“Peter Pan” di James Matthew Barrie


Nella laicità il dolore non ha senso, è un’ingiustizia intollerabile.
La religiosità è contagiosa. Dove la religiosità è poca non c’è contagio. Anche la fede di quelli religiosi si stinge un po’, si ammanta di dubbi.
Le religioni sono nate per dare un senso al dolore.
D’altra parte qualcosa bisogna pur fare, intanto che impazzano cancro e la sclerosi laterale, nella fiduciosa attesa delletà delloro, quando larte medica servirà solo per impiantare le branchie e le ali in previsione delle vacanze estive. Sempre che nel frattempo lAIDS non ci stermini, linquinamento non ci soffochi, la spazzatura non ci sommerga, il medioevo postnucleare non ci inghiotta, il buco dellozono non ci mangi, le cavallette non ci annientino, le calotte polari restino dove sono, gli extraterrestri non arrivino e, nel caso, somiglino ai coniglietti della Walt Disney e soprattutto l’Islam si dimentichi di essere una religione fondata con l’unico e irrimandabile compito di asservire militarmente il mondo.
In un mondo laico, chi fermerà il dolore? Chi lo consolerà? Chi potrà dargli un senso?
Come è possibile senza religione affrontare la morte di un figlio bambino?
Nulla prepara alla morte di un figlio piccolo, ma in un mondo di credenti, diventa sopportabile. Persino la morte di un figlio bambino diventa sopportabile se devo comporre il corpo di mio figlio in una chiesa dove qualcuno mi leggerà la preghiera dei morti di S. Agostino:

Se mi ami non piangere!
Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo,
se tu potessi vedere e sentire quello che io vedo e sento
in questi orizzonti senza fine,
e in questa luce che tutto investe e penetra,
tu non piangeresti se mi ami.

Se non sono credente, la morte di mio figlio sarà intollerabile. Mio figlio sarà stato solo un ammasso casuale di atomi.
Il dolore della morte del figlio, Dio, la religiosità, essendo intollerabili finiscono nel luogo dove mettiamo le cose intollerabili: la narrativa fantastica.
Sono quattro le grandi storie che parlano della morte di un figlio bambino.
Pinocchio è figlio adottivo di un falegname che non è veramente suo padre (già sentita), finisce nel ventre di una balena (già sentita anche questa) viene condotto sulla via della perdizione da un tizio che si chiama Lucignolo (l’altro si chiamava Lucifero) e muore per poter risuscitare.
Alice cade in uno spaventoso mondo verticale e si perde. Cade nella tana del Bianconiglio, cade e cade e arriva dove arrivano i tunnel verticali: sottoterra. Le metafore di morte in Alice nel Paese delle meraviglie sono moltissime. Le regole del mondo dei vivi, la gravità e la stabilità delle dimensioni non valgono perché è un Ade pagano con tre mani di vernice sopra.
In Peter Pan le metafore sono ormai scoperte, sono scorticate: stiamo parlando della morte del bambino, della morte del bambino in ospedale.
Peter Pan è perso da una mamma distratta e diviene il bambino che non cresce. Tutti i bambini cresceranno, tranne uno, Peter.

There were odd stories about him;
As than children died
He went part of the way with them,
So that they should not be frightened.1

Peter Pan è l’angelo della morte. Lui e i bambini perduti sono morti. Sono morti in ospedale:

«Forse non avete mai visto la pianta della mente di un uomo. I medici talvolta disegnano piante di altre parti del corpo, anche del vostro, e la vostra pianta personale può risultare interessante, per voi. Provare a dire loro di tracciare la pianta della mente di un bambino, che, non solo, è confusa, ma è in, continuo movimento. Difficilmente ci riescono. Vi sono linee a zig-zag come quelle che segnano la vostra temperatura su una tabella clinica e con ogni verosimiglianza rappresentano le vie di un’isola. Infatti l’Isolachenoncè è, più o meno, un’isola con meravigliose macchie di colore, qua e là, e banche di corallo, e vascelli pirata al largo, e selvagge tane solitarie, e gnomi che per lo più esercitano il mestiere di sarto». (Peter Pan, Capitolo 1. Presentazione di Peter)

Ci sono nel libro frequenti allusioni a un mondo di malattia e ospedalizzazione. I tre bambini ospiti sono in pigiama o camicia da notte per tutta la narrazione: loro torneranno a casa. Peter e i bambini perduti no: loro in quelle corsie sono morti. Nel Medio Evo i bambini crepavano come mosche, ma a casa e in braccio a mamma.
Poi, con l’industrializzazione, i bambini hanno iniziato ad andare in ospedale. E non sempre tornavano. Non c’era il telefono. La mamma andava la domenica a trovare il suo bambino e le consegnavano le scarpine e il vestitino perché lui era morto il giovedì. Solo. Impotente e solo.
Peter ha sogni atroci, incubi sconvolgenti, da cui solo Wendy lo consola come consolano le madri: ninnandolo. Quando Peter non è presente tutto l’ingranaggio si ferma, anche indiani e pirati smettono di guerreggiare: l’Isolachenonc’è è il sogno di un bambino malato. Il romanzo gronda sangue. È un sogno, certo, un gioco, però è il sogno cruento di un bambino malato che sposta il sangue che imbratta le siringhe che usano per lui sulle spade dei Bimbi perduti. Quando i pirati aggrediscono gli indiani è una carneficina. Un gioco, certo, ma le parole sangue e morte vengono ripetute ossessivamente. Peter è un bimbo piccolo. Non ha ancora cominciato a perdere i denti. Ha i denti da latte e li ha tutti. Una fila di perle. Più di una volta questa fila di perle viene nominata e l’idea di questi denti caduchi che non cadranno mai accentua l’impressione di qualcosa di profondamente tragico.
Il mondo di Alice, come l’Isolachenonc’è, è un condensato di sogni, giochi e fantasticherie infantili, quello di Peter più strutturato e logico, quello di Alice più ermetico e onirico. Sotto un’allegria di facciata celano l’orrore dei regni dei morti di epoca precristiana. Sono rappresentazioni multicolori dell’Ade. In realtà la tragedia di fondo di questi mondi senza futuro è che, in cambio di una manciata di giocattoli, di indiani amichevoli e pirati pasticcioni destinati alla sconfitta permanente, è stato tolto il crescere. I bimbi perduti raccolti da Peter Pan nell’Isolachenonc’è si riuniscono attorno a Wendi perché racconti una storia, in uno slancio di nostalgia atroce per la madre che «li ha persi».
Ho perso mio figlio: il mio bambino è morto. Tutti i bambini crescono, ma non il mio. Come Peter Pan, il mio bambino è confinato in un limbo che somiglia a un ciclopico parco giochi, altrettanto insulso e triste.
Ossessivo, nelle due narrazioni, è il tempo. Il cipollone del Bianconiglio, sempre in ritardo e la sveglia nello stomaco del coccodrillo scandiscono un tempo senza futuro.
Il ticchettio dell’orologio è una della grandi scoperte dell’umanità. Non è solo lo strumento indispensabile alla totalità della tecnologia recente, ma è stato lo strumento necessario per misurare e pagare il tempo del lavoratore. In luoghi non abituati all’orologio, come le vecchie comunità agricole il tempo del lavoro non viene calcolato come valore.
Il ticchettio dell’orologio è quello che ci permette di prendere il treno. È quello che permette l’esistenza del treno.
Se però il tempo di mio figlio è contato, se questo tempo non è destinato ad avere un domani, se qualcuno mi ha detto: ancora un mese, signora, forse tre, allora il ticchettio dell’orologio diventa altro.
Dipende da quanto risponde alla digitale.
Dipende da quanto gli farà bene il sanatorio.
Ancora un mese, forse due, forse cinque, dipende da quanto risponderà alla chemioterapia.
Allora il ticchettio dell’orologio diventa un’ossessione. Un incubo.
Ne Il Piccolo Principe ci perdiamo anche le metafore. Il Piccolo Principe non cade nella tana del Bianconiglio, non parte per l’Isolachenonc’è.
Il Piccolo Principe, semplicemente, muore.
Il Piccolo principe muore perché non sopportiamo la morte del figlio e da qualche parte dovevamo metterla. Quindi l’abbiamo messa nella narrativa fantastica, luogo dove, ricordiamo Kafka, da sempre mettiamo i mostri.
In Peter Pan c’è anche l’ anticipazione delle distopie attuali.
La morte del figlio perché mamma lo ha perso, lo ha abortito.
Mamma lo ha perso perché papà non lo vuole.
Un nuovo genere, o forse sarebbe più corretto dire una nuova sfumatura, per un genere da sempre esistito. Sto parlando della distopia, dellantiutopia, della fantapolitica sociale, i figli e nipoti di 1984, sempre più presente nella cosiddetta letteratura per ragazzi, che in realtà, non sarà mai ripetuto abbastanza, è una letteratura anche per ragazzi, perché qualcosa che è buono per un dodicenne lo è anche per un sessantenne, mentre non è valido il contrario. Possiamo assurgere come esempi: Bambini nel bosco di Beatrice Masini (Fanucci Editore), e La dichiarazione (Salani Editore). Sono tutte narrazioni che sottolineano il rischio delle nuove generazioni di ragazzi, di essere sterminati, dagli anziani. Cè una strana forma di mancanza damore, nellimpedire la nascita. Una straordinaria forma di aridità. È già descritta in Peter Pan.

