“La ragazza dei cocktail” di James M. Cain

Stati Uniti. Anni Sessanta. Piccola cittadina di provincia nel Maryland. Il romanzo comincia in prima persona sul tono del macabro e il finale rincara la dose con un mid-dark happy-ending da brivido.

Tutta la vicenda di La ragazza dei cocktail (Isbn Edizioni, 2013), di James M. Cain, ruota intorno alla signora Joan Medford – che nel corso del romanzo diverrà la ricca signora White – la quale registra un nastro di difesa a suo favore contro le accuse che le sono rivolte. Triplice omicidio e passioni compromettenti.

Dopo un matrimonio disastroso, a seguito dell’ennesima bevuta, il primo marito di Joan muore in un incidente d’auto. Il funerale dell’uomo le farà incontrare l’uomo del desiderio e della passione, Tom Barclay. Il sergente Young, ammaliato dalla sua bellezza e impietosito dalla sua condizione economica, le consiglia di lavorare come cameriera presso il Garden of Roses. Servirà invece alcolici al bar e si troverà di fronte all’occasione della sua vita: il vecchio e ricco Earl K. White Terzo, un amministratore d’impresa. Joan escogiterà le mosse giuste per adescarlo e sedurlo, tanto da riuscire a sposarlo dopo aver abbandonato il passionale Tom. Il piano però non va esattamente come premeditato. Il vecchio Earl desidera il fisico della protagonista sebbene soffra di angina pectoris. Joan però ne è disgustata, tanto da spingerlo tra le braccia di una prostituta. Ed è così che si giunge al secondo omicidio. White si concede fisicamente alla prostituta e ha un attacco fatale. Nel cadavere dell’uomo viene trovata una sostanza ben nota alla protagonista: talidomide.

Si svolge il funerale del secondo marito e Tom ritorna all’attacco. Joan ci ricasca: fuga amorosa, secondo incontro passionale, secondo abbandono. Il mattino seguente, colpo di scena: si assiste all’arresto definitivo della protagonista per la morte di Tom Barclay, trovato esanime in bagno con i polsi tagliati e una siringa impregnata di talidomide. Joan, alla fine, scampa la prigione per mancanza di prove. O meglio, per l’ottimo avvocato che riesce a permettersi grazie ai quattrini del defunto marito. Così Joan non solo si riprende il figlio Tad portatole via dalla sorella del primo marito, ma al terzo funerale scopre di essere incinta di Tom. Il romanzo si chiude sulla nascita prossima di questa bambina, e sulla chiusura del nastro che la scagionerà – almeno in parte – dalle accuse infamanti che i media rivolgono alla “ragazza dei cocktail”.

La ragazza dei cocktail è un noir al femminile dalle tinte fosche, un romanzo enigmatico e un ritratto fedele dell’America economica e sociale di quegli anni. James M. Cain crea un personaggio di difficile interpretazione, un vero “mostro femminile” della pianificazione sia psicologica che sociale.

La vera genialità del libro sta nell’enigma della protagonista, e non tanto in quello dei tre omicidi. Joan è una personalità superbamente modellata. È fredda ma passionale e irruente nei modi, cinica ma sensuale, tutte caratteristiche che la rendono la vera chiave di volta del romanzo.

Basterà leggere la storia parola per parola per arrivare a un’interpretazione degli omicidi? Sarà pronto il lettore a vestire i panni dell’investigatore? A lui l’ardua sentenza.


(James M. Cain, La ragazza dei cocktail, trad. di Marco Rossari, Isbn Edizioni, 2013, pp. 253, euro 19,90)

“Effetti collaterali” di Steven Soderbergh

A due anni di distanza da Contagion Steven Soderbergh e lo sceneggiatore Scott Z. Burns tornano a lavorare insieme in Effetti collaterali per un nuovo thriller che indaga sulle attività non sempre lecite delle grandi industrie farmaceutiche.

Emily è una giovane donna caduta in depressione dopo che ha visto il suo ricco mondo di benessere newyorkese crollare con l’arresto del marito Martin, finanziere finito in carcere per insider trading. Dal villone all’appartamentino in città il passaggio è traumatico, ma Emily spera che la prossima scarcerazione del marito possa giovare al suo stato psichico. Si sbaglia. Il giorno dopo il termine della pena, dopo la prima notte in compagnia del marito in quattro anni, la donna si schianta con l’auto contro un muro nel garage del suo ufficio. Un incidente, un tentativo di suicidio, in verità, da cui esce illesa ma che la porta a intraprendere un percorso terapeutico con il dottor Banks, giovane e ambizioso psichiatra che le inizia a somministrare psicofarmaci fino a trovare il medicinale perfetto, Ablixa. Apparentemente, le pillole la fanno uscire dalla depressione e le garantiscono una vita normale. Unica controindicazione: degli episodi di parasonnie, momenti di sonnambulismo in cui si dedica a preparare la cena per il marito, per sé, e per un misterioso terzo ospite. Un giorno Martin viene trovato morto accoltellato nell’appartamento. Tutti gli indizi sembrano condurre alla moglie, ma lei non ricorda nulla. Sarà il dottor Banks a scoprire la verità, rischiando la propria carriera e la propria famiglia.

