“Camera oscura”: a tu per tu con Simonetta Agnello Hornby

Abbiamo intervistato Simonetta Agnello Hornby che, dall’Inghilterra, ci ha parlato del suo ultimo libro Camera oscura (Skira, 2010), un volume che racconta “l’altra faccia” di Lewis Carroll, l’enigmatico autore di Alice nel paese delle meraviglie.

Buongiorno Simonetta, innanzitutto grazie per l’intervista. Ho finito di leggere da poco Camera Oscura (Skira, 2010), un libro che mi ha “aperto un mondo” su aspetti della vita di Lewis Carroll che, sono sincero, non sapevo affatto. Per me Carroll era soltanto il visionario autore di “Alice nel paese delle meraviglie”. Nient’altro. Puoi spiegare ai nostri lettori su quale aspetto della personalità dello scrittore si inserisce il tuo volume?

Sulla sua malattia. Molti autori di opere grandiose, così come uomini di stato o altre persone, commettono o hanno commesso reati, persino omicidi. Sapere che l’autore è una brutta persona non può sorprendere, soprattutto se si parla di Carroll. Carroll ha provato a costruirsi un’immagine, ha bruciato i suoi diari, c’era in lui l’idea di un’opera di funzione. Conosceva la sua malattia e ha continuato a fare quello che voleva, con il consenso tra l’altro delle famiglie. Il problema è che si è inventato una figura “santa”, quella di un uomo che amava i bambini. Le amava guardare, toccare e fotografare. Basta vedere anche solo quattro foto, quelle del libro, per capire che in lui non c’era niente di puro

Altro aspetto che non conoscevo è quello legato alla  professione, quella di avvocato in difesa dei diritti dei minori. Per me eri soltanto la bravissima autrice de La zia marchesa, La mennulara, Boccamurata. Immagino che l’ambito di cui ti occupi regolarmente abbia influito nella stesura di Camera oscura. Mi sbaglio? Da dove è venuta l’idea del libro? Che ne pensi di Alice nel paese delle meraviglie?

Ha influito eccome. Il libro mi è stato proposto dalla casa editrice. Mi è sto proposto in quanto scrittrice e in quanto avvocato dei minori, su consiglio di Camilleri. All’inizio avevo rifiutato, anche io non sapevo nulla di Carroll, poi mi hanno convinta. Alice nel paese delle meraviglie non è un però libro per bambini, è una macchina pubblicitaria che continua ancora oggi a funzionare. Abbiamo tutti negli occhi il film della Disney. Ci sono molti libri migliori di questo da far leggere ai bambini. Penso a Pinocchio, ma ce ne sono molti altri. Di Alice nel paese delle meraviglie mi piace l’assenza di morale. Sì, l’assenza di morale è l’aspetto migliore del libro.

Certo è incredibile pensare a Carroll come di un uomo incapace a resistere a tali pulsioni. Chi era questo scrittore oltre ad essere uno dei nomi fondamentali della letteratura anglosassone? Un esteta? Un malato? Un uomo dal doppio volto?

Era un pedofilo, inutile girarci intorno. Pensate che in Inghilterra è considerato uno dei massimi scrittori di sempre. Come Milton, per intenderci. Sicuramente po era una persona intelligente. Attirava i bambini cercando di dare loro fiducia. Il pedofilo deve avere dai bambini la fiducia e l’omertà. Per fare questo li deve conoscere.

Ed è per questo che la giovane protagonista, una quattordicenne che, diventata una delle "amiche" dell'illustre e originale scrittore-fotografo, subisce tutta l'opera di seduzione di Charles Lutwidge Dodgson (vero nome di Lewis Carroll), con il pieno consenso della famiglia, finisce per innamorarsi e soffrire terribilmente per il brusco troncarsi degli incontri (voluto dalla madre)?

Sì, in un certo senso sì. Qualche complimento, qualche parola dolce, qualcosa per farle sentire importanti. Lui ci sa fare, le bambine si innamorano di lui. Anche la protagonista. Un’opera di seduzione vera e propria. A quell’età è facile cascarci. Giocare con il loro aspetto e con il linguaggio, basta poco. A mio avviso però Carroll non “consuma” sempre il suo amore, probabilmente con le ragazze di buona famiglia “gioca” soltanto. Con le ragazzine del popolo dà il peggio di sé. Il consenso delle famiglie arriva anche per questo motivo. E poi Carroll è un “sant’uomo”.

Mi viene in mente il caso di Roman Polanski. Il regista fa venire a casa una bambina di tredici anni, Samantha Geiger, per un servizio fotografico. Era il 1977. La madre probabilmente aveva acconsentito. Denunciato, scappò dall’America per poi essere fermato giusto lo scorso anno. Trenta anni dopo e dopo molti riconoscimenti internazionali, oscar compreso. Che ne pensi di questa storia? Te lo chiedo sia come donna sia come scrittrice, e quindi artista, sia come avvocato.

Un reato è un reato, non c’è prescrizione. Polanski deve pagare la sua pena. La madre della ragazza? Il “consenso” arriva molto spesso. Oggi avviene con le veline, le attrici o pseudo-tali. Le famiglie mandano le figlie in pasto ai produttori. Abbiamo perso l’idea che i bambini non devono lavorare. Ci scandalizziamo per il lavoro minorile ma questo cos’è? Accettiamo la corruzione dei minori, in questo modo si corrompe l’infanzia. Anticipiamo la vita d’adulti per poi avere momenti lunghissimi di gioventù. Viviamo in un paradosso. In Inghilterra c’è forse una maggiore maturità nei ragazzi ma in fondo, almeno in occidente, è dappertutto uguale. C’è scompenso tra il fisico e l’intelletto, si matura prima fisicamente ma psicologicamente si è più indietro. Faccio un esempio, sia i bambini inglesi sia italiani non hanno “lavori”, compiti a casa, compiti che però sono lavori perché i compiti sono quelli che si fanno a scuola. I miei figli li avevano, noi li avevamo. Oggi si dice “aiuta la mamma”, un aiuto presuppone che ti devo dire “grazie” e quindi è facoltativo. Un lavoro non è facoltativo. Un bambino a tre anni sa che il suo lavoro è andare per esempio a prendere il latte alla porta, a cinque è quello di sparecchiare e così via. Oggi non è così. Non riesco a capire quando è stato il tempo in cui è scattato questo qualcosa che ha ribaltato tutto. Oggi siamo noi a dover fare cose per i figli, non viceversa. Forse con la liberalizzazione del ’68, non so.

