“Sotto la pelle” di Michel Faber

«Quando avvistava un autostoppista per la prima volta, Isserley non si fermava mai, si concedeva un po’ di tempo per prendergli le misure. Quel che cercava erano i muscoli: un pezzo d’uomo ben piantato sulle gambe. Di esemplari gracili, pelle e ossa, non se ne faceva nulla».

Fin dalle prime righe di Sotto la pelle, Michel Faber catapulta il lettore nell’azione, lungo le strade provinciali delle Highlands scozzesi: sulla A9, Isserley guida, ed è in cerca di autostoppisti. Perché scelga con tanta minuziosità solo un certo tipo di autostoppista, dove intenda portarlo, e soprattutto perché, sono misteri che verranno svelati passo passo dall’autore con superba regia, in modo ambiguo e mai esaustivo, spingendo il lettore verso ipotesi differenti e costringendolo ad abbandonarle via via, dopo ogni spiraglio di comprensione. Freddezza, crudeltà, assenza di empatia, dalle prime pagine ci si aspetta un seguito di violenza e sesso, e quindi un noir. Ma l’ipotesi noir avrà vita breve, non passerà molto prima che appaiano nei pensieri di Isserley alcuni strani termini incomprensibili, che non verranno mai spiegati dall’autore, termini appartenenti a un’altra cultura, a un’altra civiltà, forse addirittura a un’altra specie vivente: «I vodsel non sapevano fare nessuna delle cose proprie degli umani. Non potevano siuwil né mesnishtil, non avevano il concetto di slan. Nella loro brutalità non si erano mai evoluti abbastanza da usare l’hunshur; le loro comunità erano così rudimentali che l’hississins non esisteva ancora; né queste creature sembravano manifestare il bisogno di un chail e nemmeno del chailsinn».

Non noir, ma fantascienza, dunque? Le informazioni fondamentali per la comprensione di ciò che sta avvenendo verranno concesse senza alcun colpo di scena, attraverso una sorta di banale svelamento dell’evidente, e la prospettiva con cui gli eventi e i personaggi venivano osservati e valutati fino a quel momento dal lettore muterà per l’ennesima volta.

Da che parte stare? Con chi identificarsi? Quanto può essere labile la barriera tra Bene e Male, Giusto e Sbagliato, Umano e Inumano? Impossibile procedere oltre nel racconto, senza rischiare spoiler involontari.

Il romanzo si svela lentamente, sconvolge e polemizza in modo sottile, contrapponendo la crudeltà degli esseri viventi alla bellezza silenziosa e ipnotica della natura scozzese. Persino lo stile asciutto, sintetico, a tratti ripetitivo, viene abbandonato solo e unicamente nei brevi momenti di descrizione della natura circostante, momenti nei quali Faber concede immagini di un lirismo appassionato: l’incanto della pioggia che cade, la neve candida che tutto ricopre, il mare in tempesta. La storia cresce e muta insieme alla consapevolezza e alla sensibilità del lettore e della protagonista, quest’ultima costretta in un corpo fino all’ultimo disconosciuto e odiato, a lei innaturale e causa di sofferenza; con fatica, persino lei alla fine si renderà conto, però, di quanto “sotto la pelle” si sia tutti uguali, umani e non. Spetta a noi decidere se accogliere la polemica di Faber, se far nostre le riflessioni esistenziali che, inevitabilmente, ne conseguono, e scegliere quindi più consapevolmente se continuare a definire noi stessi e gli altri in base alle differenze che ci distinguono, oppure se iniziare a farlo in base alle somiglianze che “sotto le apparenze” ci accomunano.


(Michel Faber, Sotto la pelle, trad. di Luca Lamberti, Einaudi, 2000, pp. 268, euro 10,50)

“Se mi distraggo perdo” di Anna Giurickovic

Essere donna è sempre stata cosa difficile. Crescere per diventare una donna, lo è ancor di più. Attese e disincanti, speranze e aspettative, passioni e desideri sono la linfa vitale dei brevi e lineari, ma sinceri, racconti che vengono a racchiudersi in Se mi distraggo perdo (Gorilla Sapiens, 2013) di Anna Giurickovic.

Quattordici sono le fotografie, tra rapidi tocchi di realtà e semplici fughe per giungere a rifugiarsi nell’immaginario, sapientemente catturate dalla penna leggiadra e, alle volte, commossa di una giovane autrice che tanto ha da dirci, che tanto vuole assorbire dalla vita stessa. Divertenti e spensierati, spesso dal sapore acerbo – l’amaro che rimane e continua ad aleggiare nei pensieri di chi legge –, tremendamente contemporanei, i personaggi di Anna hanno un qualche cosa di familiare, di vicino. Così si viene facilmente catturati nel turbinio affettivo, alle volte anaffettivo, del quotidiano, guidati da personaggi femminili e da donne delicatamente affrescate. Tra queste pagine, la vera protagonista è sempre e solo la donna. Il suo sentirsi femmina, il travaglio di una vita quale centro motore di pensieri ed emozioni. La donna viene esaltata e impreziosita, visi e gesti come strumenti capaci di coinvolgere. E così ci sono Luisa, Varinia, Nina, Marinuzza. La stessa Anna. Tutte seguite nel loro personale itinerario da adolescenti a donne compiute. La fantasia e la realtà trovano un punto di incontro nei pensieri e nella scrittura di Anna Giurickovic.

In Se mi distraggo perdo c’è tutta la passione e la voglia di mettersi in gioco che una giovane ed emergente scrittrice vuole condividere con noi lettori. Le parole di Anna sono ricamate con la padronanza di chi della vita apprezza le piccole sfaccettature, i gesti più insignificanti. Non c’è alcuna pretesa, nessuna arroganza. Nei quattordici racconti accompagniamo i primi passi di una giovane donna che prende man mano coscienza della propria esistenza. E lo fa in modo delicato, lasciandosi trasportare da immagini poetiche e descrizioni fresche e intense, in cui le parole si susseguono spontanee, di pari passo con i sentimenti. Racconti quale «Quercia sono, quercia di città» e«Vedi cara»hanno la musicalità di un carillon, fiabe di un’infanzia che non si sopiranno mai, malgrado la realtà delle nostre stesse esistenze. «Fa che mi sposi» è una preghiera, il ricordo di un tempo per crescere, un tempo per vivere.

