Libreria “Il Corsaro”. La cultura del libro.

“DietroLeQuarte” vi porta anche questo mese alla ricerca dei luoghi dove i libri respirano. Anche questo mese siamo usciti per le strade di Roma e, questa volta, per immergerci nella scoperta di uno dei suoi quartieri più tipici, il Pigneto, dove abbiamo incontrato la libreria Il Corsaro.
Se guardando dalla strada ci soffermiamo per un momento sul piccolo veliero che costeggia l’insegna a tinte azzurre, come il mare che solca, entrando non possiamo non accorgerci che dietro il veliero, proprio sopra le nostre teste, c’è pronto il mitico Yellow Submarine dei nostri amici di Liverpool, quasi a farci capire che stiamo per andare sotto il livello del mare, sprofondando in un oceano di scaffali e pagine che hanno l’odore dei libri.

È così che ci si mostra Il Corsaro, uno spazio aperto e profondo che non permette di fare un solo passo al suo interno senza dare allo stesso tempo la possibilità di soffermarsi sulle migliaia di titoli disseminati in ogni angolo. Un percorso che ha ai suoi lati dei piccoli rialzi in legno che, come dei moli, ci permettono di salire a pochi centimetri da terra, facendoci scorrere agevolmente dagli scaffali di poesia a quelli di narrativa che, insieme ai libri di politica e attualità, costituiscono il cuore della proposta della libreria.
 


Una libreria che si pone come primo obbiettivo la voglia di trasmettere cultura già a partire dal suo nome, preso in prestito da quegli Scritti corsari provenienti da una delle figure che prima di tutte hanno iniziato questo percorso qui al Pigneto, Pier Paolo Pasolini, figura a cui Il Corsaro ha dedicato uno spazio speciale, ricostruendo ogni passo della sua opera dalle edizioni più introvabili alle recenti, offrendo così un tesoro di libri senza fine.
 


Un progetto culturale, quindi, che emerge oltre che grazie alla proposta di case editrici dalla ricca tradizione come Einaudi, Feltrinelli, Mondadori o Bompiani, soprattutto grazie all’attenzione per la realtà delle case editrici indipendenti italiane come  minimum fax, Voland, Fazi, marcos y marcos, Elliot, Adelphi, Guanda, e/o e tante altre, motivo per cui riesce a riunire scrittori da Saramago a Wu Ming a Amèlie Nothomb a Amara Lakhous, messi tutti sullo stesso piano.
È però mentre ci addentriamo nella libreria che si rivela il contenuto più raro che contiene: una preziosa raccolta di libri usati che, dai Cantos di Pound agli scritti politici degli anni ’60, dall’Ulysses ai testi di critica letteraria, filosofia e antropologia, si affaccia su tutto quello che è stata la storia delle case editrici e degli scrittori che hanno costruito la modernità; un contenuto inesauribile per qualsiasi lettore, unito a una politica costruita anche per confrontarsi con la crisi odierna in cui la realtà de Il Corsaro è immersa.
 


Il Corsaro rappresenta un tipo di realtà, presente nel mondo del libro, che a noi di Flanerí importa molto sostenere perché si mostra come un esempio di chi adopera se stesso in un lavoro che, insieme al libro e a chi gli dà vita, prova a costruire più che uno scambio, un lascito per noi che siamo i destinatari finali di quel lavoro.


Per ulteriori informazioni:
Libreria Il Corsaro
Via Macerata, 46 – Roma
06 45598789

(Potete trovare Il Corsaro anche in via di San Vito, 13/B)

“Lettere d’amore a Stalin” di Juan Mayorga

C’è un telefono davanti a me. Questo posso dirlo. Non so se il telefono squilla. Ha squillato forse. Forse squillerà. Qualcuno attende qualcosa. Qualcuno attende qualcuno. C’è un uomo che disperatamente si aspetterà. Ci sono delle attese che disperatamente saranno prive di uomini in attesa. Io e il mio contrario. Io e i miei denti stretti. Poi sono costretto a stringere anche il resto del corpo. Ho chiesto a mia moglie di recitare per me. Le ho chiesto di recitare la mia persecuzione. Dobbiamo raggiungere la perfezione, per questo recitiamo la persecuzione. Il suono di una penna che scrive s’impenna nell’aria soffocante di ombre. La telefonata che tarda. La telefonata che sto aspettando. Il suono che continua a scrivere. Il suono che scrive sul mio corpo. E io sul suo. Questo suono ha molti corpi e ogni corpo ha il colore del latte e come latte si sparge sul pavimento. Lettere bianche e il telefono nero su carta bianca. Carta da lettere. Lui ha chiamato. O chiamerà. O sta chiamando. Eppure non c’è suono oltre quello delle parole che si scrivono senza carta. Evidentemente ci deve essere un impedimento alla telefonata. C’è stato un messaggio lasciato a metà. Una telefonata non conclusa. C’è un filo spezzato. Sto seguendo questo filo. Una fila di lettere bianche che compongono il nome: Stalin. Le mie lettere a Stalin che (de)scrivono le lettere del nome Stalin. Le mie lettere che danno vita a Stalin. Stalin al mio fianco. Stalin sulla mia scena. Stalin sul mio corpo. Mia moglie evapora. Rimane Stalin in casa Bulgakov. Stalin ha visto le mie opere e le stima. Incomprensibilmente ne nega la diffusione. Espatriare. Sarebbe poi come espiantare il cuore della Russia dalla madre (patria). Ci deve essere un disegno che non può essere comunicato. Una linea telefonica che evidentemente non funziona. Allora scriverò ancora. E ancora. Lui non può essere contrario. Lui è con me. Eppure mi nega. Esiste una volontà che non sa volermi. E allora io devo spogliarmi, scrivermi, e imbucarmi in centinaia di lettere. Tutte avranno lo stesso destinatario. E tutte saranno in attesa, loro sì, dell’ultima lettera, quella perfetta. Per questo la perfezione è il mio persecutore. Stalin è solo la forma che la mia perfezione ancora non ha raggiunto.

È la forma che Juan Mayorga ha dato alla follia di Bulgakov. E che Tommaso Tuzzoli ha messo in scena in modo visionario, ma sempre tenacemente calibrato, mai slegato dalla fisicità dei corpi che patiscono. Sulla scena la teca di cristallo del delirio ha i baffi di Stalin e parla con la bocca di Peppe Papa. Il corpo squassato dal peso di lettere scritte come graffi sulla pelle ha le sembianze di Bulgakov e si dibatte nei panni di Silvio Laviano. La rigidità attonita della realtà di fronte a ciò che delirio appare è affidata alla moglie di Bulgakov (Sabrina Jorio). La follia non può smettere di raccontarsi, come acqua si infiltra tra un corpo e l’altro, in un corpo e nell’altro. Per puro accidente si tratta di folli, di attori o poeti. La follia li attraversa tutti, passa attraverso Bulgakov, ne squassa l’essenza e va ancora oltre, fino a una sala sotterranea di Napoli, quasi cento anni dopo. Gli attori non potevano che rimanere colmi della follia di Bulgakov. Gli spettatori non potevano che applaudire calorosamente.

Perché la follia ripete ossessivamente, distrugge minuziosamente, ma è condannata a essere sempre possentemente presente.