Ci vuoi dire qualcos’altro sul libro? E su di te? Ci sono “lavori in corso”?

Nel libro sono stata attenta a non dare un giudizio, a lasciare al lettore il compito di farlo. Oggi i giudizi sono difficili da dare, bisogna osservare, osservare bene, trarre le conclusioni e non aver paura. Non lo dico ma lo faccio capire. Che posso dire? Sicuramente a Carroll non gli darei mio nipote…

Lavori in corso? Il 29 uscirà La monaca, con Feltrinelli, la storia di una monaca del 1840 che non voleva prendere i voti. Non vuole farsi monaca ma non perde la fede, invoca Dio per un destino migliore. Poi una storia d’amore dal sapore siciliano-napoletano con nello sfondo i moti del ’48 e primi richiami all’Italia che sarà.

Permettimi di fare i complimenti alla casa editrice Skira che, ancora una volta, ci ha regalato un volume preziosissimo, in tutti i sensi, anche per il formato e per la qualità tipografica. Grazie mille a e in bocca al lupo per tutto.

Grazie a te, spero che verrai alla presentazione del nuovo libro.

A Roma, sicuramente. Dove sarà?

A Feltrinelli, come sempre. Galleria Colonna.

Ci sarò. A presto e grazie ancora.

Grazie a te.

I fantasmi di Svevo

Ci sono alcuni libri che alla prima lettura colpiscono talmente da scolpire interi brani, intere pagine nella nostra immaginazione, pagine che volenti o nolenti ci accompagnano tutta la vita. Così, proprio alla luce del ricordo indelebile che ne abbiamo, temiamo quasi di riprenderli in mano e sottoporli alla prova crudele del tempo, quasi ogni scarto, ogni mutamento riscontrato potesse sottrarci un pezzo della della nostra vita, della nostra storia.

Ho un timore simile nel riprendere in mano una delle opere più importanti del Novecento italiano, Senilità di Italo Svevo, completamente ignorato all'uscita nel 1898, recuperato solo nel 1927 con il successo della Coscienza, amatissimo da Joyce e da Montale: la claustrofobica storia-senza-storia di un uomo a metà, artista a metà, amante a metà, insufficiente alla vita e che da questa insufficienza cerca sollievo nei fantasmi, nelle vertiginose architetture di menzogna e negli alibi che continuamente si fornisce per andare avanti. Vivendo solo con l'esangue sorella Amalia – che scompare sotto i suoi occhi, sempre più invisibile, grigia e triste, senza che il suo male (concretissimo) baleni alla coscienza annebbiata da sogni autoindulgenti del fratello – Emilio Brentani si culla nella piccola gloria passata di scrittore e in una storia d'amore in cui si finge invano distaccato e padrone di sé, e che invece lo travolge con l'impeto devastante del reale.

Oggetto di questo amore è la vivace, bionda e rosea Angiolina, raggiante emblema di salute, giovinezza e spensieratezza, l'incarnazione – guardacaso – di tutto ciò che a Emilio manca. Fresca, sfacciata, popolana, anche lei bugiarda ma mai con se stessa: bugiarda, a differenza di Emilio, non per fuggire il presente ma per accaparrarsene, con tutti i mezzi a disposizione una fetta più larga e appetibile, giungendo a negare l'evidenza degli altri amanti, le sue manovre per sistemarsi, la complicità della famiglia in queste stesse manovre. Bugia legatissima alla realtà, dunque, che su tale realtà pretende di poter agire come agente modificatore. Ben altra la menzogna in cui il Brentani trascina la sua esistenza, che nasce dallo scontro fra desideri smisurati e desolata inerzia, che si nutre di chimere, sovrapponendole come maschere ai volti reali. Solo così Angiolina può apparirgli ora la sprovveduta giovane da “educare”(un pò come la Carla di Zeno nella Coscienza), ora l'amante devota, ora la viziosa traditrice, per arrivare, a storia finita, a fondersi nella sua memoria con l'immagine della sorella morta, in un ideale di bellezza malinconica che stravolge ogni fisionomia o carattere reale.

Una vera e propria fenomenologia della menzogna, questo capolavoro sveviano, ma anche dell'inerzia, della condizione così profondamente novecentesca di un irrimediabile scollamento fra presente e idealità, dell'inettitudine di fronte a una vita che non si sa, o vuole, riconoscere come propria. Di fronte al fallimento esplode la reazione dirompente ma lucidissima dell'autoinganno, dell'invenzione di un sé diverso: in questo caso il personaggio dell'amante distaccato e disinvolto, che, proprio nell'incipit del libro, Svevo ci presenta intenzionatissimo a “non compromettersi in una relazione troppo seria”. Nei progetti di Emilio, nelle sue proiezioni mentali limate da infiniti ritocchi, Angiolina dovrebbe essere l'avventura che rinsangua, il soffio di aria fresca in una vita grigia e oppressa da reponsabilità gravose, il passatempo di cui disporre con netta e rassicurante coscienza della propria superiorità. Eppure sino le premesse su cui egli basa questi progetti sono un'invenzione: le uniche responsabilità del Brentani, da lui accampate come scuse per non potersi impegnare, sono una tranquilla occupazione di impiegato presso una compagnia di assicurazioni e una devotissima sorella, Amalia, che lo ama teneramente e vive al suo servizio; né, d'altra parte, è difficile intuire che Angiolina mal si presta al ruolo della giovane e sprovveduta “vittima" che egli vorrebbe attrubuirle.

