“Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio” di Michael Gazzaniga

Per alcune correnti scientifiche e del pensiero filosofico la nostra esistenza assume il significato che noi stessi le attribuiamo. Nell’ottica di una visione deterministica, invece, il cervello umano segue le leggi del mondo fisico in maniera passiva, senza alcuna volontà.

Michael Gazzaniga, neuroscienziato statunitense, direttore del nuovo centro studi per la mente in California, in Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio (Codice, 2013) auspica di dimostrare come dicotomie semplicistiche come determinismo/casualità, natura/cultura, non possono più essere accettate dalle neuroscienze moderne che devono abbandonare questa visione parziale in favore di un approccio che riconosca il funzionamento cerebrale come un sistema complesso, soprattutto poiché: «Le implicazioni dell’idea che il cervello umano sia un sistema complesso si ripercuotono sulle discussioni sul libero arbitrio, le neuroscienze e il diritto, ma anche sul determinismo».

Gazzaniga afferma che «non c’è una ragione scientifica per non essere considerati individui responsabili». Il senso di responsabilità modifica il comportamento. Esperimenti hanno dimostrato che «le persone sono più efficienti quando pensano di possedere libero arbitrio».

Ma cosa accade quando attraverso metodi sperimentali è possibile dimostrare che le azioni vengono svolte e portate a termine prima che il cervello ne prenda consapevolezza? «Pensate a quando col martello vi schiacciate un dito e lo ritraete di colpo. La vostra spiegazione sarà che vi siete colpiti il dito, avete sentito male e l’avete tirato via. Ciò che accade però è che voi lo tirate via prima di sentire il dolore. Ci vogliono alcuni secondi per percepire il dolore, o per essere coscienti, e il vostro dito si è già sottratto al pericolo da tempo».

Questo è l’esempio di un’azione riflessa in cui il movimento avviene prima che la persona ne abbia coscienza. Ciò sembrerebbe far pendere sempre più l’ago della bilancia verso un’ottica determinista, ma la complessità risponde a un insieme di leggi differenti: «I cervelli sono macchine automatiche che seguono percorsi decisionali, ma analizzando i singoli cervelli in isolamento non si riesce a mettere a fuoco la capacità di essere responsabili: la responsabilità è una dimensione di vita che deriva da uno scambio sociale, e lo scambio sociale richiede più di un cervello. Quando più cervelli interagiscono, cominciano a emergere elementi nuovi altrimenti imprevedibili, stabilendo un nuovo insieme di regole. Due delle proprietà che vengono acquisite in questo nuovo insieme di regole, e che non erano presenti in precedenza, sono la responsabilità e a libertà».

È chiaro dunque che responsabilità e libertà sono il frutto di un’interazione sociale, che va molto al di là del determinismo individuale. Dare un senso a ciò che siamo, questo è il viaggio tentato da Gazzanica attraverso la narrazione delle rivoluzioni che hanno scosso le neuroscienze per arrivare a un approccio capace di tener conto della complessità del funzionamento cerebrale, al punto da parlare di “cervello sociale”.

Cervello e mente non sono sinonimi. La mente ha il potere di limitare il cervello, così come i processi sociali hanno la capacità di limitare la mente individuale: «La cultura a cui apparteniamo ha davvero un ruolo importante nel dare forma ad alcuni dei nostri processi cognitivi».

Proprio in virtù di ciò Gazzaniga sottolinea l’importanza del riconoscimento della responsabilità personale nelle scelte, soprattutto in ambito giudiziario dove, ancora troppo spesso, si fa riferimento a una visione determinista in cui viene negata la colpa, con conseguente mancanza della pena.

Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio è un libro di impronta scientifico-filosofica scritto in modo accessibile a un ampio pubblico di lettori curiosi di affacciarsi sull’eterno dibattito del libero arbitrio: in un momento in cui lo sviluppo neuroscientifico ci vuole “macchine biologiche”, sistemi deterministici, Michael Gazzaniga propone una teoria opposta, che situa la nostra coscienza al di là dell’individuo, in una «comunità delle menti» che aprendoci alla dimensione sociale svela una maggiore complessità.

(Michael Gazzaniga, Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio, trad. di Silvia Inglese, Codice Edizioni, 2013, pp. 288, euro 15,90)

“Prisoners” di Denis Villeneuve

Due famiglie di vicini, i Dover e i Birch, trascorrono insieme il pranzo del Ringraziamento. Nello stravacco postprandiale le due figlie piccole, Anna e Joy, spariscono. C’era un camper parcheggiato vicino a casa Birch, con qualcuno dentro, lo avevano visto prima anche gli altri due figli adolescenti. Il detective Loki della polizia si mette subito alla ricerca del camper. Lo trovano, lo guida un uomo con il quoziente intellettivo di un bambino, inoffensivo, inespressivo e innocente per assenza di prove. Non può essere trattenuto. Keller Dover, il padre di Anna, lo crede comunque colpevole e dà inizio a delle indagini personali non propriamente legali, mentre sua moglie cede al conforto degli psicofarmaci. Loki si troverà a dover sospettare anche di Dover, sempre più evasivo e aggressivo, mentre scopre segreti sepolti in praticamente ogni cantina della cittadina della provincia Usa.

Il canadese Denis Villeneuve firma con Prisoners il suo esordio hollywoodiano dopo essersi fatto notare nel 2011 con La donna che canta (nomination all’Oscar per il film straniero). Parte subito con un grande budget e una serie di nomi prestigiosi guidata dalla coppia Hugh Jackman (Keller) e Jake Gyllenhall (Loki) e con un cast tecnico di primo livello in cui spicca il direttore della fotografia Roger Deakins (Fargo, Skyfall). Proprio la fotografia di Deakins chiarisce da subito, con i suoi colori lividi, che siamo di fronte a un film oscuro, che guarda nelle tenebre dell’agire umano e nel buio della speranza. La domanda di fondo è semplice ed enorme: quanto in là si è disposti a spingersi dall’idea comune di morale e di giusto per difendere chi si ama. Ognuno risponde come crede. La risposta di Keller è che è lecito allontanarsi tanto quanto è necessario, cercando verità e giustizia anche nella violenza.