Prima dell’epoca contemporanea i bambini erano una ricchezza. Potevano essere mangiati, nelle tribù primitive per non morire tutti di fame nei periodi di carestia si sacrificava il bambino più piccolo. Poteva essere venduto: fino al secolo scorso, sino al secondo dopoguerra i bambini erano “affittati” nelle fattorie dove facevano i servi e dormivano nelle stalle mangiando avanzi. Il bambino lavorava e, in età adulta, avrebbe mantenuto i genitori. Molti genitori erano genitori orribili, ma mettevano al mondo i figli perché non c’era altra scelta, visto che madre natura ha messo sessualità e riproduzione attaccate l’una all’altra. Con il divieto allo sfruttamento del bambino e con le assicurazioni sociali che garantiscono la pensione mettere al mondo un figlio è un peso. L’uomo moderno non sempre ha voglia di accollarselo. Da quando con gli anticoncezionali sessualità e riproduzione sono state separate, la paternità si è dispersa in una marea di dubbi.
Il padre di Wendi, per ogni bambino spiega alla moglie, facendo tutti calcoli, come quel bambino non se lo possano permettere, come sarebbe meglio non averlo.
Il dialogo ha un effetto comico, questa almeno era l’intenzione dell’epoca, ma rileggiamolo adesso, che l’aborto è permesso e normale, la contraccezione obbligatoria e ci stiamo estinguendo per mancanza di bambini. Vengono i brividi lungo la schiena. Ho ascoltato nella mia vita il pianto di donne che avevano “liberamente” scelto l’aborto perché il marito e il compagno avevano spiegato che no, vedi, non ce lo possiamo permettere, mi sembrava di rileggere Peter Pan. E lei si lascia convincere, certo e poi resta lì, dopo anni è ancora lì che dice «Oggi avrebbe 6 anni, andrebbe a scuola».
Di Peter Pan è straordinario il colore, la leggerezza del volo. L’ultimo grande significato del libro è la capacità della nostra mente di creare una realtà e viverci.
All’interno della nostra testa c’è solo il nostro pensiero. La mente umana può volare, anche dal fondo delle prigioni o dei lazzaretti. È il messaggio che ci ha dato dal campo di concentramento Victor Frankl, quello che ci ha dato Erikson dalla sedia a rotelle. Noi siamo gli unici padroni del nostro pensiero e quindi della nostra gioia. La capacità di portare la mente in luoghi incantati è l’estrema libertà, quella inviolabile.

Silvana De Mari è nata nel 1953 in provincia di Caserta e vive a Torino. Laureata in medicina, ha esercitato come chirurgo in Italia e in Etiopia come volontaria e oggi si occupa di psicoterapia. Ha ricevuto svariati premi per i romanzi L’ultimo Elfo e L’ultimo Orco. L’ultima profezia del mondo degli Uomini chiude la saga già avviata dall’editore Salani. Con Fanucci Editore ha pubblicato, nel 2009, Il Gatto dagli occhi d’oro e, nel 2011, Io mi chiamo Yorsh.

1«Si raccontavano di lui molte strane storie, si diceva che quando bimbi morivano, lui li accompagnava nel primo tratto di strada, perché non avessero paura». James Matthew Barrie, Peter Pan, Capitolo 1. Presentazione di Peter.


amazon_logo_flaneri Acquista “Peter Pan” su Amazon.it


 

“Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese” alle Scuderie del Quirinale

Dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, alle Scuderie del Quirinale, è aperta la mostra Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese, che ospita per la prima volta a Roma una rassegna delle opere del famoso pittore di Delft. L’intento dell’esposizione è quello di evidenziare come l’opera del maestro olandese abbia influenzato lo stile di altri pittori suoi contemporanei e di quali possano essere stati i suoi riferimenti artistici.

Nel XVII secolo, nei Paesi Bassi operavano circa 700 pittori (uno ogni 2.500 dei circa 1.750.000 abitanti della piccola nazione e soltanto a Delft la percentuale saliva a uno ogni 500 abitanti) per ragioni di carattere sociale ed economico, determinate da circostanze storiche e politiche. In questo contesto di particolare benessere, il mercato artistico era altrettanto fiorente e indirizzato alla nuova classe dirigente: la borghesia, che richiedeva quadri di piccole dimensioni raffiguranti tematiche di vita domestica quotidiana, con una forte aderenza alla rappresentazione della realtà. Quando Jan Vermeer si affaccia al mondo dell’arte, il mercato era dominato dai Fijnschilders (pittori raffinati), come Gerrit Dou, Gabriël Metsu, Gerard ter Borch, Frans van Mieris (presenti anche loro in mostra con alcune opere). La famiglia di Vermeer non era molto ricca e, alla sua morte, il padre gli aveva lasciato più debiti che altro, quindi è probabile che la sua scelta di avvicinarsi al mestiere di pittore sia stata dettata da ragioni economiche, visto che il prezzo di un dipinto veniva determinato anche dalle ore di lavoro che comportava e un fijnschilder della scuola di Leida, la più rinomata del genere, poteva chiedere dai sei agli otto fiorini l’ora.

Rimangono ovviamente fuori discussione le qualità pittoriche dell’artista, rappresentate al meglio dal dipinto “La stradina” che apre l’esposizione romana.

Questa opera, proveniente dal Rijksmuseum di Amsterdam, rimane, a mio avviso, una delle migliori e delle più rappresentative, perché è un po’ un manifesto delle sue scelte e del suo stile pittorico. In alto sullo sfondo c’è il classico cielo olandese, con nuvole che ci fanno presagire una probabile futura pioggerellina anche nelle giornate più serene e una luminosità fredda tipica di quelle zone; più avanti ci sono i palazzi cittadini, resi con una cura, oserei dire, quasi iperrealistica, che ci mostrano con precisione fotografica i dettagli delle crepe tra i mattoni e delle finestre in vetro; in primo piano, ma senza esserne i protagonisti, le figure umane, per lo più donne, intente nei lavori domestici. Il ductus pittorico si alterna: è più liquido nelle nuvole, pur mantenendo la loro tridimensionalità, ma diventa piatto nel rosso e nel grigio delle persiane, fino al bianco assoluto dell’intonaco sui muri, senza tralasciare il dato reale del colore che cambia tonalità dove si sono appoggiate le schiene in prossimità della panca.

 

Un altro dipinto in mostra di straordinaria bellezza è la “Ragazza con il cappello rosso”, dalla National Gallery of Art Andrew W. Mellon Colletion di Washington, animato da una luce quasi magica proveniente da destra, che forma i lineamenti della ragazza rendendoli vivi.

Nelle zone meno illuminate la pittura rimane più vaga, ma nella parte toccata dalla luce, questa costruisce la figura con particolare maestria e realismo, rendendo quelle labbra qualcosa di unico. Insieme a questi grandi capolavori ci sono molti altri dipinti di diverso valore artistico, che fanno più da sfondo che da veri protagonisti dell’esposizione.