Pochissimi gli altri personaggi, in un geometrico, oppressivo gioco di specchi e rimandi: il pittore Balli, amico di Emilio e oggetto delle sue invidie per la sua disinvoltura con le donne e un fascino che, tuttavia, non sembra averlo portato molto lontano; la già citata Amalia, che sfoga il suo silenzioso amore di donna repressa e dimessa proprio per il Balli solo di notte, in agitati sogni di cui ovviamente il fratello ignora la causa. Amalia l'esatto opposto di Angiolina: rassegnata e quieta, di una sua spontanea finezza l'una, come l'altra è spudorata, fracassona, talvolta volgare, tanto è vero che dal Balli viene soprannominata "Giolona".

Ma quello che più stupisce di questo romanzo così profondamente moderno e –non dimentichiamolo– anticipatore di temi fondamentali della psicanalisi nel modo sconvolgente in cui forse solo Svevo in Italia seppe esserlo– è la continua immersione nei pensieri di Emilio, nei suoi inseguimenti di realtà e finzione, la registrazione minuta, complessa ma mai noiosa per il lettore dei suoi autoinganni mai completi, delle falsità che si racconta senza mai crederci sino in fondo, dei propositi subito traditi, delle intenzioni deviate. E la lingua di Svevo –tanto spesso criticata, trovata ostica, ruvida, inadatta– sembra invece accompagnare magistralmente questo moto continuo, senza concessione alcuna alla retorica, senza indulgenza per il proprio personaggio. Un distacco che non arriva però mai alla condanna: la distanza che serve per cogliere il quadro in tutte le sue sfumature.

In definitiva, dopo aver trovato il coraggio di riprenderlo in mano, devo testimoniare che indubbiamente c'è una fitta di dispiacere nell'intaccarne il ricordo. Non può che essere così. Certe pagine mi sembravano più lunghe, avrei giurato che quella frase era diversa…Eppure il tutto continua a lasciare senza fiato: una ricognizione calma e terribile della lacerazione fra aspirazione e realtà, quella divaricazione irrimediabile che, anche solo limitandoci al Novecento italiano, da Tozzi a Moravia a Landolfi e ancora avanti, rappresenta un nodo fondamentale nella poetica di autori pur diversissimi tra loro. Indifferenza, inerzia, noia, senilità: e il dilagare dei fantasmi, che però alla fine ti lasciano ancora più solo, ancora più deluso da tutto. Riprendiamo in mano i libri amati, se non altro per scacciarne un pò.

Michela Murgia vince il Campiello 2010

Michela Murgia è la fresca vincitrice del Premio Campiello 2010. Dopo lo Strega si aspettava il bis per il vulcanico Antonio Pennacchi e il suo Canale Mussolini ma, a sorpresa, con 119 voti su 300, a trionfare è la brava autrice di Accabadora, uscito per l’Einaudi.  “Dedico il premio non alla Sardegna che ora non ne ha bisogno, ma a Sakineh, la giovane donna iraniana” queste sono state le prime parole durante la premiazione avvenuta, come di consueto, al Teatro “La Fenice” di Venezia.

Giunto alla quarantottesima edizione il Campiello continua a non perdere il suo fascino anche se, a mio avviso, è sempre di più lo specchio di una narrativa italiana che in questo momento non riesce ad avere lo stesso respiro di certe letterature europee e non solo. Quello della Murgia, ben intesi, è un bel libro, come lo sono d’altronde quello di Pennacchi e quelli degli altri finalisti (Gad Lerner, Gianrico Carofiglio e Laura Pariani), un romanzo anche tutto sommato completo, purtroppo però incapace di operare quel salto che permette di attraversare quella linea che divide la fiction dalla letteratura.

Eppure quelle centocinquanta pagine, o poche più,  che scivolano via con leggerezza – termine che non va mai e poi mai tradotto in semplicità e quindi banalità – come se il racconto di una vita avesse bisogno di un impeto immediato, un furore incapace di fermarsi a riflettere, meritano di essere lette. C’è molto della Sardegna nel suo modo di scrivere e di rapportarsi al mondo circostante, come se la sua terra, circoscritta da acqua e soltanto acqua ma apparentemente arida, sfiorasse ogni parola, ogni suono, ogni riflessione.

Una Sardegna che si ritrae su se stessa, indietreggia verso l’entroterra, non affronta il pericolo del mare. Ma anche una Sardegna bellissima e genuina, quella che De André, alla foce del Coghinas, immagino come possibile paradiso terrestre. La Murgia non è elegante nella scrittura, ma efficace. Come un pugile che, attaccato, risponde colpo su colpo senza badare all’estetica della nobile arte. Mi piace definirlo un linguaggio “nudo”, un linguaggio che fa un uso, proprio e improprio, della “pellaccia”, della propria “pellaccia”.

Pensi alla letteratura sarda e ti viene in mente Grazia Deledda. Ma non si può creare una sovrastruttura col passato così forte. Ci sono semmai influenze latine e sudamericane e soprattutto un bagaglio di cultura popolare (non solo isolano). di cui si sente fortissima l'influenza.

In sardo, «accabadora» è colei che finisce. Da una "questione terminologica" inizia la storia di Tzia Bonaria, la vecchia sarta che conosce sortilegi e fatture e sa dare una morte pietosa, e Maria, la bambina che Tzia Bonaria ha preso con sé per crescerla come una figlia. Ed è la maternità elettiva il tema centrale dell'opera: ("mi appartiene profondamente, perché a mia volta sono fill’e anima; ma per non cadere nella trappola del parallelismo autobiografico, ho scelto volutamente di narrare il rapporto dal punto di vista della madre adottiva, una figura per la quale accompagnare i destini a compimento è solo una delle possibili sfumature della sua maternità, non necessariamente la più oscura").