Keller è un uomo che vuole essere pronto a ogni emergenza, per questo porta il figlio a caccia, perché il giorno in cui un terremoto, un’alluvione o qualsiasi altro cataclisma dovesse sospendere la società civile così come la conosciamo sia in grado da solo di procurarsi l’indispensabile, cioè il cibo. Come il personaggio di Sean Penn in Mystic River, ma senza il bagaglio dell’esperienza criminale, Keller si sostituisce alla polizia, che vede incapace, per provvedere alla sua famiglia e cercare la verità sulla figlia sparita. Lo fa con la sola determinata convinzione della disperazione, andando a cercare la verità nella mente di un disabile senza trovare modo migliore per tirarla fuori se non i cazzotti.

«Pray for the best, prepare for the worst», ripetono i protagonisti del film, e la preghiera non manca mai. Pregano tutti: Keller prima di uccidere un cervo, i vari sospettati, le madri strappate dalle loro figlie. Sembra che il senso principale di Prisoners sia quello di indagare la condizione dell’uomo abbandonato dal dio più volte invocato. La vocazione alla fede dei personaggi è forte in modi differenti – tatuaggi, preghiere, delusioni – ma la religione vera e propria non appare se non nella figura del prete pedofilo alcolizzato. L’uomo è lasciato solo ad affrontare il suo mondo, senza un appiglio ultraterreno. La fede è una speranza o risorsa per l’angoscia della morale. Si chiede perdono a dio per il male che si ritiene necessario ma che si riconosce come male, come amorale, come inumano. Un aiuto, o anche una punizione, dall’alto sono attesi come unico conforto per un mondo che lascia gli uomini soli l’uno contro l’altro.

Concentrandosi soprattutto sul messaggio, Villeneuve e lo sceneggiatore Aaron Guzikowski (Contraband) finiscono per perdere di vista alcuni aspetti della trama. L’impianto poliziesco di Prisoners, seppur ben congegnato e capace di mantenere alte tensione e attenzione dello spettatore nonostante il massiccio minutaggio, si perde nel finale affrettato e in alcuni passaggi contorti che risentono degli eccessivi elementi aggiunti nelle indagini di Loki alla ricerca del continuo colpo di scena.

Non si capisce molto il senso della famiglia Birch (Viola Davis e Terrence Howard), all’inizio apparente contraltare etico alla violenza di Keller, poi sempre più marginalizzata dalla storia fino a sparire. Le stesse dinamiche interne della famiglia Dover perdono di rilevanza col passare dei minuti per concentrarsi sul solo Keller.

Paul Dano nella parte del minorato è molto bravo. La scelta di Melissa Leo, seppur convincente, per la parte dell’anziana zia rivela un po’ troppo in fretta il suo vero ruolo.

(Prisoners, di Denis Villeneuve, 2013, thriller, 153’)

 

“I giorni in fila” di Andrea Garbarino

Un calendario emotivo su carta millimetrata in cui annotare date e ricordi, entusiasmi e delusioni, attraverso asterischi rossi e blu e diagrammi: questa l’attitudine segreta della protagonista di I giorni in fila di Andrea Garbarino (La Linea, 2013): Sandra Roccavento. Ossessione che coltiva in modo maniacale, lontano dai frastuoni di un’esistenza che non la soddisfa, a cui cerca di sottrarsi, mettendo a tacere i propri sogni, i propri progetti, riempiendo inevitabili pagine bianche. Un metodo piuttosto complesso elaborato dal suo inconscio per liberarsi forse di un approccio passivo alla vita, per riemergerne protagonista, studiando il filo sotteso degli eventi, le geometrie e le linee che talora preannunciano vere e proprie onde sismiche.

Suo malgrado – «Io ho alzato argini, teso l’orecchio, cercato presagi in ogni direzione. Tranne che in quella fatale, dove si preparava la tempesta» – Sandra sarà proiettata nel presente, travolta in un abisso foriero di incognite e occultamenti, che affonda le radici nel passato della sua famiglia, una delle più in vista di una misteriosa cittadina della Riviera di Ponente prima del «fattaccio», espressione con cui a casa veniva indicato un episodio vecchio di oltre vent’anni, archiviato dalle cronache locali come una rapina a mano armata a opera di ignoti ai danni del nonno materno, il famoso ex podestà Ernesto Pastorino, che «ci ha lasciato le penne» e anche le chiacchierate ricchezze.

Ricompaiono sulla scena i protagonisti di «quegli anni di piombo», era il 1978, le mai chiarite complicità dei suoi cari nella partita tra ex partigiani ed ex repubblichini, in una avvincente e drammatica «sciarada» in due tempi, tra rimandi ora al passato ora al presente, non priva si suspence e colpi di scena.

Un noir di alto profilo quello che Andrea Garbarino ci regala, con la sua scrittura affilata, dissacrante e a tratti poetica, in cui trovano spazio le emozioni e l’introspezione psicologica di personaggi memorabili, in primis della voce narrante della protagonista. Il difficile rapporto con una madre sempre più fredda dopo la separazione dal marito e con un padre verso il quale è risentita, poiché è fuggito in Francia il giorno del ventesimo anniversario di matrimonio «senza un rigo, una telefonata», hanno reso Sandra precaria negli affetti, un mare questo dalle increspature simili a «un esodo instancabile di minuscole stelle» in cui remare contromano supportata dal suo fascino androgino.

Tra nebbie di rabbia e di paura il ricordo del padre la insegue anche nei sogni o negli incubi, in cui le costruisce ali di carta ritagliate dalle pagine del suo singolare calendario, «così piccole che non avrebbero sostenuto una farfalla», mescolandosi alle immagini di ricordi felici, come di quel lontano pomeriggio d’estate, quando in cima alla collina di castagni le aveva svelato un segreto: «Puoi sempre volare». È il conforto nelle avversità di sapere ripiegate sulle spalle ali pronte all’uso.