L’allestimento della mostra risulta fin troppo semplice e scarno; l’unico movimento è dato dai faretti luminosi che dall’alto sono indirizzati sui quadri, cercando di evocare forse un parallelo con quello che gli artisti presenti in mostra hanno invece saputo fare con maestria. Consiglio vivamente di recarsi in Olanda per ammirare questi maestri nel loro ambiente naturale, per capire meglio non solo il gusto pittorico dell’epoca, ma anche per avere un idea di quella luce così ben rappresentata nei loro capolavori. «Oost, west, thuis best» direbbero gli olandesi usciti da questa mostra, intraducibile in italiano, ma che in inglese suona più o meno così: «East, West, home is the best».


Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese
Dal 27 settembre 2012 al 10 gennaio 2013 presso le Scuderie del Quirinale.

Per maggiori informazioni:
https://www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-003

“Killer Joe” di William Friedkin

È proprio il caso di dire «Parenti serpenti»… a quanto pare il Texas è un grande stato: per 25mila dollari trovi un poliziotto corrotto che ti fa fuori la madre, una con una polizza sulla vita che ammonta a 50mila dollari, soldi che ti servono perché devi 6mila dollari alla mafia locale che ti minaccia e prende a calci in faccia ma che tutto sommato ti lascia abbastanza tempo per combinare qualche altro bel guaio. A grandi linee, è questo quello che succede a Chris, interpretato da Emile Hirsch, ventiduenne neanche tanto sveglio a cui serve una soluzione, possibilmente definitiva, a tutti i suoi problemi.
Friedkin è ormai un settantenne con alle spalle una filmografia infarcita di capolavori, uno che potrebbe anche permettersi il pensionamento e invece tira fuori un lavoro che neanche il più scalpitante degli esordienti. Il regista de L’esorcista dipinge un affresco di famiglia texana inacidito e greve, quasi fosse una versione estesa della sit contenuta in Natural Born Killers di Oliver Stone, ma è solo un riferimento, non c’è spazio per citazionismo e rimandi nel cinema di un maestro come Friedkin. I personaggi possono apparire forse un po’ troppo calcati, sembrano uscire da un comic in alcuni frangenti, il tutto però è funzionale a una narrazione che rimanda al genere white trash e che è in realtà un adattamento del lavoro di Tracy Letts, drammaturga vincitrice nel 2008 del premio Pulitzer e del Tony Award per August: Osage Country. È soprattutto nelle battute finali che si avverte questo forte legame con il teatro, già rintracciabile nel precedente e ispiratissimo Bug, sempre derivato da uno scritto della Letts.
In quest’ultimo lavoro, spassoso e dissacrante, Friedkin riesce a costruire un microcosmo all’interno del quale tutto ci sembra plausibile, anche le contraddizioni. Per la prima volta si cimenta con il digitale e lo tratta e lo deforma attraverso una fotografia straordinaria, virata spesso sul viola e piena di luce, una luce che acceca e accende ogni viso, opera di Caleb Deschanel, lo stesso della Passione di Cristo di Mel Gibson, capace di imbastire un mondo ricco di contrapposizioni: luce naturale calda del sole per gli esterni e immagini saturate, cariche di colore, per gli interni, protagonisti indiscussi della pellicola. Una dicotomia questa che sembra far da sintesi alla psicologia dei protagonisti: attenti a mantenere le apparenze verso il mondo esterno, che li considera sempre e comunque dei freak, dei reietti, ma senza freni in quel che accade nel loro intimo. Gran merito alla selezione di un cast ottimo sulla carta e semplicemente perfetto alla prova su strada, diviso equamente tra caratteristi di spessore troppo spesso sottovalutati, Gina Gershon e Thomas Haden Church, stelle di prima grandezza qui imbruttite e inferocite, Emile Hirsch e un mirabile Matthew McConaughey, e astri nascenti in piena rampa di lancio, Juno Temple.

In una veste noir prende corpo un racconto che definire pulp è riduttivo, accadono cose destinate a diventare cult assoluti per un certo cinema, come non considerare già negli annali la scena con la coscia di pollo? Un cinema popolare, di pancia e di sangue, rotolante e inarrestabile. In America il cinema lo sanno fare sempre gli stessi, c’è poco da fare.

(KillerJoe, regia di William Friedkin, 2011, drammatico, 102’)

“Come l’aria” di Melinda Nadj Abonji


«La tenera cantilena della nonna, il gracidio notturno delle rane, i maiali che scrutano con i loro occhietti suini, lo starnazzare agitato di una gallina prima di venire sgozzata, le viole matronali e le rose albicocca, le imprecazioni rozze, l’implacabile sole estivo, e ancora l’odore delle cipolle rosolate… l’atmosfera della mia infanzia».


Questo breve passo descrittivo ci restituisce con pochi elementi rurali la semplicità dell’infanzia di Ildikò protagonista e narratrice del nuovo romanzo di Melinda Nadj Abonji, Come l’aria (Voland, 2012).


La famiglia serba dei Kocsis, originaria della Voivodina, emigra in Svizzera per cercare fortuna e dopo tante peripezie riesce a ottenere la gestione di una caffetteria. Le due sorelle Ildikó e Nomi sono al centro della vicenda e trascorrono gli anni più spensierati in sospeso tra due paesi: Serbia e Svizzera. Essi rappresentano due mondi diversi e due modi di vivere lontani tra loro. Alla modernità ed efficienza della Svizzera che incarna la speranza nel futuro, si contrappone un passato contadino fatto di piccole cose.
Come l’aria affronta in modo lieve e a tratti spensierato un tema attuale, l’emigrazione nei suoi risvolti quotidiani dall’integrazione nella società fino alla realizzazione individuale. Quando finalmente le due ragazze potrebbero rivendicare tutti i diritti della loro nuova cittadinanza, la sensazione di precarietà non le abbandona: «Qui non abbiamo ancora un destino umano, prima dobbiamo guadagnarcelo».
L’opera è un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio intriso di nostalgia nel senso etimologico del termine (cioè “dolore del ritorno”), pagine e pagine dense e struggenti nella speranza di ritrovare immutato ciò che si è lasciato: «Il nostro Paese non deve cambiare mai».
Gli alberi agli angoli delle strade o lungo i sentieri percorsi accompagnano la famiglia Kocsis in questo viaggio: «Scivoliamo come sull’acqua lungo la strada bordata di pioppi maestosi” e ancora “navighiamo oltre i pioppi, le acacie e i castagni».
L’albero è simbolo di forza e richiama l’immagine di solidità e stanzialità per via delle profonde radici nel terreno, che lo rendono immobile. Gli alberi osservano la vita dei protagonisti, non tanto impotenti quanto incuranti. Alcune volte sembrano volerli esortare a reagire e perseverare nelle proprie scelte, per esempio, fuori dalla caffetteria, «il castagno nudo mostra i pugni» suggerendo che la vita è una lotta e non bisogna mai arrendersi né abbassare la guardia. Altre volte gli alberi incarnano quel pathos che è partecipazione sentita nei momenti di sofferenza: quando il padre Kocsis porta le figlie a conoscere Janka, la loro sorellastra, sono proprio i salici, piangenti per antonomasia, che lasciano sgorgare le loro lacrime cantando una canzone al posto di Ildikó e Nomi che invece devono «fingere di essere di pietra».
Man mano che si procede nella lettura il testo si rivela come un susseguirsi di storie: la storia di del nonno Papuci, della cugina Csilla, del papà, tutti i componenti della numerosa famiglia «hanno un segreto, persino nostra madre, che per molto tempo avevamo creduto di conoscere».
La giovane Ildikó non è onnisciente e la sua narrazione frammentaria si arricchisce in itinere di particolari significativi che rischiarano per un breve istante i contorni di un personaggio, illuminandone il passato. Ogni storia, come la tessera di un puzzle, va a collocarsi in un punto preciso della visione, ma l’unica depositaria di tutti i ricordi è Mamika, la nonna, la memoria vivente di un passato sconosciuto: «Vi racconto quello che so, perchè non dimentichiate mai che può sempre capitare di tutto nella vostra vita, anche le cose più atroci». La sua morte improvvisa metterà a tacere per sempre le storie non dette e anche ogni tentativo di dare un senso alla realtà.