“Sillabario dei tempi tristi” di Ilvo Diamanti

 

Non è un libro per tutti questo Sillabario dei tempi tristi (Feltrinelli, 2009) di Ilvo Diamanti: trentasette voci attraverso cui l’autore analizza il nostro tempo (si va da “Arrangiarsi” a “Zone”  passando per “Bene comune”, “Democrazia”, “Occhiali”, “Paura” e “Ultrà”…). Dicevamo, non è per tutti per almeno due motivi: perché non per tutti questi tempi debbono essere per forza tristi e non è per tutti perché non è scritto dal professor Diamanti, distaccato e scientifico, ma dal cittadino Ilvo, carico delle sue passioni e delle sue idee politiche (riformiste di sinistra), per niente neutrale, che già dalle prime pagine annuncia, avvisa e sembra scusarsi del fatto che per una volta il politologo distaccato lascia il posto all’uomo preoccupato e schierato. Quasi a voler dire che in questi tempi (tristi) non si può fare a meno di un impegno diretto, non si può non prendere posizione. Del resto, come ricorda già all’inizio, il giornale stesso per cui lavora, “Repubblica”, è una parte. Anzi, un giornale- partito, come molti dei suoi critici, nel corso degli anni, lo hanno definito. Così, se non fosse per lo stile tipico di Diamanti e per alcuni riferimenti ai luoghi della sua vita (Caldogno e Urbino) ed alla sua professione, potrebbe trattarsi di un’opera collettanea delle più prestigiose firme del giornale diretto da Ezio Mauro: difficile, infatti, quando si leggono alcuni passaggi carichi di tristezza e di critica molto aspra all’attuale società, non pensare agli scritti di Bocca, di Maltese, di Serra. Tutti autori “esuli in patria”, come esuli in patria per Diamanti sono gli elettori del Pd: cittadini che oltre a sentirsi “atopici” ed ormai atipici in questa modernità (peraltro neppure più utopici), subiscono pure la beffa di non vedersi ben rappresentati dai partiti del centrosinistra sempre più salottieri e mediatizzati. Mediatizzata del resto lo è ormai tutta la società, composta di persone atomizzate che vivono in solitudine o sui social network e che quando vanno nei luoghi pubblici si nascondono dietro lenti scure, quasi a volersi proteggere, quasi per paura degli altri. Già, la paura, un’altra “compagna” di questi tempi. Paura dello straniero, del diverso, paura nel calcio, sport nazionale che per Diamanti assurge a simbolo dell’Italia contemporanea: faziosa, violenta, razzista.

Scorre veloce questo libro, si legge tutto d’un fiato e lascia un po’ di tristezza ma, allo stesso tempo, anche la voglia di lottare perché questi tempi siamo meno tristi.

“Assalto a un tempo devastato e vile, Versione 3.0” di Giuseppe Genna

Assalto a un tempo devastato e vile, Versione 3.0 (Minimum Fax, 2010), di Giuseppe Genna, esce nella sua terza stesura, con un nuovo editore (gli altri furono nell’ordine peQuod e Mondadori). Il libro non può essere definito con un unico termine nel suo complesso: i capitoli che lo compongono difatti godono di una larga autonomia e spaziano da quello a carattere prevalentemente autobiografico a quello di pura finzione. Altri invece assumono la forma del saggio oppure dell’inchiesta giornalistica (interessantissimo a questo proposito è il capitolo dedicato a Scientology). Non nascondiamo che abbiamo incontrato delle difficoltà nel leggere ognuna delle oltre trecento pagine. A tratti il libro ci appare scontato, a volte quasi irritante, specie quando l’autore ci parla dei suoi mali d’amore. Non ce ne voglia Genna, ma anche le descrizioni che fa dei suoi malesseri fisici più che farceli apparire tragici ci suscitano alquanta ilarità. Esemplare la descrizione di una gastroscopia dipinta con i toni di un operazione difficilissima e rischiosa e come tale, affrontata dal protagonista con stoico coraggio.

Che questo sia stato l’esordio letterario di Genna un po’ ci lascia perplessi, ma per fortuna non tutti sono miopi alla nostra maniera. Difatti chi dietro a questo lavoro aveva fiutato sostanza di certo non si era sbagliato. Genna lo abbiamo apprezzato e continuiamo a stimarlo per i grandi gialli che ci ha regalato. La saga dell’ispettore Lopez, ad esempio, è una piccola pietra miliare della letteratura di genere contemporanea italiana, che non a caso è molto apprezzata anche all’estero.

Ma questo lavoro, almeno nella sua forma attuale, è troppo ridondante, barocco, pieno di fronzoli superflui che allungano “una brodaglia già di suo un po’ insipida”. Certe volte poi si inoltra in elucubrazioni talmente complesse che seguirlo diventa davvero un impresa ardua. Le difficoltà maggiori si incontrano soprattutto quando ad affiorare sono le sue passioni filosofiche, in particolare quella verso la filosofia della mente, disciplina che coltiva fin da studente.  Non è un caso, infatti, il frequente  ricorso all’uso di termini tecnici attinti direttamente da tale disciplina.

Genna in questo libro sembra avere, purtroppo, la capacità di banalizzare quasi tutto. Anche ciò che c’è di buono finisce col ribaltarsi nel suo contrario. Una cifra stilistica assai interessante dell’autore è il frequente ricorso che fa a delle immagini molto ben congeniate. Purtroppo però, anche le metafore più belle, ed il libro ne è tappezzato, perdono tutta la loro dirompente potenza e poesia perché vengono profuse in maniera gratuita.

Per nulla edificante poi ci appare la facile critica che compie nei confronti della Milano di Calvairate, una periferia molto degradata. Sparare a zero sul microcosmo che ci ronza attorno è un’operazione molto discutibile oltre che troppo facile, ma peggio ancora è sfruttare la provenienza da quei luoghi per crearsi attorno l’aura di “maledetto”.