È un thriller che funziona, Effetti collaterali. Ha tensione, ha ritmo, un argomento interessante e di costante attualità negli Stati Uniti (il consumo di psicofarmaci è abitudine socialmente accettata e in costante espansione Oltreoceano, in crescita anche da noi negli ultimi anni). Soderbergh e Burns, come già in Contagion (senza dubbio il film più vicino a Effetti collaterali nell’ormai ampissima produzione del regista), aprono una porta sul mondo enorme e intricato dell’industria farmaceutica, ma non vi entrano, si limitano a osservarne i movimenti dallo spiraglio che si è rivelato.

L’intento della coppia non è quello di fare una denuncia giornalistica, un’inchiesta sulle guerre tra i colossi della psicofarmaceutica e sui mezzi cui sono disposti a ricorrere per primeggiare sul mercato, ma di raccontare una storia che si intreccia con una realtà più grande di interessi finanziari e giochi borsistici.

Il dottor Banks interpretato da Jude Law non si lancia alla ricerca della verità sull’omicidio di Martin (Channing Tatum) per ribaltare i colossi, ma per difendere e riconquistare il proprio ruolo all’interno del mercato delle pillole con tutti i privilegi economici che ne derivano. Non ci sono eroi, Don Chisciotte o mulini ipotetici. Come già per il blogger di Contagion, il personaggio di Jude Law insegue un compromesso con la verità che possa fargli comodo, che possa essergli utile.

L’imperturbabile Emily Taylor di Rooney Mara, indecifrabile e fragile, soffre la perdita del livello sociale molto più che la detenzione del marito. L’amore non le basta per uscire dal letargo emotivo, così come non basta a Martin, che appena uscito di galera cerca subito il modo per recuperare il suo posto nell’alta società, per inserirsi, nuovamente, in quel mondo di affaristi che ha lasciato che l’autorità lo espellesse e che lo ha abbandonato non appena è finito in carcere. È la difesa e la lotta per il mantenimento dello status quo ad accomunare i tre personaggi. È la difesa e la lotta per il mantenimento dello status quo a determinare l’evoluzione dell’intreccio.

Finché non si perde nell’inutile risvolto saffico che determina e anticipa il forzato finale, Effetti collaterali mantiene le premesse proprie del thriller d’indagine affrontando una realtà mai sufficientemente dibattuta a Hollywood.

Il gelido e improvviso omicidio di Martin si inserisce, senza dubbio, tra le sequenze da ricordare.

 

(Effetti collaterali, di Steven Soderbergh, thriller, 2013, 106’)

 

Calipardi

«Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s’io m’arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo […] Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia».

E fa un po’ impressione, a leggersi. Perché la lettera è al Giordani (30 Aprile 1817) e il mittente è lui, certo: Giacomo Leopardi.

Ora, delle due l’una: o il compianto Califfo ha letto, come a me toccò in sorte dieci anni fa per l’ennesimo trenta, l’Epistolario, o la sensibilità dell’autore di Minuetto (sì, ma anche di Avventura con un travestito…) è la stessa di un pilastro al colonnato dei nostri lirici e pensatori.

A me prese, letteralmente, un colpo. Mi ripromisi, con l’entusiasmo del ricercatore che scova una chicca e confortato dalle competenze in nuce di linguista (fermavo colleghi a caso e frenetico, rammento, dicevo: «Ti rendi conto? In posizione marcata! In posizione marcata!») di chiederlo de visu al Califfo.

E immaginavo la risposta, al mio: «Maestro, ma lei per caso ha letto…» La pregustavo così: «E grazie al cazzo! Timpanaro ’97, no?!»

Non sarebbe potuto essere altrimenti, lo so. Ne sono certo. Ma non ho fatto in tempo. E mi secca, mi secca parecchio. Per puntiglio di studioso, forse, o punta di vanità (c’è differenza?). Non posso più dire l’avevo detto. Ma mi rimane il gusto d’essermene accorto, quello sì, io per primo. Forse, io solo. Perché non è al repertorio dei colleghi, l’opera del Califfo. E che peccato.

Sarò di parte, sarò affabulato del dolce satiro che ai miei occhi il Califfo è sempre stato, ma io ancora penso che non sia poi tanto distante dal catulliano Odi et Amo, quel magnifico altro verso-manifesto che recita semplice, e universale vale: «La mia mente si ribella a te / Il mio corpo no».


Buone seduzioni Celesti, Franco.

“Mappe e leggende” di Michael Chabon

Mappe e leggende – Avventure ai confini della lettura, di Michael Chabon, è un testo composto di sedici saggi che intende evidentemente la letteratura come un viaggio e, di conseguenza, la critica come una mappa. Con uno stile divertente e divertito («Leggo per intrattenimento e scrivo per intrattenere»), l’autore tenta di affrontare la delicatissima questione della qualità letteraria. Che cos’è la letteratura di genere?