(Melinda Nadj Abonji, Come l’aria, trad. di Roberta Gado, Voland, 2012, pp. 256, euro 14)
 

“Un colpo di pistola” dei D-Storta

Bene, usciamo per un attimo dal panorama romano e allarghiamo un po’ i nostri orizzonti. Dopo aver parlato recentemente de I Mostri, dei Masoko e dei KamchatKa!, ci trasferiamo in terra sarda e parliamo dei D-Storta.

Nel 2010 Christian (voce e chitarra) e Biagio (batteria), dopo anni e anni di collaborazioni, avviano questo progetto musicale e poco dopo Giacomo e Pierlorenzo si aggiungono al duo iniziale, formando un quartetto denso di diverse contaminazioni. Sempre nello stesso anno, firmano il loro primo contratto discografico con l’etichetta Nomadism e nel 2011 esce Un Colpo di Pistola, album d’esordio contenente 10 tracce esplosive: un mix sui generis di garage-rock, elettronica e disco anni ’80. L’esperimento è più che riuscito. Come dichiarato in un’intervista, le fonti ispirative sono molto diverse: Muse, Subsonica e Marlene Kuntz si combinano con Alexisonfire e con un perfetto uso del sintetizzatore. Tra la fine del 2011 e i primi sei mesi del 2012 si esibiscono in vari festival e canali televisivi, vincendo diversi premi della critica in Sardegna e, allo stesso tempo, esibendosi accanto a gruppi e artisti italiani già affermati come Casino Royale, Malika Ayane e Velvet.

«Noi speriamo che ognuno si possa immedesimare nelle situazioni descritte nelle canzoni, e che quindi non si pensi banalmente che quelle frasi le stia cantando solo Christian, ma che le stia cantando chiunque le voglia cantare, chiunque si trovi in una determinata situazione e abbia bisogno di aprirsi e buttar fuori ciò che ha dentro», questo il pensiero della band.

I riconoscimenti della critica di certo non mancano: il singolo “Cerchi” entra e rimane per tredici settimane nella classifica di Indie Music Like, mentre inizia a girare su diverse radio locali. La soddisfazione più grande è di sicuro la vittoria de L’Unione Sarda special contest, un evento al quale hanno partecipato circa duecento artisti. I fortunati che hanno visto i loro live, ci dicono che è impossibile non essere coinvolti.

Ma ora parliamo del disco avendo già citato i brani trainanti dell’album, “Un Colpo di Pistola” e “Cerchi”. Il primo pezzo, dopo una intro spettacolare di circa 40 secondi, fatta di suoni (appunto) distorti e chitarre, esplode in tutta la sua rabbia con un rock duro e puro, ottimo. Il secondo, con quel testo e quella musica, si candida a ruolo di tormentone invernale, grazie a un ritornello martellante e a un video simpatico che ha registrato quasi diecimila visualizzazioni. Molto originale è invece il brano “Senza far rumore”, parole esplicite e la voce di Christian che mai come in questa occasione sembra quella del primo Piero Pelù. “Amanti” invece celebra l’amore, tema che è riscontrabile un po’ in tutte le tracce ma che cambia, alternando situazioni romantiche ad altre fatte di rabbia e amarezza.

Nel complesso, il progetto ma soprattutto questo esordio, sono davvero degni di nota. Le sonorità pop/rock, l’uso sapiente del synth e questi testi mai banali ma molto istintivi regalano a questo album completezza e sostanza, in un connubio quasi perfetto. A livello personale, sorprende la loro energia, il loro carattere. A questo punto, possiamo solo sperare che quest’autunno li porti in giro per il “continente”.

 

“Nessun luogo è più sicuro” di Milo Ratkovic

Con un tempismo un poco inquietante e un intuito letterario che gli va riconosciuto, un piccolo editore romano si è incaricato di ripubblicare il romanzo d’esordio, e anche l’unico, dello scrittore di origine croata Milo Ratkovic, cresciuto in Slovenia ma rifugiatosi in Italia allo scoppio delle guerre balcaniche, e morto suicida la notte del 6 dicembre 1991, durante i bombardamenti della città di Dubrovnik.
Il romanzo, pubblicato a Trieste in alcune copie a spese dell’autore, conobbe un breve e rapido successo che convinse un editore nazionale ad acquisirne i diritti per alcuni anni, salvo poi ritirare la volontà di diffonderlo a livello nazionale. La sua ricomparsa non può dunque che essere una felice notizia per quello che pare davvero una gemma preziosa, purtroppo ancora al suo stato grezzo.
Cosa sarebbe stato di Ratkovic, se avesse continuato a scrivere, è un pensiero che può solo allungare la lista delle congetture e possibilità storiche e che ci esimeremo dunque qui dall’approcciare. Quanto invece sia lungimirante, e anche un po’ astuta, la scelta di ripubblicarlo oggi appare evidente dalla trama del romanzo.
Nessun luogo è più sicuro è la storia di Piero, studente ventiquattrenne in biologia molecolare che sta emigrando in Francia, e Leila, una profuga libica conosciuta sul treno verso Nizza. Leila è piuttosto una rifugiata politica, allontanatasi da Tripoli e sbarcata in Italia dopo l’assassinio di suo padre, oppositore del regime di Gheddafi. Ma non è salva come crede e per ottenere i documenti per il riconoscimento di rifugiata politica è sottoposta un iter oscuro e drammatico.
Per questo ora Leila si sta spostando clandestinamente in Francia, e trova l’aiuto del giovane e idealista Piero, che se ne innamora. Nonostante nella tradizione commerciale letteraria questo incipit potrebbe portare a un’evoluzione da thriller con spari e inseguimenti, nel resto del libro non succede niente di tutto ciò.
Passata la frontiera con un abile stratagemma, il romanzo si sofferma invece sui dettagli della vita quotidiana, sulla loro battaglia giornaliera che questa nuova coppia affronta, sui dettagli che la spingono a resistere.
La bravura letteraria e la cifra di Ratkovic sta proprio qui. Seguendo gli insegnamenti dell’eremita e filosofo slavo Solenkin, Ratkovic non sceglie mai di raccontare storie più grandi di lui, ma inquadra il suo obbiettivo nella quotidianità serenamente disperata dei personaggi, la ricerca di un’inaspettata normalità. C’è una tensione placida e insopportabile, quella, come diceva Hitchcock, del bicchiere sull’orlo del tavolo che sta per cadere ma non arriva mai a scivolare giù, eppure nessuno mai è in pericolo di vita evidente. C’è invece la lotta per ritrovare una vita, per costruire una nuova possibilità che sembra distruggersi a ogni tentativo.
Metafora di questa impossibilità è la gravidanza che Leila non riesce a portare a termine, o i continui viaggi della madre di Piero puntualmente annullati. Così gli unici momenti di felicità della coppia sembrano essere le domeniche pomeriggio passate nel giardino della villetta adiacente al loro appartamento, quella dei vicini Paul e Silvya, che li accolgono calorosamente. Ma la solidarietà e l’amicizia sono destinate a scomparire con Paul e Sylvia inghiottiti misteriosamente nelle pieghe della storia. Leila e Piero saranno costretti a mettersi di nuovo in viaggio, cavalcando nella Ardèche, rapidi, come se essere sempre di corsa fosse l’ultimo (non)luogo sicuro.
Un western romantico, un capolavoro intimista, un romanzo sociale e un grido di libertà che scuote la vecchia Europa, un romanzo che fu in grado di guardare nel futuro e che oggi può risuonare con malinconia il suo avvertimento.

“Il Mistero del Mare” di Bram Stoker

È molto probabile che per la maggior parte di noi il nome di Bram Stoker sia inevitabilmente legato a quella che all’unanimità è considerata la sua opera più famosa, Dracula, del 1897, testo che ispirò l’altrettanto famosa pellicola muta del 1922, Nosferatu, e tutta un’altra lunga serie di opere e film (non ultimo dei quali Dracula di Francis Ford Coppola del 1992).

Offuscate e relegate al semi-oblio dalla fama ingombrante e dalla popolarità immortale di quella sua prima creatura, nel centenario dalla scomparsa dello scrittore irlandese le restanti opere gridano vendetta, cosicché, finalmente, la platea può conoscere e leggere Il Mistero del Mare (Nutrimenti 2012), finora rimasto inedito in Italia. Pubblicato nel 1902 dapprima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, questo romanzo nasconde in controluce più di un tratto estremamente interessante.