Così viene da chiederci per quale motivo uno scrittore di buona fama e grandi aspettative sia andato per l’ennesima volta a riesumare quella prima pubblicazione. Che non sia per l’ossessione che lo scrittore ha per le riesumazioni ed i cadaveri? Comunque, al contrario di quanto possa sembrare, riteniamo positiva la volontà dell’autore di non considerare questo libro chiuso. Certo, per farci contenti, dovrà invertire la rotta: invece di ampliarlo auspichiamo, alla prossima edizione, una consistente riduzione.

“Fino a diventare uomini” di Thomas Brussig

Dopo un quasi-capolavoro come In fondo al viale del Sole e un primo mini pamphlet come Litania di un arbitro, splendida invettiva di un arbitro di calcio contro le ipocrisie della società, Thomas Brussig mette a segno un altro colpo vincente. Il libro in questione è Fino a diventare uomini, nel quale, in neanche cento pagine, riesce nuovamente, come nel precedente volume (sempre edito dalla nuova e deliziosa casa editrice romana “66thand2nd”) a mescolare sapientemente storia e sport, filosofia e luoghi comuni. Un libro da leggere in un’ora, voracemente. Non assaporarlo lentamente, divorarlo. Brussig ti scaraventa nel suo mondo con una forza inaudita, ti prende per la giacca, ti tira e ti butta giù, poi ti rialza e comincia a parlare, parlare, parlare. Un monologo incessante, senza respiro. Vorresti incazzarti perché non sei d’accordo con tutto quello che dicono i suoi personaggi – che siano l’arbitro del precedente libro o l’allenatore di Fino a diventare uomini poco importa – ma stai sempre lì orecchie tese ad ascoltare, ascoltare, ascoltare. Ti perdi negli spostamenti di tempo – la Germania dell’est, la caduta del muro, la Germania di oggi – e nella miriade di riferimenti quasi sempre sportivi e non solo. Come un cronistorie del nostro tempo l’allenatore-Brussig infila uno dopo l’altro ricordi di diverse generazioni di persone: la vittoria dell’Ungheria sull’Inghilterra, la sconfitta dei magiari proprio contro i teutonici; la grande Olanda e il calcio totale. E poi, e poi. E poi il sogno della Germania dell’Est, quel mondiale raggiunto una sola volta. E quella soddisfazione, il gol di Sparwasser. L’Est povero che batte l’Ovest ricco. Storie d’altri tempi. Ma lo sport si sa è storia, politica, specchio della vita – reale o al rovescio – e vita stessa- Gente per cui il calcio è più importante di tutto. L’allenatore si incazza con il “giudice in gonnella”, non sa neanche cosa sia Vergatterung. Gli ordini. Quelli che un allenatore impartisce ai suoi ragazzi. Quelli che un generale ordina ai militari di leva. Che colpa ha Heiko, il capitano della squadra? Aver sparato quando gli è stato ordinato di farlo? Qui c’è l’errore. Ma non sbaglia Brussig, sbaglia il personaggio. L’allenatore non sa che a non capire il significato di Vergatterung non sono soltanto giudici in gonnella. Non lo capiranno le generazioni future. Io stesso non voglio sapere cosa significa Vergatterung. Il muro di Berlino per me e per quelli della mia generazione vuole essere la maceria che è a terra, non quello che è stato prima del millenovecentoottantanove. Non, non lo voglio sapere il significato di Vergatterung. E questo Brussig, che è veramente uno dei migliori talenti europei lo sa. Eccome se lo sa. 

“Rive lontane” di Laurent Martin

Rive lontane (Voland, 2010), di Laurent Martin può essere definito, senza remore, un lungo racconto nero, intriso di nostalgia, disillusione e vendetta. Attraverso una scrittura essenziale, limpida, a tratti sibillina, l’autore ci regala un piccolo gioiello di narrativa a metà tra una storia  noir e un breve romanzo di formazione.

È un realtà di confine, una banlieue sperduta nella periferia di un’innominata città francese, quella in cui si svolgono i fatti raccontati in prima persona dal giovane Joseph, diciottenne cresciuto nel piccolo nucleo abitativo sorto nei pressi della Fabbrica, un luogo emblematico, fotografia dell’alienazione post-industriale. L’unico svago concesso alla massa informe che popola questi luoghi dimenticati da Dio, è il locale Panama, un ritrovo di attempate prostitute e operai svuotati dell’anima. Sarà una serie di delitti terribili e apparentemente inspiegabili a stravolgere la monotonia della comunità. Il finale, rapido e tagliente come una lama di coltello, lascerà sicuramente il lettore di sasso rivelando un movente atavico, come solo la vendetta sa essere.

Martin riesce a distrarci dal susseguirsi dei delitti con la storia persona di Joseph, con le sue aspirazioni, con la sua voglia di fuggire da un destino già stabilito, inseguendo il sogno di vedere, un giorno, il fiume Mississippi. In secondo piano rispetto alla vita del diciottenne, eppur altrettanto centrale nella struttura del racconto, è la serie di delitti il cui filo conduttore sembra essere un comune passato che lega le vittime con l’assassino. Una narrazione coinvolgente e rapida, a tratti poetica nella descrizione dei personaggi e dei luoghi-simbolo, e una trama ben strutturata e ricca di colpi di scena, catturano, dunque, l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine senza più abbandonarlo.

Rive lontane di Laurent Martin è, in definitiva, un libro che può essere letto ed apprezzato non soltanto dagli amanti del genere noir. Anzi, grazie allo stile coinciso, alla sua spiccata vena poetico-descrittiva e alle atmosfere che l’autore riesce a ricreare in maniera insospettabile, questo piccolo gioiello racchiuso in poco meno di centocinquanta pagine saprà incuriosire e attrarre anche il lettore più scettico e distaccato.

“Cherudek” di Valerio Evangelisti

Una città nella nebbia in un tempo simile al nostro presente, tre uomini che accettano passivamente eventi inspiegabili come se tutto fosse già previsto e una profezia che  lega tre donne simili e al contempo diverse; una voce "fuoricampo", un narratore onnisciente imprigionato in qualche non-luogo senza tempo e la Francia della guerra dei Cent'anni, dove l'inquisitore Nicholas Eymerich si trova a fronteggiare un esercito di morti viventi e una terribile eresia.