Della realtà, l’autrice cattura i mille riflessi: l’essenza e i valori contemporanei vengono immortalati in pochi ed essenziali tratti di nero su bianco, impreziosito da qualche sfumatura di grigio. Una penna delicata che non vuole scendere a compromessi. Leggere Se mi distraggo perdo fa bene, fa sperare. Anna Giurickovic parla di passioni, di fascinazione per tutto ciò che ci circonda, partendo dal genere femminile.


(Anna Giurickovic, Se mi distraggo perdo, Gorilla Sapiens, 2013, pp. 144, euro 12)

Quodlibet: a tu per tu con Marco Baleani

Questo mese Flanerí ha approfondito il progetto di Quodlibet, una realtà affermatasi nel tempo come punto di riferimento per un’editoria votata alla qualità letteraria. Un taglio divulgativo e un’impronta narrativa caratterizzano l’ossatura della casa editrice che si qualifica come possibile modello italiano di industria culturale. Così dopo un’attenta panoramica sulla nascita e gli obiettivi di Quodlibet, l’attenzione della rubrica si è focalizzata sulla collana Compagnia Extra. Per concludere questo percorso conoscitivo, rivolgiamo alcune domande a Marco Baleani, che all’interno di Quodlibet svolge il ruolo di coordinatore.

Come sei arrivato a Quodlibet e in che cosa consiste il tuo lavoro?
Sono entrato in Quodlibet oltre 10 anni fa, dopo uno stage. Ho cominciato facendo molte cose, dal correttore di bozze all’impaginatore, fino al magazzino. Oggi mi occupo principalmente di coordinare la produzione, pur seguendo direttamente alcuni progetti specifici. 

Durante questi anni di conclamata crisi editoriale, qual è la forza di una casa editrice indipendente?
L’aggettivo indipendente contiene molte accezioni e sfumature. Diciamo che, in senso stretto, essere indipendenti consente, se si vuole, di fare scelte non convenzionali, con tutti i vantaggi e i rischi che questo comporta.

Il vostro progetto editoriale coniuga la sobrietà grafica all’eterogeneità di contenuti, accomunati da una profondità di sguardo sui temi proposti. Quali criteri guidano la ricerca e la selezione dei titoli?
Qualsivoglia, letteralmente ciò che piace, è il senso di Quodlibet. Una definizione capace di abbracciare moltissimi campi del sapere, l’importante è che le proposte che facciamo siano in grado di dire qualcosa, mettere a fuoco una questione. Non aggiungere semplicemente un tassello allo scaffale di filosofia piuttosto che a quello di narrativa, ma aprire prospettive inedite.

Come immagini il lettore medio di Quodlibet? E più nello specifico, il vostro lavoro mira a fidelizzare i lettori forti (puntando quindi su una nicchia) oppure ha come obiettivo finale quello di raggiungere il grande pubblico?
I nostri lettori sono tendenzialmente lettori forti, ma soprattutto curiosi, capaci di rimettere in gioco i loro interessi e punti di vista: pronti ad appassionarsi al contempo per il Manifesto del Terzo paesaggio di Gilles Clément e alle Lezioni di fotografia di Luigi Ghirri, rintracciando quell’invisibile filo rosso che li lega.

Editoria cartacea e editoria digitale. Qual è la tua opinione e che futuro prevedi per gli ebook?
Penso che la consuetudine di usare i tablet sia sempre più forte, in particolare per le nuove generazioni. Credo che questa quota di tempo libero che le persone passano davanti agli schermi possa venir impiegato non solo con i video, i giochi, i social network o altro ancora; una parte di questo tempo può trasformarsi in lettura, sia essa di romanzi, poesia, saggi, articoli di giornale o blog in genere. In questo senso è importante che nell’universo digitale ci sia un’offerta varia e qualificata di libri, in grado di intercettare gli interessi e generare curiosità.

Quali sono gli obiettivi futuri per Quodlibet?
Al di là dei legittimi e doverosi obiettivi che un editore coltiva in termini di crescita e di mercato, credo sia fondamentale centrare il compito che un editore ha nei confronti della comunità cui si rivolge: pubblicare il meglio della creatività, dell’intelligenza e della capacità critica che la collettività sa esprimere, misurandosi con il pubblico dei lettori e sapendo guardare non solo al presente, ma anche al futuro.

Grazie Marco per la disponibilità e a presto.

“Backstage” di Gilberto Severini

È nota la sentenza che Pietro Citati rivolse un giorno a Carlo Fruttero, e cioè che non si può scrivere un romanzo dopo i settantatrè anni. Severini inizia a scrivere Backstage nel 2011, quando ha ormai superato i settanta, e in effetti l’autore di Congedo ordinario sembra dare ragione a Citati, perché Backstage non è un romanzo, ma una lunghissima lettera immaginaria a un editore reale (Andrea Bergamini di Playground), oltre che un testamento spirituale.

Tutto ha inizio proprio con una richiesta di Bergamini che vorrebbe da Severini un libro sul rapporto padre-figlio e sulla condizione di orfano (all’autore è morto il padre quando era giovanissimo). È questa la cornice o il retroterra di un’opera anfibia e irregolare, nella quale il concetto di “trama” perde ogni sovranità, e dove gli appunti legati alla condizione autobiografica di orfano diventano lo sfondo per una riflessione più vasta, quasi ultimativa, sulla perdita dei “padri” intellettuali, politici e culturali nella società contemporanea.

«I padri lasciano in eredità non soltanto il passato, ma modelli e speranze che servono per affrontare la vita. Forse è questa la mancanza più o meno consapevole che vivono molti giovani in comunicazione permanente fra loro con la più aggiornata tecnologia, per dirsi cosa stanno facendo e vedendo e mangiando e bevendo e guardando e dove e con chi, nel solo tempo di cui dispongono: il presente», scrive Severini al suo interlocutore, al quale per tutto il libro non fa che chiedere scusa per non essere riuscito a scrivere il libro che gli era stato chiesto.