Prima di parlare di trama e caratteristiche di stile, argomenti che sbiadiscono flosci dinanzi ad aspetti ben più salienti, non posso non accennare al fascino che questo libro emana a partire dal clima storico-culturale nel quale venne concepito e di cui si sostanzia in maniera inequivocabile.

Credo di poter affermare con tranquillità che nel mondo delle lettere poche altre attività ammalino quanto lo “studio” di come un genere letterario interpreti la storia e l’uomo, di quanto possa rappresentarne la voce più argentina, l’analisi più scientifica, la radiografia più infallibile. Il romanzo di per sé è l’esempio più classico di questo assunto. Ripudiato fin dall’antichità e per secoli tenuto ai margini dell’alveo dei grandi e medi e piccoli generi letterari, eccezion fatta per personalità decisamente eccentriche e fuori dal comune, esso incarnerà per anni la volgarità e la bassezza. Eppure, quando nella società occidentale inizieranno a farsi strada imponenti cambiamenti e un assetto in piedi da secoli immemori comincerà a vacillare, ecco che sarà proprio questo genere a rappresentare lo strumento più adeguato ed efficace non solo per carpire l’attenzione di un pubblico sempre meno elitario (il futuro mercato) ma anche per dare voce a quel disagio profondo da cui scaturirà la letteratura modernamente intesa. Quale suolo migliore per sbocciare se non la moderna veloce industrializzata e borghese Inghilterra? Per onore di cronaca bisogna precisare, e mi scuso per la frettolosa anamnesi, che la sua prima comparsa questo genere la fece in Spagna, con il romanzo picaresco e soprattutto con quel testo fantastico che è il Don Chisciotte, e altre piccole apparizioni vi saranno anche in Francia, ma con ben altri intenti e diversi orizzonti. Proprio in Inghilterra invece nasce e si diffonde su larga scala, a partire dalla seconda metà del Settecento, quello che verrà poi detto romanzo nero, o gotico, intriso di uno spiccato gusto per l’orrido e il tenebroso, con le sue atmosfere cupe e terrificanti, sintomo non solo di un particolare gusto del momento, ma principalmente di tutto ciò che di spaventoso e tetro si agitava nell’anima europea, e soprattutto in Inghilterra, dove erano in atto trasformazioni grandiose che generavano altrettante terribili tensioni. Nel romanzo finisce col confluire così quel carico abnorme di smarrimento e angoscia nato dinanzi all’effetto di grandi rivoluzioni, politiche, sociali e industriali, che sgretolavano un assetto materiale e spirituale durato per secoli. Questa profonda crisi indusse ad abbandonare le grandi impalcature della ragione, in cui fino ad allora erano state comodamente sistemate tutte le manifestazioni del reale, per intraprendere la ben più tortuosa esplorazione delle zone oscure della coscienza, dove si agitano gli impulsi più inquietanti. Una parentesi a parte meriterebbe tutto il discorso sulla nascita e lo sviluppo, sempre sul suolo inglese, di un altro genere narrativo di enorme successo, ovvero il romanzo storico, con il suo iniziatore più famoso, Walter Scott, vera “vecchia volpe” della letteratura, che per primo intuì gli ingredienti per poter ammaliare un vasto pubblico e al quale noi italiani siamo in fin dei conti debitori, poiché a lui in particolare il nostro Manzoni si ispirò per importare il genere anche in Italia (dove, dimostrando un impressionante ma classico ritardo, a esso ancora si guardava con estrema diffidenza e disistima).

Tornando al Neogotico, iniziatore ne fu Horace Walpole con Il castello di Otranto del 1764 (curioso è che l’Italia, nell’immaginario inglese, rappresentava il paese esotico per eccellenza, zeppo di foschi intrighi e crudeli delitti), altra grande rappresentante fu Ann Radcliffe, con romanzi fondati sulla persecuzione di dolci fanciulle da parte di uomini malvagi, fino ad arrivare ai grandi capolavori del genere, oramai innalzato di livello, come Frankenstein di Mary Shelley (1817) e i picchi assoluti raggiunti con Edgar Allan Poe in America. A fine secolo tuttavia il genere non smette di offrire campioni interessanti, e arriviamo alle opere del nostro Bram Soker: non solo Dracula però, come abbiamo già detto.

Ne Il Mistero del Mare confluisce appieno l’atmosfera che abbiamo sin qui descritto, ma una caratteristica mi pare importante sottolineare, ovvero la fusione che in esso l’autore attua tra fiducia nella modernità, nella scienza, nelle capacità umane, e fascinazione per tutto ciò che è ignoto, inconscio, soprannaturale: siamo oramai agli inizi del Novecento, è entrato in crisi il Positivismo e un certo Freud da qualche anno ha, sconcertando il perbenismo europeo, teorizzato la pscicanalisi e con essa dimostrato come esista in noi, in una zona estremamente profonda di noi, un mondo sconosciuto di forze oscure. Di questo clima si sostanzia la nostra opera.

Il Mistero del Mare racconta le vicende legate al giovane e aitante avvocato Archibald Hunter a partire dal momento in cui decide di trasferirsi nel villaggio di Cruden Bay. Qui, tra un’occupazione e l’altra, ben presto si imbatte in un pittoresco quanto inquietante personaggio, Gormala, una vecchia zingara di lingua gaelica e dai modi alteri che gli dichiara di possedere, come lui, il dono della preveggenza. Il giovane, infatti, messo piede in questa nuova terra, continua ad avere terribili visioni di morte che puntualmente si avverano. Tra lo spavento e la diffidenza tipica dell’homo logicus di cui è il rappresentante tipico, Archie apprende dalla donna anche una sinistra profezia che lo riguarderebbe, chiave fondamentale per scoprire un inquietante mistero. Dopo una serie di episodi/visioni che confermano le parole della onnipresente Gormala, il giovane scopre, in un vecchio cimelio acquistato “per caso” a un’asta, dei fogli risalenti al XVI secolo recanti un antichissimo codice cifrato. Nel frattempo, a questa vicenda si intreccia l’incontro avvenuto fra il protagonista e l’avventurosa giovane americana Marjory Drake, altro tassello fondamentale del mistero che Hunter si trova a dover sbrogliare. Spinto dal suo incitamento, Archie, crittografo oltre che avvocato, riesce a decifrare il messaggio contenuto nelle carte scoprendo che vi si parla di un antichissimo tesoro nascosto dall’Invincibile Armata secoli prima, nel 1587, durante il tentativo di attacco della Spagna di Filippo II ai danni dell’Inghilterra. Il caso diventa sempre meno casuale, poiché presto si scoprirà che la bella Marjory altri non è che una discendente diretta di quel Francis Drake che salvò l’Inghilterra proprio dall’Invincibile Armata. Altri casi e altri personaggi interverranno a infittire la trama di questo libro fino allo scioglimento finale, da notare però soprattutto l’elemento tipico della prosa di Stoker, che ha mutuato e mantenuto fin dai tempi di Dracula, ovvero quella suspense, quello stato di inquietudine caratteristico del genere neogotico che l’autore riesce a creare, ad esempio, descrivendo il tenebroso castello di Crom e le sue segrete o che nasce di fronte alla macabra descrizione della processione di anime, figure spettrali spaventose, appartenute agli innumerevoli morti mietuti dai terribili scogli presenti di fronte alla sua abitazione, gli Skares.

Un libro insomma tutto da scoprire, o meglio da riscoprire, esempio di una prosa fluida e chiara a cui forse oggi non siamo più abituati, testimone anche di un clima e di modi di vita che, a poco più di un secolo di distanza, sembrano trascorsi anni luce fa.

 

(Bram Stoker, Il Mistero del Mare, trad. di Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai, Nutrimenti, 2012, pp. 464, euro 19,50)

“Senza niente” di Flavio Cortellazzi

Teatro che non è teatro ma che è teatro a tutti gli effetti. Spente le luci – anzi no perché il faro centrale che illumina il palco attraversa, dalle retrovie, tutta la piccola sala del Teatro Uno – l’attore rimane da solo e sancisce la sua presenza con la voce (ora acuta, ora bassa), con gli occhi (sgranati, divertiti, allucinanti) e con i gesti (leggiadri, pesanti, innaturali). Teatro che è teatro perché c’è qualcuno che parla, che recita, che attrae l’attenzione su di sé. Ma manca tutto il resto, e per una volta è un bene. Mancano altri attori in primis, e mancano le luci, i colori, gli effetti scenici, i costumi, le musiche, gli oggetti di scena.

