“Paginae Naturalis” di Hitnes al Museo Civico di Zoologia di Roma

Fuori da tutte le convenzioni e dalle regole classiche, troviamo al Museo Civico di Zoologia di Roma, fino al 5 maggio, una mostra dal nome sgrammaticato e dal luogo inaspettato: Paginae Naturalis. Opera di Hitnes, un trentenne romano e street artist di fama internazionale.

Paginae Naturalis, già dal nome, non segue le regole latine bensì riprende ed echeggia l’uso del suono che questa antica lingua emana. Allo stesso modo, le sue opere non rappresentano esemplari naturali reali ma si ispirano a essi. Hitnes, infatti, seguendo il percorso del museo insinua i suoi disegni all'interno delle teche, creando un catalogo di false specie animali dalle fantasiose denominazioni.

È bene sottolineare che manca la figura del curatore dal momento che è l’autore stesso che si adatta alla struttura del museo già ben definita con teche espositive e giganteschi animali in tassidermia. Le opere di Hitnes, collocate all’interno del museo, sono la rappresentazione di animali inventati con tanto di nomi fantastici come “Eavitercula Napoletana”, e sono eseguite tutte con la tecnica dello stencil utilizzando più colori, con una precisione e dettaglio che li fa risultare quasi reali. Il loro supporto è molteplice: libri cinesi, moduli, spartiti musicali e vecchie stampe, il tutto ovviamente riciclato.
 


 

Le opere in tutto sono 135, ispirate alla fauna e flora del museo, le quali vengono reinterpretate in chiave fantastica, aggiungendo o spostando particolari, cambiando le proporzioni e i colori originali, ma comunque mantenendo la struttura reale dell'animale/pianta. Queste sue opere, che si intrecciano in un immaginario tra il fantastico e lo scientifico, sono ben inglobate accanto agli esemplari e scenari naturali, in modo da dialogare con essi e creare una magica sinergia.

Hitnes non è solo uno street artist, ma anche un disegnatore, incisore e serigrafo; queste sue attitudini e conoscenze gli forniscono le competenze per la cura e l’attenzione al particolare. Disegnare artigli, becchi e piumaggi sono una sfida con la realtà.
 


 

La mostra, per il grande successo che ha riscosso, è stata prolungata fino al 5 maggio ed è consigliata a tutti coloro che vogliano immergersi in una wunderkammern di macchie di colori, e magari anche ampliare o ripassare le nozioni di scienze naturali!

 

Paginae Naturalis di Hitnes
Museo Civico di Zoologia, via Ulisse Aldrovandi 18, Roma
21 febbraio – 5 maggio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.museodizoologia.it

“Nella casa” di François Ozon

Nella casa di François Ozon ha aperto il festival "Rendez-vous, appuntamento con il nuovo cinema francese" lo scorso 16 aprile dopo essersi aggiudicato sei nomination ai César, gli Oscar del cinema d'Oltralpe.

Claude è un liceale, bello, riflessivo, alquanto misterioso. Si pone delle domande, cerca delle risposte. Germain è un professore di lettere pervaso dalla noia e dalla monotonia delle giornate sempre ripetitive, così uguali. Claude decide di dar spazio alla propria fantasia dedicandosi a un progetto a dir poco perverso: penetrare nel quotidiano di una famiglia piccolo borghese, quella di Rapha, suo compagno di classe, e denunciare ciò che “dovrebbe” apparire come normale. Ogni giorno redige un memoire satirico al suo professore, pigmalione complice e divertito da un’avventura con cui, forse, poter finalmente rompere la soffocante apatia della propria esistenza.

François Ozon con il suo ultimo lungometraggio, Nella Casa, critica di base (così come in Potiche e 8 donne ed un mistero) le contraddizioni della borghesia francese e ancor più i metodi e le falsità maliziose con cui la stessa società si dipinge, creando quella pellicola trasparente di cellophane che avvolge tutti, tra finzioni, codici e ruoli impostati. Un castello di carte sempre più traballante.

Il film è un buon riflesso del massacro domestico che la borghesia odierna tende a esaltare e decantare tanto, conducendola, ipocritamente e insensibilmente, al macello. Una commedia, tendente al thriller, che rivanga antichi sapori pasoliniani, flaubertiani (a cui è dedicato il liceo di Claude) e hitchcockiani, incentrandoli attorno alla normalità di una vita media, per l’appunto, borghese: quella triste di Germain (Fabrice Luchini), scrittore reticente e stanco, dominato dalla noia e dall’insensibilità, avido di amore per via di una incapacità affettiva nel relazionarsi sia con gli altri che con se stesso e la moglie (Kristin Scott Thomas). Lui è sterile, lei non potrà mai avere quello che ha sempre desiderato più al mondo. Così, per Germain, il disgusto verso gli altri diventa l’unica reazione possibile, il suo pane quotidiano. Tutto questo viene a perdersi in un oceano di mediocrità e indifferenza, finché non si imbatte nella sua personale isola: Claude (un promettente Ernst Umhauer) e la sua visione magica della realtà.