 

Lettere d’amore a Stalin
di
Juan Mayorga
regia di Tommaso Tuzzoli
con Sabrina Jorio, Silvio Laviano, Peppe Papa

“Sherlock”: l’opera di Conan Doyle arriva sul piccolo schermo

«Elementare Watson!» Questa frase potrebbe riassumere tutto quello che c’è da dire su  Sherlock Holmes, una vera e propria icona. Eppure, come spesso accade in questi casi, è risaputo che le due parole più famose del detective britannico sono in realtà il frutto di adattamenti cinematografici successivi e non della mente di sir Arthur Conan Doyle. È quindi doveroso scendere più a fondo.

Parliamo a questo proposito della serie televisiva Sherlock, liberamente tratta dai libri dell’autore scozzese e andata in onda dal 2010 su BBC One. Se sul grande schermo dal ventesimo secolo in poi abbiamo visto decine e decine di pellicole con protagonista Sherlock Holmes, questo è soltanto il secondo adattamento televisivo della storia dopo Le Avventure di Sherlock Holmes, andato in onda ormai quasi 30 anni fa.

I creatori del progetto, Steven Moffat e Mark Gatiss, hanno voluto riproporre le vicende del celeberrimo investigatore in una chiave insolita e le hanno ambientate nella Londra del nuovo millennio. Il personaggio di Sherlock Holmes (interpretato da Benedict Cumberbatch) è molto vicino a quello dipinto da Arthur Conan Doyle: è un consulente investigativo brillante ma freddo e distaccato, quasi incapace di rapportarsi con gli altri, cinico e lontano quanto più possibile dalle emozioni che potrebbero solo essere d’intralcio al suo lavoro. Anche nel tratteggiare John Watson (Martin Freeman) Moffat e Gatiss rimangono fedeli alla versione letteraria e ci presentano un ex soldato che ha lavorato come medico durante la guerra in Afghanistan (anche nei racconti di Doyle il dottore aveva combattuto proprio nella guerra anglo-afghana di fine diciannovesimo secolo) in cerca di una nuova vita all’interno della società.

Nel primo episodio della serie, “A study in Pink”, c’è un altro richiamo allo Sherlock Holmes originale, apparso per la prima volta nel racconto “A study in Scarlet”.
Oggi come allora i due protagonisti, una volta venuti a contatto, decidono di trovare una sistemazione comune per concludere la loro ricerca di un posto in cui vivere. Da qui in poi il dottore diventerà quella sorta di io narrante che già era stato nei racconti di Doyle e seguirà il detective in tutte le sue indagini: nella serie, però, le gesta di Sherlock troveranno la fama grazie al blog redatto e aggiornato proprio da Watson a sua insaputa.
I metodi investigativi di Watson lo porranno in costante conflitto con chi lo circonda, costringendo colleghi come il tenente Lestrade a sopportarlo comunque, in nome del contributo unico che il ragazzo può offrire alle indagini grazie alle sue doti deduttive uniche.

Ogni episodio (tre per ogni serie, e dopo due ottime stagioni una terza è in arrivo nel 2013) segue scrupolosamente tutte le vicende senza tralasciare alcun dettaglio o tagliare corto per esigenze televisive, e infatti ognuno di essi si avvicina più a un film che a uno show televisivo vista la durata di circa un’ora e venti minuti per il singolo caso. Durante la prima stagione tra i personaggi che vengono presentati bisogna menzionare Mycroft Holmes, fratello maggiore di Sherlock, un collaboratore dei servizi segreti britannici a volte pigro o senza tempo e deciso a chiedere aiuto al fratellino nonostante sembri avere capacità almeno equiparabili alle sue. La particolarità che contraddistingue Mycroft sul piccolo schermo è il suo volto, ossia quello di Mark Gatiss, non solo sceneggiatore ma anche attore all’interno della serie.

Per un lavoro cosi meticoloso e caratteristico, nonostante i sempre ottimi doppiaggi italiani, è sinceramente consigliata la visione in lingua originale di Sherlock, poiché l’interpretazione di tutti gli attori davanti alle telecamere è stata davvero encomiabile, fruttando addirittura a Benedict Cumberbatch una nomination agli Emmy 2012 come migliore attore protagonista per una miniserie o film per la TV.
Se siete fan dei romanzi di Arthur Conan Doyle, dei gialli e di Sherlock Holmes, non potete assolutamente lasciarvi sfuggire  questa fortunata serie (ricordiamo che ogni episodio è un adattamento o porta elementi di altri racconti originali).

E se ancora non siete sazi o se l’atmosfera grigia di Londra non vi soddisfa completamente, gli Stati Uniti si sono mossi proprio nel 2012 per venirvi incontro, con la messa in onda di Elementary, un altro lavoro televisivo ispirato alle vicende di Sherlock Holmes ma ambientato nella frenetica New York.

 

“C’è un grande prato verde” a cura di Carlo D’Amicis

Me lo ripeto ogni maledetto week end: ma chi me lo fa fare? Che senso ha prendersela tanto a cuore, palpitare, gioire, inveire, deprimersi per undici “leoni a volte un po’ coglioni” che corrono appreso a un pallone, profumatamente pagati, istoriati oltre ogni decenza e dalle creste strafottenti come solo i ragazzini di borgata sanno essere?

Eppure l’appartenenza alla squadra, la maglia, è più di una fede (non era forse Pasolini che considerava il calcio l’ultima sacra rappresentazione del nostro tempo?). È qualcosa  che non sapeva spiegare neppure Nick Horby in Febbre a 90°: «Il calcio ha significato troppo per me e continua a significare troppe cose. Dopo un po’ ti si mescola tutto in testa e non riesci più a capire se la vita è una merda perché lArsenal fa schifo o viceversa. Sono andato a vedere troppe partite, ho speso troppi soldi, mi sono incazzato per lArsenal quando avrei dovuto incazzarmi per altre cose, ho preteso troppo dalla gente che amo… Ok, va bene tutto, ma non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro. Come fai a capire quando mancano 3 minuti alla fine e stai 2-1 in una semifinale e ti guardi intorno e vedi tutte quelle facce, migliaia di facce, stravolte, tirate per la paura, la speranza, la tensione, tutti completamente persi senza nientaltro nella testa. E poi il fischio dellarbitro e tutti che impazziscono e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato lelemento cruciale in tutto questo, rende la cosa speciale; perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio? E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, cè sempre unaltra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio e che male cè in questo? Anzi è piuttosto confortante se ci pensi».

La prima volta allo stadio non si scorda. Alla fine delle scalette che conducono in curva è grande lo stupore davanti a quel grande prato verde.

C’è un grande prato verde non è solo l’incipit di una famosa canzone nazional-popolare, ma è ora anche il titolo di un libro polifonico curato dallo scrittore e conduttore radiofonico Carlo DAmicis, che ha dato mandato a 40 scrittori di commentare in presa diretta e senza rielaborazioni le giornate del campionato 2011-12. È il campionato di calcio italiano con i suoi scandali e polemiche, i suoi valzer di panchine e i suoi isterismi, i suoi anticipi e posticipi, spezzatino e contorni vari, visto da svariati punti di vista che si esprimono con toni e stili differenti. Tutti sono però più o meno accomunati dalla nostalgia per il calcio di una volta, poco visto e molto sentito, quello raccontato dalle voci di Tuttoilcalciominutoperminuto, quando i calciatori erano atleti e non attori, quando andare allo stadio con panino e caffè Borghetti era un rito e l’unico modo per vedere la tua squadra del cuore e nessuna tessera del tifoso c’era a scoraggiare o vietare le trasferte, quando gli spogliatoi erano un bunker inviolabile e non il confessionale di un reality in cui i nostri presunti eroi invece di preoccuparsi della partita si preoccupano del codino o di mettere in bella mostra l’ultimo tatuaggio. Era il calcio narrato dagli Arpino (Azzurro tenebra, 1977), dai Brera, dai Saba e dagli Acitelli, il calcio vero dei campetti di pozzolana dove poi magari pioveva, dove non batteva il sole e tanti Nino speravano di realizzare il sogno della loro vita mettendo il cuore dentro le scarpe e correndo più veloci del vento.