Chabon parte dal presupposto che l’intrattenimento si leghi al piacere e che nell’immaginario collettivo questo vincolo abbia assunto un’accezione negativa. L’eventuale presenza di intrattenimento&piacere nell’arte attiva un meccanismo che degrada l’opera: «Le persone intelligenti devono mantenere una certa distanza dai suoi prodotti. Devono maneggiare ciò che le intrattiene con i guanti dell’ironia e con le pinze del postmoderno […] Forse però queste persone serie e intelligenti hanno torto».

Chabon può quindi guidare il lettore attraverso due strade percorribili: o interrogarsi sulla mercificazione dell’arte, ma l’ha già fatto tempo fa Walter Benjamin ed è difficile aggiungere qualcosa all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, oppure analizzare i fattori che hanno influenzato negativamente il concetto di intrattenimento e coglierne le implicazioni. Davanti a questo bivio, l’autore sceglie una terza via: attrarre il lettore nel mondo dello stesso Chabon che si misura con l’essere un critico, ma anche un fan come tanti. Chabon presenta così gli autori e i testi che fanno parte della sua formazione e che arricchiscono di esempi la sua tesi.

La tesi è che la letteratura di genere ha degli ingranaggi consolidati entro cui ingabbiare la storia. Ma la vera letteratura è libera, quindi un’opera nata nel vincolo della regola è un prodotto scadente. Tuttavia abili scrittori, come Conan Doyle, conoscono la regola così bene da poterla rispettare o sovvertire dando vita a dei capolavori che si muovono tra «le terre di confine». Calvino, Borges, Aickman sono come i bricconi mitologici: eroi e mascalzoni che creano scompiglio e spingono a porsi delle domande. Il limite imposto dal genere si dimostra allora il trampolino di lancio verso la libertà. Ecco perché un romanzo per ragazzi, se analizzato nei suoi meccanismi, può essere apprezzato soprattutto in età adulta. Gli editori e i librai però preferiscono dare un’etichetta ben precisa ai libri, occultando «gli scaffali segreti» dove i testi si muovono tra un genere e l’altro.

Il carattere segreto e misterioso di questi testi che si muovono tra i generi si collega all’idea di letteratura come magia, dove il potere della parola dà vita a una storia che è ancora un ammasso informe di possibili intrecci.

Sebbene la tesi sia condivisibile (e a dire il vero già sostenuta da altri predecessori illustri), Chabon evita di soffermarsi sulla questione della letteratura di consumo che probabilmente sarebbe un’antitesi difficile da gestire. L’autore si ritrova così a nobilitare la cultura pop e “bassa” con lo stesso atteggiamento di chi l’ha screditata, cioè senza considerarla nel suo insieme. Ne risulta così che l’idea di paragonare l’esercizio di analisi a uno strumento di guida (una mappa) tradisce quella visione un po’ superata del critico vate che orienta le masse. Peccato.


(Michael Chabon, Mappe e leggende – Avventure ai confini della lettura, trad. di Francesco Graziosi, Indiana, 2013. pp. 252, euro 17,50)

“Urge” di Alessandro Bergonzoni

La scrittura di Alessandro Bergonzoni è un universo unico e inconfondibile dove perdersi e ritrovarsi. Urge di Alessandro Bergonzoni lo sintetizza al meglio ma è anche qualcosa in più, è uno sguardo, talvolta anche feroce, sul mondo e sulla sua vastità attraverso l’incontenibile flusso verbale dell’attore, che riesce ancora a incarnare nella scrittura sia Achille Campanile che Eugene Ionesco.

Si ride, tanto. Ci sono momenti irresistibili, incalzanti, e si esce frastornati. L’autore attacca costantemente il pubblico, lo invita dapprima a perdersi per i suoi vicoli fitti e stretti, nel suo labirinto di parole e storie assurde, e poi lo lascia completamente in balia di se stesso. Si tratta di un teatro della differenza, dove la stessa storia viene ampliata, frammentata, volutamente distorta per tastare i limiti della narrazione e del linguaggio.

Il teatro di Bergonzoni è complesso perché non si chiude in una struttura ben delimitata ma sconfina fino a parlarci del mostruoso, rimanendo a metà tra significante e significato. Lo spettatore è disorientato, un disorientamento gestito però da un processo logico. Con Urge vuole spingerlo ancora di più verso una situazione di disagio, la parola diventa astratta ma non è mai corpo morto, fa emergere sempre situazioni diverse, esilaranti, deliranti.

Bergonzoni si costruisce tante maschere paradossali, percorre diverse alternative di narrazione, ma ciò che rende unica la sua drammaturgia è l’iperbolico passaggio da uno stadio all’altro del linguaggio con naturalezza e quel piacevole effetto straniante che ci lascia.


Urge
scritto e interpretato da Alessandro Bergonzoni
regia Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi
scene Alessandro Bergonzoni

Spettacolo andato in scena presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma il 20 aprile 2013.