Come è nella tradizione della scrittura di Severini, tutto è da leggersi in una prospettiva rovesciata: Backstage è un libro che parla del libro che sarebbe dovuto essere. Ciò però non decreta il fallimento dell’autore-mittente, che anzi con grande eleganza e con lo spirito critico tipico dell’intellettuale outsider, sa cogliere, al passo con il presente, il momento giusto per tentare un bilancio sul passato. Alla nostalgia della famiglia, intesa come luogo dell’accoglienza e dell’affettività elementare, e più vera, si accompagna una resa dei conti il presente che vira verso l’ironia più caustica e tagliente sul mondo che ci circonda e di cui siamo attori più o meno consapevoli.

In Backstage rientrano tanti piccoli aneddoti e riflessioni su personaggi della cultura italiana ed europea, accanto a frammenti di storie personali dell’autore. Si avvicendano le figure di Lucio Dalla e Balotelli, Moravia e Tondelli, Antonio Cassano e Oscar Wilde, Ferdinando Scianna e Giorgio Bocca, ma soprattutto si incontra Franco Scataglini, il poeta anconetano grande amico dell’autore, scomparso nel 1994 in seguito a un cacro, anche lui acuto osservatore del “caduco”. Dell’esperienza di Scataglini, Severini ricostruisce per ricordi e frammenti la vena del polemista prima di quella poetica, tentando di afferrare il momento nel quale finalmente sboccia la sua lingua lirica, una coniugazione personalizzata di anconetano e italiano rigorosamente metrico e sonoro. E ci racconta dell’omaggio al padre del poeta dedito al «canto delle esistenze mute», collegandosi così nuovamente alla volontà di scrivere – anche attraverso le parole altrui – un’autobiografia coraggiosa e spesso commovente che ruota intorno ai temi della solitudine e degli effetti della mancanza, della condizione di orfano di ogni cosa, che si esplica al meglio proprio con un verso dello stesso Scataglini: «El senso de’l mio testo / è ’na cancellatura».

(Gilberto Severini, Backstage, Playground, 2013, pp. 144, euro 13)

“Ender’s Game” di Gavin Hood

In un futuro non meglio specificato la Terra si trovò a combattere contro i Formic, pericolosa specie aliena che invade i pianeti per depredarne le risorse. Gli umani si salvarono solo grazie al gesto di un coraggioso aviatore, Mazer Rackham, che si lanciò con il suo aereo contro la nave madre aliena sacrificandosi per distruggerla. In un futuro ulteriore la Terra ha ripreso la normale vita prima dell’attacco. I Formic non si sono mai più manifestati ma il livello di allerta è sempre molto alto. Il colonnello Graff, responsabile della sicurezza del pianeta, cerca nuovi aviatori da reclutare tra i bambini più promettenti in giro per gli Stati Uniti. I migliori vengono selezionati e portati nella sede orbitante della Scuola di guerra. Lì vengono preparati a fronteggiare un nuovo attacco tra simulazioni e educazione militare. Ender Wiggin ha dodici anni quando entra nella Scuola. Sarà lui a passare alla Scuola di comando e a dover fronteggiare i Formic per l’ultima volta.

Sono anni che a Hollywood circola l’idea di adattare per lo schermo Il gioco di Ender, cult fantascientifico datato 1985 scritto da Orson Scott Card (in Italia è pubblicato dalla casa editrice Nord). Noto soprattutto tra gli appassionati di sci-fi, il libro ha travalicato i confini di genere negli Stati Uniti finendo per divenire, addirittura, libro di testo in alcune tra scuole e accademie militari. È l’attenzione al concetto di leadership ad aver catalizzato gli interessi di natura pedagogica. Il mondo che Scott ha realizzato prevede una sospensione del giudizio morale canonico in nome della difesa dell’interesse più elevato della sicurezza complessiva. Nel trasporlo per il cinema, il sudafricano Gavin Hood, regista e sceneggiatore, ha mantenuto intatto il messaggio machiavellico di morale di scopo evidenziando la distorsione che la logica della difesa a tutti i costi comporta sulla naturale attitudine dei bambini costretti a divenire soldati e ad assumersi incarichi di enorme responsabilità.

Il giovanissimo Ender, brillante sin dalla nascita fortemente voluta dai genitori, avvenuta in deroga alla legge demografica che impone un massimo di due figli per famiglia, ha visto la normalità della sua infanzia sacrificata in nome della meta ultima della Scuola di guerra. Come lui, centinaia di altri adolescenti sono cresciuti con un indottrinamento militare. Per il colonnello Graff (Harrison Ford, ancora una volta alle prese con lo spazio) questo è il solo modo per affrontare il nemico, formando le nuove generazioni rimuovendo il normale processo di crescita. Ogni forma di giudizio morale sul coinvolgimento di bambini in guerra è sospesa. Non la pensa così il maggiore Anderson (Viola Davis), secondo ufficiale della Scuola, che ritiene necessario ricordare che, in fondo, si tratta sempre di bambini e che la minaccia dei Formic è poco più di un’ipotesi di studio, ormai. È uno scontro weberiano tra due diversi modi di intendere la moralità: l’etica dell’intenzione, dal lato di Graff, che guarda solo allo scopo ultimo da raggiungere tenendo conto solo di principi assoluti – in questo caso la sicurezza mondiale contro la minaccia aliena – che prescindono dalle conseguenze delle singole azioni, e l’etica della responsabilità di Anderson, che dà a ogni gesto il giudizio necessario di bene e male.

Gavin Hood si era già avvicinato all’infanzia negata da una crescita precipitosa e obbligata con Il suo nome e Tsotsi, Oscar nel 2006 per il miglior film straniero. Con Ender’s Game torna ad analizzare la perdita dell’innocenza passando dall’ambiente criminale della baraccopoli sudafricana di Tsotsi alla realtà istituzionale di Ender. Cambia il motivo, ma il senso della negazione è lo stesso.