In C’è un grande prato verde c’è chi si sofferma sull’aspetto esistenziale del fenomeno calcio come Emanuele Trevi: «Così il calcio si ostina ad assomigliare alla vita, dove tutto è al tempo stesso prevedibile e imprevedibile. E dove si annida quel momento di bellezza e pienezza che potresti anche definire il momento più bello, a patto di accettare che assomiglia a tutti gli altri. Ma soprattutto a patto di ammettere che nessuna altra immagine della tua esistenza corrisponde al vero come questa, così distinta e slabbrata e priva di reali emozioni, che ti offre il dannato campionato di calcio», oppure Cosimo Argentina: «Il mondo andava avanti. Il mondo va sempre avanti e tu non sei che un frammento di poco conto nel bilancio dell’umanità che si ciba di sogni e di chimere. Gli eroi del calcio, dello sport, del palcoscenico e dell’arena sono palliativi per cercare di farcela». E poi c’è chi invece ne indaga l’aspetto sociologico come fa Antonio Rezza: «Il controllo sociale è ormai completo, si spostano negli stadi problemi che fuori sarebbero pericolosi per la viabilità, per la vita civile. Lo stadio finisce per essere un contenitore di gente illusa, frustrata, violenta, falsamente politica, strumentalizzata e superficiale. La protesta nei confronti dello stato si camuffa in passione incondizionata». C’è che manifesta il suo essere tifoso: «Seguire la Roma è una sofferenza, un incubo, una tortura. Si soffre prima, si soffre dopo, si spreca troppo tempo a soffrire, troppa parte della settimana a soffrire» (Matteo Nucci) e chi invece non nasconde la sua totale indifferenza e ignoranza pallonara come Pulsatilla: «Si sa, e l’ho sempre detto più volte, che l’analfabetismo calcistico ha solide basi genetiche (il cervello del maschio pesa 1.400 grammi e quello della femmina 1.200 ed è scientificamente appurato che nei duecento grammi di differenza ci sono i neuroni necessari a comprendere il fuorigioco), ma io sono un caso più grave […]. Non che ce l’abbia col calcio in particolare, intendiamoci, ce l’ho con la palla in generale. A me piace lo sport, solo che se c’è la palla non ci sono io. La palla mi affatica».

C’è chi assume la prospettiva del campione che gli anni costringono a una panchina sempre mal digerita come fa Elena Stancanelli mettendosi nei panni di Alex Del Piero: «Vedo i cartelli dei tifosi, mi vogliono bene. Il presidente qualche giorno fa, nipote della grande dinastia, ha detto che questo è il mio ultimo anno, che a giugno chiudo. L’ha detto, ha deciso per me […] e ora sono qui nel giaccone, mentre in campo giocano, corrono e la camera fissa me» e c’è chi invece non può che rimanere estasiato dal suo capitano di mille battaglie come Nucci: «…e poi vedo che Totti è tornato a giocare dove giocava mille anni fa, dietro le punte, è magro, corre, si muove bene, sembra un ragazzino […]. Mi pare Rivera, mi sembra di rivedere Rivera. […] Questo giocatore è un dio, penso […]. Questo è il giocatore che ha sempre sognato casa, che è sempre tornato a Roma, che per vent’anni ha sofferto il ritorno, altro che chiacchiere. Questo è l’unico vero epos che abbiamo in Italia […]. Questo è epos, signori. Questo è un dio. Solo Omero potrebbe raccontarlo».

C’è un grande prato verde è questa raccolta di emozioni e riflessioni. Il calcio ha sempre fatto e continuerà sempre a far parlare di sé nel bene e nel male, continuerà ad attirare folle magari ormai per lo più di pigri tifosi seduti in poltrona. Le mani inquiete si muovono alla ricerca infantile e spasmodica di un lieto fine nascosto, ma proprio come nella vita il sogno si infrange su una barriera, forse posizionata male o forse  non rispettosa delle consegne del portiere. A volte basta poco, un pertugio, uno spiraglio e il goal lo prendi, anche se è l’ultimo minuto e pensavi di avere la vittoria in tasca. È vero si soffre, ma è proprio questa imperscrutabilità con cui agisce il Dio Pallone a far dire che la prossima volta andrà meglio e che a far cantare fino alla fine «che sarà, sarà…».


(Carlo De Amicis (a cura di), C’è un grande prato verde, Manni Editore 2012, pp. 232, euro 14)

[TFF30] Terza e quarta giornata del Torino Film Festival

La chiusura dei Murazzi sembra aver causato il sovraffollamento di qualunque locale variamente notturno di Torino, con la conclusione che quel minimo di rilassamento che si cercava in uscita dopo le visioni serali ha il solo risultato di alterare l’umore, logica conclusione di una giornata iniziata all’insegna del volume altissimo, abile a cacciare diverse persone dalla sala ma non il sottoscritto. Pazienza in vero ben riposta, sia per l’avvenuto abbassamento del volume di lì a poco sia per il mediometraggio inglese oggetto dell’assalto sonoro.

Film realizzato nell’ambito di un progetto di studio sugli anziani nelle comunità rurali inglesi, Rufus Thomas è la triste quanto poetica e delicata storia di omosessualità frustrata, derisa e scacciata nelle campagne inglesi degli anni ’50. Rufus e Flip non hanno nemmeno il tempo di comprendere ciò che sono e desiderano che subito il paese li mette alla berlina e Rufus, incapace di frenare il suo essere, parte per Londra verso un futuro di successi e realizzazione. Alla morte dei suoi genitori, cinquant’anni dopo, Rufus torna a casa e tutto riaffiora. L’opera è una efficace fusione di flashback e presente, con i ricordi che alimentano e si fondono con il vissuto odierno grazie a un digitale dai toni pastello e un gioco di rallentamenti, accelerazioni e contorni sfumati, capace di rendere il tutto fiabesco e surreale. Un gioiello che sperimenta visivamente trasformando la tecnica in delicato strumento al servizio della poesia.

Dimenticabile e a tratti sfiancante è invece il tedesco Silent Youth, tipico esempio di film da festival e per festival. Silenzi che vorrebbero dire ma non dicono, passeggiate interminabili e sguardi accennati che vorrebbero disvelare un’omosessualità latente. Il nulla offerto in camere fisse o che filmano le spalle e dettagli in slow motion. Le nuove leve del cinema d’autore europeo a uso e consumo di sale semivuote nei festival.

Di tutt’altro tono è l’esordio registico di Jules Mann-Stewart, madre di quella Kristen universalmente nota come Bella della saga di Twilight, che, dopo una trentennale carriera come script supervisor per cinema e tv, decide di passare dietro la macchina da presa. Lo fa con un progetto bislacco e decisamente sui generis. Il discografico Raymond Saxx, dopo una notte di bagordi tossici e alcolici, viene arrestato per l’omicidio di un musicista, suo assistito e amico. Il suo però non sarà un semplice destino da detenuto ma da detenuto tossicodipendente: Raymond viene infatti rinchiuso nel K-11, una sezione del carcere di Los Angeles dove carcerati con problemi di droga vivono ammassati l’uno sull’altro. Dramma dai toni bizzarri e surreali, in bilico tra ironia e violenza, K-11 appare quasi un prison-movie che fonde la seriosità di Oz e la follia da serie z di Bitch Slap. Personaggi macchiettistici come il transessuale ispanico Mousy, che governa e dirige con fare da regina l’intera sezione, il transgender Butterfly dalla mente contorta, in bilico tra angelo e diavolo, il pedofilo Detroit e il viscido poliziotto Johnson, vanno a formare un girone dantesco che, pur colpendo inizialmente, alla lunga sfianca a causa di una scrittura banale e priva di interesse, quasi che ciò che contasse fosse solo mettere in piazza le bestie del circo, senza poi curarsi dello spettacolo da offrire.