Prossime date:
23-26 maggio 2013 – Teatro Elfo Puccini, Milano


Per ulteriori info:
http://alessandrobergonzoni.it/eventi/p/urge.htm

“La petite” di Michèle Halberstadt

«Non so se mi facesse soffrire di più il lutto o il fatto di esserne stata lasciata all’oscuro. A scoppio ritardato il dolore soffoca ancora di più. Non tiene il ritmo, non ha misura. Vive al di fuori del ciclo del giorno e della notte, della cerchia di chi si dispera e di chi si consola. Tutto era già stato detto, urlato, pianto senza di me. Il mio dolore era fuori dal tempo, atemporale, e dunque infinito».

Si esprime con queste semplici parole profondamente drammatiche la piccola protagonista di La petite, un romanzo di Michèle Halberstadt pubblicato da L’orma editore.

Il punto di partenza della storia è un incipit folgorante che spinge il lettore a leggere tutto d’un fiato il romanzo per comprendere le motivazioni profonde di un dramma annunciato: «Ho dodici anni e questa sera sarò morta».

Al centro della storia c’è, dunque, quale unica gigantesca figura, una bambina che ha subito una perdita incolmabile: la morte del nonno.

Nelle poche ore che le restano da vivere la petite racconta l’impossibilità di affrontare la vita. L’unico desiderio che si manifesta e grida dentro di lei è la volontà di un oblio senza fine: «Mi lascino morire in pace… è tutto quello che chiedo».

Non c’è amore intorno a lei né considerazione, le tenerezze infantili non appartengono alla sua famiglia, l’unica persona in grado di ascoltarla, il suo angelo custode,è scomparsa ormai da tempo: «Diceva che ero il suo “sole”, ma fu il mio quello che portò via andandosene».

Ovunque si rivolga avverte soltanto rimproveri e sentenze. La figura della madre si staglia severamente come un giudice dall’alto di un tribunale. La maiuscola con cui compare nel testo la parola «Mamma», la sottrae a quell’aura di tenerezze e amore che evoca da sempre. Anche quando la madre è presente non concede il diritto di replica, soffoca la sensibilità della figlia, ora con uno sprezzante giudizio per la mediocrità della bambina, ora alzando muri invalicabili in nome della buona educazione: «La Mamma continua a tenermi il muso».È presente ma distante – «mi prende sottobraccio ma senza dolcezza». I pietosi tentativi di spiegazione della piccola s’infrangono contro un mutismo a oltranza.

Non bisogna dimenticare che la vicenda si svolge nella Parigi degli anni ’60. La tirannia della madre è ancor più accentuata da un padre assente e conformista: «Mio padre era un vero capofamiglia, nel senso morale del termine. Una persona scrupolosa e onesta, rigorosa e corretta. Andava a lavorare alle sette e mezza del mattino e rientrava verso le sette di sera, talmente distrutto che non mi sarebbe mai venuto in mente di tediarlo con le mie angosce».

È un libro inquietante La petite, poiché mostra l’abisso insondabile tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti: dietro un’apparente calma e impassibilità di «topino» obbediente (tale si considera, vedendosi in un specchio deformante, la protagonista) si cela la lucida volontà suicida di chi pensa di non avere più respiro.

Lo smarrimento e il senso di isolamento profondo si rispecchiano in una scrittura in cui si fatica a respirare, le fonti di luce sono inaccessibilmente lontane o coperte da tende che oscurano il sole. A tutto ciò si aggiunge lo scorrere del tempo a una doppia velocità: da un lato la percezione delle ore che passano lente per la giovane – infatti dopo aver ingerito i sonniferi, va a scuola da brava ragazza come ogni mattina e proprio in questa giornata, l’ultima della sua vita, racconta la sua triste storia prima di addormentarsi, forse per sempre. Dall’altro lato, intorno a lei tutti si affannano presi dal panico per cercare di salvarla con un intervento tempestivo – il medico di famiglia scandisce le ore controllando le lancette dell’orologio che girano vorticosamente: «Sento la sveglia sul comodino. La lancetta della sveglia è l’ultimo ricordo che ho».


(Michèle Halberstadt, La petite, trad. di Elena Cappellini, L’orma editore, 2013, pp. 132, euro 13,50)

“Partigiano Inverno” di Giacomo Verri

Scelta coraggiosa scrivere di un momento cruciale della storia italiana a distanza di settant’anni. C’è chi la Resistenza l’ha fatta e ne ha scritto. Per tentare di appassionare, senza confondersi con i precedenti illustri, Giacomo Verri, l’autore di Partigiano Inverno, edito da Nutrimenti (2012), carica il linguaggio e sprofonda nell’inverno della Valsesia del 1943.

Ogni capitolo un giorno del mese di dicembre per scandire una trama sospesa, dilatata e quasi tutta condensata nel finale, fatta di pensieri e di riflessioni dei tre personaggi: un professore in pensione, Italo Trabucco, che vive senza agire quando, bene o male, tutti sono costretti a prendere parte, con la testa o con il corpo; Jacopo Preti, studente innamorato, come Milton di Una questione privata di Fenoglio, che mentre sopporta il gelo delle notti da partigiano sul Monfenera pensa alla «bellissima Flora calda tra le coperte»; infine un bambino di dieci anni, Umberto Dedali, che inizia a capire cose più grandi lui e a voler partecipare attivamente.