Il teatro è l’attore e l’attore è senza niente, come ci ricorda il titolo. Un nome però ce l’ha: Alessandro Pezzali. E anche un progetto, quello del Teatro Magro di Mantova.

E qual è l’obiettivo? Dove ci stanno conducendo?

Stiamo assistendo a una seria, serissima, decomposizione dell’afflato teatrale. Anzi no: quella che abbiamo davanti agli occhi è una grandissima presa per i fondelli. Satira sottile e affilata contro un potere che non è potere, o meglio lo è ma soltanto in scena. Ma non solo: i vari “teatri” – intesi non come luogo fisico ma come “genere” – rappresentano al tempo stesso espressione peculiare e universale. Sub generis c’è moltissimo, c’è un’Italia viziata di cecità, di tradizione, di politica.

Quel che rimane sono degli stereotipi che diventano archetipi: ridiamoci su ma le catene, sebbene piccole, ci sono e ci trattengono (loro sulla scena, noi nel commentarli). L’attore parla di se stesso, del suo mondo e ride, urla, sbraita. Materia del riso è la tragedia come il circo, il teatro di strada come quello parrocchiale, il teatro-danza e quello politico, la commedia e i burattini, l’avanguardia e il classicismo. E poi ancora molto altro. Attore come poeta, come aedo: non vede ma vede benissimo e si separa da tutto, si spoglia da tutto, si allontana da tutto.

Poi però scende tra la gente, torna a vederci e lascia il posto a Lei, l’altra, la brava Marina Visentini, a cui va la luce del faretto e il nostro sguardo. Lei non è il teatro ma è il reale: il secondo monologo non parla di scene ma di scena, della scena. La società che ci ingloba e ci investe e ci offre la sua idea di mondo e di cultura. Lei, l’attrice, è un presidente, anzi la presidentessa: colei che decide. Non si estroflette su se stessa, sulla sua coscienza e subcoscienza: racconta e riproduce la frenesia, sommerge e riemerge dalla vita quotidiana, da incessanti e frivoli dialoghi virtuali.

Verità, falsità e soprattutto un grandissimo menefreghismo: non importa da che parte stiamo andando, l’importante è andare. Ma nel cammino i danni sono tanti e si vedono: nell’assente programmazione culturale di un paese, nel frivolo voler apparire di artisti non pronti al sacrificio, nell’incapacità di cogliere le vere innovazioni.

Uno più uno, attore più presidentessa, il risultato è sempre lo stesso: c’è bisogno di una nuova forma, di una nuova scena, di una nuova realtà che poi non è altro che una nuova identità. Dell’attore, dell’artista, dell’addetto ai lavori prima, di noi tutti – cittadini di un mondo che ci cambia velocemente sotto i piedi – poi.


Senza niente
regia di Flavio Cortellazzi
monologhi di Alessandro Pezzali e Marina Visentini

Andato in scena presso il Teatro Studio Uno di Roma dal 5 al 7 ottobre 2012.

La collana Attese di 66thand2nd

Tra le collane della casa editrice 66thand2nd, abbiamo deciso di soffermarci su Attese e lo abbiamo fatto insieme al suo ideatore e direttore, Tomaso Cenci. 

La collana, presente in libreria dal 2009, conta oggi diciassette libri «non per tifosi o per tecnici sportivi, ma per amanti della letteratura: lo sport in questi romanzi è il pretesto per parlare di altro perché noi pensiamo che oggi sia un acceleratore universale di emozioni. Crediamo sia una collana originale, dotata di una forte specificità, capace di attirare gli appassionati perché lo sport è veramente il linguaggio universale, forse il più universale per parlare di cose che fanno piangere e ridere in tutte le parti del mondo aldilà delle latitudini, delle etnie, delle culture». La grande sfida è quella di pubblicare storie che hanno la potenzialità di attrarre un pubblico indifferenziato, non propriamente sportivo, comprese le donne, «ancora un po’ diffidenti».

In America esiste un genere letterario, studiato anche nelle università, che è quello della grande letteratura sportiva, un genere praticamente inesistente in Italia a parte rare eccezioni (ad esempio Arpino con Azzurro tenebra, le cinque poesie sul calcio di Saba, Fernando Acitelli). Si tratta di romanzi di grande pregio letterario che prendono spunto dallo sport inteso come valore, forza, riscatto e che non ha niente a che fare con soldi, violenza o doping. Underworld di Don De Lillo non è certo un libro di sport, ma prende spunto proprio da una famosa partita di baseball: «Ho questo sogno di pubblicare in Attese libri del livello di Underwold, in cui lo sport è la scintilla per parlare di altro».

Shoeless Joe di William Patrick Kinsella è stata la prima uscita della collana, quasi obbligata e naturale perché «il baseball è uno sport fondante della società americana, a livello collettivo è compagno di vita di molti americani, se non di tutti». Non a caso il baseball, sport al quale si è appassionato anche Tomaso Cenci, ha prodotto molti romanzi e anche film emozionanti. Proprio da questo libro cult di Kinsella è stato tratto L’uomo dei sogni (titolo originale Field of Dreams, 1989) con Kevin Costner. È la storia di un agricoltore dell’Iowa che, nel tentativo di recuperare il rapporto con il padre, costruisce un campo da baseball, assecondando delle voci interiori, distruggendo gran parte della sua piantagione. Nel fare ciò, compie un viaggio nel tempo alla ricerca di quello che successe veramente quando alcuni giocatori di baseball, tra i quali Shoeless Joe, furono travolti da uno scandalo. E in questo viaggio si fa accompagnare niente meno che da J.D. Salinger.
Di baseball parlano ancheIl mio nome è Jackie Robinson di Scott Simon – Jackie Robinson fu il primo afroamericano a giocare nella Major League, icona dopo Martin Luther King, della lotta per i diritti civili dei neri in America, tanto che la sua maglia numero 42 è stata ritirata –, La partita perfetta del premio Pulitzer Michael Shaara con al centro la figura del grande lanciatore Billy Chapel, e Pesci poeti e cari ricordi di Sherwood Kiraly.

Altro sport di riscatto è il pugilato. Chi pratica la boxe è solitamente un «perdente simpatico». Il cinema ha prodotto molti di questi personaggi: Il colosso d’argilla (1956) con Humphrey Bogart (tratto dal romanzo di Budd Shulberg, pubblicato in Italia proprio da 66thand2nd), Fronte del porto (1954), diretto da Elia Kazan, con Marlon Brando, Toro scatenato (1980), regia di Martin Scorsese, con Robert De Niro, Cindarella Man (2005) di Ron Howard, con Russell Crowe. Pugile controverso, cantato da Bob Dylan e interpretato da Denzel Washington in Il grido dell’innocenza (1999), fu Hurricane, famoso soprattutto per essere stato in prima linea nella lotta per i diritti civili negli Stati Uniti degli anni ’70. Protagonista di un caso giudiziario che divise l’America, è al centro del romanzo dello scrittore e giornalista James S. Hirsch, Hurricane. Il miracoloso viaggio di Rubin Carter.
Un classico di cinquant’anni fa, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1963 dalla Feltrinelli, è invece Il campione dello scrittore inglese David Storey, riedito da 66thand2nd con una traduzione più fresca. È la storia di un gruppo di rugbisti operai e minatori dal modesto salario che ogni sabato cerca riscatto sul campo da gioco alla ricerca di notorietà per non rassegnarsi al grigiore della propria esistenza.