Si rivelerà utile «mettere tutti quei giorni in fila?»

(Andrea Garbarino, I giorni in fila, La Linea, 2013, pp. 272, euro 14)

“Public and Confidential” di Dan Witz alla Wunderkammern Art Gallery

Alla Wunderkammern di Roma fino al 17 novembre è possibile visitare la mostra dell’artista statunitense Dan Witz, il primo a dare inizio al progetto internazionale Public and Confidential, con il quale la galleria vuol far emergere le due facce della street art, quella pubblica e quella privata, portando nella capitale artisti di fama internazionale quali Jef Aérosol, Agostino Iacurci e molti altri. L’idea è quella di proporre per ogni artista sia le opere rimaste riservate sia quelle fruibili a tutti ed esposte per le strade, indagando tanto la sfera privata quanto quella pubblica e il rapporto tra  lo spazio e lo spettatore.

Dan Witz è un artista nato nel 1957 e considerato uno dei pionieri della street art. Inizia il suo percorso artistico intorno al 1979, nella New York di Edward Irving Koch ripulita e perbenista: proprio quando i vagoni delle metropolitane vengono puliti da quel fenomeno che, nonostante tutto, presto avrebbe pervaso America e Europa. Negli anni Settanta la street art trova dunque “rifugio” in alcune gallerie e istituti d’arte newyorkesi. È nel periodo di grande fermento artistico degli anni Settanta e Ottanta, in cui si sviluppa una visione più libera e sperimentale di arte, che si colloca Witz, distinguendosi da subito. La sua carriera artistica inizia infatti con un iperrealismo opposto al minimalismo che pervadeva NY all’epoca, il suo concetto di arte riprende la concezione di stile di Warhol in contrasto con la visione dell’arte elitaria e, anche il punk è un elemento fondamentale nelle sue opere, come elemento di opposizione alla cultura e alle regole istituzionali.

La mostra Public and Confidential si apre con una delle sue prime opere, “The Birds of Manhattan”, dipinta intorno alla fine degli anni Settanta: una grande tela che occupa l’intera parete destra della galleria e cattura subito l’attenzione dello spettatore sia per dimensione che per impatto scenico, in cui l’uso del colore e soprattutto dei chiaroscuri sono di eccezionale maestria. La tela – che è stata dipinta con la tecnica olio su stampa digitale – rappresenta in modo iperrealistico uno stormo di uccelli, omaggio alla tradizione fiamminga, con un chiaro rimando alla libertà.

La mostra ospita poi la serie Animal Mosh Pits, capolavori di precisione figurativa e luce, che affrontano gli istinti primordiali repressi con la rappresentazione di animali dalle pose coincise e agorastiche, sullo sfondo di una visione punk di contrasto al potere.

 

 

Segue la serie Natural History, in cui si elabora il concetto di “porta” come simbolo di passaggio ma anche di divisione tra ciò che è interno e ciò che si trova all’esterno, con un rimando a un maestro del Cinquecento: Hans Holbein in “Il corpo di Cristo morto”. Witz riutilizza la dimensione del quadro e il concetto di morte, inserendolo però in una visione urbana contemporanea.

 

 

Nella serie Necropolis Door, pvc su cornice in legno, oltre al concetto di porta possiamo ritrovare un rimando alla pittura pre-raffaelita con la figura femminile nuda e bendata che ci riporta in a una visione mitica dell’opera e quasi perde quella contemporanea urbana.

In collaborazione con Amnesty International, Witz ha poi realizzato la serie Prisoner, sempre pvc in cornice di legno, di cui troviamo traccia disposta in ordine sparso nella galleria per le varie dimensioni delle opere.

 

 

In questo caso i soggetti ci riportano a un dimensione reale e di forte impatto contemporaneo. Come l’altra famosa serie delle ragazze al cellulare, anch’essa presente nella galleria.

Witz riprendere la visione urbana di Hopper dando una forte importanza all’uso dei chiaroscuri e della luce, che dona alle sue opere un aspetto aureo e mistico. Unisce la visone urbana contemporanea a tecniche di alta precisione tipiche del Seicento, ma anche all’uso della fotografia, sulla scia di artisti come Obey.

La tensione, la violenza e la forza emotiva delle sue opere fanno riferimento a un altro artista francesce contemporaneo, Guillaume Bresson, che come Witz unisce il fervore e la realtà urbana alle tradizioni artistiche.

Dan Witz usa la street art come simulacro per analizzare e rappresentare la realtà quotidiana e anche la sua violenza, non solo visiva bensì corporea e reale.

 

 

La mostra, benché racchiuda opere di forte impatto scenico, di indiscutibile tecnica e di ricca precisione, appare tuttavia un po’ costretta per questione di spazio.

Public and Confidential. Dan Witz.
Wunderkammern Art Gallery, Via Gabrio Serbelloni 124, Roma.
28 settembre 2013-17 novembre 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito: http://www.wunderkammern.net

“A Chloe, per le ragioni sbagliate” di Claudia Durastanti

È il settembre del 2003 quando Chloe Gilbert incontra Mark Lowe nei vagoni della metropolitana di New York. Lo stesso giorno i due finiscono a letto. Sarebbe un incontro fortuito come tanti se, qualche giorno dopo, Chloe non gli telefonasse da un ospedale psichiatrico dopo aver tentato il suicidio. Da quel momento, un filo sottile e invisibile cuce un legame profondo tra i due, tanto che sarà proprio Mark ad attendere Chloe all’uscita dall’ospedale. Tuttavia, la sofferenza dei protagonisti è solo il riflesso di un malessere capillare, diffuso lungo i gangli delle rispettive famiglie, le cui storie prendono forma grazie alle problematiche esistenziali di cui sono portatrici. Nel tentativo di emanciparsi dal passato, la coppia cercherà di trovare un equilibrio con una convivenza a Brooklyn, ma il cammino di redenzione a volte devia verso altri percorsi.