A inizio serata arriva quel che non ti aspetti. Entrare in sala senza sapere nulla di nulla di un film può alle volte riservare incredibili sorprese.

Vera rivelazione di questo primo weekend di festival è senz’altro Compliance di Craig Zobel, il classico regalo inatteso. Una scritta enorme a caratteri cubitali invade lo schermo: «Ispirato a fatti realmente accaduti». Una frase di importanza radicale, ben oltre l’immaginabile. Parte placido e didascalico, quasi si limitasse a raccontare un tranquillo e normale weekend lavorativo in un fast food di provincia. Piccole questioni organizzative e l’afflusso di clientela del venerdì come unici grandi problemi dell’esistenza. Qualcosa però accade e si materializza in una semplice e apparentemente innocua telefonata della polizia. Delirante e ai limiti della stupidità e follia umana è tutto ciò che accade dopo. Follia e stupidità che pur suscitando ilarità iniziale, ben presto la tramutano in sconcerto. Analisi spietata dei danni che può causare l’ignoranza e lucida finestra aperta su una società americana da raccapriccio, Compliance è film politico sotto neanche tanto mentite spoglie, capace di accumulare tensione e ansia e legare elementi chiave con stile e simbolismo. Magistrale una delle sequenze finali che indugia sul poliziotto e il suo viaggio in auto, apparente accademia registica in cui è in realtà dischiuso gran parte della ricchezza del film. Da guardare preferibilmente senza sapere nulla più di quanto descritto qui.

Come già detto all’inizio, il previsto rilassamento serale non ha luogo e, sociopatia a parte, si ritorna a casa carichi di speranze per il giorno successivo.


Speranze ben riposte e ottimamente ripagate dallo svedese Call Girl che conferma come lo sfruttamento e l’abuso del corpo femminile siano una costante di questi primi giorni di festival. Ambientato tra il finire degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, e in parte ispirato a fatti realmente accaduti, Call Girl segna l’esordio cinematografico di Mikael Marcimain, dapprima attivo solo in produzioni televisive di genere. La storia è un intreccio tra prostituzione d’alto bordo, sfruttamento di minorenni, politica e servizi segreti, con sullo sfondo la Svezia del progressismo sessuale, tra ipocrisie e scheletri nell’armadio. Opera rigorosa e al contempo personale, segue le orme del più classico thriller politico americano degli anni ’70 di autori come Pollack e Pakula, alternando con abilità le vicende intime e contorte di teenager allo sbando catapultati in mondi troppo più grandi di loro, all’interno del quadro globale di un paese in forte cambiamento economico e sociale. Più un thriller sociale che politico, infatti, e con lo spionaggio solo sullo sfondo, Call Girl richiama non di meno operazioni marcatamente retrò come Tinker, Tailor, Soldier, Spy – in Italia La talpa – del connazionale Alfreson. Simile è infatti la cura per la ricostruzione storica e la fascinazione vintage per un’estetica dominata da colori caldi, movimenti di macchina lenti e cambi di sequenza anticipati sempre un attimo prima dal cambio di tono musicale. Grande eleganza e cura formale restituiscono un film ottimamente girato e interpretato, dominato da personaggi ambigui ed equivoci, mai davvero buoni o cattivi. Ennesima conferma dello stato di grazia del cinema scandinavo contemporaneo.

Purtroppo il pomeriggio non prosegue sulla stessa linea e ci regala, se cosi si può dire, uno dei peggiori film visti fin ora.

V/H/S è un curioso esperimento di film horror a episodi, uniti dalla matrice comune del recupero di un’estetica e un carattere visivo da vecchia videocassetta anni ’80. Peccato che oltre alla curiosità iniziale vi sia il nulla più assoluto, senza contare come il recupero di una certa estetica sia spesso solo sulla carta, il tutto si risolve infatti, nella maggior parte degli episodi, in una sterile ripetizione dell’abusatissimo e sfiancante cliché dell’horror mockumentaristico che, con la scusa del girato amatoriale, offre la possibilità di gettar via ogni tecnica di ripresa. Totale mancanza di personalità e novità rendono l’operazione sfiancante e noiosa e offrono l’ennesimo spunto di riflessione su quanto, continuando su questa linea, abbia realmente senso di esistere un certo tipo di approccio al genere.

La situazione migliora solo parzialmente con il coreano Nameless Gangster, atipico gangster movie che narra le gesta di un malavitoso casuale, ex doganiere, divenuto faccendiere e poi catapultato più o meno consapevolmente nelle alte sfere del crimine coreano, con sullo sfondo la Corea del Sud di fine anni ’80, tra il boom economico e le possibilità offerte dalle Olimpiadi di Seul e un nascente intrallazzo con la politica. Curioso come non si esploda un solo colpo di arma da fuoco in tutto il film, ma oltre questo, e qualche battuta comica, il film non va, percorrendo strade senza infamia e senza lode per un minutaggio francamente eccessivo.

Conclusione di serata decisamente positiva invece grazie al franco-americano Maniac. Prodotto da Alexandre Aja e con, divisi tra montaggio, scrittura, fotografia e regia, alcuni dei suoi collaboratori più fidati, Maniac giunge qui a Torino accompagnato da squilli di tromba e commenti esaltati che sottolineano una certa diversità dallo stile classico della crew produttiva francese. Grande curiosità soprattutto per chi non ha mai particolarmente apprezzato un certo approccio eccessivamente ludico all’horror. Maniac altro non è che un remake, in vero assai personale, dell’omonimo cult anni ’80 di William Lustig che pone lo spettatore in primissima linea, narrando in soggettiva le gesta di uno psicotico serial killer restauratore di manichini dotato di una macabra e insana concezione del corpo umano. L’uso quasi totalizzante della soggettiva porta il regista a misurare con garbo i movimenti di macchina, permettendo di entrare sin da subito nella psicosi del personaggio, anche grazie a un’intelligente alterazione del parlato, quasi fosse sdoppiato come la personalità, e rimbombasse come una continua emicrania nella testa del protagonista e dello spettatore. Un montaggio accorto e situazioni splatter non banali intrattengono e divertono, cosi come interessante risulta il tentativo di innestare un abbozzo di storia d’amore, apparentemente capace di mitigare il delirio e la follia. Il film però è altrove, e sequenze meta-cinematografiche per una volta non gratuite, come quelle in cui il protagonista al cinema si rivede nei panni del Dr.Caligari, e il finale all’insegna di uno splatter simbolico e psicologico, confezionano un prodotto magari non esaltante ma di ottima fattura.


Si torna a casa con forti dubbi su quel che si vedrà il giorno dopo e una fastidiosa pioggerellina a sottolineare, forse, l‘arrivo definitivo dell’inverno, non ancora palesatosi in pompa magna qui a Torino.