Non poteva poi mancare il calcio tra gli sport capaci di smuovere folle e sentimenti. Il sogno del calciatore adolescente dello scrittore spagnolo J.J. Armas Marcelo parla delle sensazioni di un calciatore adolescente che sogna di giocare con il grande Real Madrid di Butragueño. Il calcio è invece il mezzo per smascherare le ipocrisie e le contraddizioni della società moderna in Litania di un arbitro, dell’autore berlinese Thomas Brussing. La voce monologante del romanzo è quella di un arbitro che, abituato in campo a essere imparziale, super partes e tutto d’un pezzo, si trova coinvolto nella vita in un drammatico e doloroso processo. Alla figura dell’allenatore è dedicato, invece, l’altro libro-monologo dello scrittore dell’ex Germania dell’Est, Fino a diventare uomini.
In Il sogno di Walacek dello scrittore svizzero Giovanni Orelli, il contesto storico-politico è quello terrificante del 1938. Lo sport nella Germania di Hitler era usato come dimostrazione di forza e superiorità. Per questo il gesto di Sindelar, il grande centravanti austriaco che si rifiuta di indossare la maglia tedesca con la svastica in seguito all’Anschluss, è un gesto eroico ed eccezionale. Come eroica ed eccezionale è anche la vittoria della Svizzera di Walacek, gloria elvetica dimenticata, mezzala del Servette e della nazionale, per 4-2 ai Mondiali di Francia del 1938, proprio contro la Germania. Sottrarre all’oblio questo eroe minore è l’intento che si prefigge Orelli con questo suo raffinato romanzo, già edito da Einaudi nel 1991, in questo aiutato anche da un’opera minore del grande pittore di arte “degenerata” Paul Klee: sulla pagina sportiva 13 del National Zeitung del 19 aprile 1938, che riporta la cronaca della finale di Coppa svizzera disputata fra il Grasshopper e il Servette, l’artista tracciò con un pennarello nero una O che taglia a metà proprio il cognome di Walacek. La O di Klee diventa il punto di fuga da cui si dipanano una serie di idee, associazioni, congetture e microstorie.
Lo scorso agosto è, infine, uscito Ho battuto Berlusconi!, di John Graham Davies, monologo divertente di un tifoso del Liverpool che, nonostante i mille problemi che lo affliggono, riesce a procurarsi il biglietto per la finale di Champions League del 2005 a Istanbul, dove la squadra dell’allora premier italiano fu sconfitta in maniera rocambolesca dai Reds, dopo aver subito tre gol in pochi minuti ed essere arrivati ai calci di rigore.

Dal 2011 hanno cominciato a far parte della collana anche gli scrittori italiani. Il primo in assoluto della casa editrice romana è stato Ivan Polidoro con Le coincidenze: «Teniamo alla letteratura italiana. Abbiamo lanciato un concorso a Torino intitolato “In attesa dell’Unità d’Italia”». Il concorso è stato vinto dal manoscritto che meglio ha saputo amalgamare nel suo romanzo i due riferimenti allo sport e all’Unità d’Italia per celebrarne il 150º anniversario. Ne è nato Non siamo mai abbastanza di Dario De Marco, giovane autore napoletano, nel quale i Mondiali di calcio da quelli del 1974, anno della sua nascita, a quelli del 2010, scandiscono tutti i momenti fondamentali della sua vita.

Per concludere, mi permetto di spendere alcune parole sulla grafica dei libri, veramente di livello internazionale, affidata all’art director Silvana Amato. Le copertine di Attese dai tratti simmetrici e decisi sono caratterizzate dalle illustrazioni della scuola spagnola di Alexis Rom e Claude Marzotto con base a Barcellona, veri pezzi da collezione.
 

Per ulteriori informazioni su Attese:
http://www.66thand2nd.com/libri.html

“Hell on Wheels” di Joe e Tony Gayton

È il 1865 e la sanguinosa guerra civile che ha diviso gli Stati Uniti è terminata con la resa degli Stati Confederati. Non è soltanto una pagina di storia, ma anche il punto di partenza di Hell on Wheels, l’ultima serie presentata dal canale via cavo AMC, capace, negli ultimi 5 anni, di regalare al pubblico diversi show di successo quali Mad Men, Breaking Bad e The Walking Dead.

I fratelli Tony e Joe Gayton, creatori e produttori del lavoro, hanno riportato sullo schermo un mondo e un periodo storico indubbiamente spremuto dal cinema e dalla televisione nel corso degli anni. Nonostante ciò Hell on Wheels riesce ad andare oltre i classici western, mostrando le sfaccettature (soprattutto quelle più oscure) dell’era della Ricostruzione. La voglia di ripresa e l’ambizione degli stati americani, di nuovo riuniti, nella costruzione della grande ferrovia transcontinentale, contrasta con un paese ancora devastato dagli orrori della guerra:le tensioni tra Nordisti (i famosi Yankee) e Sudisti non si sono affatto sciolte con la fine del conflitto. Le lacerazioni si fanno più marcate anche nei confronti dei nativi americani e soprattutto degli schiavi neri, resi (in linea del tutto teorica) liberi alla fine della guerra, ma sempre mal visti dai bianchi.

Nei dieci episodi della prima stagione vengono seguite le vicende di Cullen Bohannon (interpretato da Anson Mount), un soldato confederato che dopo aver preso parte al conflitto, ha scoperto tragicamente di aver perso moglie e figlio, entrambi uccisi dai soldati dell’Unione. La sete di vendetta nei confronti degli esecutori dell’atroce delitto lo porteranno verso le rotaie di Hell on Wheels, letteralmente Inferno su ruote, ossia il cantiere della Union Pacific, una delle due società (assieme alla Central Pacific) incaricate della costruzione della grande ferrovia che avrebbe unito l’America. Proprio in questo agglomerato di fango, tende, prostitute e operai neri sottopagati e considerati ancora come schiavi, Cullen trova lavoro come supervisore della squadra taglio (quella composta dai nigger, come venivano apostrofati con disprezzo gli uomini di colore) per decisione Thomas Durant (Colm Meaney), il grande investitore della Union Pacific, un uomo di affari che si scoprirà avere diversi interessi personali economici e non solo dietro la costruzione della ferrovia. Durante i lavori, le vicende di Cullen si intrecceranno con quelle di Elam Ferguson (interpretato dal rapper e attore Common), un ex schiavo da poco libero che agogna un trattamento migliore da parte dei bianchi che stazionano a Hell on Wheels.

Insomma, siamo ben lontani dal solito Far West, dagli sceriffi con le mani sulla fondina in giro per piccole cittadine e sparatorie dai carri.

All’appello mancano ancora gli Indiani d’America, una minoranza di individui che vaga per le vaste terre incolte, dipinta come una comunità legata alle proprie tradizioni e ai propri costumi, che per difendere il territorio che gli appartiene mostra tutta la sua forza e brutalità contro l’uomo bianco. È così che conosciamo un altro dei protagonisti, Lily Bell (Dominique McElligott), che perde il marito (uomo di fondamentale importanza per la realizzazione del progetto ferroviario in quanto incaricato di tracciare la rotta migliore per la ferrovia in modo tale da creare una tratta sicura e percorribile) proprio a causa di un’imboscata dei Cheyenne, da cui la donna riesce a fuggire miracolosamente con coraggio e fortuna.

Tutti questi eventi, accuratamente intrecciati tra loro, hanno dato vita a una delle serie più interessanti dell’ultima stagione, forse ancora lontana (a livello di ascolti almeno) dai programmi di punta dei vari canali, ma che ha generato grande curiosità da parte del pubblico e della critica, non solo grazie all’idea vincente dell’ambientazione storica immediatamente successiva alla guerra civile, ma anche per la maturità e la freddezza con cui il periodo è stato presentato, sottolineando le peculiarità più cupe di quegli anni: l’incalzante problema del razzismo anche dopo la liberazione di tutti gli schiavi, la continua lotta tra Statunitensi e Nativi americani (che negli anni sarebbe poi degenerata fino allo stermino praticamente totale delle tribù indiane), e il degrado delle piccole società che sorgevano accanto al grande progetto della ferrovia transcontinentale, formate, come già detto, da agglomerati di tende da spostare all’occorrenza e abitate da uomini e donne spesso di dubbia morale, in cui ancora la legge del più forte la fa da padrone.

Un mix vincente che ha convinto AMC a riconfermare Hell on Wheels per la seconda stagione: iniziata il 12 agosto 2012, sarà composta di altri dieci episodi. In attesa di vedere se anche questa serie riuscirà ad avere le stesse fortune degli ingombranti “colleghi” di network possiamo già dire che: «Chi ben comincia è a metà dall’opera».

