Performer di se stessa: a tu per tu con Lilith Primavera

Arte visiva, teatro, musica, cinematografia; trasformismo, feticcio, nudo; parola, poesia, ritmo; impegno, contro-cultura, felicità; misura, contenimento, eccesso, scandalo. Non è una nuvola semantica delirata in hang-over post-ebbrezza ma la cifra nuova del modo nuovo di fare/essere arte nei canali dell’alternatività. Non le sole geografie sono globalizzate dalla post-modernità: sconvolti e rimescolati sono anche i confini, le pertinenze delle modalità espressive convenzionali sulla scena e fuori. Oltre le tecniche, oltre i copioni, oltre i luoghi deputati, oltre le geometrie dei ruoli, oltre i canoni: tutto (e oltre) s’assomma nell’esperienza estetica e umana della giovane performer romana, ma già nota oltre confine, Lilith Primavera.


Da quanto calchi il palcoscenico, Lilith?
La parola “palcoscenico” non mi soddisfa molto. È raro che nelle mie performance ce ne sia uno come si è abituati a pensarlo. Comunque la mia prima è del 2004, in un privédi una grande discoteca laziale, per un dj newyorkese.

È stato subito nudo?
Non ero nuda lì. Abbiamo giocato col body painting e mi muovevo con una tecnica mutuata da Carmelo Bene. C’era un violinista e un’altra mia socia esponeva dei quadri, c’era questa commistione. A un certo punto si poteva magari vedere il seno, ma non ero nuda.

Come sei arrivata al nudo integrale?
Per la semplicità della nudità. Per eliminare tutti gli orpelli e arrivare al nucleo. In un’altra performance esploravo la dinamica bambola-bambina, facevo la bambola. Assenza di scenografia, musica minimale, immobilità: era necessario che non ci fosse altro se non il corpo.

Metà del tuo nome d’arte echeggia il competere con Eva di una donna demone, l’altra metà rimanda a candide e pudicissime allegorie: qual è la femminilità che porti in scena?
Il mio nome è Lilith; eredità di mia madre, femminista. Non è un nome d’arte. Nemmeno il mio cognome. Dovessi scegliere un nome d’arte sarebbe qualcosa come “Giulia Bianchi”.

La tua è arte di contrasti: geisha dall’espressione immota e corpo flessuoso, elaborata testa di clown su scabra nudità… Sono cozzi casuali?
No. Da una parte è usare le immagini archetipiche che ridondano nella mia fantasia, dall’altra è l’esigenza di prendermi in giro. È ironia che passa per uno sguardo critico sugli immaginari. Una geisha senza kimono che si muove come se lo avesse e si libera dalla rigidità per diventare un clown censurato da pecette nere, per me rappresenta le contraddizioni dello sguardo della società sull’Arte e su cosa può essere considerato spettacolo. 

Cosa guardano i tuoi occhi, fissi oltre gli spettatori?
Un obiettivo [e guarda “oltre”, ndr].

Il tuo corpo spesso è tela: è lui a esaltarsi, o ciò che lo decora?
In realtà accade di rado: mi piace dare giusto qualche accenno di colore perché le mie performance derivano dalle Belle Arti. Io non vengo dal Teatro.

Lilith, cos’è pornografia?
L’insulto all’intelligenza. La censura. La presa in giro massificata. Lo spettacolo che vuole trasformare la realtà in finzione. Questo è pornografia.

Colpisce, delle tue performance, l’aura di cui ti ammanti. Ricordo, all’incedere del tuo corpo nudo, l’indietreggiare dei maschi (me incluso): sei l’anti-desiderio o ne incarni il lato sacrale?
Non lo so, non ci bado.

A me sembra che nessun maschio, quando performi, ti “profani” guardandoti come oggetto di desiderio.
Dici che è per questo che sono single? [E ride, di gusto, ndr.] Io non utilizzo il nudo per stimolare desiderio. Quindi, gli effetti non possono non essere quelli che dici tu.

Una tua esibizione ti vede scandire, in un crescendo di trance ipno-erotica, la parola «love»: è questo il trait-d’union della tua arte?
L’amore, sì sì!

Indossi parole, lasci che scorrano sullo sfondo, raramente ne pronunci: qual è la testualità delle tue performance? Quale sintassi scegli per i significati sulla scena?
Il mio rapporto con la parola scritta è di rottura. In questa fase sono più Ninfa che Apollo, preferisco lasciare i testi a persone che fanno un altro tipo di scelta.

Come nasce una tua performance?
È come quando ti svegli da un sogno e scrivi due righe per ricordartelo. Mi immagino fare cose, e allora appunto lì dei picchetti per non perdere quell’immagine. Prendo appunti, ma sono come delle allitterazioni acide: immagini, movimento, suoni. Poi ogni cosa acquisisce senso quando la vado a fare. E cambia ogni volta. 

«…da vicino nessuno è normale».[1] Da chi ti lasci avvicinare, Lilith?
[Dopo lunga pausa, ndr.] Da te.

 

Per maggiori info:
www.lilithprimavera.org




[1]
«Attacco individui gruppi e contengo immagini di nudo / oscena / violenta / o in qualsiasi modo offensiva / […] / Mostro mondi alternativi, cosmologie private e incubi collettivi /…da vicino nessuno è normale». (dal profilo Facebook di Lilith Primavera)

“Toni Servillo legge Napoli” al Teatro Argentina

Napoli è proprio come la legge Servillo. Caotica, articolata, un dedalo di vicoli insidiosi che scendono a mare, doppia, controversa, enigmatica. L’attore assume su di sé tutte le voci e diviene, sulla scena, portatore di una napoletanità troppo spesso confusa e martoriata dalle cronache, dai giornali, dai media.

Curvo sul leggio, Servillo comincia il suo viaggio nel paradiso-inferno Napoli con un poemetto di Salvatore Di Giacomo dal titolo “Lassamme fa’ a Dio”, interpretato in maniera superba, una vera lezione di teatro, come d’altronde tutto il suo ultimo lavoro. Le voci si rincorrono, si avvitano, Servillo esalta in maniera esponenziale la musicalità della lingua, gioca con i registri, dà enfasi al discorso finale dell’ubriaco caricandolo di pathos.

Si passa poi a Eduardo, “Vincenzo De Pretore”, e il comico si sovrappone al tragico, un luogo comune – il classico scippo – è lo spunto per riflettere sulla tragedia di un povero Cristo costretto, dalle condizioni familiari e dalla sua città, a rubare per vivere. A differenza della Nanninella di Di Giacomo che scappa dal paradiso per andare dal suo bambino, De Pretore vuole rimanere in quel luogo mitico tanto diverso dalla Napoli babilonica di tutti i giorni. Fa una promessa al Padreterno, chiude gli occhi e spira.

Ma è con “Fravecature” di Raffaele Viviani, autore stabiese ancora ingiustamente poco conosciuto, che Servillo fa sentire l’assenza, tiene in tensione, offre un capolavoro tonale che cala totalmente lo spettatore-ascoltatore in un’altra storia, tragica, forse uno dei momenti migliori della serata. La grandezza dell’attore è quella di non fornire una lettura politica ma di mostrare magistralmente un fatto. Gioca, fornisce un bozzetto familiare per poi catapultarsi subito in strada, procede quasi in maniera cinematografica, tanti fotogrammi che si accavallano per poi dare un quadro unitario.

Quando poi si arriva al geniale Mimmo Borrelli, “figlio” di quel Michele Sovente prematuramente scomparso e citato a fine spettacolo, la lingua si fa carne, diventa il suo esatto contrario e, soprattutto con “Napucalisse”, è mantra ossessivo, sputo, sfregio, sfaccimma, canzone e musica dei bordelli. Un arabesco, horror vacui, Caronte che traduce il pubblico da una riva all’altra di Napoli, la voce quasi canta il putrido della periferia, della città, Servillo qui è aprassico, non arriva a controllarsi e mentre in Viviani c’è la speranza finale, in Borrelli c’è solo lo spettro della città che fu.

Poi l’attore si stacca dal leggio e recita a memoria “Litoranea” di Enzo Moscato, testo già affrontato in Rasoi, la città vista dai ragazzini che, nudi sugli scogli, prendono il sole. Servillo si abbandona al flusso e percorre ogni parola con spavalderia e sicurezza e allora sulle labbra si avverte il sale, l’acqua angiospermatica, quelle pupille scugnizze spiritate che guardano il mare e i «guaglioni sugli scogli con vene da assassini e azzurre pubescenze». È la Napoli di Moscato batterica e gravida, bellissima e affascinante, che dà gioia e malasorte, una città non troppo diversa da quella di Di Giacomo. E sembra di vederle queste criature che Servillo si assume e personifica, offrendo un’interpretazione impressionista, col suo sorriso sardonico e il volto da Pulcinella. Infine, Maurizio De Giovanni e Giuseppe Montesano con due testi inediti. Ritroviamo un De Giovanni, come sempre, umano, dolce, col suo spiccato senso della pietas,che mostra la piccolezza dell’uomo davanti a Dio, l’incontro tra Materia e Spirito sotto ai ponti della Sanità. Un in-aspettato De Giovanni, giallista ormai di successo, che si misura in lingua con la sua città, nettamente in contrasto con i mandarini e le sfogliatelle di Ferdinando Russo. Montesano, infine, è la quadratura del cerchio, parente stretto di Di Giacomo.