“Epic Rap Battles of History”, gli ircocervi della rete

Sfido chiunque nato negli anni ’80 a dimostrarmi che da ragazzino non si interessò, almeno un poco, al wrestling americano. Che poi col tempo ci si sia accorti che si trattasse di uno spettacolo pietoso non toglie il fatto che Hulk Hogan esercitasse un certo fascino. Io, ad esempio, lo avevo in casa sotto forma di pupazzo, cristallizzato nel momento clou in cui si straccia la maglietta. Nelle battaglie che avevano luogo nella mia cameretta (un antagonista celebre di questi incontri piuttosto privati era un tizio a petto nudo che avrebbe dovuto avere sulle spalle un pitone, che andò perso nel momento esatto in cui uscì dalla confezione) onestamente non mi è mai venuto in mente di schierare il biondo baffuto contro l’ormai defunto imperatore nordcoreano Kim Jong-il. Non si può dire lo stesso, invece, dei creatori delle Epic Rap Battles of History.

Nella prefazione alla raccolta ‘900 dell’illustratore Massimo Bucchi, Umberto Eco scrisse che Bucchi aveva inventato l’ircocervo verbale interpretato visivamente. L’ircocervo (originariamente un mostro mitologico metà caprone e metà cervo) è un gioco enigmistico creato, ormai parecchi anni fa, dallo stesso Eco e consiste nel fondere tra loro due nomi famosi e assegnare al nuovo personaggio un’opera. Tre esempi: Danton Alighieri, Guelfi e Giacobini; Edgar Allan Fo, Racconti del mistero buffo; Marcel Prost, Alla ricerca del tempo migliore. Bucchi però fa l’illustratore e abbina al nome l’immagine del personaggio nato dalla fantasia enigmistica. Anche qua tre esempi: Al Bano e Romiti, immagine del cantante che cinge le spalle del manager; Ronaldo Reagan, immagine dell’ex presidente che esulta con addosso la maglietta del Barcellona; Mary Popper, immagine della tata seduta tra le nuvole (con tanto di borsa a destra e ombrello-pappagallo a sinistra) ma con la faccia del filosofo.

Se ci riagganciamo ora all’improbabile sfida tra Hulk Hogan e Kim Jong-il troviamo il nesso. Nelle Epic Rap Battles of History scompare la componente enigmistica ma rimane la bizzarria della scelta e la fantasia linguistica. I personaggi tirati in ballo infatti non si fondono tra loro, ma si scontrano a colpi di rap, sul modello dei freestyle tipici della cultura hip-hop. Un ircocervo per accostamento, senza crasi.

Le Epic Rap Battles of History fanno parte di una fortunata serie di video su YouTube iniziata nel settembre 2010 e creata dagli youtuber Nice Peter e Lloyd Ahlquist, due ragazzi con una discreta dose di creatività di base in California. I nostri si fanno però aiutare da vari collaboratori (esistono anche i video dei backstage) e il risultato finale mostra una qualità della produzione due o tre gradini sopra il livello di un video amatoriale: la grafica è curata, i personaggi truccati e interpretati alla grande, le basi musicali originali e sempre diverse e in generale si può evidenziare una notevole attenzione ai dettagli. Quello che però colpisce maggiormente sono i testi: ogni volta un piccolo capolavoro, formato da un fitto sottobosco di riferimenti, alcuni inaccessibili per noi italiani senza l’aiuto di Google, che soggiace agli incastri delle rime. La presenza, a partire della seconda battaglia, dei sottotitoli (inglesi, naturalmente) ci viene parzialmente incontro.

Il progetto di Nice Peter e Lloyd Ahlquist non lo scopro certo io adesso. Il loro canale vanta quasi 2 milioni di iscritti e ogni video è visto in media da 30 milioni di utenti. La battaglia più vista in assoluto è quella tra Hitler e Darth Vader (quasi 66 milioni di visualizzazioni, e ne esiste anche una seconda parte), seguita da Einstein contro Stephen Hawking, Justin Bieber contro Beethoven e Abraham Lincoln contro Chuck Norris. I personaggi, scelti grazie ai suggerimenti degli internauti, sono i più diversi, ed è divertente scoprirli tutti. La prima stagione si è chiusa con 15 battaglie (l’ultima vede confrontarsi gli stessi autori del canale), la seconda, iniziata lo scorso dicembre, è invece ancora in corso.

Mentre si è stimolati dalle immagini e dalla musica, può nascere anche l’interesse che porta a interrogarsi sul nesso che lega i due contendenti. E, come diceva Eco per Bucchi: «Magari [questo nesso] non c’è, ma il sospetto rimane, e l’ircocervo si ravviva ad ogni sguardo alla luce della nostra curiosità sospettosa».
Il canale dove vedere tutte le Epic Rap Battles of History è visitabile qui, io però sono ancora in debito dell’assurda sfida di cui si parlava all’inizio.
 

“La collina del vento” di Carmine Abate

Immaginate un luogo così vasto da non poterlo contenere in uno sguardo, incurvato come un seno e porporato di sulla in fiore: è il Rossarco, immenso fondo terriero della famiglia Arcuri, tramandato, seminato, raccolto, sudato e amato per generazioni. Si staglia all’orizzonte tra l’accecante mare della Calabria, i ciottoli lucidi di una fiumara e «le montagne azzurre della Sila», morbido di zolle fresche, variegato di infinite coltivazioni, profumato di vino e olio, puntinato da peperoncini e liquirizie. 

Come un rito quotidiano anche le donne degli Arcuri partecipano agli sforzi, stagione dopo stagione, decennio dopo decennio, con fedeltà focosa ai mariti e alla terra, coi loro corpi sensuali e i capelli corvini al vento. Lo stesso vento solcato dalle misteriose ali di una rondine albina, «con gli occhi simili a due gocce di pioggia impolverata».

Capostipite di tale verde ricchezza è Alberto, che poi passa il testimone al figlio Arturo, al nipote Michelangelo e all’ultimo Arcuri, Rino, colui che narra questo secolo di storia familiare dagli anni a ridosso della prima guerra mondiale sino a oggi, personaggio dietro al quale pare celarsi l’identità dell’autore, per le sue origini, il suo trascorso, la sua realtà di emigrante.

Con intensi acuti dialettali, alternati a una commovente èkphrasis da elevatissima lirica italiana, ecco l’avvincente trama di eventi di una collina rigogliosa, piena di promesse e segreti… segreti di soprusi, gialli luttuosi, aerei da guerra, amori e «robe anticarie»: «Ascoltami, figlio, so che per te non sarà facile mettere il dito nelle nostre piaghe o riassaporare la felicità di allora senza rimpianti, ma devi conoscere la verità prima che io muoia e questa storia nostra muoia con me […]. Comincia dall’arrivo del forestiero sulla nostra collina. Il resto verrà da sé». Si trattava dell’archeologo Paolo Orsi, Soprintendente alle Antichità della Calabria, «uno che non si vanta e fa i fatti», finito nel 1915 sul Rossarco alla disperata e convinta ricerca dei resti dell’antica città di Krimisa. Nonostante quella terra abbia fatto gola a molti, dai latifondisti degli anni ’20 e ’30 agli odierni ingegneri di pale eoliche, nessuno è mai riuscito a distogliere la tenace famiglia dal veemente motto arcuriano di: «Mai vendere, piuttosto comprare». Tuttavia, il famoso studioso è stato accolto sin da subito in modo diverso, soprattutto dal piccolo e poi adulto Michelangelo, perché i suoi e quelli del collega Umberto Zanotti-Bianco sono scopi nobili e sensati in nome di una luccicante «grossa pietra, tonda come un pane» con incisa una kappa, che coinvolge le vite di tutti gli Arcuri, stirpe di uomini e donne «Belli, forti e sanizzi […]. Mai una malattia, mai una freva. Spaccavano le noci con i denti janchi janchi come mèndule fresche, avevano bocche da vasare giorno e notte».