“Il tempo di Mahler” di Daniel Kehlmann

Che il più abominevole dei labirinti sia il cerchio, è lo scherzo più antico e riuscito che un dio abbia fatto all’uomo. Che questo poi sia diventato simbolo universale del tempo, lo ha dimostrato ancor meglio la forma degli orologi da polso che i filosofi. E se invece vi dicessero che il tempo non esiste e che tutto è dimostrabile con dei calcoli matematici e qualche grafico, correreste a risfogliare il vostro Platone?

Sembra che a Daniel Kehlmann non siano bastate le categorie di passato, presente e futuro per accettare la sostanza del tempo, ma soprattutto non bastano al fisico David Mahler, protagonista del romanzo breve Il tempo di Mahler (Voland, 2012), per impedire la sua personale confutazione del tempo in una realtà che qui è messa in discussione per il suo essere, come il tempo, sempre più invisibile e impercettibile.

Se al labirinto del tempo si aggiunge poi quell’altro infinito labirinto che è il sogno, allora ecco che tutto supera il limite, confonde e ossessiona come in un racconto di Kafka (vittima e artefice stesso della realtà percepita come incubo); un sogno lucido dalle atmosfere da dormiveglia in cui non basta la sola logica geniale di Mahler per poter dire, qui ed ora, esisto.

Poco più di cento pagine di intensa finzione in cui filosofia e scienza, intreccio e tensione, ci mostrano la grandezza di un tema mai esaurito e sempre problematico. «E che cos’è il tempo se non un inseguimento?», inseguimento che significa ricerca della verità finché di una realtà si può avere ancora percezione; finché siamo ancora «nel tempo» e possiamo intuire che esistono leggi su cui è costruita la natura e che sono il fine della ricerca dell’uomo.

Seguire Mahler significa allora dare spazio all’idea che ciò che conosciamo del tempo e dell’esistenza resta qualcosa di indeterminato; che la realtà è un labirinto che nasconde il suo centro nel suo circolare e infinito giro; che affermare ciò che si è resta problematico, come capire che il tempo è un problema che, eternamente, ritorna.


(Daniel Kehlmann, Il tempo di Mahler, trad. di Elisabetta Dal Bello, Voland, pp. 110, euro 12)

“L’ultima estate di Catullo” di Alessandro Banda

«Gli uomini muoiono perché non sanno congiungere l’inizio con la fine», scriveva Alcmeone di Crotone, ma ne L’ultima estate di Catullo di Alessandro Banda, c’è una cornice fluida di acqua e memoria, in cui l’inizio e la fine si incontrano sulla riva di un lago, in cui una vita intera si può raccontare semplicemente guardando le onde, nel loro fuggire continuo e nel loro continuo tornare.

Affacciato sull’acqua, in una villa posta alla fine di una striscia sottile di terra, un bambino ha trascorso estati calde di giochi, di spade di legno e palle di stracci; oggi un uomo, con la testa pesante su un corpo provato, in un’estate malinconica e quasi autunnale, ricorda amaramente e crudelmente narra. Potrebbe farlo in versi, perché è un poeta, ma non sarà lui a parlare stavolta; attraverso la sua bocca parleranno le onde. «Il lago si chiama Benàco. La lingua di terra Sirmione. Il poeta Catullo».

Una scelta sicuramente coraggiosa, quella di Banda, scrittore e insegnante di Merano, che ha accettato la sfida di raccontare la vita di Catullo dall’interno, in un romanzo biografico scritto quasi interamente in prima persona; i suoi occhi si sono aperti per duecento pagine sul I sec. a.C. rianimando un uomo ormai divenuto statua, smuovendo il suo marmo sopito, facendo scorrere ancora il sangue caldo e profondamente umano di un corpo e un’anima consegnati all’oblio. Già, perché è vero che la fama dei versi «trae l’uom del sepolcro e ‘n vita il serba» (F. Petrarca, Triumphus Fame, 1.9), ma dei reali tormenti, delle conquiste e dei pezzi di vita vissuta e vera dei poeti sappiamo sempre ben poco, soprattutto di quelli classici.

Le forme espositive scelte da Banda sono classiche, ma accolgono un lessico sfacciatamente contemporaneo. Pensiamo, ad esempio, al primo capitolo, che ha tutte le caratteristiche di un proemio epico: la prima parola indica l’argomento della narrazione e la penna dell’autore si dichiara strumento attraverso cui la Musa può scrivere il suo divino racconto. «Un uomo. Solo. Seduto davanti a un lago. […] Musa, vergine patrona, racconta tutto quello che sai di lui». Uomo è la prima parola. L’uomo, cullato dalle onde e invecchiato dal pensiero, è il centro, il nucleo motore dell’azione del ricordare.

Gli incontri con i personaggi, invece, si costruiscono attraverso il dialogo, il genere tanto caro a Socrate e Platone che era tornato in voga a Roma con l’avvento della tragedia e soprattutto della commedia; un dialogo dai toni a tratti molto accesi, colorato da storie di donne e di amore fisico. C’è la discesa nell’Ade, ci sono i banchetti, ci sono le indovine. La primadonna è Clodia, moglie del console Quinto Metello Celere, donna che appare angelica a Verona, con il marito, la pelle di petali di rosa e gli occhi ardenti. Catullo si innamora di lei da lontano, con quell’amore devastante che è condiviso con diverse forze, istinti e passioni da tutte le specie animali; l’amore si abbatte come un morbo, provocando gli stessi riconoscibili effetti che Saffo prima di lui aveva descritto: «La notte sugli occhi. Un rombo alle orecchie. La lingua paralizzata […] io ero più verde dell’erba» (cfr. Saffo, Effetti d’amore). L’immedesimazione con la poetessa di Lesbo, lontana nel tempo eppure a lui unita dallo stesso crudele destino, è forte al punto che Catullo farà della sua Clodia la nuova signora di Lesbo, ribattezzandola Lesbia.

Ma l’amour de loin è condannato a divenire un amore bestiale; dopo la morte del marito, Lesbia diventa una figuretta imparruccata e viziosa, che sparisce nella notte per darsi agli schiavi e ai figli degli schiavi, per offrire il suo bianco ventre al fango. Si sporca, Lesbia, e con lei il suo nome: adesso è Lycisca, la ragazza-lupa, ancora fonte inestinguibile di amore per Catullo, ma anche, da adesso, di odio. Siamo nella fucina dell’Odi et amo («Volere una cosa e poi non volerla più e poi rivolerla e disvolerla ancora […] perché io l’amavo e l’odiavo e la riamavo e la riodiavo e la riamavo e la riodiavo ancora, all’infinito e non sapevo perché»).

Il libro, quindi, parla dell’autore e della sua vita, ma parla soprattutto di poesia. Ogni episodio narrato giustifica e conferma il trionfo della poesia rispetto alla cruda realtà. La poesia e la storia, i versi e l’esistenza, il corpo e l’anima si confrontano e a tratti confondono, ma è sempre la poesia a sedurre e ipnotizzare con la sua potente capacità di dare forma e bellezza a ciò che potrebbe essere, ma ancora non è e a ciò che già esiste, ma che in versi può nascere a una nuova vita, perché «tutto possono le parole. E un poeta è il loro padrone, e il loro schiavo».

Intriso di nomi, citazioni e travestimenti mitologici, il racconto di Catullo segue le tracce lasciate dagli eroi di guerra e di poesia dell’antica Grecia e sembra rivolgersi continuamente a quella civiltà dal lontano splendore come una guida, una Stella Polare lucente nel buio del tempo romano. Anche per questo motivo l’architettura metaforica non colpisce per originalità; alcune scelte lessicali, inoltre, risultano esageratamente attuali e ci fanno storcere un po’ il naso.

L’ultima estate di Catullo non è esattamente quello che un lettore può aspettarsi da un libro che parli di un autore classico, ma era forse questo lo scopo dell’autore: un effetto straniante che colpisse, infine, positivamente. Come leggiamo nel risvolto di copertina «non è una ricostruzione storica, ma un sogno sulla figura di Catullo, intessuto di mille citazioni, allusioni, riecheggiamenti, per avvicinarsi sempre più alla sostanza poetica di questo enigmatico e affascinante autore, antico e attualissimo».


(Alessandro Banda, L’ultima estate di Catullo, Guanda, 2012, pp. 195, euro 15,50)