Bis con “’A livella” di Totò, snaturata ad hoc, due poesie di Viviani e Eduardo e dieci righe di Michele Sovente sulla lingua napoletana. Sono questi versi d’impatto, roventi, il poeta che non dimentica le sue origini, che mescola latino, dialetto flegreo e napoletano per contaminarsi, ritrovarsi nella sua terra pregna di mistero, sulfurea e sconsiderata. Unica mancanza di questo spettacolo grandioso e coerente, ovvero una delle letture (non solo su Napoli) più intense e commoventi degli ultimi anni, è Annibale Ruccello che, citando Sovente, sta qui, «dint’a sti pprete antiche». Ma è bellissimo e folgorante il percorso dettato da Servillo, che mescola alto e basso, che mostra la poesia e il fraceto di una delle città più belle del mondo, che «fete e addora ’e rose», bollente e magmatica, ossimorica, che non abbandona né abbandonerà mai i suoi numerosissimi figli.

 

Toni Servillo legge Napoli
con Toni Servillo
testi di Salvatore di Giacomo, Eduardo de Filippo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Mimmo Borrelli, Enzo Moscato, Totò.

In scena al Teatro Argentina dal 14 al 26 febbraio 2012

Per maggiori info:
http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=1382

“Uomini che odiano le donne” di David Fincher

Devo confessare di non avere ancora letto il libro Uomini che odiano le donne, di Stieg Larsson.
Di più: avevo verso quest’opera letteraria una sorta di pregiudizio negativo, derivante dall’insofferenza per l’esterofilia conclamata dei lettori italiani, i quali hanno da tempo bisogno di leggere un nome straniero in copertina per decidere (finalmente) di comprare un libro.
Mi sono avvicinato al film con la medesima diffidenza, ma pochi minuti in sala sono bastati per cambiare radicalmente idea. Perché c’è tanta roba. Non solo la seducente vicenda di una famiglia di insospettabili alle prese coi loro demoni interiori.
C’è un thriller di 158 minuti con una trama ricca dei classici colpi di scena che tengono alta l’attenzione, ma anche attori di chiaro talento. C’è il carisma magnetico di Daniel Craig, calatosi alle perfezione nei panni di Mikael Blomvkist, giornalista della rivista Millennium. Celebre per il suo rigore, è stato condannato per diffamazione. C’è una strepitosa Rooney Mara, che presta volto e nervi a un personaggio dark misteriosamente complesso, quello di Lisbeth Salander, una geniale hacker tatuata, estremamente anticonformista, diafana eppure piena d’energia, che stupisce lo spettatore e lo tocca dentro dalla prima all’ultima scena, per la capacità di entrare nei panni di vittima e carnefice con la medesima credibilità.
C’è una suggestiva e coerente scenografia, che avvicina questo film più a certe atmosfere di Friedrich Dürrenmatt che ai tipici romanzi gialli nordici modello Larsson.
Ci sono dialoghi ben misurati, con personaggi che non dicono troppo né poco, sprofondati in un baratro esistenziale che denuncia la solitudine dell’uomo moderno.
I loro profili sono intriganti al punto che il vero giallo non sta nella soluzione dell’enigma, ma nell’intero percorso investigativo, che mette in scena un autentico saliscendi emotivo, costruito con climax e anticlimax da manuale.
Ci sono poi buone canzoni: da “Immigrant Song” dei Led Zeppelin a “Orinoco Flow” di Enya.
C’è, in buona sostanza, la capacità tutta americana – dobbiamo riconoscerlo – di girare un film come Dio comanda, curando l’insieme come il particolare, fino ad amalgamare immagini, musiche e suggestioni in modo armonico, donando così una vita autonoma all’organismo/opera d’arte, mentre mi pare di poter dire che in Italia permane la colpevole tendenza a puntare decisamente sulle capacità individuali/istrioniche degli attori principali coinvolti nel progetto.
La maestria del regista David Fincher (Seven, Fight Club, The Social Network) e dello sceneggiatore Steven Zaillian consiste nel saper raccontare questa storia presentandocela da punti di vista diversi, così che fino alla soluzione del rebus non si riesce a rispondere alla domanda: «Che fine ha fatto Harriet Vanger?», una giovane scomparsa quarant’anni prima, in un contesto omertoso come l’isola immaginaria di Hedeby, raggiungibile solo attraverso un ponte, il Susanne’s bridge.
Da quel triste giorno ogni anno la ferita viene riaperta da un dono inatteso, che ha però un significato preciso per chi lo riceve.
È proprio l’esigenza di capire finalmente quale sia la verità a spingere il ricco industriale Henrik Vanger a dare mandato a un giornalista investigativo esperto e capace come Blomvkist di provare a risolvere il caso…
Ricordiamo che di questo film esiste anche una versione per così dire europea (in Italia è uscito nel maggio 2009) con regia di Niels Arden Oplev, trasmesso in tv da La7 proprio nei giorni scorsi.
Un vero peccato che Larsson non sia vissuto abbastanza per vedere quanto successo hanno avuto i suoi lavori…

“Old Ideas” di Leonard Cohen

Bisogna sempre essere obiettivi. Imparziali nella critica e nel giudizio. Ma quando si parla di Leonard Cohen i parametri saltano. È difficile rimanere distaccati di fronte al più grande cantautore vivente e uno dei maggiori poeti del secolo. Già, perché Mr. Cohen, discostandosi dalla tradizione folk di Dylan e dai cantastorie figli di Brassens (tra cui De Andrè), è il cantautore più importante in circolazione dal ’68 – anno di Songs of Leonard Cohen – ad oggi. Da Nick Cave a Tom Waits, da Tori Amos ai R.E.M., tutti hanno reso omaggio e riconosciuto il dominio della struggente e delicata arte dell’artista canadese, capace di emozionare con quel tono rauco e tagliante come un rasoio, sempre più grave e gutturale, capace di cantare testi intrisi di emotività, consapevolezza storica e fede religiosa. Non c’è in giro addetto ai lavori che non riconosca la sua smisurata importanza e autorevolezza. E tale leadership sembra inscalfibile, soprattutto dopo l’abbandono delle vecchie idee in questione.

«I love to speak with Leonard / He’s a sportsman and a shepherd / He’s a lazy bastard / Living in a suit» (“Going home”).

Old Ideas, ma non per questo meno coinvolgenti. Le tracce dell’ultimo album giravano dal vivo già da qualche anno (“Darkness” e “Lullaby” dagli ultimi tour, e “Crazy to Love You” dal 2006), ma solo adesso finiscono nella track list. Nel complesso il disco è prevalentemente acustico, essenziale; ogni strumento e base musicale – per quanto pregevole – è sempre un tappeto, un accompagnamento fedele alle parole del poeta. I ritmi e l’atmosfera sono come sempre lenti e rarefatti. Si respira però un’aria più intima e profonda rispetto ai lavori precedenti e il dolente pessimismo dell’ultimo capolavoro (The Future, 1996) lascia spazio a toni più confidenziali. Fin dalla prima traccia infatti il cantautore parla di se stesso, menzionandosi con nome e cognome, accompagnato da stupendi cori femminili, intenti a succedersi in numerose tracce, sfociando nel culmine di “Lullaby”. La palma dalla canzone più bella, quella che immancabilmente finirà nelle antologie, secondo il sottoscritto, se la contendono “Show me the place” e “Darkness”. La prima struggente e supplichevole, la seconda dall’arrangiamento più sinuoso e il testo più oscuro.
Nel complesso, il lavoro del Maestro è il suo disco più bello, compiuto e coerente dal già citato The Future e altrettanto magnifico è ciò che lascia dopo l’ascolto. Considerando poi che Leonard Cohen, nonostante la veneranda età, è ancora molto lontano, per fortuna, dallo scrivere il suo testamento musicale definitivo.

«He wants to write a love song / An anthem of forgiving / A manual for living with defeat» (“Going home”).