A Chloe, per le ragioni sbagliate (Marsilio, 2013) di Claudia Durastanti, è un libro sulla gestione del dolore, sui tormenti che accompagnano ogni tipo di riabilitazione intesa come riscatto. Sullo sfondo della narrazione si scagliano i frammenti di un sogno americano infranto che, più in generale, rispecchia la fragilità di un diktat incentrato sull’apparire.

Gli adolescenti si riconosceranno nelle ferite di questi giovani coetanei, animati dal desiderio di una guarigione auspicabile e allo stesso tempo temuta perché tappa di passaggio verso la “normalità”. Da qui un atteggiamento di ambivalenza affettiva verso il mondo circostante che caratterizza quasi tutti i protagonisti del libro.

E la relazione tra i due ricorda la passionalità dei primi amori, quando il desiderio di scoprirsi adulti e indipendenti si infuoca davanti al bisogno viscerale che si ha dell’altro. In questo libro quindi, ci sono tutti gli elementi atti a intercettare l’immaginario dei giovani lettori, grazie a una storia che in tutte le sue declinazioni acquista valenza universale.

Claudia Durastanti è nata a Brooklyn, cresciuta in Italia, ora vive a Londra ed è un’autrice che scrive bene, la sua prosa è scorrevole e ricca di aggettivi ricercati. Eppure, la possibilità di cospargere il testo di tracce migranti si esaurisce nell’evocazione di uno stile nordamericano degli anni Novanta che importiamo in Italia con il ritardo che ci caratterizza.

Nel romanzo si ripropone uno stile postmoderno ormai stanco, ancora una volta in attesa di essere rinvigorito. Gli ambienti psichiatrici, le saghe familiari e le storie ai margini si prestano a essere raccontati da un filtro intellettualistico che agisce sul linguaggio quotidiano. E a Claudia Durastanti riesce bene, nonostante lei stessa sembri essere consapevole dei limiti quando dichiara su Rolling Stone che «c’è un numero limitato di argomenti su cui posso intervenire» e tuttavia «mi rendo conto che non è una questione di soggetto quanto di profondità. Scrivendo di famiglie, si può toccare una materia nerissima e farlo sempre con parole nuove».

Purtroppo però si tratta di un’estetica usurata da continui rimaneggiamenti che, restituita senza prospettiva storica, rischia di diventare uno dei tanti bagliori del meccanismo commerciale che si impadronisce della violenza di una frattura per trasformarla in un collante, come la maglia dei Nirvana indossata dalla modella in copertina, in vendita da H&M a 9,99€.

(Claudia Durastanti, A Chloe, per le ragioni sbagliate, Marsilio, 2013, pp. 320, euro 18)

 

“We Need Medicine” dei Fratellis

Ci hanno fatto aspettare ben cinque anni, non sono affatto pochi. Un assenza un po’ pesante per uno dei gruppi indie-rock più apprezzati e ascoltati del panorama alternativo, assieme a Franz Ferdinand e pochi altri. Pensandoci, le leggi del mercato musicale difficilmente attendono così a lungo. Ma in effetti si sa, le cose fatte di fretta raramente vengono come si deve. Di chi parliamo? Ma dei Fratellis, ovvio.

Il 7 Ottobre è uscito il terzo album di quei vecchi guasconi scozzesi che ci avevano fatto ballare nel 2006 con due pezzi dalla notevole carica energica, “Chelsea Dagger” e “Henrietta”. Questo album è il primo dalla loro reunion del 2012, dopo la breve esperienza di Jon Fratelli nei Codeine Velvet Club, quella di Barry Wallace in tour con i The Twang e quella di Mince con i Throne o’ Diablo e nella band solista di Jon. Fortunatamente, hanno deciso di ritornare tutti sulla retta via. Come dichiarato in una recente intervista, «Ci siamo resi conto che avevamo ancora un pubblico. Ci sembrava assurdo non suonare più dato che loro c’erano ancora. Abbiamo capito quanto in fondo fosse tutto molto semplice: siamo tornati sul palco, abbiamo visto che funzionava e abbiamo deciso di pubblicare un album». Non fa una piega.

Il loro ultimo lavoro ha un titolo che la dice lunga sullo stato mentale del gruppo, We Need Medicine. Undici pezzi che sono una bomba, undici tracce che scorrono forti e vigorose: di sicuro c’è tanta allegria e voglia di sperimentare, tra rock, blues e pop: stranamente, vista la moda del momento, manca l’elettronica. La mano di Jon Fratelli e il mixaggio di Stuart Mc Credie si fanno sentire. Chitarre e ancore chitarre, di quelle che ti costringono a ballare. L’album è stato anticipato dal singolo “Seven Night Seven Days” a fine Settembre e già lì era partito il conto alla rovescia, anche perché tra poche settimane saranno in tour per tutta l’Inghilterra e nella loro Scozia. I fan italiani dovranno aspettare poco, l’8 dicembre saranno ai Magazzini Generali di Milano.

Il pezzo di cui parlavamo poco fa è un inno travolgente, con un coro sostenuto da chitarre e sonorità insolitamente country, un brano che non si può fare a meno di cantare e che è destinato a diventare uno dei preferiti nei live. Ma forse non è il migliore. Risultano invece meglio riusciti “Halloween Blues” e “Shotgun Shoes”, spietato rock’ n’ roll in salsa anni ’50, un misto fra tradizione Usa e sperimentazione scozzese, con tanto di trombe. Molto simpatiche le sonorità del brano “Whisky Saga” e d’altronde non poteva che essere così visto che l’ironia e la goliardia sono due caratteristiche dei Fratellis. Anche perché, quando provano a fare i cattivi con “This Is Not the End of the World”, il risultato non convince a pieno. Più riflessiva e a tratti sconsolata è la melodia “Rock N Roll Will Break Your Heart”, mentre il ritmo troppo “liceale” di “Jeannie Nitro” potrebbe risultarvi stucchevole.