Sono questi i tre spazi (e i tre tempi) in cui si svolge Cherudek (Mondadori, 2004), quinto romanzo di Valerio Evangelisti dedicato alla figura di Nicholas Eymerich, inquisitore catalano del Trecento, realmente esistito. Tra storia, mistero, sostanze psicotrope e realtà allucinatorie, si snoda una delle trame più complesse e meglio architettate del ciclo di Eymerich. Etichettare Cherudek "romanzo dell'orrore" suona profondamente ingiusto, oltreché inesatto: i minuziosi riferimenti storici, i personaggi realmente esistiti, gli spazi incredibilmente reali e la tridimensionalità (mai termine fu più adatto) dei personaggi fanno sì che quest'opera si spinga ben oltre i canoni della paraletteratura, facendo capolino nel cassetto dedicato al romanzo storico, inciampando in qualche manuale di medicina e psicanalisi, strizzando l'occhio ai grandi della fantascienza, nonché a Dante e sfociando in quel piccolo mare in espansione che chiamano New Italian Epic.

Se non temete di confrontarvi con le vostre paure e le vostre colpe e sopratutto non temete il sangue e gli insetti, immergetevi nella claustrofobica e labirintica lettura e restate ammaliati anche voi dalla figura di Nicholas Eymerich, antieroe dell'ordine, tanto "giusto" da essere Malvagio.

Intervista a Romana Petri, nelle librerie con “Ti spiego”

 

Abbiamo intervistato Romana Petri che torna nelle librerie con "Ti spiego" (Cavallo di Ferro) dopo il grande successo di "Ovunque io sia". Un libro suggestivo ed intenso che parla di ieri e di oggi. Uno squarcio di vita vissuta e una riflessione di una delle migliori voci femminili della nostra letteratura.

Ciao Romana, grazie dell’intervista. Parliamo del tuo ultimo libro. Anni settanta, una generazione, una storia di coppia. Qual è il filo che unisce tutto questo?

La difficoltà del condividere la propria vita con quella di un’altra persona. La consapevolezza che si finisce per conoscersi meglio solo quando ci si lascia e non c’è più quello schermo di protezione che a quasi tutte le coppie sembra necessario usare fino a che si sta insieme. E poi c’è anche una certa ribellione nei confronti dell’ipocrisia. In fondo, il vero filo conduttore di questo romanzo è la perdita di innocenza che sempre avviene tra due persone quando non sanno accompagnarsi con dignità e rispetto.

Sullo sfondo c’è però il presente. E c’è tanta amarezza. Ideali che si sono affievoliti. E anche molta solitudine. Cos’è che spinge a guardare indietro?

Il presente. Se non ti guardi indietro non riesci a capirlo, ma bisogna farlo con un animo abbastanza liberato, senza il rimpianto o la nostalgia, due atteggiamenti che fanno invecchiare prima a male. Siamo portati a dimenticare per sopravvivere, è cosa sana e giusta, ma ogni tanto bisogna fare lo sforzo di riprendere da un laggiù che ci ha fatto stare male, cercare non di ricomporlo (sarebbe un atteggiamento malato) ma di comprenderlo, soprattutto di assolverlo. In fondo, alla fine del romanzo, Cristiana assolve tutto e tutti. Però lo fa con ironia, con il sorriso sulle labbra di chi ne esce comunque con la vittoria in mano.

Un uomo e una donna. Due viaggi, speculari tra loro. Legati da uno sport, il pugilato. Perché questa scelta?

Quale collocazione migliore per una coppia che si è fatta tanto del male se non il ring? Un uomo e una donna sono due corpi  e due anime che si affrontano. E sul ring ci salgono per chiudere la partita, ci salgono dopo 15 anni di divorzio, quando finalmente decidono di mettere le carte in tavola e andare fino in fondo per poi riprendere, ognuno per conto suo, la propria vita. Per entrambi sarà una vita diversa, hanno rotto il silenzio dandosele di santa ragione, ci sarà un vincitore e un perdente, ma almeno sarà tutto chiaro, una volta per tutte.

Cos’è il pugilato per te? C’è qualche riferimento letterario?

Letteratura e cinema traboccano di pugilato. E poi un po’ di pugilato l’ho fatto io stessa. Mi è piaciuto moltissimo, questo sport è la mia passione fin da quando ero bambina. È il mio lato londoniano,  il mio grande bisogno di epica. Perché niente, per me,  è più epico di questo sport.

Dalle tue pagine mi sembra che ci siano due elementi: la nostalgia e un bisogno di ideali o di eroi? Quale tra i due è prevalente?

Nostalgia no, non fa nemmeno parte della mia natura, almeno non troppo. Degli eroi dobbiamo farne a meno per forza, ma in letteratura possiamo ancora permetterci questo lusso. In fondo, fin dai primordi, non si è forse cominciato a scrivere solo per questo, per costruire eroi che poi, nella realtà, non esistono? E fin da subito non si sono limitati ad essere eroi, sono sempre stati super eroi.

Progetti per il futuro?

Ho finito di scrivere un romanzo che si chiama “Tutta la vita”. Dopo una storia di amore così relativo un po’ di amore inossidabile. È la storia di due emigranti italiano che dopo la Seconda Guerra Mondiale se ne vanno in Argentina. Una storia dolce, ma anche molto violenta, dove la violenza, però, sta tutta nella vita, non nell’amore.

Ti va di consigliare un o più libri ai lettori di Flanerí?

L’Ulisse di James Joyce. Non lo legge più nessuno ed è un grande peccato perché c’è molto da imparare. In “Ti spiego” ne ho inserite parecchie citazioni, ma non c’è stata una sola persona ad accorgersene.

Grazie della disponibilità. A presto.