“Il burattinaio”: a tu per tu con Francesco Barbi

Intervistiamo Francesco Barbi, autore che avevamo già contattato ai tempi del suo primo libro, L’acchiapparatti, e che ritroviamo nelle librerie, già da qualche mese, con Il burattinaio (Dalai Editore, 2011), volume che sta confermando le aspettative dell’editore e del pubblico.


E sono due. Il secondo libro è sempre il più difficile per uno scrittore. Si hanno addosso gli occhi di molti addetti ai lavori e di un pubblico che ha iniziato ad apprezzare uno stile o un modo di scrivere. Che ne pensi? Come hai superato questo passo?
In effetti si dice che il secondo libro sia una sorta di banco di prova, se non proprio il battesimo del fuoco. A dire il vero, però, durante la stesura non ho mai sofferto la pressione di dover dimostrare qualcosa o la paura di fare passi falsi. Sono sempre stato più o meno fiducioso e, una volta terminato il romanzo, mi sono sentito molto soddisfatto.

Nella precedente intervista mi avevi parlato di un genere da te definito come “low fantasy”. Ti ci ritrovi ancora? È cambiato qualcosa con questo libro?
Anche questo secondo romanzo, se proprio dovessi inserirlo in un genere, lo definirei un “low fantasy” (ovvero un sottogenere in cui l’ambientazione è medievale, l’elemento soprannaturale è circoscritto, non c’è netta distinzione tra bene e male e i protagonisti sono spesso antieroi senza una chiara iniziativa morale o comunque tratteggiati attraverso risvolti psicologici e tratti conflittuali). D’altra parte, sebbene autonomo, Il burattinaio è di fatto considerabile il seguito de L’acchiapparatti.

Dagli emarginati ai folli il passo è breve. Ci spieghi un po’ come nasce questo libro e come sei riuscito a tessere un intreccio così appassionante?
Durante la stesura de L’acchiapparatti avevo accumulato parecchio materiale e il finale del libro lasciava diverse porte aperte. All’inizio della stesura, però, avevo soltanto un’idea molto vaga della nuova storia. Io procedo per situazioni, e dunque alterno sempre fasi di scrittura a lunghe e laboriose fasi di brainstorming… Il segreto, almeno per me, sta nel pensare molto, cercando di mantenere salda la fiducia che la storia sia già lì, che aspetta di emergere e di svilupparsi. Credo con fermezza nel non progettare, nel dare spazio libero all’inconscio, almeno in prima stesura, così da tenersi sempre in contatto con il proprio mondo interno e la propria realtà emotiva. Sono convinto che solo così io potrei costruire un buon intreccio, un intreccio che possa sorprendere, prima di qualsiasi altro, me stesso. Alla fin fine io stesso mi sento un burattinaio e per l’appunto ciò che mi muove maggiormente quando scrivo è il desiderio di dar vita a certi miei personaggi interni. Di solito loschi figuri, folli e reietti, che mi affascinano per le loro particolarità, il loro essere diversi, le loro reazioni impreviste alle situazioni in cui vengono calati.

Sapresti sintetizzare il tuo libro in poche parole?
Il romanzo si apre con la riesumazione della carcassa del mostro di Giloc, precipitato anni prima sul fondo di un abisso. L’indagine, condotta da un manipolo di Guardiani dell’Equilibrio e volta a far luce sul mistero che aleggia sulla vicenda, trascina una nutrita e variegata combriccola di personaggi in una folle avventura: inquisizioni e torture, fughe, inseguimenti, agguati, riti e spettacoli, feste, scontri e carneficine. Tutti protagonisti nel viaggio dalle Terre di Confine fino alla capitale del Regno di Olm, tutti ignari di essere pedine nel piano di vendetta del burattinaio.

Il burattinaio, reale o virtuale, è una figura che ritorna spesso nelle letterature mondiali: cos’è che rende il “tuo” speciale? Si ispira a qualcuno?
La figura del burattinaio ha un che di archetipico e mi ha sempre affascinato. Di solito in letteratura un burattinaio è un qualcuno che manovra gli altri personaggi come fossero marionette, spesso nell’ombra e attraverso ricatti, stratagemmi e piani. Non ho tratto ispirazione da qualche figura letteraria o filmica in particolare, il “mio” burattinaio ha rivelato la sua natura man mano che la storia si dipanava. Quando ho scoperto e messo a fuoco tutte le sue trame, non ho potuto far a meno di dedicargli il titolo del libro. Ciò che lo rende speciale è forse il fatto che non si limita a influenzare e a dirigere le mosse dei personaggi, ma diviene a tutti gli effetti un burattinaio dei corpi di alcuni di loro… Aggiungo soltanto che, al momento di decidere il titolo del romanzo, l’alternativa a Il burattinaio era Il Maestro dei Passaggi.

Di questi tuoi libri sono uscite edizioni all’estero? Credi che il fantasy italiano possa allargare i suoi confini?
Perché no, sebbene il genere in Italia si sia sviluppato in ritardo rispetto ad altri paesi e abbia incontrato e incontri diversi ostacoli, mi pare che qualcosa si stia muovendo. Riguardo  L’acchiapparatti e Il burattinaio, al momento non sono ancora state pubblicate edizioni estere, ma proprio di recente ho ricevuto una buona notizia in proposito.

Novità? C’è già in cantiere un terzo libro o ti prendi un periodo di pausa?
Per quanto riguarda il fantasy, e in particolare l’ambientazione legata alle Terre di Confine, mi prenderò una pausa. Ho terminato da qualche tempo la revisione di un libro di racconti di fantascienza e adesso sono alle prese con un paio di nuovi progetti. Non ho però ancora deciso su quale dei due spenderò i prossimi mesi.


(Francesco Barbi, Il burattinaio, Dalai Editore, 2011, pp. 525, euro 20)

“Di passaggio” di Jenny Erpenbeck

C’era una volta una grande tenuta, ammantata dal bosco e affacciata sul lago.
Una terra vivace come un corpo, con capelli di foglie e organi freschi per ogni stagione.
Una macchia di alberi e cielo. E sulle sue gambe, appuntita come una smorfia, spunta una casa.
Non è un quadro impressionista, pur avendone ogni elemento.
È la cornice, e insieme il dipinto, il soggetto e il contesto del romanzo di Jenny Erpenbeck, Di passaggio (Zandonai, 2011). All’interno di questo mondo, nel respiro della sua proprietà, si avvicendano undici storie, con le loro vite satellite, i loro moti di fango e di stelle.
Tutto prende avvio con la famiglia dello scoltetto e le sue quattro figlie, tra cui spartire ettari e piante.
La più piccola e strana, Klara, eredita la parte più vicina al lago. Zoppica quando cammina, forse anche quando pensa, forse anche i suoi sogni sono scalzi e così li riveste nell’acqua, li bagna fino a strozzarli.
E affoga, con una scarpa sulla neve, affoga svelta, come si spegne una candela con un soffio soltanto.
Il funerale è un lungo saluto, farcito di riti e di abiti scuri. Finestre sbracciate, alcol, aceto, paglia e ortiche.
Prima di valicare la soglia si posa la bara tre volte, per evitare che l’anima torni.
Ma probabilmente non è abbastanza, perché quel senso di buio e incertezza impregna le mura e scorre sui tetti, tra le radici, diventa la falda di cui si nutre il terreno.
Lo scoltetto abbandona quei confini. Ed è il turno dell’architetto, che per mestiere e vocazione ha imparato a costruire, a sovrapporre mattoni intorno ai suoi desideri. E a quelli di sua moglie. Si lega allo spazio che è fuori per edificarne uno interiore, per cucire un costume di pietra sulla pelle dei suoi giorni.
E quella dimora, stanza per stanza, racconta la voce di chi l’ha abitata. Il camino, l’armadio col doppio fondo, la testiera del letto dove uccidere tutte le notti. Ogni barlume di quelle pareti sembra istoriato, si accende dei passi di chi arriva e poi se ne va.
Come fa Ludwig, il produttore di tessuti, che s’impianta lì, tra le campagne di Brandeburgo, con la sua carovana di parenti, con le corse dei bimbi verso un frutto da mordere. Con gli eucalipti che frusciano come non fanno altre fronde. Scava col padre Ludwig, scava la buca per il suo salice. Scava perché su quella striscia oltre al salice sta fissando un po’ della sua esistenza. Sta tracciando un legame. Che la guerra brucerà, senza chiedersi il motivo. Perché le piante fioriscono, gemmano tiepide al primo sole, si spezzano per ricomporsi.
Ma altre ferite non si riparano. Per altri petali non c’è un secondo tempo.
C’è chi è costretto a lasciare la propria dimora, quel perimetro tagliato con le proprie mani, dove sentirsi felici e poi intoccabili. Qualcuno ha deciso che è ora di andare, che per gli ebrei è ancora il caso di fuggire.
Di decostruire, di smontare il palazzo pezzo per pezzo. E con esso ogni attimo coltivato lì dentro.
E la fuga diventa la meta. Perché chi scappa ha la stessa solitaria volontà: salvarsi, cercare il “lontano” possibile, uno qualunque, dove ricominciare.
Qualcuno riesce, qualcun altro, come la piccola Doris, resterà piccola. Resterà all’ombra. E le sue unghie si fermano, il suo fiato s’affossa. E anche il suo nome, così giovane e così breve, sfuma insieme al cadavere lungo la fossa. E riapproda «nell’alveo di ciò che non è stato ancora inventato».
A bordo di quel suolo si snodano storie diverse: soldati russi che occupano, tedeschi che vengono invasi, battaglie cosparse di sangue e altre bianche e disarmate tra chi parte e chi giunge.
La sola sicurezza, l’unica figura che non cambia, che raccorda quei flussi continui, è quella del giardiniere.
Un uomo innominato, perché le etichette sono fatte per staccarsi e per morire. Come d’altronde chi le indossa.
Il ruolo invece sa resistere, come il bosco, come il lago.
Il giardiniere sega i tronchi, accatasta la legna, disseta l’aiuola, pota le rose. Ridefinisce e rinnova quella geografia coi suoi gesti pazienti. E costanti. Agisce come la vita sull’ecosistema.
Si adegua alle direttive dei nuovi proprietari e fa parlare il giardino di infiniti equilibri.
Tutto il resto, appunto, è di passaggio.
Scrittura densa e tagliente, in un valzer di strade che si intrecciano e si confondono.
Perché alla fine non conta capire di chi, ma di cosa esattamente trattiamo.
Del viaggio interminato di chi invece finisce. Degli istinti, degli orrori e dei conflitti che mutano lingua e mantello, ma non crudeltà. Della voglia di avere un rifugio, una tana in cui scaldarsi e riconoscersi.
L’autrice, nata a Berlino Est, sa bene cosa affronta. I dolori di un muro che graffia, quando sorge e quando crolla. Un muro oltre il quale c’è un giardino, che aspetta di essere innaffiato.