Se vi aspettate che We Need Medicine possa essere l’album della vostra vita, siete fuori strada. Il rock alternativo che propongono i Fratellis in questo nuovo lavoro è puramente spensierato e allegro: questo non significa che non meriti attenzione ma che, piuttosto, debba essere preso alla stessa maniera. Vi farà divertire e ballare, non aspettatevi qualcosa di più. In ogni caso, bentornati.


(The Fratellis, We Need Medicine, Relativity, 2013)

“Cargo” di Matteo Galiazzo

Se questo fosse un articolo su un romanzo o su un qualsiasi altro libro, a breve incontrereste le varie formule e gli stilemi che caratterizzano tale composizione. Si presenterebbe l’autore, la trama e gli aspetti più significati dell’opera. Poi, cercando di essere il più analitici e critici possibile, si passerebbe ai giudizi o alle conclusioni. Magari qualche paragone con un testo di riferimento o affine. Il tutto agitato nelle più o meno mani sapienti dello scrittore. Ora però c’è un problema, se così si può definire. Una variabile impazzita chiamata Cargo, di Matteo Galiazzo (Laurana, 2013). E tutto ciò che avete letto prima riguardo all’articolo perde di senso. Oppure, ne acquista di nuovi.

Sì, poiché Cargo è fatto apposta per non essere descritto, per non essere catalogato, classificato e giudicato. Cargo non è altro che il tentativo dell’autore di prendere per mano il lettore e calarlo nel labirinto oscuro dei suoi pensieri e ragionamenti. L’articolo potrebbe finire con questo spunto: quanto siete disposti a scendere nel delirio narrativo di Galiazzo?

Bene, in base alla vostra disponibilità trarrete il corrispettivo gradimento di fruizione. Senza girarci troppo intorno; tutti gli altri articoli che troverete riguardo Cargo giocano molto su «è un romanzo che annulla il romanzo» e cose simili: tutti vecchi stratagemmi per invogliare il lettore che magari ama Pynchon, Wallace, Vonnegut e Salinger. Qui le cose sono un po’ diverse, ma va dato atto che Galiazzo ha avuto la correttezza di gettare subito le carte sul tavolo e giocare a viso scoperto. Va dato plauso all’autore di non aver marciato troppo sul concetto di decostruzione-distruzione, così in voga tra alcuni scrittori-finti-intellettuali. Una sincerità e un’onesta che non ha pagato, visto la sorte nefasta capitata alla prima edizione del romanzo per i tipi di Einaudi, uscita nel 1999.

Erano passati solo tre anni dall’esordio clamoroso nell’antologia Gioventù cannibale e Galiazzo si presentava come l’autore più estremo e potente. A ribadirlo c’era la successiva raccolta di racconti che già dal titolo era una dichiarazione d’intenti: Una particolare forma di anestesia chiamata morte, del 1997. Due anni dopo tocca a Cargo e nel 2002 Il mondo è posteggiato in discesa. Poi un silenzio interrotto solo nel 2012 con Sinapsi. Opere postume di un autore ancora in vita (altro titolo che vale da manifesto). Per il resto, l’attività e la vita di Galiazzo hanno assunto spesso forme di leggenda metropolitana.

Oggi, la casa editrice Laurana ripropone in una nuova collana interamente digitale, Laurana Reloaded, quel piccolo cult che è Cargo, la cui denominazione dei capitoli in “Frattali”già fa intuire che la strada è impervia. In salita, ma inizialmente non faticosa. Per buona parte dell’opera Galiazzo riesce a tramutare i suoi sproloqui sull’universo, la matematica e l’economia in tentacoli affabulatori in grado di catalizzare i viaggi mentali del lettore. Le varie storie sembrano equilibrarsi: Alfio che deve seguire una ragazza, fidanzata con il committente del pedinamento, il miliardario arricchitosi con gli imballaggi, la moglie del miliardario che una volta rapita diventa autrice di best seller scritti durante la latitanza. Per non parlare dell’universo parallelo in cui due carcerati parlano di libri simili a tubetti di dentifricio. Tuttavia, si arriva a un punto dello svolgimento in cui l’edificio crolla e solo i più temerari provano ad andare fino alla fine.

Con Cargo, Galiazzo sfoga tutto il suo folle talento e la sua originalità: cosa altro aspettarci da un autore che cita come suo libro preferito Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante di Hofstadter?

Difficile quanto affascinante, il romanzo dell’autore veneto è consigliabile a chi è stufo delle solite forme e classificazioni romanzesche, e a chi non ha paura di incedere negli anfratti oscuri di una mente paurosa quanto brillante.


(Matteo Galiazzo, Cargo, Laurana, 2013, euro 4,99)

“Notturno”: a tu per tu con Helen Humphreys

«Non so cosa penseresti delle parole che ho usato per descrivere la tua vita, ma sappi che scegliere le parole con cura è il mio mestiere, e non ho mai scelto parole con più cura di quelle per il tuo necrologio».

Notturno (Playground, 2013) è questo. È un’elegia, una raccolta di memorie, un intimo dialogo che l’autrice Helen Humphreys immagina con il fratello Martin dopo la sua morte prematura. Una voce solitaria ripercorre delicatamente i suoi più nitidi ricordi con i quali i luoghi, i colori, le sensazioni riprendono vita, e il suo sguardo vivido si intreccia a quello del fratello, posandosi su un viaggio in macchina, un’alba dalla finestra dell’ospedale, le note di una composizione per pianoforte sfiorate dalle dita di Martin.

Ogni cosa sembra raccontata a bassa voce per qualcuno che, in silenzio, ascolta. Ed è proprio il silenzio di chi tace e ascolta le parole dell’autrice, una pagina dopo l’altra, che ne rafforza l’esecuzione. Come 4’33’’ di John Cage che tanto ha ispirato Martin, Notturno non ha bisogno del suono per essere completo. Basta il vuoto che ognuno di noi ha dentro, solo e unico mezzo per ascoltare davvero.

In questa composizione in cui la voce dell’autrice si pone come unico strumento della sua realizzazione ogni movimento, ogni singolo istante è immortalato con un tono differente, affresco di un dolore che a tratti fluisce incontrollato e poco più avanti osserva se stesso quasi in disparte.

