Copia-Incolla

“Vieni a vedere la mostra?”. Su De Andrè, in Facoltà. Mostra “fotografica”. 12, forse 14 pannelli, allestiti a cuneo ascendente sulla gradinata interna che scalacchiocciolando ti porta dove non serve: a un’Aula Magna più spesso chiusa (o usata a porte chiuse) che aperta e popolata. “Uh che bello, vengo subito!”.
Sinistra-destra, basso-alto-basso, 1-12 (o 14). Non c’è cronos, non c’è logos. Foto e testi messi là, copincollati. Davvero, non scherzo: non c’è albori-fine carriera, non c’è narrativa, accorpamento per temi… non c’è nulla. Non ci credo. Non possono aver pensato che questa sia una mostra. Chiedo. Risposta: “Coi fondi che ci hanno dato…”. Perché, t’hanno pure finanziato? E poi che c’entra. Davvero, che c’entra? Ma non lo dico.
Ribatterei (anche senza prefisso…), ma cedo. Il ragazzo è ottuso. Non è colpa sua, se non lo vede, che manca qualcosa. Non vede nemmeno che la sua non-risposta è forse peggiore dell’allestimento. Sa di opposizione avvilita. Non vede, dannazione, che quella non è una “Mostra”: è un Copia-Incolla ripetuto 12 (forse 14) volte. Semplicemente, orribile.
La sera, concerto. Cover-band, ovvio. Tribute-band. Attento qua, lettore, che non lo spiego (troppo geniale, lo brucerei: sforzati tu): Copia-Incolla pure là.
Non se ne esce. È tutto un Copia-Incolla.
Mi dispiace, essere (stato) ostile. Questi, almeno, non fanno l’Aventino. La faccia ce la mettono (i soldi no: paga – ma poco, poverini! – papà-Rettore). Ci mettono il tempo pure (anche se… sottratto a  cosa, in fondo?!). Una ragazza armeggia con poster (ancora?!) e pennarello. Si vede che non bastano i 12 (14?) pannelli: bisogna tappezzare di parole-immagini tutta l’area. Tutto poster, tutto immagine, tutto citazione.
“Che per caso le viene in mente (il “lei”: almeno… duole, ma rincuora; educati, ‘sti pischelli iconici) qualche pezzo significativo?”.
“Pezzo”. Reprimo la tentazione “Pezzo di un pezzo, intendi?”.
C’è di peggio, ed è questo: di nuovo. Senza narrativa. Senza locazione, senza… senso.
“Cara, dipende. Sai che fu uno tra i primi cantori dell’amore omosessuale?”.
Panico. Ti dici non la conosce. Gliela canti. Doppio stupore: suo perché la so a memoria (come tutto il repertorio, accordi inclusi); mio perché non capisce. Nulla, fissa. Ottusa. Parte la lezione:
 “Cara, senti il genere? Maschile? ContadinO, soldatO… Non c’è il femminile, ci hai fatto caso?!”. Buio, Non capisce. “Cara, so’ du’ òmini!”, sbotto in dialetto: capirà? Sì, ma come capiscono i ragazzi iconici: di testa, non di cuore. Non d’emozione.
Non so come spiegarla, questa cosa: il dato cognitivo le è scivolato addosso. Non l’ho vista diversa, dopo aver capito. Nessuna fiammella negli occhi, nessun moto di diversa postura. Niente. Forse nemmeno ha colto il senso eversivo dell’averla scritta, quella canzone, negli anni ’70.
E difatti non l’ha post(er)ata (yes, postare significa quello). Altre suggestioni del Faber, hanno tappezzato l’atrio: quali? Esatto: un po’ Bocca di Rosa, un po’ Un giudice, un pizzico di Spoon River… quelle che io snobbavo perché le sapevano tutti. Andrea non ha guadagnato (a Lettere…) titolo d’apparizione. 
Nemmeno a omaggiare l’incontro; lo scambio; il flusso vecchio-ggiovane; il “lei”!. Niente.
Io ho paura. Sul serio.  La generazione Copia-Incolla non le sente, le cose. Non le vive. Ci galleggia sopra. E il dramma è che rifiuta, ahimé, pure le scialuppe.