 

(Jenny Erpenbeck, Di passaggio, trad. di Ada Vigliani, Zandonai, 2011, pp. 168, euro 16)

Viaggio al centro del colore: intervista al pittore Ercole Fortebraccio

Una tela preparata per essere dipinta; tubetti di colori sparsi a terra e davanti agli occhi una vallata dove l’azzurro del cielo si fonde con i verdi della vegetazione. La percezione delle forme, tracciata con l’ausilio del pennello, spalanca la finestra della tela e comincia a prendere forma l’idea del pittore. Un blu oltremare compone la base materica per un cielo azzurro, robusto e tangibile. Una selva di linee dalle tinte calde, spinge lo sguardo verso il punto che il pittore ha scelto di eleggere a fuoco della composizione; un movimento svelto di strade tracciate dall’uomo seguendo il disegnato dalla natura, si adagia nella scena. Le terre dei campi si accendono di tinte squillanti che si accostano l’una all’altra con armonica musicalità. Il risultato è un’opera dal sapore profondamente evocativo, un dipinto in cui la materia, sapientemente adoperata, rivela il contesto primordiale dell’uomo oltre a svelare una mutazione sensibile degli stati dell’anima. In questo modo Ercole Fortebraccio riassume lo sviluppo di una sua creazione in un video semplice ma fortemente significativo per la comprensione del suo messaggio. Laureatosi in Architettura a Firenze, ha deciso di vivere nella sua terra d’origine, la Calabria. La progettualità delle forme è una componente basilare nelle sue composizioni, sommata al contempo alla sensibilità verso il colore, all’uso consapevole ed eccezionale dei toni che risultano sempre adeguati ed euritmici.

Ercole, ci può raccontare come è iniziato il viaggio nella pittura?
Mi viene da sorridere a pensare dove e come è iniziato questo bellissimo e tormentato viaggio. Da bambino disegnavo con immensa passione ma ho sempre declinato l’uso dei pennelli e del colore, in genere, in quanto mi risultava difficile la pratica. Il primo dipinto l’ho realizzato con l’ausilio di una piccola stecca nel 1991. Subito dopo sono nati altri lavori e con essi la consapevolezza della ricerca che mi ha spinto a proseguire senza fermarmi se non in periodi brevi di riflessione e di studio da autodidatta.

Quali sono stati i suoi punti di riferimento?
I miei primi dipinti sono informali e seguono uno sviluppo analogo a quelli di Burri, Tàpies, Vedova, Schifano, artisti da me studiati e ammirati. Con il passare degli anni, lo studio assiduo dell’arte mi ha condotto alla comprensione della pittura di De Chirico e successivamente quella di Picasso, due artisti che hanno segnato la mia coscienza per l’arte e per la storia. In maniera del tutto curiosa mi sono cimentato nelle maniere pittoriche dei maestri del Novecento cercando di carpirne i messaggi e le tecniche. Sono diversi gli artisti a cui ho dedicato attenzione, anche pittori contemporanei sconosciuti incrociati nei concorsi nazionali in giro per l’Italia. Partecipare poi alle estemporanee di pittura sotto la guida di mio padre, pittore a sua volta e punto di riferimento costante nella mia ricerca, dipingere all’aria aperta per le vie dei borghi o nelle località marine in compagnia di altri pittori (un po’ come gli Impressionisti francesi), ha generato nuova linfa per la mia pittura e ho imparato a gestire gli innumerevoli colori della natura.

Nelle sue opere è evidente un uso sapiente ed equilibrato del colore. Ma cos’è il colore per lei?
Le estemporanee (concorsi pittorici che si svolgono in una sola giornata) sono state per me decisive: una palestra di allenamento sull’uso delle tinte e dal vivo è iniziata la passione per il colore. Ecco cos’è per me il colore. Il colore è vita, sentimento, energia allo stato puro.

Quanto ha influito la formazione progettuale appresa nella Facoltà di Architettura a Firenze?
Gli studi a Firenze hanno contribuito non poco al completamento di nozioni e concetti basilari a 360°. Quindi un arricchimento completo di visione globale e spaziale. Riguardo al mutamento dello stile nei miei lavori, non so definirne il processo; non programmo mai l’impianto concettuale e vado avanti con l’istinto emozionale del periodo. Quello che salta all’occhio e che accomuna quasi tutti i miei dipinti, è l’uso spasmodico del colore e della luce, sommati al segno.

Quale può essere il ruolo dell’arte in questa società che sembra svuotata dell’umanità e della sensibilità?
L’arte è sempre stata e credo continuerà a essere un mezzo di comunicazione, un linguaggio universale capace di generare integrazione e spiritualità. L’arte è uno strumento di conoscenza e quindi anche di speranza per un mondo migliore.

Parlavamo poc’anzi di colore. Si può parlare di atmosfere mediterranee nelle sue opere, di sentimenti espressi attraverso una sensibilità cromatica?
Il Mediterraneo è intrinseco e inconscio allo stesso tempo nei miei lavori. Sono nato in Calabria e sono innamorato dei miei luoghi. Non posso non prescindere dal genius-loci dei siti del sud e quindi dalle sfaccettature e miriadi di textures cromatiche che li contraddistinguono.

Il alcune sue opere è presente un albero posto in primo piano che muta nella forma e nella concezione materica. Sembrerebbe un vessillo del suo messaggio pittorico ma allo stesso tempo allude a un cambiamento stilistico o alla ricerca di nuove forme espressive. È forse un punto di giunzione con Piet Mondrian?
L’albero di Mondrian? Magari ci sarà una linea sottile di collegamento. L’idea di inserire questo inserto naturale nelle mie composizioni è nata per puro caso e nel periodo in cui lessi alcune parole di James Redtfild: «Abbraccia anche tu un albero». L’amore per la natura e per il suo incessante ciclo vitale, è un discorso concettualmente ricco e variegato. L’impossibilità nell’eguagliare la natura (fonte d’ispirazione primaria) ha generato in me la ricerca della luce e del colore nei passaggi, la necessità di coglierne lo spirito animatore. Colori forti, provocatori, alcune volte senza mezzi toni e di getto, restituiscono un attimo infinito. L’albero è dunque il fulcro centrale in alcune mie composizioni poiché è chiamato a simboleggiare un’espressione di vita e di forza; una sorta di ponte dell’esistenza terrena con quella futura. Particolarmenteimportanti sono anche i sassi, il gioco che essi instaurano con il mare. Le textures, le faces, le striature che lascia il mare sui sassi è metafora delle textures dell’uomo, le sofferenze della vita terrena, il lento ma inesorabile divenire.