Silenzio, dunque. Dobbiamo solo iniziare a percorrere le pagine del libro e ascoltare questo Notturno. Anche attraverso le parole dell’autrice, che ci ha raccontato qualcosa in più sulla sua opera.


Questo libro è come una lettera, una composizione notturna, appunto, destinata alla lettura, a un ascolto attento. Aveva in mente una struttura o uno stile particolare prima di iniziare a scriverlo?

No, l’ho scritto come se fosse una lettera per mio fratello, come avrei scritto qualunque lettera indirizzata a lui, solo che questa l’ho scritta dopo la sua morte, senza che lui potesse leggerla. È iniziata in maniera molto personale, e non sapevo che avrei pubblicato questo libro fino a quando non l’ho quasi terminato.


Notturno si avvicina, in tutte le sue parti, a una composizione musicale. Le è capitato di scriverne delle parti ascoltando la musica di suo fratello Martin? La musica ha in qualche modo condizionato la sua percezione del ricordo, rendendolo più facile da “ascoltare”, come il silenzio all’interno di un brano musicale?

Dopo la morte di Martin non sono riuscita a leggere né a scrivere per un anno, ma riuscivo ad ascoltare musica. Ho ascoltato molte delle registrazioni di mio fratello, e credo che queste abbiano influito sulla scrittura di Notturno. Ritengo che la musica sia di grande conforto, e a volte è più facile da recepire rispetto alle parole. Il lutto è un posto in cui non ci sono parole, all’interno del quale però la musica è un’ottima compagnia.


Il ricordo spesso cambia i luoghi per sempre, eppure allo stesso tempo ogni luogo ha una sua memoria che resta immutata. La scrittura del libro ha cambiato in qualche modo la sua percezione dei luoghi di cui parla e le abitudini a questi legate?

Non saprei dire se la mia percezione dei luoghi sia cambiata, ma scrivere questo libro ha avvicinato qualcosa, facendomi vedere tutto in una prospettiva molto ravvicinata, per poi lasciarlo andare. Un po’ come quando tieni un oggetto davanti agli occhi e poi lo fai cadere. E mentre all’inizio era difficile andare nei posti in cui una volta abitava mio fratello, ora è un conforto.


La scrittura riporta in vita il ricordo ma, come dice nel suo libro, non ricrea l’esperienza, bensì ne è trascinata. Sente di essere riuscita a esprimere completamente in quest’opera quello che sentiva?

Sì. In questo libro ho detto tutto ciò che dovevo dire, senza trattenere niente. Ho smesso di scrivere solo quando non avevo più niente di importante da dire a Martin. Erano i miei sentimenti. È tutto ciò che ricordavo del nostro lungo rapporto come fratelli.


Questo libro si allontana dalle sue opere precedenti. Pensa che il processo della sua scrittura possa aver cambiato il suo modo di scrivere, o il suo approccio futuro alla scrittura?

Decisamente. Sono cambiata come persona dopo la morte di mio fratello, e la mia scrittura è cambiata di conseguenza. Credo che il mio stile sia diventato più semplice e immagino così la mia scrittura in futuro.

 

 

(Helen Humphreys, Notturno, trad. di Fabio Viola, Playground, 2013, pp. 144, euro 15)

“Amnesie di un viaggiatore involontario” di David Madsen

Come è arrivato Hendryk su questo treno? E perché seduto davanti a lui c’è Sigmund Freud (no, non quel Sigmund Freud), autore de L’interpretazione dei sogni (no, non quella interpretazione dei sogni) e fiero avversario di Carl Jung (ebbene sì, quel Carl Jung)? E dove è diretto il treno? Ma soprattutto: perché è senza pantaloni? Questi i primi bizzarri interrogativi che ci troviamo ad affrontare appena iniziato Amnesie di un viaggiatore involontario (Meridiano Zero, 2013) di David Madsen, una garanzia per quanto riguarda una narrazione assurda, al limite del paradosso, condita da un erotismo non sempre lucido, anzi spesso perverso.

Dopo le Memorie di un nano gnostico (Meridiano Zero, 2006), sono le amnesie qui a farla da padrone: Hendryk non ricorda niente del suo passato e niente degli eventi che lo hanno condotto su quel treno, così come non capisce nulla delle avventure che lo attendono. Sceso dalla carrozza in compagnia del dottor Freud e del capotreno Malkovitz, ambiguo personaggio dai gusti sessuali per così dire eclettici, Hendryk raggiunge il castello di Flüchstein, proprietà del conte Wilhelm, eccentrico proprietario di casa dalla smodata passione per il cibo e dotato di ben scarso contatto con la realtà nonché padre di Adelma, ninfomane che ha già saputo soddisfare più di un amante. Qui Hendryk scopre che il conte lo ha invitato perché tenga una conferenza sullo jodel, argomente sul quale il nostro protagonista scopre, per sua enorme sorpresa, di essere un’autorità. Tra pranzi e cene pantagrueliche, cui non riesce comunque mai a partecipare, presunti stupri di cui è autore o vittima, personaggi borderline e infinite avventure oniriche, Hendryk si innamora di Adelma e fa di tutto per scappare con lei, nonostante le incredibili disavventure che lo attendono in qualsiasi momento: il rito religioso cui lo sottopone l’arcivescovo della città, l’invasione delle mucche assassine richiamate dallo jodel che Hendryk fa cantare al proprio auditorio piuttosto che intonarlo in prima persona, la sommossa popolare che vuole vederlo morto.

Quest’ultimo libro di Madsen mette insieme visioni oniriche, momenti autenticamente grotteschi, un erotismo spinto e greve, che sfocia spesso nell’ilarità, conversazioni che ricadono nel paradossale e situazioni che nemmeno immaginiamo come possano essere state anche solo concepite dall’autore.

Si tratta di un romanzo circolare, senza un vero inizio e senza una vera fine: arrivati a pagina 242, scopriamo di dover tornare a pagina 9 per terminarne la lettura o, per meglio dire, per riprenderla da capo.