Accanto a effetti speciali di primo ordine che accompagnano le battaglie stellari e le animazioni in CGI del mind-game psicanalitico che guida Ender c’è un non trascurabile bagaglio di riflessione sul senso dell’attesa di un nemico invisibile, quasi un Deserto dei Tartari trasportato dalla Terra allo spazio, che ricorda un po’ la minaccia terrorista per gli Stati Uniti e l’intero Occidente.

Lo scopo del film è esclusivamente quello di divertire, non di far riflettere. Forse gli riesce meglio la seconda cosa, il che vuol dire che qualcosa non funziona.

I libri del Ciclo di Ender sono attualmente sedici. Prepariamoci al peggio per i prossimi anni.

(Ender’s Game, di Gavin Hood, 2013, fantascienza, 114’)

“Un antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni” di David Foster Wallace

Questo libro è un tributo a uno scrittore veramente straordinario e capace di rendere eccezionale, quasi provenisse da un altro pianeta, persino un semplice reportage su una vacanza in crociera.

Un antidoto contro la solitudine (minimum fax, 2013) è una raccolta di interviste e conversazioni con David Foster Wallace a cura di Stephen J. Burn: un viaggio attraverso il tempo (le interviste vanno dal 1987 al 2008), ma soprattutto un viaggio per cercare di capire e conoscere la personalità di un genio del nostro tempo.

Gli aggettivi usati potrebbero sembrare esagerati o eccessivi per chiunque, ma non lo sono per DFW, che era davvero una mente d’eccezioni, come pochi prima e dopo di lui, tanto da essere insignito nel 1997, dopo la pubblicazione di Infinite Jest, del premio della Fondazione MacArthur: il cosiddetto genius grant.

David Lipsky, autore del libro intervista Come diventare se stessi (minimum fax, 2011) diceva di David Foster Wallace che era il più grande scrittore della sua generazione, e anche il più tormentato.

Tutto questo tormento è la chiave di ogni singola intervista raccolta in Un antidoto contro la solitudine che, oltre a raccontare la genesi dei suoi testi così ricercati ma allo stesso tempo empatici, cerca di farci conoscere un po’ più a fondo la controversa personalità di questo scrittore così schivo e timido da non voler essere fotografato, così attaccato alle sue radici da ricevere i giornalisti nelle tavole calde più sperdute del paese ma così fragile da non riuscire a sopportare la depressione che lo attanagliava.

Questo libro racconta tutte le molteplici sfaccettature di un uomo particolarissimo a cui piacevano le cose semplici: forse per arginare tutta la complessità di cui sono zeppi i suoi testi sin dagli esordi. Sin dalla sua tesi di laurea in filosofia, un romanzo destinato a diventare un best seller: La scopa del sistema (Einaudi, 2008).

Wallace è stato uno studente modello, un giocatore di tennis, un grande appassionato di tv ma soprattutto un scrittore e un insegnante di scrittura creativa davvero fuori dal comune. La lettura di Infinite Jest (Einaudi, 2006) è un’esperienza imperdibile per chi, armato di un po’ di tempo e pazienza, voglia compiere un viaggio divertente e psichedelico dentro un romanzo lungo 1079 pagine che la critica aveva dato per spacciato e che oggi è un unicum nel panorama letterario mondiale. Un antidoto contro la solitudine lo racconta, e tutte queste caratteristiche traspaiono dalle varie interviste in cui, poco a poco, viene fuori il DFW uomo, e non solo grande scrittore. Troviamo la sua sagacia, la sua ironia ma soprattutto la malinconia dovuta alla preoccupazione della notorietà che finisce in una tormentata depressione. Apparentemente felice della propria vita privata, di sua moglie, della sua famiglia, della speciale amicizia con Jonathan Franzen, ma in fondo profondamente solo.

È quindi il testo perfetto per chi vuole provare a conoscere uno scrittore stupefacente e rammaricarsi ancora di più pensando che ci ha lasciati davvero troppo presto.

(David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni, a cura di Stephen J. Burn, trad. di S. Antonelli, F. Pacifico, M. Testa, minimum fax, 2013, pp. 292, euro 13)

“Gemme dell’impressionismo” all’Ara Pacis

Sessantotto sono le opere provenienti dalla collezione privata della famiglia Mellon che per la prima volta escono dalla National Gallery of Art di Washington per portare in tour tele esemplari, anche se meno conosciute, dell’impressionismo francese: è stata inaugurata il 23 ottobre scorso al Museo dell’Ara Pacis la mostra Gemme dell’Impressionismo. Dipinti della National Gallery of Art di Washington, visitabile fino al 23 febbraio 2014. Le tappe successive saranno San Francisco, San Antonio, Tokyo e Seattle, mentre alla National Gallery sarà esposto il Galata morente dei Musei Capitolini.

Prima di iniziare il percorso espositivo, diviso in aree tematiche, il caposcuola Monet merita un posto a sé con i colori tenui e delicati del piccolo comune sulla Senna tanto caro agli impressionisti, “Argenteuil” (1872).

 

"Argenteuil"

 

Immediatamente la sezione più densa, «En plein air», nella quale si esplicita il concetto base degli impressionisti, ovvero l’idea di portare cavalletto e colori fuori dagli studi, all’aria aperta. A contatto col mondo, per immortalarlo così com’è, per coglierne l’essenza. Qui troviamo i classici di Renoir, “Vendemmiatori” (1879) e “Cogliendo fiori” (1875), lo splendido “Campo di tulipani” di un giovanissimo Van Gogh (1883), insieme ai cavalli di Manet “Alle corse” (1875) e altri oli di Sisley e Pissarro. Tema centrale è il paesaggio. Colpiscono le sfumature di cieli tenui e appena nuvolosi, di prati di erbe fresche e fiori variopinti. Questi professionisti della pittura riescono a dipingere le diverse gradazioni del chiarore del giorno, a entrare dentro la luce e a ricrearla nei loro quadri. Catturano l’attimo fuggente della luce che cambia, nel corso della giornata.