Questa in sintesi una delle molteplici sfaccettature della pittura di Ercole Fortebraccio, artista poliedrico e spontaneo, in continuo viaggio nell’arte e nella società.


Per saperne di più:
http://fortexalfa.wordpress.com/
http://www.artbreak.com/fortebraccio/works
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“Clay Class” dei Prinzhorn Dance School

A cinque anni di distanza dall’eccellente disco d’esordio, vede la luce Clay Class, seconda fatica del duo britannico Prinzhorn Dance School, composto dai musicisti e artisti visuali Tobin Prinz e Suzi Horn, che con questo nuovo album sviluppano i temi già chiaramente presenti nel loro primo lavoro.

I topoi che ritornano lungo tutto il discorso musicale dei Prinzhorn Dance School sono rintracciabili nell’essenzialità grammaticale della loro musica la quale, unita a una estrema semplicità e linearità sintattica, ha come scopo principale quello di improntare una ricerca sonora capace di portare allo scoperto le strutture portanti della musica rock. I due musicisti, provenienti da quel grigiore affacciato sulla Manica chiamato Brighton, propongono una vera e propria radiografia post-punk che passa ai raggi X il rock. Inoltre ne fa oggetto di indagine filologica mostrandone le componenti basilari, gli elementi primari di cui esso si nutre, le fondamenta su cui poggia: è la ricerca di una lingua mentis sonora unica, una chomskyana grammatica universale della musica pop-rock della seconda metà del ’900.

Le composizioni proposte in questo nuovo Clay Class vivono così di un’architettura minimale che non lascia (quasi) mai spazio a fronzoli, che esclude il superfluo per concentrarsi esclusivamente sull’essenziale: troverete un prodotto minimale, dalla scelta degli strumenti ai suoni, dalle liriche alle melodie. I Prinzhorn Dance School propongono un’estetica musicale ermetica, dove l’organizzazione del materiale sonoro segue geometrie elementari fatte di spigoli e rettilinei. Tutto viene ridotto alla propria essenza, seguendo un percorso evolutivo a ritroso che mira a un recupero retro-futurista del primitivo. Come il rock, che si mostra qui disidratato e ridotto all’osso, anche gli strumenti suonano asciutti, compressi, destinati a non fare nient’altro se non quello per cui furono in passato pensati e costruiti: la batteria è un motore metronomico sul quale incisivi giri di basso fanno muovere i brani – meraviglioso quello di “The Flora and Fauna of Britain in Bloom” – , mentre la chitarra taglia quel che la voce tenta melodicamente di cucire. Il tessuto sonoro è rarefatto, adatto per riscopre il gusto di ascoltare una frase di chitarra capace di diventare un vero e proprio evento, come nell’iniziale “Happy Bits”, in cui una stessa cellula melodica viene ripetuta e traslata diatonicamente diventando essa stessa il ritornello del brano.  

In ogni discorso culturale, in ogni scambio interculturale, qualsiasi sia la disciplina in esame, a circolare non sono mai delle verità sul mondo, bensì le sue diverse rappresentazioni. La musica non fa in questo caso eccezione e l’arte dei Prinzhorn Dance School ci restituisce l’idea di una realtà scheletrica, di un ossimorico nuovo ordine nevrastenico, delineato tra modelle anoressiche e metropoli asfissianti. Si potrebbe prendere come dichiarazione-manifesto il brano “Sing Orderly”, che chiarisce le intenzioni di tutta la musica del duo britannico fin dal titolo: il tentativo di mettere ordine in una caotica post-modernità musicale. Lo spazio sonoro prodotto trova quindi sviluppo naturale lungo una direttrice verticale, intorno alla quale ruota un’austera e primitiva modalità di espressione delle emozioni: c’è così spazio anche per dichiarazioni d’amore post-punk (“I Want You”), dove l’ermetica scatola magica del duo britannico si apre per un momento, scoprendosi in un timido e inatteso arpeggio di chitarra che oscilla tra il dolce e il misterioso, svelando una shakespeariana malinconia, triste compagna dagli occhi scuri. Le voci all’unisono dei due artisti racchiudono la semplicità dei sentimenti primari, mettendo in crisi l’idea del profondo come unico spazio di vera riflessione. La profondità è qui a fior di pelle, rimane in superficie senza per questo perdere di spessore.

Le influenze che si possono ritrovare in questo lavoro sono veramente tra le più disparate, confermando la bontà del progetto musicale di Prinz e Horn, i quali si dimostrano ancora una volta capaci di recuperare i più disparati stilemi artistici propri di una gloriosa stagione passata, principalmente gli anni ’80 ma non solo, riattualizzandoli allo scenario contemporaneo con indubbia originalità e un gusto melodico prettamente british. Si percepiscono così echi di Joy Division nel pulsare del basso su “Seed, Crop, Harvest”, mentre le artificiali ritmiche chitarristiche punk-funk su brani come “Usurper” e “Your Fire Has Gone Out”, riportando alla mente i febbrili deliri avanguardistici di James Chance ai tempi dei Contortions, sembrano quasi un James Brown sottovuoto, depotenziato e rivoltato contro sé stesso. Aleggiano sullo sfondo anche le evoluzioni ritmiche dei primi Gang of Four, gli spasmi robotici dei Devo, le articolazioni proto-industriali dei Clock DVA e le melodie semplici e accattivanti che non possono non far venire in mente Depeche Mode, Beatles, Who e tutto il bagaglio melodico tipicamente inglese. Maneggiare un’eredità e un’influenza musicale di questo calibro non è assolutamente un compito facile o banale, soprattutto se il risultato è quello che abbiamo qui tra le mani: il rischio che tutto esploda in un confusionario e pantagruelico put-pourri è sempre dietro l’angolo, ma l’umiltà nell’approccio tiene ancora lontani i Prinzhorn dal baratro.

Rispetto al precedente questo disco suona in ogni caso leggermente più oscuro e misterioso. Forse nel complesso è leggermente in calo, ma la produzione musicale dei Prinzhorn Dance School è destinata comunque a far discutere. Siamo di fronte a uno di quei tipici casi in cui il pubblico e la critica si dividono in due blocchi divisi e contrapposti tra coloro che li osannano come la next big thing del panorama underground e chi relega il tutto a esperimento poco riuscito. La linea di demarcazione molto netta è certificata anche dalle due recensioni che apparvero nel 2007 sul The Guardian che, per non sbagliare, in occasione dell’uscita del primo disco, fece uscire due recensioni, un grande elogio e una sonora bocciatura. Personalmente tendo più ad inserirmi nel primo gruppo, con una piccola clausola finale: rimanere sull’orlo del baratro sarà nel il futuro un esercizio complicatissimo. Per funzionare, infatti, questa macchina necessita di un sottilissimo bilanciamento negli arrangiamenti – l’organizzazione del materiale sonoro, quando esso è limitato, diventa infatti essenziale ai fini della resa complessiva – e di felici intuizioni melodiche. Se saltano questi equilibri salta tutta la musica dei Prinzhorn Dance School. Nel frattempo godiamoci comunque questa splendida uscita discografica, che fa il paio con quella di cinque anni fa e che ci conferma una realtà musicale importante, da tenere assolutamente sott’occhio, con la speranza che non manchino mai le felici intuizioni che hanno accompagnato il duo britannico fino a questo momento.

“Servo e padrone” di Massimo Roberto Beato

Quando si entra nel Teatro Stanze Segrete, in questi giorni, ci si trova a calpestare il parquet del raffinato salotto di un giovane gentiluomo inglese, Tony, futuro avvocato appena tornato a vivere nella brumosa Londra degli anni ’60. In un angolo, un pianoforte, al quale già siede il musicista che ci accompagnerà per tutta la serata. Alle pareti, i grandi specchi non si limitano a moltiplicare lo spazio: ne rivelano ogni angolo, come faranno con i personaggi del dramma. Lo sguardo si arrampica lungo una scala, raggiunge il piano di sopra, la zona notte: la camera da letto è velata da un drappeggio troppo leggero, troppo impudico per celare ciò che vi si consumerà. Muoviamo solo pochi passi ancora e abbiamo già raggiunto i posti a sedere: siamo appena oltre la quarta parete, veri e propri ospiti invisibili negli appartamenti di questo borghese un po’ bohémien. Lo spettacolo non è ancora iniziato, ma già il regista, Jacopo Bezzi, è riuscito a farci sentire piacevolmente, colpevolmente, peccaminosamente indiscreti. Sensazioni che cresceranno senza posa nei novanta rapidissimi minuti che ci attendono.