Un romanzo senza dubbio notevole, che forse potrebbe non incontrare il gusto di tutti perché troppo surreale o troppo ricco di dettagli forti, ma che decisamente vale la pena di essere letto.

(David Madsen, Amnesie di un viaggiatore involontario, trad. di Francesco Francis, Meridiano Zero, 2013, pp. 242, euro 16)

“Before Midnight” di Richard Linklater

Terzo episodio della serie firmata Richard Linklater dedicata all’evoluzione dell’amore nelle varie fasi della vita con Ethan Hawke e Julie Delpy ancora una volta nei panni dei protagonisti. Jesse e Celine si erano conosciuti su un treno diretto a Vienna (e questo è Before Sunrise – Prima dell’alba, il primo) nel 1994. Lui era un giovane giornalista degli Stati Uniti, lei una parigina di ritorno a casa. Lui l’aveva convinta a scendere nella capitale austriaca e lì avevano passato la notte a passeggiare e parlare, prima di separarsi all’alba. Dieci anni più tardi (e siamo a Before Sunset – Prima del tramonto, il secondo) Jesse è diventato un famoso scrittore di romanzi. È a Parigi per presentare il suo ultimo romanzo, ispirato a quella notte viennese. Tra il pubblico c’è Celine. Non si sono più visti né sentiti dopo quella notte, ma si è riconosciuta nel libro. Alla fine della presentazione i due passano un nuovo giorno a parlare. Hanno delle vite, altrove, ma in quel momento non importa. Passano altri dieci anni (e arriviamo a Before Midnight), è estate, Jesse è in un aeroporto greco con suo figlio in partenza per gli Stati Uniti. Deve tornare dalla madre, anche se preferirebbe rimanere in Europa con il padre, ma i giudici non lo permettono. Ad aspettare Jesse, fuori dal terminal, c’è Celine con le loro due gemelle che dormono in macchina. Si sono messi insieme, hanno costruito una vita a Parigi, lontano dal figlio avuto dal precedente matrimonio di Jesse, e ora sono in vacanza nel sud del Peloponneso ospiti di un anziano scrittore greco ammiratore del lavoro di Jesse. Durante una notte che si doveva presumere romantica, lontano dalle figlie grazie a un regalo di amici, i problemi tra i due – vivere ancora a Parigi o tornare a Chicago, il figlio lontano, il lavoro di lei, i romanzi di lui che parlano troppo di loro, gelosie ricattatrici e incomprensioni varie – vengono fuori tutti insieme costringendoli a fare i conti.

Non è giusto parlare di seguito per Before Midnight perché con i due film precedenti non va a formare una trilogia ma più omogeneamente una storia sviluppata, per ora, in tre capitoli. Sono tre momenti distinti di una storia d’amore: l’innamoramento, la scelta di amare, le conseguenze della scelta. È un tentativo unico nella storia del cinema, forse paragonabile, ma appena, al Lelouch di Un uomo, una donna vent’anni prima e dopo. I personaggi di Linklater crescono con gli attori, anche autori della sceneggiatura con il regista, e infatti Before Midnight è il più maturo dei tre film. Sarà perché tratta tematiche adulte, sarà perché sono cresciuti gli autori, ma più degli altri due capitoli riesce a fornire uno spaccato autentico della vita di coppia, quando alla curiosità del conoscersi è subentrata ormai l’abitudine della conoscenza.

Rispetto ai due precedenti capitoli, Before Midnight si apre a una dimensione corale nella casa dello scrittore greco, dove Jesse e Celine confrontano con gli altri ospiti le varie idee della vita di coppia di cui ognuno è interprete: i giovani fatalisticamente rassegnati all’inesistenza di sentimenti eterni, la coppia che finge odio reciproco ma condivide amore, il vecchio artista che ha sempre vissuto in libertà il sentimento con sua moglie.

È però concentrandosi sui personaggi di Hawke e Delpy che viene fuori la natura quasi antropologica del film. Linklater si limita a piazzare la telecamera (il long take che riporta la famiglia dall’aeroporto a casa) o a seguire i suoi attori registrandone i dialoghi privati, con un realismo assoluto. È così, intrufolandosi nella dimensione intima della camera d’albergo, che si delinea il ritratto di una coppia che non si comprende, una coppia come tutte le altre con i suoi problemi che sembrano così unici ed enormi nella loro normalità da risultare persino banali allo spettatore.

Malgrado la tematica della possibile crisi farebbe pensare a un’inclinazione drammatica, i dialoghi sono forse i più brillanti dei tre capitoli, con momenti da screwball comedy passata per il filtro della contemporaneità. I dialoghi colti e (eccessivamente) disinvolti in materia sessuale di Jesse e Celine, ma anche degli altri personaggi, hanno un che del Woody Allen delle commedie romantiche migliori.

È un cinema semplice che a tratti, quando le vite e i lavori comunque particolari dei protagonisti rimangono sullo sfondo, sa rappresentare la realtà, anziché imitarla, il che non è poco.

(Before Midnight, di Richard Linklater, 2013, commedia drammatica, 109’)

[IlLive] Roberto Gatto Perfect Trio @Auditorium Rai, 22 Ottobre 2013

La perfezione è negli intenti: il giudizio sui risultati, regno della soggettività, è lasciato alle sensibilità di chi ascolta. Stando alle reazioni del pubblico in sala, però, l’impatto di questo Perfect Trio, il cui disco è in fase di post-produzione ed è atteso per gennaio o febbraio del prossimo anno, è stato davvero notevole. Bocche spalancate, occhi sbarrati e piedi a battere il ritmo sono sempre segnali positivi.