“Strane cose, domani” di Raul Montanari

Una Milano piovosa con l'accenno favolistico di due mongolfiere che puntinano il cielo uniformato dal maltempo, un padre e un figlio, ma soprattutto un diario misterioso, ritrovato per caso abbandonato su una panchina. Ci vuole poco per far esplodere l'incipit del nuovo thriller psicologico, Strane cose, domani (Baldini Castoldi Dalai Editore, 2009), firmato Raul Montanari.

La storia si abbandona al cliché, proponendo un corollario di figure chiave che muovono con facilità imbarazzante gli umori della trama e quelli del lettore curioso. È' il meccanismo del giallo che lancia la sfida di una narrativa tutta da costruire insieme ai personaggi traditi/traditori, innocenti/colpevoli, vittime/assassini. Lo sa bene Montanari che plasma un protagonista borderline, capace di far saltare in aria i circuiti stabiliti dal genere letterario.

Psicologo e assassino per caso, Danio convive con l'incubo di un omicidio perpetuato da bambino per legittima difesa e conduce una vita complicata, attorniato da una pletora di donne: una moglie arrabbiata, un'amante giovanissima e un carnet di pazienti con problemi da manuale. La sua vita, insieme al nodo della trama, precipita con l'entrata in scena di una nuova presenza femminile, Federica, che con la sua triste storia apre inaspettatamente un vaso di Pandora pieno zeppo di peccati taciuti. E qui si scopre che gli omicidi di cui il "buon" psicologo si è macchiato le mani potrebbero essere più di uno.

L'effetto è facile da prevedere, soprattutto per gli amanti della categoria. Delitti nascosti tra i sogni e riportati alla luce dalle inchieste di un investigatore privato con immancabile impermeabile. Ricerche condotte seguendo la pista di un diario – metafora per antonomasia del messaggio in bottiglia – che si  scoprirà essere il detonatore dell'intera vicenda. Personaggi ambigui, rapporti conflittuali lasciati a macerare in un succulento sfondo noir. E la città, con i suoi punti di pausa e di luce, trasfigurati nel verde dei parchi, e suoi angoli di buio, tutti concentrati lungo il perimetro delle periferia, scenario prediletto per consumare crimini ed efferatezze.

Lo stile si adegua a una narrativa che strizza l'occhio alla sceneggiatura, soluzione azzeccata in particolar modo per le parti dialogiche. Nulla è scelto a caso per rendere vincente il meccanismo del "mistero che si svela". Il lettore trema insieme  allo psicologo-assassino-eroe: chi si salverà dalla fine della storia? Ma soprattutto, quanto può essere sottile la linea che divide il bene dal male? Su questo filo invisibile, lo scrittore lascia in sospeso il lettore con il classico colpo di scena che chiosa gli eventi e manda tutti a casa contenti. L'equilibrio narrativo è ristabilito, il cerchio è chiuso e nella diapositiva finale ritorna, rassicurante, l'immagine colorata delle mongolfiere.

Intervista a Carla Vangelista

 

Ciao Carla. Innanzitutto grazie dell’intervista perché in questo periodo so che sei impegnatissima.Il binomio con Silvio Muccino è risultato vincente e probabilmente porterà ad altri successi. Com’è nato questo rapporto?

Io e Sivio ci siamo conosciuti circa sei anni fa. Eravamo stati coinvolti in un progetto cinematografico che poi non è mai andato in porto. Ma io e Silvio abbiamo individuato immediatamente un linguaggio cinematografico comune. Mi ha proposto di scrivere un corto con lui. Anche il corto non ha mai visto la luce, ma a quel punto ci sentivamo “rodati” e abbiamo iniziato a lavorare insieme.

Ne Un altro mondo (Feltrinelli, 2010), libro che ho trovato davvero interessante, cerchi di tracciare la distanza che ci divide dalla semplice ed evidente sostanza dell’amore. Pensi sia possibile colmare questa distanza?

Credo profondamente nell’amore in quanto energia vitale, forza, spinta primaria. Ma l’amore è qualcosa che a volte ci fa molta paura perché il motore fondamentale e principale dell’amore si avvia nel momento in cui noi riusciamo a guardare dentro noi stessi e di conseguenza riusciamo a guardare “l’altro” o “gli altri”.  Le resistenze che attuiamo verso questo semplice e complicatissimo atto ci congelano in una specie di gap emotivo che forma la distanza di cui parliamo. Sì, secondo me si può colmare ma la parola d’ordine è “entrare in contatto con noi stessi”, zone di ombra incluse. Ci vuole un certo coraggio.

Nel libro si mette in campo una rete di rapporti familiari. Rapporti difficili. Uno strappo che vuole essere ricucito. Quello che esce fuori è una spirale di sentimenti. E tanto, troppo silenzio. È quello il problema della nostra società?

Io sono una ex-ragazza degli anni Settanta. Non facevamo che parlare di “energie”, “sentire”, “comunicare”, al punto di diventare un po’ risibili. Però avevamo anche ragione. Il silenzio e i suoi malintesi, le sue richieste mute e quindi condannate a restare insoddisfatte, le barriere del ‘non detto’, sono muri che erigiamo forse per proteggerci o per non mostrare bisogni o debolezze. Il risultato è la solitudine. La comunicazione è vitale per ogni rapporto, sia sociale che interpersonale. Abbiamo tutti bisogno di tutti. Il silenzio uccide.   

A dicembre, se non sbaglio, uscirà il film con Muccino nuovamente alla regia. Cosa è cambiato da questa trasposizione dal testo al video? Il messaggio che volevi inviare attraverso le pagine del tuo libro ora avrà una forma, un colore, un suono. E probabilmente (anche se il volume ha avuto molto successo) arriverà ad un numero di persone esponenzialmente maggiore. Cosa vuoi dire a chi vedrà questo atteso lungometraggio?

