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Musica

10 Songs e i limiti dei Travis

L'ultimo album della band scozzese

di Luigi Ippoliti / 25 novembre

Quanto tempo è passato da “Sing“? Troppo. O troppo poco. Sono comunque diciannove anni. Nel video i Travis erano a un pranzo iper formale finito malamente con lancio di cibo stile Peter Pan. Era il 2001, un paio d’anni dopo il loro capolavoro The Man Who. Successivamente un periodo più o meno florido (“Closer” il punto più alto) e oggi escono con un nuovo album, 10 Songs.

Per quanto adesso i Travis vivacchiano in una sorta di stato di semi-coscienza artistica, aggirandosi nel contemporaneo come spettro di un passato glorioso, si confermano autori importanti di canzoni pop. 10 Songs non brilla  per nessun aspetto nello specifico, ma tutto quello che è stato scritto è perfetto. Può sembrare un paradosso, sì. Una perfezione straniante, quella dei Travis del 2020. Una casa arredata benissimo ma in cui non ti senti mai veramente a tuo agio.

Quando ascolti “Valentine” ti viene in mente “Politik” dei Coldplay. Quanto devono i Coldplay (ma anche i Keane) ai Travis. Da loro hanno attinto quel sentimentalismo che ha reso Parachutes un mix di The Bends e Ok Computer sottovuoto. Ma poi i Coldplay si sono presi la scena mondiale e sono stati i Travis a inseguire (senza derive posticce c’è da dire) la band inglese.  La ricerca della ballata impeccabile, l’inquietudine in fin dei conti sopportabile. Quegli “uhhhhh” di Chris Martin sono anche di Healy. L’ascolto di 10 Songs è un continuo confondersi.

Abbiamo di fronte, quindi, un album di ballate come potresti aspettarti dai Travis oggi, dieci anni fa o nel 2030. C’è qualche leggero graffio, i brani sono potenzialmente tutti dei singoli perché la band scozzese ce l’ha nel sangue la capacità di scrivere un certo tipo di canzoni, ma nessuno riesce ad esserlo. Ci sono i classici riferimenti ai Beatles (Nina’s Song), delle inaspettate riletture dei Sigur Ros (“No Love Lost“). Nulla di pienamente convincente.  Comunque una ripresa rispetto  all’ultimo decennio.

La flessione è stata più che evidente da parte dei Travis. Quasi fisiologica, per un gruppo che ha perso smalto e che non ha avuto il coraggio di mettersi profondamente in discussione. Ancorati a un suono malinconico e forse eccessivamente colmo di miele, non sapendosi stravolgere o quantomeno adeguarsi, hanno vissuto di luce riflessa di quello che è stato.

Bisogna comunque ricordare cosa sono stati i Travis nella fine degli anni ’90 e i primi del 2000. Durante le registrazioni di Kid A (a cavallo tra la fine e l’inizio del nuovo millennio), quando i Radiohead non sapevano cosa fare del materiale che avevano e che poi si sarebbe tradotto nell’album di svolta della loro carriera, Ed O’Brien era il più scettico di tutti sulla direzione che stavano prendendo. Fondamentalmente tutta quella roba sperimentale che stava uscendo non lo convinceva, era meglio fare qualcosa di più canonico, fare quello che i Radiohead sapevano fare meglio: canzoni. Farlo come lo stavano facendo i Travis.

Un album dei Travis oggi, però, non si sa che tipo di senso abbia, se non quello di ricordarci, appunto, cosa sono stati e quanto siano meccanicamente bravi a scrivere canzoni pop.  Una finestra temporale di un’altra epoca in cui siamo stati risucchiati. I loro ascolti sono sempre piacevoli, ma anche con 10 Songs nulla di più.

LA CRITICA - VOTO 6,5/10

Album piacevole 10 Songs, come di fatto sono sempre piacevoli gli album Travis. Ma niente di più.