L’invito di chi scrive è quello di rinunciare a qualsiasi categoria d’analisi a priori: quella proposta non è musica che si fa incasellare facilmente. La sfida è lanciata proprio allo spirito razionale e ordinante della mente umana, che tenta per tutto il corso del concerto di definire, contenere e catalogare una materia che si presenta invece fluida, liquida, impossibile da pensare e tenere insieme secondo le modalità di analisi musicale tradizionale dei generi e dello stile. Nel vano tentativo di far questo, l’ascoltatore razionale si perde, si smarrisce mentre tutto esplode nelle sue mani. Ed è proprio in quel preciso momento che il godimento arriva prepotente. È in quell’attimo, in cui la batteria fa da detonatore al pianoforte, in cui il basso elettrico ci ricorda che possiamo essere persino quello che desideriamo di essere, che il nostro stomaco viene preso, incollato alla sedia, e nutrito con un’esibizione che è un banchetto pantagruelico.

Roberto Gatto non ha certo bisogno di presentazioni. Soltanto ricordare il suo curriculum porterebbe via pagine intere e sarebbe comunque insufficiente a rendere lo spessore di questa figura di primo piano del jazz italiano ma non solo. Questo Perfect Trio, allestito con la collaborazione attiva di due giovani e talentuosi musicisti italiani – Alfonso Santimone (pianoforte, Fender Rhodes ed elettronica) e Pierpaolo Ranieri (basso elettrico) –, segna un po’ la summa teoretica del musicista romano. Come afferma nella breve intervista pre-concerto, all’interno di questo trio si riversano decenni interi di esperienze musicali attive e passive. Una vita di ascolti, quindi, si ritrova in un’ora e mezza di concerto.

Lo spessore della figura di Gatto come musicista si riversa quindi nella complessità e molteplicità di fonti e background musicali riscontrabili in questa esibizione dal sapore olistico: il jazz, ovviamente, la fa da padrone: ma cos’è il jazz? Una storia declinata al plurale, un contenitore polimorfo e polisemantico all’interno del quale convivono musiche, storie e tradizioni diverse. Un mondo che non si esaurisce e non si cristallizza, ma che si dedica alla ricerca dello stupore. A questa diversità intrinseca della musica improvvisata è dedicato questo concerto, che si alimenta delle influenze più diverse. Emerge quindi la tradizione italiana a fianco del progressive rock – genere al quale Gatto è molto legato, tanto da dedicare, qualche anno fa, un intero progetto di omaggio a questo genere intitolato Progressivamente (L’Espresso, 2008) –, emerge il funk, le avanguardie novecentesche, la musica elettronica e, perché no, il noise e l’industrial.

Il risultato è splendido, sconnesso e affascinante. Un magma sonoro che oscilla intorno a tre nuclei fondamentali che vivono di interazioni e risposte: una sorta di dialogo sui massimi sistemi musicali. Santimone si muove tra il pianoforte, il Fender Rodhes e le sue diavolerie elettroniche, guidando con scale alterate una parata elettronico-rumoristica: il fraseggio è spesso volutamente balbettante, con spigolosità d’ispirazione monkiana e dinamiche da capogiro. Ranieri, con il suo basso, oscilla tra movimenti funky, felpati e ammalianti, e mantra di accordi distorti, preghiere di una religione laica da loop station. Il grande sacerdote conduce il sermone dal suo pulpito fatto di pelli, piatti, tamburi. Con il tocco esperto di chi la sa lunga tiene sempre le fila del discorso, cosciente del fatto che, in fondo, è tutta una costruzione oppiacea per distrarre gli ascoltatori dalle fatiche quotidiane. Gli ascoltatori ringraziano e si uniscono in preghiera, scrosciando applausi per un altro bis.

“Il casale” di Francesco Formaggi

Viene in mente, leggendo Il casale di Francesco Formaggi (Neri Pozza, 2013), uno di quei funzionali, oliatissimi congegni narrativi che erano, di solito, i film del grande Hitchcock: ne ha, questo romanzo, la calibrata utilizzazione del tempo e dello spazio, a partire dall’arrivo in macchina, con i premonitori incidenti di percorso e il loro macabro valore di preannuncio, fino al sostituirsi di una sferzante pioggia da girone dantesco alla calura vacanziera di luglio, via via che la vicenda si avvita verso la catastrofe.

E così il luogo – quasi geometrico – entro cui, con perfezione di unità aristotelica, va in scena il dramma: il casale appunto (il che, retrospettivamente, carica di senso, fin nell’allusione alla sua parte, diciamo così, “muraria”, l’essenzialità un po’ scialba del titolo) e, ovviamente, i suoi dintorni, in cui si dispiega una naturalità non propriamente bucolica.

Del resto, alla sceneggiatura filmica il ductus della storia si avvicina sempre di più lasciando da parte gli iniziali indugi narrativi, come quello su energia/mollezza delle strette di mano, o l’insistenza nella descrizione della bruttezza del corpo, maschile, soprattutto, che avevano insaporito i capitoli iniziali di una – abbastanza hitchcockiana, di nuovo! – ironia dell’inadeguatezza e del disagio.

Lo stesso può valere per il dialogo che, dapprima giocato non senza leggerezze da commedia, si fa sempre più duro, nudo, rimbalzante, di battuta in battuta, fra i personaggi come i fendenti scambiati su un ring. 

E se qualche perplessità il retroterra psicologico dei personaggi (non sappiamo mai, ad esempio, cosa abbia avvinto il protagonista alla sua ragazza, al di là di un’ovvia pulsione eterosessuale: detto altrimenti, che ci trova, in lei? E lei, in lui? Né alcuno, dei personaggi, sembra mosso da alcunché di superiore a un più primitivo livello di sessualità), effettivamente la lascia, quando poi i fatti si mettono a girare sempre più vorticosamente si finisce per non farci più caso, e ci si lascia prendere nel loro implacabile scivolare da piano inclinato, si trova del tutto persuasiva quella che si rivela come la tesi di fondo del libro: l’emergere sempre più conclamato del male, a cui la vicenda s’incarica di fornire niente più che uno straccio di  pretesto per sprigionarsi, e squadernare la sua belluina, distruttiva potenza. Fino all’indovinatissimo explicit, che va a segno come un colpo basso: lasciandoci, per altro, poco meno che entusiasti.

(Francesco Formaggi, Il casale, Neri Pozza, 2013, pp. 240, euro 16,50)