Tre generazioni che si confrontano con uno degli eventi più delicati e difficili della storia di un popolo, la guerra civile e la rivalsa dell’orgoglio nazionale per la liberazione del paese. Verri affida soprattutto a Umberto questo gravoso compito, rendendo, senza retorica, l’antinomia Fascismo-Resistenza nella sua amicizia infantile con Gabriele, figlio di un “nero”.

In questo romanzo costruito con minuziosa attenzione non possono passare inosservate le descrizioni naturalistiche, che si presentano al lettore «con evidenza ipotipotica» ed è forse uno degli aspetti più affascinanti di questo testo.

Tuttavia, la prima cosa che colpisce, già dalla prima pagina, è la lingua, secondo Giacomo Verri quarto personaggio che muta e si evolve nel corso della narrazione con l’intento di essere «una sberla semantica» e di assisterlo nella narrazione di un passato lontano che necessita di una lingua antica. Effettivamente l’autore riesce nell’intento, dando vita a una prosa elegante, a volte un po’ barocca, infarcita di termini desueti e dialettismi ricercati, ed è innegabile la difficoltà nello scorrere le pagine di questo libro che ha bisogno di tempo, intuito e preparazione per poter essere apprezzato appieno.

Indubbiamente è un’opera prima di valore, ed è impressionante la serietà di Verri nella documentazione storiografica, nonché la consapevolezza e la gestione delle ascendenze letterarie che lo hanno accompagnato nella stesura del suo libro. Non è un caso, quindi, che sia stato finalista al Premio Calvino nel 2011, perché questo giovane professore sembra avere un’originalità nella sua penna che da tempo non riscontravo.


(Giacomo Verri, Partigiano Inverno, Nutrimenti, 2012, pp. 237, euro 17)

“L’isola delle lepri” di Anna Maria Falchi

«Laggiù, sull’Isola delle lepri, tra roccaforti di pietra e castelli immaginari abitati da fantasmi», esiste una Sardegna diversa da quella cui noi tutti siamo abituati a pensare, senza bikini, yacht e locali luccicanti: la selvaggia Cala d’Oliva all’Asinara, Sorradile, Cagliari, Soadras, raccontate, in questo romanzo d’esordio di Anna Maria Falchi, dalla fine degli anni Venti a oggi, attraverso le varie generazioni di una famiglia, quella dell’autrice, che si passa di volta in volta un terribile testimone.

Un luogo aspro, popolato da conchiglie, cangianti “occhi di Santa Lucia”, «cinghiali, asini, capre, maiali, cavalli, detenuti e prigionieri di guerra. […] un’isola in cui il tempo pareva sospeso, prigioniero del caldo e del silenzio durante l’estate, rassegnato al vento e al fragore delle onde del mare durante l’inverno». Un po’ le umili condizioni, un po’ l’isolamento rispetto a realtà più civilizzate, un po’ la scarsa istruzione e la mancanza di mezzi, e un po’ il difficile periodo storico del «signor Duce», sono tutti ingredienti-cause dei crudi fatti narrati.

Antonello è il primo: Aldo «lo afferrava tra le braccia, e simulando un combattimento corpo a corpo, come facevano gli antichi gladiatori di cui tanto gli aveva parlato, gli accarezzava la testa, la schiena, le gambe, il sesso». Francesco è il secondo: «Sognava di volare, […] via da quel paese silenzioso, capace di nascondere rancori antichi e vendette atroci. […] Immaginava di planare in quell’enorme specchio d’acqua, di prendere Mariuccia e portarla via, così com’era, nuda, bagnata e innamorata». Ma una notte… quattro colpi di fucile hanno reso la sua pelle «bianca come una nuvola estiva». Poi viene il turno di colei che narra: «Con gli ortaggi coltivati nel cortile preparavo manicaretti per le bambole, con l’acqua mescolata alla terra facevo il caffè per le mie ospiti immaginarie», e un giorno Mario era lì, «appoggiato al muretto del pollaio che mi fissava, cupo, ma con uno sguardo diverso dal solito […] Aveva una mano infilata nei pantaloni e una grande macchia all’altezza della cerniera». In seguito la tragedia investe lo stesso Mario: i fratellini non riuscivano a capire «come potesse tenersi attaccato alla trave del soffitto, visto che le braccia ciondolavano lungo i fianchi». E tutto si conclude con un ennesimo dramma che coinvolge nuovamente Antonello, come a chiudere un tragico cerchio metallico unto di silenzio e arrugginito dal dolore: «Non riuscivo a vederlo, guardavo in alto, invece era qui, a pochi centimetri da terra».

L’isola delle lepri non è un romanzo morbido. È acuminato come una coltellata. Ma l’accattivante originalità descrittiva e l’intensità di sentimenti espressa alleviano la lettura facendo percepire davvero l’odore di quel mirto, il biancore di quelle nevicate di pecorino sugli gnocchi, il colore turchino di quel mare, la terra bagnata sotto a tutti quei piedini scalzi.

