“Lungo la via incantata” di William Blacker

di / 7 settembre 2012

William ha tutto. E sta per avere ancora di più. Come quella sua parte di mondo, carezzata e stravolta, tramortita e poi intortata da una slavina chiamata futuro. Non che non cada ogni giorno sulle nostre teste, ma alla fine del 1989 la tempesta è inevitabile. E invincibile. L’Europa dell’Est passa quello che bene o male si sa, schiaffeggiata da rivolte travestite da guerre e da guerre diluite in rivolte. Confini sbriciolati e poi ridisegnati, mentre la sua Inghilterra assieme al resto d’Occidente fa gentilmente accomodare in casa la tecnologia, che ben presto la farà da padrona, dentro ogni stanza. William però non è contento, non sa che farsene dei computer che iniziano a occhieggiare, della velocità che sbuffa e che si crede lenta, tanto da doppiarsi minuto per minuto. E allora parte, perché come dice Cocteau «la purezza di una rivoluzione può durare al massimo due settimane» e quindi non c’è tempo da aspettare. Quelle terre rintanate nei loro chilometri, imbottite di distanza, tenute accuratamente alla larga dall’altra metà del continente, troppo presto verranno investite dalle schegge di quanto accaduto. Hanno abbattuto dittature, scomposto muri e dogane. E ora stanno aprendo le finestre, sprimacciando i cuscini. Stanno lasciando entrare il vento del nuovo, anche solo per capirne l’odore. Prima che cambino troppo per sentirli diversi, William Blacker s’incammina Lungo la via incantata (Adelphi), titolo del suo primo romanzo.

Più che un romanzo è un’esperienza di viaggio, un diario che nasce a Berlino, prosegue a Praga coi suoi lampioni spartani e poi scivola verso la Moldavia dei monasteri, fino a valicare la frontiera romena.

Willy mangia poco, guarda molto, si appoggia su giacigli improvvisati, guida curioso, avanza nel freddo e buca la nebbia fino ad avvistare la scritta «Maramures», il posto da sempre fantasticato, l’idillio lontano da scosse inquinate. Forse ha trovato il suo sogno: capanni di legno, cascatelle fermate dal ghiaccio, quella bellezza immobile negli anni, la stessa che stregava Hardy e Tolstoj. È solo ma felice e s’imbatte sorridendo nella freschezza della gente, nei suoi modi ruvidi e sinceri, in forme di ospitalità quasi fantascientifiche. Quella di chi gli offre il suo letto migliore, anche se è fatto di paglia. E allora forse vale di più di una suite.

Sono contadini quelli che incontra, persone a cui non servono televisori e vestiti fiammanti per sentirsi soddisfatti. Arano, coltivano, respirano il ritmo delle loro giornate. Assecondano il senso delle stagioni, perché sono loro a governare. E quando vogliono ballare lo fanno con vigore, con la voglia di restare insieme. William continua a spostarsi, conosce la Transilvania, la Rutenia, le Terre dei Sassoni, comprende e vive quelle latitudini come luoghi di coesistenze più o meno forzate dalla Storia, destini sovrapposti in cui un popolo fra tutti è il più indimenticabile: gli zingari. Loro che non abitano anche quando si stanziano, loro che esistono di «dolce far niente». William si avvicina a Natalia, bella e libera da stordire tanti uomini e anche lui non può restare immune. Facendone le spese.

Non sono ben visti dalle altre comunità, non lo sono mai stati, tanto da venire deportati e da sparire in ventimila. Sono additati, scrutati con sospetto, accusati di furti perché per molti è quello il loro campare. Eppure c’è una forza che lega Willy a quel villaggio. E che lo spinge a tornare, anche quando i suoi amici lo mettono in guardia e poi sbattono la porta.

Il libro quindi diventa un’occasione affascinante per indagare con altri approcci e sensazioni un universo che sentiamo intoccabile e che spesso decidiamo d’ignorare. L’autore lo affronta come testimone, mostrandone lati inattesi, caldi, appassionati. Ci racconta con affetto e intelligenza il cuore di persone semplici, come quello di Mihai, contadino di Breb che lo accoglie come un figlio, il potere affabulante di Natalia, Marishka e di tutte le gitane che danzano quasi fosse il loro ultimo giorno, che vorticano e ridono, «facendo l’amore con l’aria». Senza negare preziosi cenni storici, riferimenti letterari di gran pregio, ci conduce nel polmone del Maramures e delle sue tradizioni. Ci strazia con la vicenda di Ion e Vasil, fratelli che lasciano il paese per vedere la città, per non restare esclusi dal «mondo di fuori». E ne vengono inghiottiti, morendo abbracciati nel fondo del lago. Ma prima di affogare dovevano sposarsi e allora il doppio matrimonio si celebra lo stesso, perché la loro strada non resti incompleta. La cerimonia cuce insieme vita e morte, come a noi sembra impossibile. Come forse invece avviene, perché ogni scelta è un partenza. William s’immerge in quelle atmosfere, affonda nella neve, vive il loro dolore, si diverte e s’innamora. E diventa più protagonista che scrittore, tanto che risulta difficile chiamarlo col suo cognome. Annusiamo con lui la folata di “horinca”, la grappa sorseggiata per resistere all’inverno, indossiamo gli “opinci” per difendere i piedi, ascoltiamo leggende, paure e conflitti e leggiamo l’incanto di un viaggio imprevisto.


(William Blacker, Lungo la via incantata, trad. di Mariagrazia Gini, Adelphi, 2012, pp. 335, euro 23)

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