Sì, il film sarà nelle sale per Natale. L’adattamento cinematografico del libro è stato molto laborioso. Ho scritto un romanzo che privilegia le emozioni e il dialogo interiore dei protagonisti e questo ha reso delicata l’operazione di trasposizione. Un anno di sceneggiatura e dodici stesure. Io e Silvio non facevamo altro che scrivere, buttare, riscrivere, parlare. Ma alla fine il risultato è stato esattamente quello che speravamo di ottenere. Ovviamente sono state sacrificate alcune cose, ma il film che le persone vedranno ha esattamente il cuore e l’emotività  della storia originale. Noi abbiamo cercato soprattutto di comunicare delle emozioni, per cui se potessi parlare con ogni spettatore che entra in sala credo che gli chiederei semplicemente di “lasciarsi andare”.

Dopo questa accoppiata cos’altro bolle in pentola, stai già scrivendo qualcosa o stai ancora nella fase di progettazione?

In autunno scriverò una sceneggiatura basata su un mio soggetto, una commedia sentimentale. Nel frattempo sto iniziando a gironzolare con il pensiero e a prendere appunti per un nuovo romanzo. Inoltre sto dedicando molte energie al nuovo sito che io e Silvio abbiamo aperto (http://www.unaltromondo.com http://www.unaltromondo.com).  Non è solo il luogo dove avere un contatto con le persone che ci seguono e dove parlare dei progetti presenti e futuri, è anche una piattaforma attraverso la quale organizzeremo iniziative per raccogliere fondi per una onlus – Worldfriends – fondata molti anni fa da Gianfranco Morino, un chirurgo italiano che da vent’anni vive e lavora in Kenya costruendo e organizzando ospedali nelle bidonville alla periferia di Nairobi. Parte del libro e del film si svolge in Kenia e Gianfranco è stato la guida – prima mia per il romanzo, e poi di Silvio per il film – che ci ha fatto conoscere l’Africa e la sua realtà. E quando guardi da vicino quella realtà, non puoi più voltarti e fare finta di niente.

Cosa ti senti di consigliare ad un ragazzo che vorrebbe provare ad entrare nel mondo della sceneggiatura? Ci sono strade percorribili?

Ci sono scuole, seminari, testi molto importanti per apprendere le “tecniche” da applicare a una sceneggiatura. Dopodiché io aggiungerei che parte altrettanto fondamentale è chiudersi in una stanza a guardare film su film. E leggere libri. Prendere dimestichezza con le storie già raccontate per imparare a raccontare le nostre. E non dimenticarsi mai di portare con noi al lavoro, come strumento primario, il nostro cuore.

Chiudiamo. Ci consigli un libro e un film che ti hanno particolarmente colpito? Non per forza di questi ultimi anni.

Un film di qualche anno fa: Il Giardino delle Vergini Suicide, di Sofia Coppola, e più recentemente “A Voce Alta (The Reader), con una straordinaria Kate Winslet. Per i libri, non ce la faccio a contenermi: Martin Eden, di London,  che leggo e rileggo a ripetizione, Gita al Faro, di Virginia Woolf, mio cult assoluto, Ho servito il Re d’Inghilterra, di Bohumil Hrabal, un piccolo libro che si bilancia fra ironia e dramma. Surreale e prezioso. 

“La mano di Fatima” di Ildefonso Falcones

Dopo l’enorme successo e gli oltre quattro milioni di copie vendute de “La cattedrale del mare”, è uscito nelle librerie italiane “La mano di Fatima” (Longanesi, 2009), il nuovo romanzo di Ildefonso Falcones, consacratosi ormai quale maestro del thriller storico. Cambia l’ambientazione, cambiano il periodo storico, i personaggi e le situazioni, ma rimangono l’intrigo, la lotta, la passione e l’amore, ingredienti ideali per un libro che si presenta più ambizioso del precedente, anche per il suo messaggio di tolleranza religiosa.

Siamo nell’Andalusia del XVI secolo. Hernando, giovane morisco nato dallo stupro della madre Aisha da parte di un prete cristiano e, perciò, considerato una sorta di bastardo mezzosangue, sopporta il peso del suo essere “diverso”, sospeso com’è tra mondo cristiano e mondo musulmano.

Ma l’improvvisa rivolta delle Alpujarras, dopo anni di vessazioni e soprusi subiti dai moriscos, offre al giovane la possibilità di riscattarsi attraverso il coraggio, il valore e il proprio ideale di libertà sociale. Hernando si rivela, sin da subito, un valoroso combattente, riuscendo ad entrare persino nelle grazie del re di Granada e Cordoba. L’amore, irto di avversità, per Fatima, la ragazza dagli immensi occhi neri, vera e propria incarnazione dei pilastri della cultura araba nel suo insieme, sarà una ragione in più per lottare fino alla fine, in nome del suo popolo e della donna amata.

Quarant’anni di storia spagnola, ricostruiti da Falcones con minuzia e precisione. Ma, soprattutto, colpi di scena improvvisi, intrighi insospettabili, amori perduti e poi ritrovati. Tutto questo in poco meno di mille pagine, figlie di un lavoro di scrittura durato circa tre anni. L’autore catalano, ancora una volta, mantiene fede alla sua promessa di regalare ai propri lettori un momento di fuga dalla quotidianità, per immergersi in un racconto appassionante e mozzafiato. Un modo di scrivere che trova nell’azione il vero motivo della sua essenza, come sostiene lo stesso Falcones: “La gente può leggere dieci o quindici pagine al giorno e desidera che in queste quindici pagine si comunichi altro. Non vuole che l’autore si perda nel lirismo né vuole dover rileggere più volte le pagine per poter seguire il filo della narrazione”.

Ma “La mano di Fatima” non è solo un romanzo di grande intrattenimento, capace di far emozionare il lettore fino all’ultima pagina. Il messaggio di tolleranza tra religioni di cui si fa messaggero, in un periodo di contrasti come quello attuale, pone l’accento su uno degli aspetti più importanti del nostro vivere civile, proprio nell’anniversario della cacciata dei moriscos dalla Spagna. Un libro storico, dunque, ma di enorme attualità.