«Rosso sangue, rosso cardinale, rosso porpora, rosso sole, rosso fiamma, rosso vino, rosso ruggine, rosso cocciniglia, rosso tramonto, rosso labbra, rosso fuoco, Rossarco, rossamore…»: queste le tonalità della collina profumata e di questa profonda opera di narrativa vincitrice della Cinquantesima edizione del Premio Campiello. Non semplicemente un libro, ma un continuo batticuore di pagine avoriate, in una dolce altalena tra passato prossimo e passato remoto uniti tra loro da un filo di fiori ventosi di cui quasi si percepisce l’autentica fragranza.

(Carmine Abate, La collina del vento, Mondadori, 2012, pp. 264, euro 17,50)

“Viaggio con figure nelle fiabe italiane di Italo Calvino” al Palazzo delle Esposizioni

L’impatto offerto dalla sala che accoglie Viaggio con figure nelle fiabe italiane di Italo Calvino, al Palazzo delle Esposizioni, è davvero suggestivo: occupano tutta la stanza una decina di casette di cartone, sui quali «tetti e pareti» albergano le illustrazioni delle Fiabe Italiane, duecento fiabe del celebre autore italiano edite nel 1956 da Einaudi per la collana I millenni.
Fiabe Italiane è la spiegazione del passaggio dalla favola alla fantascienza nella letteratura calviniana, presupposto che, negli anni tra il ’52 e il ’59, ha dato origine alla celeberrima trilogia I nostri antenati in cui erano raccolti Il barone rampante, Il visconte dimezzato e Il Cavaliere inesistente. 
Calvino era convinto che «le fiabe sono vere», e che sono una «spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi, alle quali tutti devono e possono attingere, adulti e bambini assieme». 
In quegli anni, infatti, l’autore si interessò di dare spazio alle peculiarità della lingua italiana, ai dialetti, che rappresentavano un’identità che stava via via perdendo importanza, a causa della scolarizzazione: in questo modo restituiva a questo patrimonio il suo valore condiviso facendo circolare le storie del focolare e le fiabe popolari.


La rassegna ospita trentasei tavole per diciotto fiabe, ognuna ambientata in una realtà italiana (dalla Riviera ligure alla Romagna, passando per la Dalmazia e l’Istria, fino alle isole: Sicilia, Sardegna e Corsica).
 Le illustrazioni, realizzate da diciotto disegnatori italiani e francesi (Calvino si trasferì a Parigi dal 1967 al 1979) creano una galleria speciale di colori e stili, di tecniche miste e di raffinata bellezza. 
«Scorrendo l’indice delle fiabe italiane raccolte da Italo Calvino si coglie già in pieno il senso di un viaggio», afferma Massimo Mezzetti, Assessore alla Cultura Regione Emilia-Romagna, 
e il senso della mostra si evince proprio da questo: un centro comune, rappresentato dalla fiaba e dalle illustrazioni esposte, e un viaggio attraverso l’Italia fatto dall’interno, dalle radici più profonde della nostra lingua.


La prima illustrazione che ci si aspettava, “Giovannin senza paura”, prima fiaba della raccolta, è sostituita da “E Sette!”, fiaba della Riviera ligure di Ponente, illustrata con colori brillanti da Valérie Dumas. La tecnica ad acquarello lumeggiato con foglie d’oro su carta infiamma di colori e di entusiasmo le donne formose che sembrano straripare dai loro gonfi vestiti.
 

 

Esposta anche Vanna Vinci con “Zio Lupo”, la paurosa fiaba romagnola che mette in scena una delle innumerevoli versioni di Cappuccetto Rosso, golosa di frittelle, con padella e la classica mantellina.
 Il rapporto di Calvino con l’illustrazione si evince dal suo estremo senso di estraniamento dalla realtà, dal continuo utilizzo dell’immaginazione come fonte e bagaglio delle sue opere.
 


 

“La ragazza mela”, fiaba di Firenze, illustrata da Simona Mulazzani, è una tavola capace di raccontare i sentimenti che popolano la fiaba: il dolore di Mela, figlia del Re, trafitta dalla matrigna cattiva, è presentato con segni nitidi e rotondi; mentre in “Re Crin”, Yan Nascimbene sperimenta l’immagine-miniatura con l’inchiostro di china nero e acquarello.
 


 

Il binomio mostra-laboratorio viene dalla collaborazione di Palazzo delle Esposizioni con lo Scaffale d’Arte, biblioteca specializzata nell’editoria internazionale d’arte per ragazzi, che offre un percorso di educazione alla lettura delle fiabe d’autori per i più piccini.
 Il tunnel di luce “Pénétrer l’invisible”, dell’artista francese Nathalie Junod Ponsard, accoglie e guida all’interno dell’Atelier, un cubo magico che ospita scenari sempre differenti: è qui che risiede il laboratorio d’arte per i bambini un po’ più grandi. 
Qui, creatività e fantasia vanno sempre di moda, e i giovani artisti sperimentano materiali e linguaggi sempre nuovi, creando un suggestivo punto di incontro tra segno e parola. 
Il tutto segue la linea del libro Per filo e per segno, una storia illustrata per bambini scritta da Vittoria Facchini. 


E ora, dopo tanti castelli, principi e matrigne, tra principesse che diventano mele e re troppo vanitosi, «le fiabe son finite, il libro è fatto […], riuscirò a rimettere i piedi a terra?» Domanda forse spontanea per chiunque, bambini e adulti, oltre che per Calvino stesso.

Viaggio con figure nelle fiabe italiane di Italo Calvino
Dal 20 ottobre 2012 al 20 gennaio 2013 al Palazzo delle Esposizioni, Roma.

Per ulteriori informazioni:
http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-calvino-roma-bambini

“Giorgio Caproni. Roma la città del disamore” a cura di Elisa Donzelli e Biancamaria Frabotta

Ci sono luoghi che ci appartengono, che sentiamo di conoscere a fondo, spazi che facciamo nostri nel tempo. E luoghi che, invece, rimangono sfuggenti nonostante il tempo e, per quanto la nostra storia si intrecci quotidianamente con la loro, continuano a svelarsi in forme sempre nuove, lasciandoci incerti e rapiti allo stesso tempo.
La storia di disamore tra Giorgio Caproni e la città di Roma inizia proprio così e il libro appena edito da De Luca Editori D’Arte a cura di Elisa Donzelli e Biancamaria Frabotta, Giorgio Caproni. Roma la città del disamore, è un prezioso catalogo che ha sapientemente raccolto per la prima volta tutte le vibrazioni prodotte dall’incontro del grande poeta con la città e con tutte quelle sfaccettature che, come sottolinea Biancamaria Frabotta nel saggio introduttivo al libro, la rendono, più che una città, un Aleph borgesiano: una circonferenza celata, ma che si rivela infinita e che contiene infinitamente tutti i punti e infinitamente anche se stessa.

