di ODS, il personaggio Tarabbia sembra attanagliato dal dubbio di aver in qualche modo provocato il destino funesto del suo personaggio, anziché di aver lottato per evitarlo.

Abbastanza presto i due romanzi si biforcano prendendo direzioni diverse: ODS scava nelle ossessioni della coppia borghese, mentre CB affronta tematiche a noi molto vicine come la rabbia sociale, il fanatismo, il rischio di un ritorno eversivo orientato a destra; una destra estrema d’azione e teoria che arruola, attraverso i suoi nuovi ideologi, soldati semplici dalle fasce popolari con la connivenza della classe politica.

Storie complementari, ma mai sovrapponibili, perché probabilmente raccontare la stessa storia due volte non è possibile, «forse uno racconta la storia di qualcuno perché è un modo come un altro per raccontare la sua».

 

(Goffredo Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, 1997; Andrea Tarabbia, Il Continente bianco, Bollati Boringhieri, 252 pp., euro 16; articolo di Martin Hofer)
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