 

"Cogliendo fiori"

 

Diverso è il tocco di Cézanne, la cui “Battaglia dell’amore” (1880) è esposta in una parete separata. A questo artista, piuttosto che l’osservazione, interessa la concretezza della natura, la consistenza materica delle cose. La vediamo nei colori più marcati, in un disegno che va al di là delle forme classiche, nelle figure umane che diventano quasi sagome. 

 

"La battaglia dell'amore"

 

Per gli impressionisti l’individuo è considerato un anello della meravigliosa catena che è la perfezione della natura. E viene, quindi, rappresentato nei gesti più quotidiani e informali dell’esistenza. A tal proposito il critico De Goncourt sottolinea di Degas la capacità di «cogliere l’animo della vita». Nelle sue “Ballerine dietro le quinte” (1876), come nelle altre figure della sezione intitolata «Donne, amiche, modelle», non ci sono più figure fredde, rigide e impostate bensì rappresentazioni inedite della vita giornaliera. In quest’area insieme alla celebre “Giovane donna che si pettina” (Renoir 1876), incontriamo Berthe Morisot, unica protagonista femminile del movimento, con “La sorella dell’artista alla finestra” (1869).   

 

"La sorella dell'artista alla finestra"

 

Si continua con la sezione dedicata a «Ritratti e autoritratti» – dove riconosciamo dai colori più vivi e decisi l’“Autoritratto dedicato a Carrière” (1888) di Gaugin – e si prosegue con le nature morte di Manet, Cezanne e Renoir.

Le sezioni successive ospitano Eugène Boudin: un precursore del movimento – pittore della Normandia e maestro di Monet, di cui ammiriamo splendide viste della costa, del porto, della spiaggia – e Bonnard e Vuillard, l’eredità dell’Impressionismo – coppia di artisti che condividevano gli stessi ideali. Non è casuale che i loro studi divennero ritrovo per gli intellettuali dell’epoca: da Hugo a Baudelarie, da Mallarmé a Valéry.

Di questi maestri si ammira la manualità, l’abilità coloristica. La capacità di ricreare il vero – «Tutto ciò che è dipinto dal vero ha sempre un’efficacia, una vivacità di tocco, che non si trova in uno studio», scrisse Boudin – e di immortalarlo sulla tela insieme a un pizzico di magia.

 

"Sulla spiaggia di Trouville"

 

L’artista, infatti, possiede la capacità di mettere insieme le categorie del fuori e del dentro. Se è importante osservare la natura e disegnarla, catturandone luminosità e dettagli, è altrettanto importante sentire ciò che si ha dentro. Il mondo esterno, ma anche l’interiorità, entrambi sono fondamentali. Sono, appunto, la creatività, la sensibilità, il gusto e il senso estetico, a permettere al pittore di realizzare tali preziose immagini.

Sono talmente belle, queste tele, che non serve preparazione o studio per apprezzarle. È il dipinto stesso che invita lo spettatore a entrare nell’opera. In tal modo, egli spazia nella magia di quei luoghi per ritornare alla realtà alleggerito, soddisfatto, estasiato.

Gemme dell’Impressionismo. Dipinti della National Gallery of Art di Washington.
Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma
23 ottobre 2013-23 febbraio 2014
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.arapacis.it

“La moglie” di Jhumpa Lahiri

Ci sono libri che a leggerli si innesca in automatico l’immaginazione e si configura nella mente, come in una ideale sala cinematografica, la serie di fotogrammi. È il frutto di una particolare alchimia tra parole e pensiero. Non sapremmo dire se questo faccia o meno di un testo un bestseller della letteratura mondiale. Di certo lo caratterizza come particolare e forse da non perdere.

Jhumpa Lahiri, scrittrice statunitense di origine indiana, premio Pulitzer nel 2000, nel suo La moglie (Guanda, 2013), dà prova della magistrale capacità che hanno alcuni scrittori di calare completamente il lettore nella loro storia. Se si è letto abbastanza, si comprende che questo risultato non è dato in realtà dalla semplice somma di più particolari e pagine su pagine di descrizioni, bensì dal sapiente dosaggio di pochi ingredienti. Stupisce per esempio notare come in questo testo si spendano fior di battute su luoghi, ambienti e profumi e quasi nulla sulle descrizioni fisiche: si descrivono con dovizia di particolari tinte e abiti ma non ci sono che pochi cenni a occhi, capelli o altro. La caratterizzazione dei protagonisti è ugualmente affidata per intero o quasi alle loro stesse azioni, non c’è insomma una palese introspezione dei personaggi: ciononostante il loro spessore è indiscusso.

Subhash e Udayan sono due fratelli degli anni Sessanta bengalesi, nati a poco più di un anno di distanza l’uno dall’altro, ma considerati da tutti gemelli inseparabili. A distinguerli soltanto lo spirito: pacato, avveduto e riflessivo il primo, inquieto, anticonformista e temerario il secondo. La vita riserverà loro destini diversi ma il radicale allontanamento fisico tra i due (un oceano a dividerli) si trasformerà, alla fine, in una sovrapposizione delle loro vite: quando Udayan, rimasto in India a combattere al fianco del suo popolo, verrà sconfitto, a Subhash, così diverso, così lontano, toccherà prendere il suo posto. Emblematico a questo punto il ruolo di Gauri, la moglie cui fa riferimento il titolo italiano, giovane indiana sposata da Udayan contravvenendo a tutte le tradizioni: lei e la vita che porta in grembo resteranno nella storia e nella vita di Subhash come l’unico rimando al fratello.

La moglie è un testo estremamente ricco, un librone di quasi cinquecento pagine in cui viene illustrata una gran quantità di situazioni materiali, storiche, sentimentali e psicologiche: c’è l’illustrazione di una terra magnifica dai caratteri e dai costumi millenari e tutte le sue contraddizioni; ci sono la storia del ’68 indiano al tempo delle rivolte dell’India filo-maoista e il resoconto di un’epoca; c’è il racconto della vita di due fratelli, quasi gemelli, con tutti i sotterranei e profondi conflitti che questo determina; ci sono l’omicidio e l’odio fratricida, c’è l’amore, c’è la morte e c’ è il dolore. No, decisamente se si sceglie questo libro non ci si può aspettare una storiella lineare e prevedibile, perché tale non può essere l’acuto scandaglio dell’animo e delle sue infinite capacità di concepire sentimenti e situazioni emotive, magari sgradevoli, magari foriere di vergogna e al limite dell’accettabile, ma lecite, proprio perché umane.