Se Livorno è la città dell’infanzia a cui è legata l’immagine onnipresente e multiforme della madre Annina e Genova è il luogo «di tutta la vita», «pura città dell’anima», Roma è la città dove la vita di Caproni scorre concreta e problematica «fra i marmi / e i sassi, e fra l’ortica» dal 1938, anno in cui accetta l’incarico presso la scuola G. Pascoli di Trastevere, fino alla morte nel novembre 1990. A Roma Caproni scrive, in versi e in prosa, conosce gli amici (Libero Bigiaretti, Carlo Betocchi, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci), gli intellettuali e i pittori, gli scrittori e i pensieri che si muovevano proprio intorno alla casa editrice De Luca. Roma è il luogo dove riconosce il suo essere e il suo essere stato, attraverso nuovi spazi e figure del passato che in quegli spazi riappaiono: la prima fidanzata Olga Franzoni, morta in Val Trebbia nel 1936, e ancora Annina. Tra i ponti, i tram e le biciclette.
Il libro è articolato in diverse sezioni che indagano ciascuna un aspetto dell’interazione tra il poeta e l’Aleph-Roma. Tra queste spicca per interesse documentario quella in cui compaiono i due articoli scritti da Caproni al termine di un’indagine sulle borgate di Pietralata e del Tiburtino III («Le borgate confino di Roma»e «Viaggio tra gli esiliati di Roma») e pubblicati nel 1946 sul settimanale Il Politecnico, rivista diretta da Elio Vittorini e particolarmente attenta all’impegno sociale degli scrittori italiani.
La Roma ammantata di rosso dal Mafai e brillante alla luce per il candore imperiale dei suoi marmi, è sventrata dai fascisti nel 1935 e sbattuta ai margini in «isole di disperati, dove l’uomo diventa pezzente e che se ne vanno disamorate alla deriva».  Non ci sono grazie e non ci sono colpevoli. Ci sono le storie di quella «Roma vera, la Roma lavoratrice» sfiancata dai palazzinari e soffocata in un ghetto che sarebbe diventata pochi anni dopo spazio scenico di Una vita violenta e Accattone di Pasolini, di Tommasino, di Lello, di Stella e Maddalena.
Senza il clamore e la denuncia forte di Pasolini, Giorgio Caproni. Roma la città del disamore raccoglie amorevolmente i moti di un cuore «straniero», che guarda il paesaggio trasformato dalla guerra con occhi silenziosi di poeta.

 

«Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».
(Pierpaolo Pasolini, «A Caproni», Epigrammetti, 1958-59).
 


 


(Giorgio Caproni. Roma la città del disamore, a cura di Elisa Donzelli e Biancamaria Frabotta, De Luca Editori D’Arte, 2012, pp. 96, euro 20)

Per ulteriori approfondimenti leggi anche: Giorgio Caproni. Roma la città del disamore: una mostra e un libro alla Casa delle Letterature e l’approfondimento critico Il vizio di scrivere. La poesia di Giorgio Caproni.

“Shields” dei Grizzly Bear

La composizione non è stata semplice. I Grizzly Bear si son presi tutto il tempo necessario prima di far uscire Shields.
L’acclamatissimo Veckatimest e il conseguente tour avevano spossato i membri del gruppo, che si erano presi sei mesi di pausa. Nel giugno 2011 la band si era riunita a Marfa, nel Texas, e aveva composto materiale per un album intero. Tutti i pezzi, a parte due, erano stati scartati.
Nei primi mesi del 2012 i Grizzly Bear sono tornati nella Yellow House del loro secondo album, la casa della nonna del fondatore Ed Droste a Cape Cod, Massachussets. Lì tutto è accaduto di nuovo.
Il suono del quartetto di Brooklyn era già maturo: il baroque pop pieno dei loro dischi precedenti lo dimostra e torna in grande spolvero anche in Shields.
I testi cambiano, diventano più intimi: domande senza risposta, ossessive prese di coscienza. Gli Shields che danno il titolo all’opera non sono altro che gli scudi che creano una distanza autoimposta tra le persone e ogni pezzo ne porta una testimonianza, un segno.
Oltre a essere suonato magnificamente, con volumi e arrangiamenti perfetti, Shields è un album di tensioni e dualismi. Basta prendere le uniche due tracce rimaste dalle sessioni di registrazione di Marfa, che sono anche i due singoli estratti dal disco: “Sleeping Ute”, eccelsa prima traccia, e “Yet Again” esprimono questo dualismo non radicale, un incontro-scontro di influenze e generi; imprevedibile sin dalle note iniziali e quasi prog la prima, più pop e ascoltabile la seconda, ma che termina con un’esplosione di dissonanza graffiante.
Una sintesi di musica e testi emblematica dell'intero album è anche la coppia finale, “Half-Gate” e “Sun in Your Eyes”. La prima esplode nel ritornello dopo un accumulo di tensione brillante e d’effetto; il titolo stesso parla dello shield in questione, dell’aprirsi, ma non totalmente, del concedersi a metà. Si contrappone a questa la finale “Sun in Your Eyes”, che invece parla dell’andare avanti, indiscriminatamente, con un peso sulle spalle; musicalmente rilassata e compiuta, quasi calma, ha in realtà la calma di chi va, fugge lontano. «So bright, so long, I’m never coming back» è il verso che termina il pezzo e tutto l’album.
Shields è un lavoro equilibrato e completo. I Grizzly Bear sono complementari, ma non lo fanno notare: dove termina uno l’altro riempie, complici in un’opera mai eccessiva nel suo luogo e nel suo tempo e perfetta nell’evoluzione stilistica.

 

“La libraia di Marrakech” di Jamila Hassoune

L’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sancisce che ogni individuo ha diritto a ricevere un’istruzione garantita gratuitamente almeno per i livelli elementari obbligatori e fondamentali per l’alfabetizzazione. L’istruzione come diritto inalienabile per alcuni individui e, per altri, come conquista. In quest’ottica di diverso accesso alla cultura va assaporata la bellezza e la grandezza dell’esperienza di Jamila Hassoune, una libraia marocchina che è stata capace di trasportare e divulgare il sapere al di fuori delle mura della sua libreria e delle scuole per giungere, con la sua carovana carica di libri, nei villaggi di campagna fra i più emarginati, in cui c’è carenza di infrastrutture e dove l’analfabetismo sembra rappresentare la norma.

Ne La libraia di Marrakech viene raccolta l’esperienza di una donna, Jamila Hassoune per l’appunto, che ha avuto la fortuna di vivere sin da piccola a contatto con i libri, cosa insolita per quei tempi. Nonostante la sua famiglia avesse uno stile di vita tradizionale, con ruoli di genere ben definiti e strutturati, il fatto che il papà fosse un maestro le ha permesso di studiare e di apprendere crescendo l’importanza del sapere, da utilizzare come strumento di libertà e potere.

Jamila ha dedicato la propria vita alla promozione della cultura. In seguito all’apertura della sua libreria, nel ’95, questa donna ha fondato con alcuni amici il Club del libro e della lettura per favorire fin da subito lo scambio di testi e la discussione attorno a tematiche diverse da quelle del proprio vissuto quotidiano. Un’inchiesta da lei condotta nel ’99 in sei villaggi nella regione di Marrakech per indagare il rapporto dei giovani con la lettura aveva evidenziato che il costo dei libri per molti rappresentava un ostacolo all’acquisto, comportando un'ulteriore penalizzazione in luoghi in cui l'accesso alla cultura era difficile per la scarsa, se non inesistente, presenza di librerie e biblioteche. Proprio per arrivare in ambienti così culturalmente poveri, Jamila Hassoune ha dato il via all’iniziativa itinerante delle Carovane civiche, che hanno lo scopo di promuovere lo sviluppo locale con iniziative e attività caratterizzate da una partecipazione dal basso, inclusiva e in favore delle donne. Nel 2006 è poi arrivato il progetto della Carovana del libro, che promuove la lettura e la cooperazione fra le associazioni e le scuole presenti sul territorio. «Il bisogno di conoscenza e formazione culturale è un bisogno primario per lo sviluppo individuale e dovrebbe essere un diritto per tutti in una società che voglia guardare al futuro».