Servo e padrone, scritto da Massimo Roberto Beato, si ispira liberamente allo stesso romanzo di Robin Maugham da cui Harlod Pinter ha tratto la sceneggiatura per Il servo, del regista Losey, film cui il drammaturgo non nega qualche apprezzabile omaggio pur tracciando un percorso del tutto autonomo. Tony intrattiene una relazione con Sally, una borghese ricca e sofisticata che da lui in fondo vorrebbe solo un po’ più di maturità e un impegno sentimentale: un matrimonio insomma. Tony, però, non ci pensa nemmeno a sposarsi, e tanto meno a imparare a occuparsi di sé stesso. Per governare la casa a una moglie preferisce un maggiordomo, e finisce così per assumere Barrett: il domestico perfetto, in apparenza, se solo si riuscisse a decifrare quel che di vagamente equivoco affiora in ogni suo sguardo. Quando questi lo prega di prendere a servizio anche la sorella in qualità di cameriera, il gentiluomo non esita ad accogliere in casa Vera, una ragazza tanto timida quanto incontrollabilmente, e forse programmaticamente, provocante. Inutile dire che senza rendersene conto Tony, Faust decadente e ridotto a perpetua adolescenza, ha stretto un patto col diavolo.

Non c’è momento dello spettacolo di Bezzi in cui non si avverta la sferzante tensione generata dal gioco di potere fra i quattro personaggi, che sia gioco mentale, emotivo o erotico: non a caso è proprio in un gioco che si risolverà la scena finale. Ciascuno dei protagonisti, in fondo, capisce con chiarezza la natura del meccanismo che lo sbriciolerà: ma dal potere, una volta che lo si sia lasciato entrare in casa, non è possibile affrancarsi per nessuno; non vi è innocenza, intelligenza o amore che gli resista; lo si può usare o subire, ma l’unico modo per sottrarsi a questa dialettica è fuggire, ed è ben magra salvezza. Barrett è come un vizio, una dipendenza che crediamo di tenere agevolmente sotto controllo, finché non scopriamo con stupore che da un momento all’altro le parti si sono irrimediabilmente invertite.

Ben riuscita la scelta del cast: Giacomo Rabbi sembra nato per vestire i panni del gentleman galante ma fragile; Monica Belardinelli conferisce a Sally una grazia degna di Jacqueline Kennedy; Nicoletta La Terra riesce a rendere unitaria la notevole varietà di registri emotivi che Vera attraversa; quanto a Beato, nessuno meglio del suo creatore avrebbe potuto interpretare le brucianti ambiguità di Barrett.

Il teatro che lo ospita tiene davvero fede al suo nome, con questo spettacolo: il consiglio è di prenotare i posti per tempo, per non rischiare di rimanere fuori da queste “stanze segrete”.


Servo e padrone
di
Massimo Roberto Beato
regia di Jacopo Bezzi
con Giacomo Rabbi, Massimo Roberto Beato, Nicoletta La Terra e Monica Belardinelli

Roma, Teatro Stanze Segrete fino al 19 febbraio

“Una famiglia come tante” di Barbara Notaro Dietrich

Chi di noi, osservando un dipinto, non si è sorpreso a interrogarsi sulla storia del soggetto raffigurato o ha tentato di ricostruire una vita dando spessore, profondità al personaggio? Ecco ciò che è successo alla scrittrice Barbara Notaro Dietrich, la quale è partita dalla superficie della tela per raccontare la storia di Una famiglia come tante, che vive «in quel Paese che aveva reso grande la famiglia e quella solida casa in pietra semplice stava lì a dimostrarlo». La saga familiare prende vita in un continente vasto, attraversato da praterie sconfinate, e percorso da strade infinite che costeggiano interi deserti. Il paesaggio americano rappresentato da Edward Hopper fa da décor all’azione e la luce accecante di giorni splendenti, ci abbaglia mostrandoci i personaggi, pensiamo a Clara e Alice, «nel sole». Queste due, in particolare, appaiono sfrontate e piene di speranze verso il futuro. Altre volte affiora una visione più intima e privata: le si scorge allora quasi di nascosto dietro i «vetri ampi delle finestre prive di tende» come per svelarne i più intimi segreti. Può accadere che il punto di vista cambi e l’occhio estraneo di una telecamera faccia incursione in un interno cogliendo l’attimo preciso in cui lo smarrimento di un’anima si riflette sul vetro, proiettando illusioni o disillusioni verso l’esterno: «La sua posa preferita, leggermente di tre quarti, lo sguardo oltre la finestra, confine del mondo».


Una famiglia americana è rappresentata nella metà del secolo scorso con i drammi interiori dei suoi membri; la guerra fa da sfondo lasciando soltanto un’eco attutita. Un intero albero genealogico si dispiega sotto i nostri occhi di lettori, dal vecchio capostipite Silber sino ai giovani nipoti.


Il romanzo è costruito sulle relazioni che intercorrono tra consanguinei: matrimoni, viaggi di nozze, tradimenti, abbandoni, funerali. Talvolta la lettura di una lettera funge da raccordo tra due personaggi lontani nello spazio e nel tempo. La presenza del destino sembra muovere i fili dall’alto aleggiando su tutti: Marta, Prudence, Cristina, «perché ognuno aveva un posto assegnato, a teatro come nella vita. A ciascuno viene dato un destino e per quanto si possa lottare e combattere e cercare di contrastare la sorte, il destino chiama e si realizza al di là di ogni nostra volontà». L’idea di un destino ineluttabile proviene forse dall’immobilità del soggetto nella tela (cui si ispira la narrazione), il quale resta sempre uguale in un istante perenne senza appello. Il soggetto non potrà aver alcun ripensamento, esitazione, slancio verso il futuro poiché è pittoricamente destinato a restare fermo in una posa che non potrà mai cambiare.


La famiglia è, dunque, la protagonista assoluta del libro della Notaro Dietrich, e i suoi componenti sono tasselli uniti da legami di sangue: padri e figlie; fratello e sorella; uomini sposati e amanti sedotte e abbandonate. Proprio il sangue, che unisce e respinge al tempo stesso fa da trait d’union, simboleggiato dal colore rosso. Il rosso del sangue scorre come vita nelle vene, ma è anche emorragia d’amore incontenibile che sgorga a fiotti da ferite insanabili che il tempo non potrà rimarginare.



(Barbara Notaro Dietrich, Una famiglia come tante, DEd’A Edizioni, 2011, pp. 106, euro 15)

Ho bevuto ubriacandomi sulle tette del mondo

Ho bevuto ubriacandomi sulle tette del mondo, sulle tette rifatte del mondo. Semmai da lì fosse facile amare la vita. Ma l’amore è una stanza di dieci pareti e nessuna finestra. Di dieci pareti nessuna finestra e un tubo, per l’acqua potabile, arrugginito. E manca il cesso. L’amore è una stanza a cui manca il cesso. Nell’angolo sinistro rivolto a Oriente, tra la terza e la quarta parete, una padella capovolta, con sopra uno spicchio d’aglio. A illuminare gli spogli tramezzi bianchi come spettri in calore, una lampadina. Scende dritta dal soffitto esattamente a metà della stanza, per fermarsi a mezz’aria. Mi ha sempre ricordato quel quadro… come si chiama, sì la Pala di Brera, con questo uovo che cala dalla conchiglia. Già. Potevo pensare a una conchiglia per descrivere in due parole l’amore. Ma la stanza poligonale lercia fa il suo effetto.

«Vodka o birra?»
«A questo punto mi metti in crisi.? Vada per la birra, nella vodka».
«Ma che schifo è Marc?», gli feci tirandogli una gomitata al fianco destro.
«È per il piano, no? Piuttosto, pensavo che eri caduto nel bagno. Venti minuti esatti. Hai pisciato, sì?»
«No».
«E che cazz…»
«Mi sono rullato una canna e mi sono seduto sulla tazza a pensare».
«Ancora a lei? Matt stai pensando ancora a lei? Quand’è che la finirai? È diventata un’ossessione e mentre tu ti stai ossessionando lei starà facendo dei bei pompini da qualche parte».
«Sei la solita testa di cazzo Marc. Vorrei darti tanti di quei cazzotti sulle palle che… fanculo. Piuttosto, ci vediamo alla baia tra un quarto d’ora. Sbrigati».
«Alla baia, tra un quarto d’ora».