Forse tra gli ingredienti c’è anche qualcosa di autobiografico? Chissà. Si ha quasi la sensazione che Falchi, in certi punti, abbia desiderato uno sfogo, un inedito spirito di denuncia. Potrebbe trattarsi solo di una suggestione, eppure a mio parere mai titolo più adatto è stato scelto per un concatenarsi di vicende all’insegna di un coraggio mancato, riscattato in ultimo dall’autrice, calatasi negli eventi come stremata ma rivoluzionaria coprotagonista.


(Anna Maria Falchi, L’isola delle lepri, Guanda, 2013, pp. 211, euro 15)

“Alighiero Boetti a Roma” al MAXXI

La prima grande mostra del 2013 del Museo MAXXI di Roma, inaugurata il 23 gennaio, è dedicata alla memoria di uno dei più prolifici artisti della seconda metà del Novecento italiano: Alighiero Boetti. L’evento, curato da Luigia Lonardelli e ospitato presso la struttura romana fino al 6 ottobre, si propone di trattare con circa 30 opere la produzione dell’artista dal momento del suo trasferimento a Roma nel ’72, partendo principalmente da due spunti analitici: l’anima afghana di Boetti, che nello stato mediorientale ha soggiornato e lavorato nel corso degli anni Settanta, e il coevo contesto artistico della capitale italiana al quale accennano le opere di Luigi Ontani e Francesco Clemente, amici e “compagni di strada” di Alighiero, che come lui subiscono il fascino del viaggio e della contaminazione.

Ad aprire la mostra la ripresa fissa sui laghi di Band-e Amir, in Afghanistan, a opera di Jonathan Monk, che ritrae proprio i luoghi in cui Boetti avrebbe voluto fossero sparse le sue ceneri, volontà che tuttavia, per ragioni politiche, non ha potuto essere esaudita. L’opera, “Untitled and Unfinished”, suggerisce così, dall’inizio del percorso espositivo, la profonda influenza che quei territori, i loro colori, la peculiare estetica e persino la loro lingua hanno avuto sull’operato dell’artista. Monk non manca, inoltre, di suscitare una riflessione circa la sovradeterminazione esercitata dalla politica internazionale sulla vita di Boetti, che già dal ’79, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, si era visto impossibilitato ai suoi consueti, lunghi soggiorni in quei territori. Quella stessa politica delle conquiste e delle guerre, che ridefinisce costantemente i confini nazionali, più volte ritratta dall’artista nel ciclo di arazzi “Mappe”, di cui sono in mostra un esemplare in collezione stabile e uno, inedito, offerto al MAXXI in comodato d’uso da Matteo Boetti.
 


Gli stati sono qui raffigurati con i colori delle rispettive bandiere su ideazione dello stesso Boetti, che tuttavia affida la realizzazione («delega», come sottolinea la moglie Anne Marie Sauzeau, direttrice dell’archivio Alighiero Boetti, che ne fa un concetto chiave dell’opera boettiana) a gruppi di ricamatrici afghane.

A ricamo sono realizzati anche i 51 pannelli frutto della cooperazione con il poeta Berang, datati 1989, che vedono l’alternarsi di testi in caratteri latini con altri in farsi, in un dilagare coloristico che invade interamente tre pareti. La forza del colore è certamente una delle caratteristiche di più immediata percezione delle opere in mostra, le quali vanno a costituire il percorso attraverso cui l’esposizione intende rimarcare il passaggio dalla fase poverista, attraversata nella plumbea Torino, a quella del successivo periodo romano. È in questo momento infatti che l’artista scopre per sua stessa ammissione una nuova luce, ispiratrice di quella «opulenza cromatica» rilevata da Achille Bonito Oliva, già curatore della mostra dedicata a Boetti al MADRE di Napoli nel 2009.
 


L’evento è stato inaugurato contemporaneamente all’intitolazione, su suggerimento di un sondaggio online promosso da Exibart, della piazza esterna del MAXXI allo stesso Alighiero Boetti, segno di un ricordo ancora fulgido e tangibile nella cultura romana (e non solo). Certamente è apprezzabile e comprensibile il desiderio di raccontare, nelle loro numerose e complesse sfaccettature, gli anni romani dell’artista; va anche registrato, tuttavia, come l’ambizione di un progetto potenzialmente così vasto, privo di un esplicito limite contenutistico o formale di sorta, sia in parte disattesa dal ridotto numero di pezzi esposti. Un suggerimento interessante per l’osservazione delle opere è invece offerto dalla decisione, di cui si è detto sopra, di affiancare a quelli di Boetti, alcuni lavori di Ontani e Clemente, artisti e amici che con lui condividono la pratica di un’arte aperta, esplorativa, internazionale. Altro elemento di notevole interesse, infine, è costituito dalla presenza di inediti e pezzi raramente esposti, come ad esempio le due tele “Orme”, presentate prima di oggi solo alla Biennale di Venezia nel 1990.