In un luogo in cui la figura femminile è spesso relegata unicamente allo svolgimento delle faccende domestiche e dove l’emancipazione è difficile da raggiungere, specie negli ambienti rurali, Jamila ha portato la conoscenza della nuova Carta Costituzionale, Carta su cui poggiano le fondamenta del nuovo Stato di diritto e che conferisce alle donne dei riconoscimenti fino a poco tempo prima impensabili. La fine delle violenze di regime proprie degli anni Settanta, gli “anni di piombo”, e il graduale inserimento del Marocco nello scenario internazionale, con l’adesione a trattati e convenzioni, ha comportato, a fronte di pressioni estere, delle concessioni in tema di diritti umani e il lavoro di Jamila nei villaggi del Marrakech ha avuto come obiettivo anche quello di divulgare la conoscenza al fine di favorire una libertà di pensiero e capacità critiche di fronte al nuovo scenario.

Ne La libraia di Marrakech, dunque, attraverso la storia personale di una donna viene dipinto un Marocco a cavallo fra tradizione e innovazione, fra banchi di scuola e viaggi nella lettura con la Carovana del libro fino ad arrivare ai cybercafè come luogo di incontro e confronto. Un libro che partendo dal racconto di una singola esperienza offre al lettore uno sguardo privilegiato sulla storia di una collettività con cui difficilmente si verrebbe a contatto con simile introspezione. Non può certo meravigliare, quindi, che Jamila Hassoune sia stata premiata quest’anno a Salina, in occasione del Festival nazionale del Documentario sia per il suo impegno come mediatrice culturale che per la modalità da lei scelta per esercitare la resistenza, ovvero la diffusione della cultura.


(Jamila Hassoune, La libraia di Marrakech, a cura di Santina Mobiglia, Mesogea, 2012, pp. 135, euro 16)

[TFF30] Sintesi delle prime due giornate del Torino Film Festival

Si arriva a Torino, con ritardo, e si è accolti da un clima tutt’altro che gelido, le buone notizie però si esauriscono tutte qui. Il Torino Film Festival per il suo trentesimo compleanno sembra aver acquisito la ben poco simpatica attitudine alle code chilometriche. File per qualsiasi cosa nascono in un battito di ciglia e non puoi che arrenderti. Si inizia da subito con un ritiro accrediti estenuante che sostanzialmente manda all’aria i programmi per il primo giorno. Restano da vedere solo Holy Motors di Leos Carax e NO di Pablo Larraín, pesi massimi dunque, se non fosse che anche Holy Motors ci sfugge a causa di una coda da annali. Sperando che sia tutta colpa del “fine settimana” non ci resta che consolarci con il cileno.

La liberazione e nascita di un paese attraverso pubblicità e televisione, si potrebbe sintetizzare così NO, già in concorso a Cannes e presente a Locarno, ma sarebbe far torto a un’ opera densa di spunti di interesse: 1988, il Cile va al referundum per dire SI o NO alla continuazione della dittatura di Pinochet, sembra una farsa ma non lo sarà. I dissidenti per la prima volta hanno possibilità di far sentire la propria voce attraverso spazi televisivi di quindici minuti al giorno e per farlo si affidano a un pubblicitario di successo dalle idee innovative e pragmatiche ma non privo di idealismo. Larraín sceglie di girare in digitale ma traslandolo a tal punto da farlo sembrare una VHS rovinata, si assiste così a un gioco d’incastri tra immagini di repertorio e fiction con il cinema che gioca a esser televisione e la televisione che entra nel cinema. Una ricerca sull’estetica vintage attenta ma priva di sterile fascinazione retrò, una scelta visiva forte e contestualizzata di grande efficacia, capace di raccontare la liberazione e nascita di un paese sull’onda di una esplosione di modernità.


La mattina del secondo giorno è dedicata ai recuperi del giorno prima, a cominciare dal chiacchieratissimo Holy Motors di quel Leos Carax dato oramai per disperso. Acclamatissimo a Cannes, Holy Motors è opera visionaria difficilmente raccontabile perché quel che fa è raccontare alcuni dei tanti racconti possibili, un film su ogni film possibile, il vivere e lasciar vivere tutte le vite possibili – o sarebbe meglio dire “rivivere” –, come sottolineato nella magistrale sequenza in cui parte quella “Revivre” di Gerard Manset che quasi spiega e fonde l’intera opera. L’immagine pura nella sua estrema semplicità e grandezza e le passioni umane che si susseguono senza sosta in un ciclo di vissuto denso e surreale.

Jennifer Lynch, figlia di cotanto padre, dopo il delirante e pessimo Boxing Helena aveva riguadagnato un minimo di stima con il discreto Surveillance. È quindi con un certo interesse che ci si appresta alla visione di Chained, un thriller dai toni morbosi, ben confezionato ma privo di identità e fascino che si lascià ricordare solo per la splendida prova attoriale di un Vincent D’Onofrio incomprensibilmente più presente in tv che al cinema.

La situazione migliora decisamente con il frizzante Imogene della coppia Pulcini-Berman, già apprezzati autori di American Splendor. Commedia divertente e divertita, interamente appoggiata sulla verve e le faccie di una sempre brava Kristen Wiig. Puntigliosa e talentuosa autrice teatrale, Imogene d’un tratto si ritrova dalla sua dorata vita new yorkese a ripiombare nella natia e provincialissima New Jersey, causa sequela di sfortune ed errori di vita. Nulla di nuovo sotto il sole, una slap-stick comedy classica e un po’ banale sul ritorno all’ovile e la scoperta dei veri valori, regala però momenti di sano divertimento e conferma quanto, a discapito della scarsità di produzione di genere, gli Usa siano ancora assai ricchi di talenti comici, in piena tradizione Saturday Nigh Live.

Assai deludente 11.25 The Day He Chose His Own Fate, il lavoro di Wakamatsu Koji su Yukio Mishima: tempi e modi da sceneggiato televisivo non restituiscono nulla né della visionarietà di Wakamatsu, qui irriconoscibile e impalpabile, né della complessità del pensiero di Mishima.

Serata dedicata a un fare cinema di puro intrattenimento con quello che potrebbe essere, e non sarebbe un male, un nuovo genere: il Block-Movie. Tower Block della coppia inglese James Nunn e Ronnie Thompson, prosegue sulla scia di film come Sket e Attack the Block. Racconti di vita dura e violenta di periferia ma con in testa pochi sottotesti sociali e politici, cinema di pancia dall’estetica forte e la scrittura spesso flebile, senza però che la cosa pesi più di tanto. Un palazzone in dismissione, pochi abitanti dell’ultimo piano si ostinano a non abbandonarlo, un ragazo viene ucciso e nessuno ha visto e sentito nulla e d’improvviso una mattina accade l’imponderabile. Alcuni momenti morti e una già citata scrittura non eccelsa lo rendono meno compiuto del favoloso Attack the Block ma il divertimento è garantito e non mancano sequenze di grande impatto.

Ci sarebbe spazio per un’altra visione ma in tutta onestà non si muore certo dalla voglia di avere conferma dell’inutilità dell’ultimo cinema di Rob Zombie, lo si recupererà, forse, nei prossimi giorni.