È, sì, un buon film che rapidamente però si viene a perdere. Una volta riaccese le luci in sala, poco rimane. Quello che si percepisce è una mancanza. «Non mi ricordo più se ho messo il sale oppure no!»; manca di slancio, poesia, di vertigine. Proprio quello che distingue il lavoro di un buon studente (colui che tratta semplicemente di un soggetto) e l’opera di un grande autore cinematografico.

Fabrice Luchini si conferma uno dei più validi interpreti della commedia francese dell’ultimo decennio sia a teatro che al cinema. Mantiene tutto il suo charme e la sua forza interpretativa nei panni di un uomo che canta di Celine e Molière, meravigliando e nascondendosi dietro la forza delle parole, facendone la sua arma di seduzione.

Si tratta comunque di un piacevole film, incentrato sul concetto di creatività e sull’incredibile “egoismo” che spinge il ragazzo, Claude, a catturare il reale, carpendone le sue stesse deformità: le ritocca e le ripensa secondo la propria personale visione delle relazioni sentimentali, quelle di cui ci circondiamo ogni giorno, semplicemente più da un punto di vista elementare, aproblematico.


(Nella casa, regia di François Ozon, 2012, drammatico, 105')

 

“Tempesta” di Roger Vercel

Tempesta di Roger Vercel (Nutrimenti, 2013) è la storia del capitano Renaud, il comandante del Cyclone, un rimorchiatore specializzato in salvataggi nelle acque burrascose davanti alla Bretagna, alle prese con una tempesta fuori dal comune.

Fin dalle prime pagine Vercel ci descrive una notte di tempesta, in cui Renaud risponde alla richiesta di soccorso di un cargo greco. Quello che sembra essere un compito di routine, a cui il capitano e i marinai del Cyclone sono avvezzi da anni, si trasforma in una titanica prova di resistenza, che lascerà un segno profondo nell’animo di Renaud.

Questa tempesta che si abbatte furibonda sul Cyclone si rivela infatti fondamentale per porre Renaud di fronte a una realtà che non vuole affrontare e che si trova costretto ad ammettere di non saper gestire. Dopo aver passato anni al suo fianco, dopo interminabili viaggi lungo mari calmi e burrascosi, una malattia colpisce Yvonne, la moglie del capitano Renaud, e la costringe a letto sulla terraferma. Solo nel momento in cui Yvonne si trova impossibilitata a seguire Renaud nei suoi viaggi, il capitano si rende conto dell’importanza fondamentale che la moglie ha sempre rivestito nella sua vita.

Come Renaud si rende presto conto, diversamente da quelle marittime, la tempesta che imperversa nella sua casa non può essere gestita con dei semplici ordini da impartire a marinai esperti. La malattia di una moglie comporta pazienza, impegno e costanza, tutte doti di cui Renaud, seppure ne sia padrone in mezzo al mare, scopre di essere completamente privo sulla terraferma. Se da una parte ci troviamo di fronte a un uomo, forte e risoluto in mare, rigido col proprio equipaggio e con chiunque incontri durante quei salvataggi in mezzo alle intemperie più sconfortanti, da un’altra parte, Vercel ci mostra un uomo terribilmente fragile non appena mette piede sulla terraferma, un uomo irascibile, egoista e incapace di amare.

Un uomo abituato a lottare strenuamente contro ogni onda, burrasca e imprevisto, che non riesce ad arrendersi all’inesorabilità della sofferenza della moglie, del suo graduale indebolimento, e infine della sua morte, tanto da preferire una fuga. Tornare in mare, lontano dalla realtà e da addii strazianti, con l’orizzonte come unico compagno di una vita da nomade, condannando Yvonne a passare gli ultimi attimi della sua vita in compagnia della sola vicina di casa, unico affetto capace di fare ciò che il comandante non riesce a fare: starle accanto nel momento dell’estremo bisogno.

Molto interessante una curiosità presente nel saggio Una radice di Primo Levi di Andrea Cortellessa, inserito in calce al romanzo, che racconta dell’ultima notte trascorsa da Primo Levi ad Auschwitz. Come Levi stesso spiega ne La ricerca delle radici, l’ultima sera trascorsa ad Auschwitz un medico greco gli diede questo romanzo di Vercel. Ed è così che Levi ricorda quella che sarebbe diventata l’ultima notte di prigionia, leggendo avidamente delle avventure del capitano Renaud tanto da affermare: «Di Roger Vercel ignoro tutto, perfino se è vivo o morto, ma sarei contento se fosse vivo e sano e continuasse a scrivere, perché mi piace il suo scrivere e mi piacerebbe scrivere come lui, e avere da raccontare le cose che lui racconta».