Gli avevo già voltato le spalle e mi ero diretto davanti al frigorifero del pub. Lo aprii con forza e presi una bottiglia di rhum e quattro birre in lattina. Non feci caso nemmeno alla marca, le presi e basta. Marc si sarebbe lamentato ma a me non sarebbe fregato un granché, non quella sera. Presi un bel respiro, mi voltai e diressi lo sguardo al bancone dove, in piedi, c’era Marc che si stava bevendo quello strano miscuglio e montava assurde scenette teatrali da clown, tentando di abbordare la cassiera. Non avrebbe abbordato nemmeno una capra, in realtà. Con quella faccia. Ma rientrava nel piano: distrarre.
Dopo la morte di suo figlio non fa altro che sputare in faccia alla vita. E fa bene. Dopotutto lo sto aiutando a sputare.
Sedute al suo fianco c’erano altre persone. Bevevano caffè, cocktail, amari. Afa. Per via delle troppe persone. Tutti erano presi dai propri discorsi. Le chiacchiere si disperdevano, girovagando senza senso. Al piano di sotto si appendevano sogni alle note di una chitarra.
Ok. Era il momento giusto. La porta d’uscita stava a sei passi da me, o dal frigorifero, o dal frigorifero e me. Sgattaiolare sarebbe stato facile anche questa volta. Braccia tese e aderenti alla gamba. Natiche strette. Sguardo a terra. Passo veloce. Via.
Fuori. Presi a correre. Urtai la spalla di una signora ma non chiesi scusa. Troppe scuse. Attraversai la strada senza guardare. In giro non c’era anima viva. Voltai per una viuzza. Dopo appena cinque minuti mi ritrovai nel parcheggio di via Ignazio. Sfiancato, mi appoggiai a un muro, accesi una sigaretta e mi stappai subito una birra.
Misi in moto l’auto, dopo aver cercato per due minuti buoni le chiavi.
«Che cretino! Sono un emerito cretino. Come si fa a lasciare la macchina aperta con le chiavi infilate. Ma soprattutto come si fa a non rubarla in queste condizioni, diamine. Le cose semplici non piacciono a nessuno eh?», borbottai, prendendomela col volante, convinto che mi avrebbe parlato, che si sarebbe ribellato.
Ma non ottenni risposte dall’oltretomba per tutto il breve tratto che portava alla baia.

«Come mai tutto questo tempo Matt?»
«Ho tentato di parlare con un volante!»
Era già lì, sdraiato sulla spiaggia vicino a quel decrepito casolare.
«Ehi, e questa bottiglia di vino chi te l’ha data?», gli feci sorpreso.
Essere un ubriacone è un privilegio, per un lineare motivo: i liquidi. Io sono rimasto senza lavoro e Marc non se l’è mai passata bene. Rubare, per volare. Era il nostro motto.
«Un tizio. Gagliardo!»
«Ma dai?»
«Stavo intrattenendo la cassiera con la mia classe quando un tizio si avvicina, ordina due bottiglie di vino rosso. Un novello. Le guardo. Lui mi guarda e dice: “Un sorso?” Ottimo!, penso. Così cominciamo a bere, finché non si ferma ad ascoltare la musica proveniente dal piano di sotto. “Io la conosco tal canzone”, mi fa. “Tal canzone la conoscono tutti. È De André”. E lui, a sua volta: “De André? Quello pelato giusto?” “No. Aveva i capelli, e lunghi pure!” “È vero lo sai? Hai ragione! Che portava sempre un cappello, e gli occhiali? Sì come no, ci sono sempre andato matto”. Al che mi viene da ridere. E gli rido in faccia».
«E lui?», chiesi a Marc, divertito.
«E lui mi abbraccia e scoppia a piangere. Ti giuro. Piange sulla mia spalla sinistra».
Sbottai in una risata fragorosa.
«Tu ridi, ma è uno dei nostri, Matt. È un orfano di Dio anche lui».
«Uno che non conosce De André è molto di più che un orfano di Dio, Marc».
«Era ubriaco».
«Beh, apriamola ’sta bottiglia», strappandogliela dalle mani.
«Insomma l’ho invitato qui, a stare con noi. Ha detto che sarebbe venuto, più tardi. Forse. Non lo so. Tant’è che per ringraziarmi mi ha regalato la bottiglia che tu ti stai scolando».
«È anche buono, cazzo!»
«Ehi, figlio di puttana guarda che ci sono anch’io!»
«Tieni».
«E il tuo bottino?»
«Rhum e birre».
«Quelle che io amo?»
«No».
«Sei un cornuto. Io le Nastro Azzurro le detesto, lo sai!»
«Ciò che tu odi, Marc, verrà odiato da te».
Il silenzio ci buttò addosso una manciata delle sue preziose vesti. Rivolgemmo brindisi gratuiti alla luna gelida e bianca che di spalle lavorava a maglia. E più si beveva e più ci illudevamo di avvicinarci alle labbra e alle cosce dell’esistenza beffarda che ci stava travolgendo. Ma era un inganno; l’ennesimo. La realtà è un inganno, totale. Deride la vacuità dei sogni dichiarando guerra alle illusioni.

«Stanno arrivando».
«Chi sta arrivando Marc?»
«Gli alieni, stanno arrivando. Stanno venendo a salvarci. Guarda che bella navicella a metà che hanno, Matt!»
«Quella è la lana… la luna. Diamine! È tutta la sera che sputacchio invece di parlare».
«Non è una novità Matt, lo hai sempre fatto. E con le donne fai anche peggio!»
«Beh! Sempre meglio che farsi le seghe sopra i santini che ti sei rubato in chiesa!»
«Noo! Matt ti avevo detto che era un segreto, cazzo ora tutto il mondo lo sa!»
«Siamo solo io e te, dannatamente soli su questa spiaggia. Come fa a saperlo tutto il mondo? Me lo spieghi?»
«Ehi Matt…»
«Dimmi».
«Ricordami perché stiamo bevendo!»
«Con molto piacere!» Mi alzai e, barcollando, mi appoggiai al suo ginocchio. Marc si trovava sdraiato a terra, intento a fissare la bianca navicella che lo stava portando lontano, non saprei dire dove, ma ovunque è un posto migliore. Sempre. «Per ricordare a noi stessi che disprezziamo la vita perlomeno il pari di quanto ci disprezza lei», urlai improvvisando una mezza danza con una bottiglia per dama.
«Wow… e poi?»
«Per rendere il più breve possibile questa agonia terrena. Cazzo!»
«Vai col valzer Matt! E poi?»
«Ehm… e poi… e poi… e poi il terzo e poi non me lo ricordo. Quando abbiamo stabilito un terzo e poi
«Indovinello, indovinello…», rise, bofonchiando e battendosi le mani al petto a mo’ di tamburello.
«Fanculo, e dammi un altro sorso che te la stai scolando tutta tu la vescica del buon Dio samaritano!»
«Bello!»
«Cosa?», risposi.
«Quello che hai appena detto!»
«Che cosa ho appena detto?»
«E… non me lo ricordo sai?»
Prese a ridere sputando a terra l’alcol che aveva appena ingerito. Allora io gli saltai addosso e lo cominciai ad abbracciare e a mordicchiare e lui gridava e rideva gridando e gridava ridendo e ridendo ancora, colto da un’improvvisa voragine di felicità, di assurda e innocua felicità.
Mi buttò da un lato. Ora le nostre teste erano vicine. Come i pensieri: volatili preistorici. Tutto l’universo era lì, in un pugno di astri assecondati dalle pazzie dell’uomo. Girava. Fremeva in un girotondo impazzito.

«Marc!»
«Matt…»
«L’ho trovato».
«Ma dai?»
“Sì, l’ho trovato.”
«Davvero?»
«Marc!»
«Matt…»
«Ti dico che l’ho trovato…»
«Sì ma che cosa?»
«Oh finalmente me lo domandi…», prese a ridere, e io con lui, assecondandolo nella risata. «Il terzo e poi…»
«E dillo, forza!»
«Per fremere insieme alle stelle in un girotondo impazzito».
«Ah, bellissima!»
«Ma l’hai capita?»
«Non l’ho capita ma mi piace. Dobbiamo brindare! Brindiamo! Brindiamo!»