Alighiero Boetti a Roma
MAXXI, via Guido Reni 4, Roma
23 gennaio – 6 ottobre 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.fondazionemaxxi.it

“La famiglia Karnowski” di Israel Joshua Singer

Israel Joshua Singer (1893-1944), fratello maggiore del molto più noto Isaac Bashevis, fra le altre cose scrisse un corposo romanzo, La famiglia Karnowski, che ora è possibile leggere in italiano nelle edizioni Adelphi. Scriveva in yiddish, Singer, condannandosi perciò da se stesso a una certa marginalità. Il libro, pubblicato nel 1943 a New York,offre una possibilità inedita per il lettore italiano, che si trova di fronte intanto una storia di famiglia, di svolte generazionali interne a un ceppo ebraico che corrono impastate agli sviluppi storici dell'Europa nei primi decenni del '900. Fino alle soglie della tragedia che tutti conoscono.

All’inizio incontriamo David Karnowski, ebreo polacco, noto come tutti i componenti della sua famiglia per il «carattere testardo e provocatore» ma altresì per la «vasta erudizione e l'intelligenza penetrante». Combinazione non favorevole all'incontro con atteggiamenti culturali particolarmente chiusi, oscurantisti, come quello chassidico dello shtetl col quale è presto costretto a fare i conti.  David, poco tollerato a sua volta, decide di trasferirsi con la moglie a Berlino.Una malintesa Germania, la lingua tedesca, una certa idea di cultura improntata a un ebraismo illuminista sono quanto di meglio si offra alla sua immaginazione. David però è anche un commerciante agiato, che si muove con opportunismo fra esigenze culturali e materiali; il suo bisogno di integrazione, favorito dal principio che occorra essere «ebreo tra gli ebrei, tedesco tra i tedeschi» ignora l'impossibilità di perimetrare il mondo secondo i propri calcoli. Col passare del tempo emerge una certa rigidità (spia ne è il rapporto difficile con il figlio George), in fondo una paura di non essere all'altezza degli obiettivi che si è proposto. Motivo, quello di voler «diventare come gli altri», che nello svolgersi degli avvenimenti assume un valore sempre più drammatico. Le spinte nazionalistiche, identitarie e guerrafondaie cominceranno ben presto a mappare (e a macchiare di sangue) l'Europa a ogni angolo. La patologia nazista è prossima. Essere un ebreo, con tutte le cautele della giovinezza, è un destino che a un certo punto ti chiede il conto. Saranno il figlio e il nipote (il libro è diviso in tre parti) a misurarne gli effetti violenti. La parabola della casata si costruisce lentamente ma senza interruzioni. Fino al punto in cui il cerchio si chiude: il nipote di David, Jegor, si trova, adolescente, schiacciato dall'ideologia del Führer e ha vergogna del suo essere ebreo. Il padre, George, decide di abbandonare quella Germania che da paradossale “terra promessa” di David è diventata l'inferno. Ma non è detto che tutto funzioni per il meglio.

Una narrazione dall'impostazione ottocentesca, nella prima parte a tratti lenta, in cui i dettagli degli ambienti, degli incontri sociali sottolineati persino dai convenevoli più triti, danno l’impressione di trovarsi di fronte un materiale ancora da levigare. Salvo accorgersi con lo sviluppo della storia che era tutto necessario (e certi momenti, come la reinvenzione del quartiere ebraico di Scheunenviertel, sono godimento puro), e che Singer ha soltanto voluto squadernare tutto il possibile per rendere il clima sociale e psicologico di un certo mondo e mostrarne al lettore l'inconsapevole avvicinamento alla sciagura. Un romanzo-mondo prezioso.


(I.J. Singer, La famiglia Karnowski, trad. di Anna Linda Callow, Adelphi, 2013, pp. 498, euro 20)

“Figli dello stesso padre” di Romana Petri

Che uso fa il tempo del nostro rancore o della nostra felicità? L’ultimo romanzo di Romana Petri, Figli dello stesso padre (Longanesi, 2013), studia l’azione erosiva del tempo, implacabile e sorprendente, alla quale sottopone l’astio e l’orgoglio fra due fratelli.

L’esigenza di narrare, spiega l’autrice, è di riflesso legata all’illusione di poter ampliare il proprio tempo, esplorando una zona esistenziale, che pur intersecandosi con la propria biografia, si sbarazza del realismo. Affine alla classicità greca, la narrazione di Petri riflette un’unione fruttuosa, nel lessico e nei temi, fra quotidiano e trascendente e fra presente ed eterno, ponendo al centro del proprio interesse le passioni morali e affettive degli uomini, tanto che il primo manoscritto che una giovane e temeraria Romana Petri spedì a Giorgio Manganelli ricevette un giudizio molto positivo.