(Roger Vercel, Tempesta, trad. di Alice Volpi, Nutrimenti, 2013, pp. 239, euro 18)

“Per un passato migliore” dei Ministri

Se in futuro dovessero chiedermi che aria tirava in Italia in questo periodo, come risposta farò ascoltare i dischi della band in questione. Musica e parole necessarie. Quotidiane, imprescindibili. Musica e parole figlie di un presente critico e delicato. Che solo in pochi sanno trasformare in rock. Canzoni generate da Tempi bui. Loro – con quel nome azzeccatissimo – ci riescono da un paio d’anni. Con tutta la rabbia, la frustrazione e la voglia di riscossa di una generazione lapidata dalla crisi e le altre piaghe del Belpaese. L’avete capito: stiamo parlando proprio dei Ministri. Non quelli dimissionari o mal citati della politica italiana, ma degli alfieri dell’indie-rock nostrano. Sempre più lucidi, furiosi e dissacranti. Pronti a fare i conti con i mali dell’Italia. E i nostri.

Tre anni per ricaricarsi e preparare il quarto disco, dal titolo emblematico: Per un passato migliore. Solo loro tre (Davide Autelitano alla voce e basso, Federico Dragogna alla chitarra, Michele Esposito alla batteria), uniti e compatti nella creazione di un lavoro molto vicino alla grezza potenza dell’esordio I soldi sono finiti, del 2007. Ovvio, di strada i milanesi ne hanno fatta e lo si percepisce nitidamente. La potenza è intatta, ma nuova padronanza degli strumenti scorre in ogni singolo brano, arricchito dalla supervisione di Tommaso Colliva in cabina di regia, alle Officine Meccaniche di Milano.

Lo schianto iniziale di “Mammut” vale più di mille parole. Chitarra, voce, basso e batteria s’incarnano nella possanza impetuosa dall’animale estinto, generando un brano d’apertura che getta subito l’ascoltatore in una infuocata medias res. Altrettanto feroce il primo singolo “Comunque”, dove il ritornello è una corrosiva demolizione delle nostre attuali “certezze”:

«La tua casa non vale niente Il tuo orologio non vale niente Il tuo vestito non vale niente Questa chitarra non vale niente Il tuo contratto non vale niente La tua esperienza non vale niente Il tuo voto non vale niente Tanto vale provarci comunque».

Se con “Le nostre condizioni” non ci spostiamo molto dai lidi appena descritti, “La pista anarchica” è da annoverare tra i picchi di Per un passato migliore. I Ministri sanno regalare ballate dai testi inscalfibili, supportate da una performance vocale sempre più matura. Come in questo caso, dove generazione per generazione viene fuori il triste ritratto della nostra società. “Stare dove sono” è un esplicito e riuscito richiamo ai Foo Fighters, mentre “Spingere” è la quintessenza del sound-Ministri all’ennesima potenza. E a proposito di ballate e capolavori, ecco un altro momento altissimo: “Se si prendono te”. Su un tappeto di distorsioni elettriche, la voce di Davide decanta parole toccanti e sentitissime, dove è percepibile ogni grammo d'emotività. Su tale scia s’innesta anche la bellissima “I tuoi weekend mi distruggono” e la conclusiva e disarmante “Palude”.

Per un passato migliore è un album che musicalmente non aggiunge nulla alla produzione della band, ma conferma in pieno – e con il massimo dei voti – le loro capacità, mostrando quanto siano in grado di accelerare sul binario del punk-rock, ma anche di rallentare verso il versante melodico- acustico, che in Per un passato migliore ha generato le canzoni più belle. Arrivati così alla quarta prova in studio, i tre milanesi rispondono con il loro lavoro più compatto e coeso: il disco della maturità, insomma. Un disco sotto alcuni aspetti doloroso, ma necessario: ignorarlo vorrebbe dire voltare lo sguardo altrove mentre la propria casa prende fuoco. E di conseguenza, ignorare anche i tentativi per spegnere le fiamme. Almeno fino a quando non apparirà un futuro che per i Ministri ancora non esiste.
 

(Ministri, Per un passato migliore, 2013, Godzillamarket)


 

“Ferito a morte” di Raffaele La Capria

Ferito a morte comincia in mare, nel silenzio ovattato della profondità, o forse nella controra di una camera assolata di Posillipo. Un inizio impressionista, impetuoso, disseminato di indicazioni e dettagli, suggeriti, mai assoluti. E allora da subito ci si stranisce, quando la spigola, sfuggita a un corpo inerme e alla scaltrezza di un freccia, trova rifugio dietro a un cassetto di quella camera a precipizio sul mare, presso il sontuoso e decadente Palazzo Donn’Anna.