Marc si alzò con fatica, girandosi prima un po’ su se stesso, impanandosi di sabbia. Una volta in piedi, sembrava un faro che disperdeva una luce irregolare o una pala eolica sposata col più misero sibilo di vento. Cercò la bottiglia di rhum che si trovava dalla parte opposta del suo campo di ricerca: distesa a terra ci somigliava un po’, con l’ultimo goccio di aspra euforia al suo interno. Lo guardavo divertito. Era impacciato. Assuefatto. Un tutt’uno col girotondo del cielo. Cominciai a fischiettare stabilendo un ritmo che accompagnasse quelle due forze contrastanti, che a braccetto si dimenavano per liberarsi da qualcosa di molto più grande di loro. Poi si fermò. Prese equilibrio. Un passo. Un altro. Poi un altro ancora. Friabile, fiacco, malfermo. In direzione del mare.
«Ehi!», gli feci.
«Ehi!», rispose alzando un braccio.
«Vuoi scolarti anche il mare?»
«Devo cagare!»
«Ora?»
«Sì, ora!»
Si levò i pantaloni, poi la sua camicetta, infine le mutande. Rimase nudo, nudo con le scarpe ma senza i calzini, senza i calzini. Si chinò, ma cadde di culo sull’acqua, che lo fece inchinare da una parte. E cagò così. Di lato. Comodo. Come se stesse sognando.
«Forza alzati vuoi affogare?», lo strattonai sul bagno asciuga.
«Matt?»
«Dimmi».
«Mi gira la testa».
«Hai bevuto molto».
«Ma sono felice».
«Èquesto che tutti vogliono»
«E tu sei felice?»
«Solo quando sono con te, amico!»
«Matt…»
«Sì, Marc?»
«Pensi che mio figlio mi stia guardando in questo momento?»
«Certo. E si sta facendo un sacco di risate, Marc!»
«Ride di me?»
«Non ride di te Marc. Ride e basta».
«Mi manca».
«Lo so».
«E lui lo sa, secondo te?»
«Lo sa. Ti sente. E sente anche il tuo dolore».
«Fammi fuori. Prendi una carabina e fammi fuori!»
«Se mi paghi ok».
Mi strinsi la sua testa al petto. Nudo. Con la merda spostata dalle onde.

«Ieri sono andato in un convento», gli dissi, «un convento di clausura. Mi sono avvicinato a una grata per parlare con una suora. Gli ho chiesto di pregare per me, su due piedi. Sai cosa mi ha risposto lei, Marc?»
«Sia lodato Gesù Cristo?»
«Mi ha risposto di no».
«Di no? Ma è pazzesco», rise e di colpo il suo viso era tornato attivo e vitale quasi come se il discorso di prima fosse stata una parentesi a sé.
«Già».
«No. No e basta?»
«Io non prego per te se tu non preghi per te. Gridala la tua disperazione. Ecco cosa mi ha risposto».
Rimase a guardarmi, incuriosito.
«Forse abbiamo sbagliato tutto Marc. Forse stiamo sbagliando tutto. E se fosse proprio questo il punto? E se fossimo noi a evitarla di proposito la felicità?»
«Vaffanculo Matt. Mi è morto un figlio, capito? Un figlio. Non mi ha lasciato una moglie dopo venti anni di matrimonio. Mi è morto un figlio. Un figlio, cazzo. Lo vuoi capire? Lo volete capire tutti?»
«Allora urlala al mondo la tua disperazione Marc, proviamoci! Gridiamo al loro cazzo di Dio quanto è stronzo. Ma non anneghiamo; perché a volte temo proprio che invece stiamo annegando».
«Portami a casa».
«Ce la fai a guidare?»
«Non importa».
«Importa eccome!»
«Ho detto portami a casa. Eri più divertente dieci minuti fa!»
«Siamo ubriachi».
«Voglio tornare a casa Matt, perché mi fai questo. Voglio il mio letto, voglio un po’ di caldo Matt… non lo vedi che sono disperato Matt? Cazzo Matt…. non ce la faccio più, più…»
Lo fissavo.
«Dannazione Matt», urlò con rabbia e mi venne incontro. Mi mollò un cazzotto sul collo e cademmo a terra. Lui si rialzò per cadere ancora e rialzarsi e cadere e continuare a gridare. «Vuoi che urli al mondo quanto sono incazzato, eh Matt? Vuoi che faccia come ti ha detto quella puttana di suora che si è rinchiusa in un convento per paura che il mondo la tocchi? Eh? Lo vuoi? Allora vaffanculo, vaffanculo». Cominciò a tirare pugni sulla sabbia e a sbatterci la testa contro, in lacrime. «Fatti vedere Dio! Fatti vedere!»
Lo aiutai ad alzarsi ma si dimenò. Prese a correre. Cadde. Riprese a parlare: «Sei un fottuto bastardo Dio. Mi hai rubato tutta la mia vita, sei contento ora? Sei contento? Qual è il senso di questa fottutissima vita di merda dimmelo cazzo di un Dio dimmelo! Rivoglio mio figlio! Dimmelo…»
«Si diccelo Dio, diccelo!» Lo aiutai a gridare, a sputare rabbia, convinto che davvero qualcuno ci sentisse e ci ascoltasse attentamente. «Perché ci hai abbandonati, perché? Che effetto ti fa sentirlo per una seconda volta, eh, diccelo, diccelo…» 
Mi levai una scarpa e la lancia in cielo. La vidi ricadere in testa a Marc senza che lo volessi. Lui la riprese bestemmiando e la rilanciò verso il cielo. «Prenditi questa!», disse convinto.
«Dio!»
«Dio, dio dio dio. Mostraci il tuo volto Dio!»
Poi Marc cadde a terra sfinito e io lo raggiunsi subito dopo, abbracciandolo e stringendolo e baciandolo. Il girotondo dell’universo era concluso. Il cielo pareva calmo. Profumava di una pace intima.
«Ci avrà sentiti Matt?»
«Non credo».
«Allora siamo fottuti».
«Lo siamo sempre stati Marc!», gli risposi sorridendo. «Andiamo, ti riporto a casa da tua moglie, che sarà in pensiero».
«Magari domani risponde…»
«Magari domani diamo la caccia ai vampiri, che ne dici Marc, ti va?»

Fabio Appetito fa parte degli autori del blog di scrittura Vongole & Merluzzi.

Note di mercato dopo IfBookThen

L’evento organizzato da BookRepublic è finito, sul Web se ne è parlato molto e su Twitter i link e le discussioni ancora imperversano. Tutto ruota intorno a queste parole chiave:

«Velocità, qualità, metadata, prezzo, reperibilità, social reading, esperienza di acquisto e di lettura, self-publishing, elefanti e, naturalmente, libri ed editoria».
Marco Ferrario

La velocità è quella con cui sta crescendo il mercato dei libri elettronici in Europa, ma anche nel resto del mondo: negli USA gli eBook arrivano a coprire il 20% del mercato, e le percentuali sono destinate a crescere. Tutto ciò è anche dovuto alla penetrazione degli eReader e dei tablet, la cui diffusione nei prossimi cinque anni dovrebbe crescere in modo esponenziale.
L’indagine di A.T. Kearney, presentata dal CEO di BookRepublic, pone un problema che pare non aver avuto molto seguito nelle discussioni di cui si è detto: le vendite di eBook tolgono spazio al mercato cartaceo?
Questa è la classica questione che si pongono gli editori al momento di decidere se passare o no a una produzione digitale: e se poi non si comprassero più i libri di carta? Un timore simile può essere comprensibile, soprattutto a fronte dell’investimento iniziale che richiede la stampa di una tiratura, seppur minima. Tuttavia, penso (e lo ripeto sempre a chiunque mi ponga la stessa domanda) che un lettore che sia passato al digitale (qui un sondaggio che, con orrore dei più, conferma quanto sto per dire), difficilmente torni sui propri passi riprendendo a fare acquisti cartacei, a meno di non trovare a disposizione in formato eBook un testo di cui abbia forte necessità. Che cosa significa? Che per gli editori che non producono eBook quei lettori sono persi a prescindere, e le copie a essi “virtualmente” destinate per la stampa comunque invendute.

Un’altra piccola nota sul mercato dei libri elettronici: ciò che risulta da molti degli interventi avuti durante IfBookThen è soprattutto la necessità di una progettazione specifica per gli eBook, che non andrebbero semplicemente convertiti a partire dal file utilizzato per il cartaceo. Ne ha parlato Peter Meyers, che ha così posto l’accento sulla scarsa qualità dell’offerta oggi presente sul mercato. Su Wuz riassumono così:

«Scarsa cura del layout della pagina, assenza di collegamenti ipertestuali, note, contenuti extra, poco intelligente articolazione degli indici, pagine di copyright che hanno il solo effetto di infastidire il lettore e di condizionare negativamente la sua esperienza di lettura. Tutti elementi che rivelano che non c’è ancora l’idea di eBook come prodotto diverso dal libro cartaceo, che non sia la sua banale trasposizione in formato digitale».
Sandra Bardotti

Un lavoro redazionale in questa direzione, nonché una maggiore cura, da parte dell’editore, dei rapporti con i lettori e con gli autori (presenza sui social network, trasparenza dei dati di vendita, servizi, etc.) significherebbero incrementi nelle vendite e maggiore soddisfazione da parte del lettore:

«La presenza di metadati avanzati (descrizione lunga e breve, biografia dell’autore e review) nella scheda prodotto fa aumentare mediamente le vendite del 55% rispetto ai prodotti in cui nessuno di questi elementi è presente».
Jonathan Nowell

Chi sta andando in questa direzione? Si dice il peccato, ma non il peccatore, e questi (in senso lato) sono davvero pochi, per ora.

 


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