(Jhumpa Lahiri, La moglie, trad. di Maria Federica Oddera, Guanda, 2013, pp.424, 18 euro)

“Lightning Bolt” dei Pearl Jam

Erano quattro anni che i Pearl Jam non si facevano vivi. Tra progetti solisti con gruppi paralleli e album suonati solo con l’ukulele, il gruppo di Seattle non tornava a comporre da troppo tempo.

Arruolato di nuovo il produttore Brendan O’Brien dietro la console, Eddie Vedder e soci tornano con il decimo disco certamente più rilassati, ma sempre con quella grinta che appartiene loro e con quella voce che canta di libertà e voglia di riscatto che solo Vedder sembra possedere.

Durante la lavorazione del disco avevano promesso chissà quale sperimentazione e nuovo processo compositivo. Su questo si sono smentiti, l’album è il perfetto seguito del loro precedente Backspacer, da cui provengono anche delle outtakes.

Veniamo alle canzoni, che appaiono molto varie fra loro. “Getaway” è un buon inizio ma sicuramente più un power pop che una vera e propria canzone rock. 

“Mind Your Manners” fa pensare molto alla loro vecchia “Spin the Black Circle”, con un ritornello che ricorda alcuni di quelli epici degli Iron Maiden: sicuramente non uno dei loro singoli migliori. 

“My Father Son” non ha niente a che vedere con certe composizioni di Vedder – che parlano della sua storia più personale – e francamente non colpisce più di tanto.

Ma ecco che con “Sirens” il gruppo si fa perdonare, perché quando Eddie canta di storie d’amore andate a finire male, difficilmente ne sbaglia una: è la canzone che ti rimane nella testa, capace di far diventare buono un album mediocre, insieme a qualche altra manciata di discrete composizioni. Fra queste citiamo “Lightning Bolt”, il pezzo che ti aspetti dai Pearl Jam: un rock ben suonato e tirato, con un finale cantato da brividi.

Da qui in poi il disco diventa strano. La seconda metà dell’album è forse la parte più sperimentale. “Infallible” è un buon riempitivo, mentre “Pendulum” può essere considerata la sorpresa dell’album: Ament /Gossard firmano un brano sulle oscillazioni proprie della natura umana, dando vita a una canzone che fa pensare ad alcuni momenti oscuri della band, come quello da cui è derivato il loro disco più cupo, Riot Act, di qualche anno fa.

Veniamo poi a “Swallowed Whole” di cui garantiamo l’ottima resa live nei prossimi concerti, mentre la successiva “Let the Records Play” è un blues elettrico da ascoltare, che porta i Pearl Jam verso strade nuove ma non poi così distanti dalla loro vera anima.

Arriviamo alle ultime canzoni: “Sleeping by Myself” è la nuova versione di un brano contenuto nel disco solista di Vedder, mentre la ballata “Future Days” conclude il disco con un testo che suona finalmente positivo e quindi anomalo per le liriche del gruppo. Un testo che sa commuovere e sembra scacciare almeno per un po’ quel male di vivere in cui si è rispecchiata, in passato, un’intera generazione di fan: «I believe and I believe ’cause I can see / our future days, days of you and me».


(Pearl Jam, Lightning Bolt, 2013, Monkeywrench/Universal)

 

“Manicomio Football Club” di Andrea Romano

Quindici giocatori tra titolari e riserve – due portieri, cinque difensori, quattro centrocampisti, quattro attaccanti – vanno a formare il Manicomio Football Club inventato da Andrea Romano per i tipi di Zero91. Sono campioni noti per il temperamento, oltre che per il talento, messi tutti insieme in un’immaginaria squadra di duri e rudi, da Schumacher, lo sciagurato portiere tedesco che quasi uccise il difensore Patrick Battiston durante la semifinale dei mondiali del 1982, al simbolo della dissolutezza calcistica, George Best, passando per Cantona e il suo calcio volante, il macellaio di Bilbao, Andoni Goikotxea, che quasi compromise la carriera, e la gamba, di Maradona, e gli italiani Bruno, Chinaglia e Zigoni. In panchina, Raymond Domenech, il commissario tecnico della nazionale francese di recenti fallimenti, celebre per la sua passione per gli oroscopi e il suo odio per il calcio italiano.

Per ogni giocatore un numero di maglia e una scheda, o articolo, o racconto, a seconda di come li si voglia leggere, che raccoglie un momento significativo dell’intera carriera, o tutto l’arco degli anni passati con gli scarpini ai piedi. Nella maggior parte dei casi si tratta di storie note a chiunque si interessi al calcio internazionale e alla sua storia. Non ci sono rivelazioni, per esempio, nel racconto dell’alcolismo di Tony Adams o nella fede al limite del fanatismo del nigeriano Taribo West, così come è forse nota a chiunque fosse in grado negli anni Novanta di leggere un giornale, o di accendere un televisore, la passione di Edmundo per il samba e il carnevale (meno forse la condanna per omicidio colposo).

Ad Andrea Romano, giornalista, tra gli altri, per Il romanista e Dnews, e autore di altri libri sul calcio, non interessa andare oltre il noto. Una volta scelto il minimo comune denominatore per il suo Manicomio Football Club si preoccupa di trovare una formazione il più possibile coesa e credibile, guardando alle escandescenze sul campo e fuori dei suoi giocatori, cercando quasi con affanno di giustificarli, o quanto meno di spiegare la logica delle azioni scorrette, fallose o antisportive al lettore. È un limite non da poco: Montero, Keane, Grobbelar e compagni finiscono per essere ritratti non solo come semplici eroi del calcio, che ci può pure stare, ma come dei martiri dell’opinione pubblica, pronta a condannarne gli errori senza andare a indagarne le ragioni.

