“Mancarsi” di Diego De Silva

di / 21 gennaio 2013

«Nella vita i momenti importanti sono cinque o sei. Tutto il resto fa volume». Non lo asseriva solo Ennio Flaiano, campione indiscusso dell’aforisma carpiato, vera e propria disciplina olimpica. È la quotidianità a suffragarlo di continuo, mentre fingiamo di ignorarlo. Mentre ci dibattiamo tra immense masse d’aria: ferie, acquisti, feste, turni, litigi, file male incolonnate davanti a un evento microscopico, molto più breve della sua attesa. La chiamiamo “vita”, ma è solo una sequela di parentesi truccate. Quante secchiate di sole la faranno colare? Perché ci aspettiamo altro. Sempre. Un incontro che sovverta tutto quanto, che valga quell’isterico palpito d’ali, quel plotone di ricami maldestri diluiti nell’intanto. Una faccia in cui sciogliere la propria per spremere il cielo di giorni nuovi. Mancarsi (Einaudi, 2012) di Diego De Silva inchioda questo bisogno. Come una foto al negativo. Lo fa in virtù di un’assenza. Che intesse la trama con l’odore di un fantasma. Siamo lontani piedi e stagioni dalle vicende di Vincenzo Malinconico, protagonista scanzonato della brillante triade di romanzi inaugurata con Non avevo capito niente (Einaudi, 2007).

Questa è una storia sfiorata, nient’altro e poi di più. Sono le impronte parallele di Irene e Nicola. Un uomo e una donna dispersi tra gli altri, mescolati negli umori di una città innominata. Eppure una lente, un tocco, un satellite li immortala e li distingue. Nicola ha perduto la sua compagna. Lo ha fatto tragicamente, dopo un incidente che ha liquefatto il suo equilibrio. Licia è morta, ma forse era già distante, anche quando le viveva accanto. Come un pianeta che asseconda la sua orbita, malgrado sorrida. Licia non voleva figli e reputava bastasse il suo “no” a frenare ogni intento, a rubricare la questione come semplicemente inattuabile e quindi risolta. Ma a Nicola resta un taglio, che cercherà di sotterrare tra la barba che ricresce. Così, quando un momento qualunque decide per lui, inghiottendo la metà del suo progetto, Nicola deve ripartire da se stesso, con il solo desiderio di sentirsi acceso, di tornare a respirare i polmoni dei suoi passi. Anche Irene è sola, sola per sua scelta. Sola, quando ha carezzato il dorso della mano di suo marito e ha statuito in quell’istante che il suo matrimonio era ormai un verbo antico, coniugato al passato. Che quella mano era un saluto appoggiato sulla carne. Entrambi sanno quello che vogliono, da una storia, dal proprio futuro. E l’uno è il ritratto dei voleri dell’altra. L’incastro sognato, l’altrove necessario. E De Silva attraversa il fossato, penetra indisturbato tra le pieghe dei loro sospiri, come se entrambi avessero in grembo un appuntamento mai stabilito eppure fortissimo, un richiamo che striscia sulla schiena delle pagine. Nicola e Irene frequentano lo stesso bistrot, perché il caso li vuole vicinissimi, ma non abbastanza da farli scontrare. Quando Irene arriva Nicola è appena uscito o viceversa e quel minino starnuto di centimetri diventa uguale a un emisfero, un ponte tibetano con le tavole che tremano. Ma sappiamo, o intuiamo, che non potranno schivarsi per sempre, che c’è una ragione davanti a cui le coincidenze dovranno inginocchiarsi. E iniziare a chiamarsi “destino”.

Un’idea semplice, perché è con semplicità che i sentieri convergono, perché «le storie non durano se devono riabilitarsi, lottare, vincere, infliggersi e procurare sofferenze invece di dedicarsi serenamente a se stesse». Le storie hanno bisogno del loro fiato libero, il sussulto rampicante non può sopravvivere, perché il sangue degli altri diventa indigesto. Bisogna essere pronti a riceversi, perché l’altro è sempre un impegno. De Silva approfitta delle intercapedini per ritagliare scampoli di verità pulite, la fame impellente di felicità che ci taglia i pensieri anche quando siamo distratti. L’urgenza della comprensione, l’istinto di appartenere a un mondo in cui sentirsi al caldo, anche se non è il proprio. De Silva diverte e coglie sul fatto, non rinuncia mai all’ironia ficcante che lo marchia a fuoco, alla disamina impietosa delle pochezze collettive; segue, perlustra, registra il vissuto dei protagonisti e ci restituisce la radiografia asciutta di un tempo che aspetta di essere grande. Quando forse potrebbe esserlo già.


(Diego De Silva, Mancarsi, Einaudi, 2013, pp. 104, euro 10)

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