Prossimo ai cinquant’anni e all’apice della carriera artistica, Germano sente che è il momento di ricucire gli strappi che hanno costellato il rapporto con Emilio, il fratello minore. Figli dello stesso padre, Giovanni, insicuro ed egocentrico, i due hanno madri diverse: Germano è nato infatti dal matrimonio con la colta e smaliziata Edda, dalla quale Giovanni divorzia per Costanza, ormai incinta di Emilio, senza però interrompere le frequentazioni precarie e assidue con altre donne. Secondo l’adagio classico, sui figli ricadono le colpe del padre, incapace di garantire la propria presenza ai figli in modo costante e coerente. Così, a nove anni, Germano si è arroccato in un pesante rifiuto verso il fratellastro e la donna che accusa di aver sfasciato la sua famiglia, per quanto Edda abbia smentito la sua tesi, prima sposandosi con l’equilibrato Duarte, e poi appoggiando Costanza, che si era illusa della fedeltà di Giovanni.

Il temperamento molto diverso dei fratelli influirà sulle loro scelte di vita: il maggiore si è dedicato alla pittura, con la quale fronteggia il nichilismo e le frenesie estemporanee dei suoi legami con le donne. Da piccolo, ha convogliato tutte le attenzioni del padre su sé, riproducendo da adulto lo stesso esasperante squilibrio, bilanciato però dall’accortezza ragionata della madre, alla quale tiene molto. Edda è caparbia e sicura, e capace di ascoltare e consigliare il figlio e, nelle intenzioni di Petri, sul modello del coro femminile greco, si fa interprete dei sentimenti maschili. Da parte sua, Emilio pare aver sconfitto i complessi di inferiorità verso il padre e Germano grazie a una vita regolare, una moglie fedele e due figli amorevoli e otto anni di terapia. Fin da ragazzo ha scelto di studiare con abnegazione, prima laureandosi a pieni voti in matematica, poi lavorando in atenei prestigiosi fino alla cattedra a Pittsburgh. Tuttavia, Emilio, invitato a Roma alla mostra di Germano, non potrà sottrarsi al richiamo del sangue ed è il più determinato a cercare la rappacificazione.

Il conflitto tra i due fratelli orienta la narrazione verso una galleria di ricordi familiari teneri, burrascosi, malinconici che alternano le prospettive dei due personaggi, attraverso i quali Petri crea una polarità vivida e commovente fra dionisiaco e apollineo, istinto e prudenza, in un percorso di reciproca agnizione esaltato dalla scrittura precisa e raffinata e dal timbro tragico, fino alla catarsi, senza smagliarsi. Un solo appunto: il capitolo sulla mostra ha una qualità nettamente superiore, che al contrario sbiadisce in certi afflati psicologici, solo in parte riscattati dai dialoghi.


(Romana Petri, Figli dello stesso padre, Longanesi, 2013, pp. 297, euro 16,40)

Rover, l’album d’esordio

Generose divinità del Rock permettono di proseguire qui su Flanerí la recente carrellata di notevoli artisti. Abbiamo conosciuto Jon DeRosa, il crooner tatuato di Brooklyn, i fantasmi di Grant, e ora tocca a un altro esordiente: Rover.

Un bel personaggio anche lui: francese (il vero nome è Timothée Régnier), ex chitarrista dell’alternative rock band franco-libanese New Government, compagno di liceo di alcuni Strokes. Poi il grande passo: diventare chansonnier. Sceglie il nome d’arte omaggiando la casa automobilistica anglosassone e abbandona la lingua madre per decantare le sue opere in inglese. Dopo queste coraggiose decisioni, Rover compie il gesto più importante: incide un disco d’esordio, omonimo e magnifico.

La sensibilità e il sentimento delle canzoni sembrano quasi contrastare con la stazza possente del cantautore transalpino. Bastano pochi ascolti, per capire la profondità dei versi. Stando alle parole dell’autore, Rover è un disco di vicende che nonostante le loro potenzialità, non hanno avuto un lieto fine. In molti brani si rimpiangono «i giorni di sole», ma non si scivola mai nel depresso: anzi, con tono fiero, si rivive e rievocano sentimenti e situazioni. Musicalmente il disco è eterogeneo e risente a livello strumentale di vari modelli: da Bowie, Lennon, Gainsburg ai più recenti e coetanei Lanegan e Banks. Un rock cantautoriale con sottotracce elettroniche.

Se Rover è un lavoro stupendo, merito va soprattutto al timbro vocale dell’autore. Baritonale, profondo, romantico quanto sofferto, capace di drammatico struggimento, ma anche di dolci e malinconici falsetti. Ascoltate pezzi come “Remember” e “Carry On” (quest’ultimo è un pezzo dalla bellezza davvero sbalorditiva): sarà poi impossibile separarsene, talmente coinvolti dall’emotività e dalla bellezza. Idem vale per i singoli “Aqualast” e “Lou”. Nella conclusiva “Full of Grace” Rover raggiunge l’apice: accompagnato dalla fedele e infuocata Rickenbacker, il francese sfodera un brano veramente immenso e indimenticabile, dove il fuoco del ritornello brucia qualsiasi cosa. Ed è solo l’apice conclusivo di un esordio completo e riuscito, che sicuramente lancerà l’artista verso lidi ancora più alti. Nella speranza che gli dei del Rock non distolgano lo sguardo da questi fantastici artisti.


(Rover, 2012, Wagram)