La scrittura sembra cercare continuamente di elevare le loro azioni verso una dignità ulteriore, indugiando su una forma retorica, caricandosi di ripetizioni e altre figure che appesantiscono e appiattiscono la lettura. Tre esempi, in crescendo: «Di Biagio finisce la partita. Finisce la partita e segna il gol del pareggio»; «Nei giorni successivi Domenech sale sulla bici e pedala. Pedala mentre tutta la Federcalcio analizza la sua posizione. Pedala mentre i giornalisti fanno a gare per affossarlo. Pedala mentre svela a qualche amico di voler tornare a recitare. A recitare un monologo. Un monologo su un allenatore licenziato che racconta la sua vita al massaggiatore prima di lasciare lo spogliatoio»; «Un’Italia rifondata, un’Italia che è solo lo spettro di quella che ha vinto il titolo sessanta giorni prima fa il resto. Domenech riesce a sconfiggere i suoi nemici. Domenech riesce a sconfiggere i suoi nemici per la prima volta. Domenech riesce a sconfiggere i suoi nemici per la prima volta in una partita che non serve quasi a niente. Una partita che non assegna coppe o medaglie. Una partita alla quale seguirà un ritorno».

Con l’abuso di un’enfasi non necessaria che finisce per rendere ridondante e pleonastica la lettura, Manicomio Football Club non riesce a creare un legame tra il lettore e i suoi vari protagonisti perché privo di quell’ironia (presente solo nel capitolo dedicato a West, ma in quel caso è il personaggio stesso a essere fonte involontaria di comicità) o meglio di quella leggerezza che servirebbe per ricordarsi che il calcio è, sempre e comunque, un gioco e i calciatori dei privilegiati piuttosto che delle vittime.


(Andrea Romano, Manicomio Football Club, Zero91, 2013, pp. 206, euro 15)

L’eroe senza nome: “Le Premier Homme” di Albert Camus

Ciò che ha contribuito a rendere Le Premier Homme un manoscritto incompiuto di successo – si parla di ben 300.000 copie vendute – è la sua tragica ma al tempo stesso assurda storia. Il 4 gennaio 1960, Albert Camus muore in un tragico incidente d’auto. In seguito alla sua scomparsa, nella borsa che lo scrittore portava con sé, viene ritrovato un manoscritto non ancora terminato. Venuto a conoscenza della triste notizia, Sartre scrive su France-observateur: «Pour tous ceux qui l’ont aimé, il y a dans cette mort une absurdité insupportable. Il faudra apprendre à voir cette œuvre mutilée comme une œuvre totale». Pertanto, la figlia Catherine Camus decide pazientemente di decifrare la piccola e incomprensibile scrittura del padre e di far pubblicare il manoscritto presso l’editore Gallimard, nella collezione Cahiers Albert Camus, nel 1994.
Essendo Camus tra gli autori più fraintesi e incompresi della storia della letteratura francese (si è deliberatamente omesso il titolo di “filosofo”), non stupirà che anche questo manoscritto abbia subito molte interpretazioni controverse. I più si limitano a leggerlo come un’autobiografia o una confessione dell’autore, altri si prestano a interpretarla come l’ennesima presa di posizione di Albert Camus rispetto alla situazione politico-economica dell’Algeria e dei suoi rapporti controversi con la Madrepatria.

La verità è che Le Premier HommeIl primo uomo in italiano – è una confessione d’amore. Non la costruzione di un mito, non amore passionale, non costruzione di un pensiero filosofico. No, puro e semplice amore.
Amore nei confronti della madre e dello zio che lo hanno cresciuto e hanno reso Jacques Cormery – e non Albert Camus come molti critici si ostinano a leggere tra le righe – l’uomo in carriera che sembra essere diventato. Un amore viscerale nei confronti di una madre quasi muta, soggiogata dal carattere imponente di una nonna tiranna e impavida, tormentata all’idea dell’onore, del lavoro e del sacrificio. Una madre che ama un figlio che l’ha abbandonata ma non l’ha mai dimenticata, fedele al proprio destino e a una Terra che non le ha dato le certezze di cui aveva bisogno.

Amore per una terra incompresa, amore per gli eroi che la popolano e le restano fedeli, uomini come suo padre e suo zio che nascono, crescono, lavorano e seguono il proprio cammino di vita senza porsi troppe domande. Uomini che combattono guerre che non gli appartengono e subiscono odio e violenze di cui non conoscono né l’origine né la fonte. Primi uomini in quanto esseri originali e veri. Il mito non diventa altro, non è estraneo alla realtà ma si fa realtà stessa. Uomini che scoprono passo dopo passo la propria vita, senza avere una guida o un punto di riferimento. Dei nuovi “Adamo” abbandonati dal Dio che professano, ma che lottano e vanno avanti senza arrendersi. Uomini come il professore che passano la vita a educare con rigore, che confidano nel futuro di ragazzi apparentemente senza speranza. Uomini che danno speranza a famiglie che credevano di averla perduta. Uomini che credono ancora nell’ambizione e nei sogni dei più piccoli, senza accusarli di presunta ingenuità.

Jacques Cormery torna indietro non tanto per ritrovare le tracce di un padre perduto da sempre, bensì per ritrovare se stesso. Jacques ha bisogno di staccarsi dalla civiltà alla quale si è ancorato per ritornare alla civiltà primordiale, quella vera, alle sue radici. Per ricordare. Ricordare l’amore che provava quando ancora non era un francese acquisito, quando anch’egli era un primo uomo, e non un pied noir. Quando correva sulla spiaggia, sfuggiva alle punizioni della nonna, quando giocava a calcio e doveva riparare le suole delle scarpe per usarle ancora, ancora e ancora un’altra volta.

Le Premier Homme è un album di ricordi, una riscoperta di sé, una sincera dichiarazione d’amore al suo passato e ai componenti che l’hanno reso tale. Sbaglia chi crede di poterlo leggere attraverso un singolo punto di vista. Sbaglia chi limita la vista a quel tema, a quel dettaglio, a quell’episodio. È proprio l’incompletezza dell’opera che la rende ancora più godibile, più gustosa, più vicina al vissuto di Jacques – e non di Albert Camus. Perché l’autore non voleva che venisse interpretata come una semplice autobiografia, e le sue intenzioni vanno rispettate. C’è anche del romanzo, una mémoire volontaire se si vuole utilizzare la terminologia proustiana. C’è una scelta specifica, uno scarto tra i ricordi: non a caso molti elementi non coincidono perfettamente con il puzzle biografico che alcuni critici hanno sapientemente ricostruito.

Camus non teorizza, racconta. A volte, si ha l’impressione che l’autore si abbandoni a fiumi e fiumi di parole dimenticando totalmente la punteggiatura (aggiunta, tra l’altro, da chi ha ribattuto a macchina il manoscritto originale). Le immagini sono vivide, vive, sotto gli occhi di chi legge. Non è come ne La Peste o ne La caduta. Non sono le Chroniques Algériennes. L’Algeria vive di profumi, colori, stagioni. Il lettore sente il caldo appiccicoso sulla pelle, il ronzio delle mosche, il sonno forzato del bambino. Tutto è intensificato e netto – e in questo è vivo il romanesque, la firma d’autore. Ma si tratta di un romanesque gradevole, non imposto, spontaneo ma controllato. Un roman autobiographique così come inteso da Philippe Lejeune: l’autore inserisce del suo senza però farsi risucchiare dalla sua stessa opera. Tra l’altro – come ricorda bene Jean Rousset nel suo saggio Forme et signification –l’artista è il suo stesso creato. Pertanto, non è necessaria un’autobiografia tout court per ritrovare la vita di chi scrive. Basta il sentore, perché il lettore è – citando Rousset – «tutto antenne e sguardi».

In definitiva, perché leggere quest’opera, per giunta incompiuta? Perché è l’elemento che completa il ciclo. Finalmente, si ha a che fare con un Camus libero dagli schemi e dalle paure, più maturo, più rilassato. Paradossalmente, anche più completo nonostante l’opera non lo sia. Perché il finale non c’è e rende il ciclo già stabilito dall’autore, assurdo come egli stesso aveva sempre teorizzato nei suoi saggi. Ma l’absurde questa volta vince, conquista, stupisce.

“Cani sciolti” di Baltasar Kormàkur

Partendo dal fumetto 2 Guns di Steven Grant, riscritto per lo schermo da Blake Masters, Baltasar Kormàkur dirige Denzel Washington e Mark Wahlberg nel poliziesco Cani sciolti, presentato all’ultima edizione del Festival di Locarno dove si è aggiudicato il Variety Piazza Grande Award.

Bobby Trench e Marcus Stigman sono in affari con Papi Greco, boss della malavita messicana specializzato nel traffico di droga attraverso il confine con gli Stati Uniti. Sono nel giro da un anno, lavorano in coppia e pensano che sia arrivato il momento di fare altri soldi. Decidono di rapinare una piccola banca di provincia, la banca dove Greco ha depositato parte dei soldi del narcotraffico. Sono circa tre milioni di dollari, ma quando i due arrivano al caveau, trovano molti più soldi ad aspettarli. Non sanno di chi siano, come non sanno molte altre cose. Come ad esempio che Bobby è un agente infiltrato della DEA, l’antinarcotici, che ha il compito di incastrare Papi Greco proprio con i soldi della banca, risalendo alla loro provenienza, o che anche Marcus è un agente sotto copertura, dei servizi segreti della marina militare, però, con esattamente lo stesso incarico di Bobby. Fanno lo stesso gioco, in sostanza, solo che non lo sanno.

Classico buddy movie nella variante cinema d’azione, Cani sciolti gioca con tutto il repertorio di cliché della strana coppia di duri che si scambia battute, frecciate, minacce, fino a cementare un’amicizia invincibile. Strizza un po’ l’occhio a The Departed nel doppio livello di infiltramenti, anche perché procedendo con lo sviluppo della trama la rete di doppigiochi cresce fino a lasciare, come nella migliore delle tradizioni, i due agenti in incognito totalmente isolati, senza il supporto delle istituzioni. Perché un poco alla volta viene fuori che il superiore di Mark Wahlberg vuole tenersi i soldi per sé, scaricando la colpa sul suo infiltrato, mentre il capo della DEA viene ucciso da un agente della CIA che vuole recuperare i soldi, quelli che Trench e Stigman non si aspettavano di trovare, in quanto parte di un fondo nero frutto degli accordi illegali tra agenti corrotti dell’intelligence e i signori dei cartelli messicani.

A emergere, tra la polvere del deserto texano sollevata dalle auto che si inseguono, è un pessimismo, piuttosto pronunciato, sullo stato di salute della sicurezza pubblica statunitense nei rapporti con il grande narcotraffico di matrice sudamericana. Non c’è nessuno, dei tre corpi di vigilanza protagonisti di Cani sciolti, che faccia prevalere il senso del dovere, o la responsabilità nazionale, sull’interesse privato. È questo a differenziare, e riscattare, in parte Cani sciolti dal nugolo di film d’azione prodotti ogni anno. Senza perdersi in moralismi o costruzioni politiche troppo complesse, riesce a spostare l’obiettivo, seppur di poco, dalle sparatorie per inquadrare una realtà di corruzione e ipocrisia che lascia i singoli agenti soli, o ridotti a semplici pedine da sacrificio, nella lotta contro la droga.

Per il resto non è che il film offra molto di originale o di inatteso, ma la coppia Washington-Wahlberg funziona nel dosaggio di machismo e buffoneria sempre sul filo della provocazione reciproca, con dialoghi che sanno colpire nel segno, come con la teoria secondo cui sarebbe meglio evitare di rapinare banche che abbiano vicino il bar che vende le migliori ciambelle della città, calamita naturale per i poliziotti nell’immaginario statunitense.

Baltasar Kormàkur, islandese, in patria si dedica a film intimisti e attenti alla dimensione sociale (101 Reykjavik, Il mare). Negli Stati Uniti si sta affermando, dopo Contraband, come uno dei più abili registi di action.

(Cani sciolti, di Baltasar Kormàkur, 2013, azione, 109’)