È come un tuffo carpiato, perfetto, pericoloso, audace.

L’autore è stato anch’egli un ottimo tuffatore, ne conosce il metodo, i rischi e rapporta al suo romanzo questa dinamica. La prima pagina di Ferito a morte è un salto dal trampolino perfetto, potente e azzardato. Più si va in alto e più si va lontani dalla tavola, che resta lì immobile a guardare e a giudicare il salto di sfida dello scrittore che si lancia.  

Da subito si capisce che non vi è nulla di cronologico nella linea narrativa, ma che un continuo andirivieni di momenti e sensazioni la farà da padrone, un gioco della memoria e di scatole cinesi. Eppure tutto accade nell’arco di una sola mattinata, di un tempo reale dilatato e spezzato costantemente da aneddoti e racconti che fluttuano tra le onde. Un affresco intimo e personale, mentre intorno, la città di Napoli, immobile nella sua caotica congestione funge da palcoscenico.

Massimo è il protagonista, proiezione del nostro La Capria, che comunque non si risparmia una voce onnisciente e quindi distaccata dal suo interprete alterego. L’arco temporale che abbraccia riguarda poco più di un decennio, annotando la data più distante al ’43, nel bel mezzo della guerra e dei suoi bombardamenti, e del fatidico incontro con Carla, oggetto di desiderio e ombra di rimpianto. È quindi un rapporto a tre; da un lato l’eroe un po’ perdente che sente su di sé lo scorrere del tempo, e dall’altro l’amore accarezzato e sfuggito. Il tutto dinnanzi agli occhi della loro città, alle prese con una frettolosa e caotica messa in scena del boom economico. Questi due elementi rappresentano per Massimo la stessa cosa, un amore viscerale e impossibile; non può avere Carla come vorrebbe, così come non può vivere e possedere la sua città. È inevitabile la partenza, quella di un amante affranto, e quindi di un figliol prodigo sempre più malinconico e disincantato, nei suoi ritorni che si susseguono, sempre più estranei. Il mare è come il liquido amniotico, dove Massimo ha trovato rifugio, e la città un ventre da abbandonare.

Il racconto si fa dunque anche saggio, sulla Napoli inondata di cemento armato, in completa disarmonia con la sua storia e la sua ricchezza, la città feroce di Achille Lauro, che La Capria aveva già raccontato con Francesco Rosi ne Le mani sulla città, che fa a cazzotti con Vico, con Benedetto Croce, con Filangieri. Di questa foresta vergine, che ti addormenta e che ti ferisce a morte, l’autore nel frattempo ne racconta la fauna, quella borghese dei circoli nautici, dei tavoli da gioco, degli aperitivi e delle vacanze a Capri. Una borghesia che comunque sapeva essere popolare, figlia di una guerra che aveva azzerato o abbreviato le distanze sociali. Privilegio durato il tempo di un tuffo.

La tecnica narrativa è sicuramente innovativa, e La Capria dimostra da subito di aver imparato la lezione dei grandi romanzieri americani della prima metà del ’900, risultando uno dei migliori esempi di ricerca narrativa del secolo scorso, punta massima della sua produzione. Premio Strega 1961.

 

(Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani, 1961)

[Autofocus] RIFF - Roma Independent Film Festival

Si è conclusa l’11 aprile la XII edizione del RIFF, il Rome Independent Film Festival, rassegna cinematografica che si svolge ormai da diversi anni presso il Nuovo Cinema Aquila di Roma. Punto di riferimento delle produzioni non legate alle grandi major, l’evento ha visto come in concorso più di 120 opere tra lungometraggi, corti e documentari, provenienti da circa 40 paesi diversi, in anteprima italiana. Il RIFF, così come altre kermesse molto più note e modaiole, svolge un importante e fondamentale ruolo di promozione per un cinema dinamico e fresco che, nonostante una disponibilità di budget limitata e talvolta quasi inesistente, riesce a trovare un piccolo spazio nella grande distribuzione internazionale. Tutto ciò avviene mantenendo standard qualitativi molto alti e dal contenuto significativo, testimoniati anche dal record di incassi e partecipazioni che registra ogni anno questa manifestazione romana.

Il Direttore Artistico, Fabrizio Ferrari, descrive l’evento proprio in questi termini: «Il RIFF è una manifestazione che nasce dall’amore per il cinema e che dunque aspira a valorizzarlo in tutte le sue forme. Il principale obiettivo che perseguiamo è infatti quello di promuovere quel segmento della cinematografia che troppo spesso non riesce a ottenere la meritata visibilità attraverso i canali tradizionali, ovvero quello indipendente. É un tipo di cinema slegato dai vincoli dalle major e dunque libero: libero di sperimentare, di raccontare, di osare, libero di esprimere idee e di inventare scenari, e libero di non tacere. É spesso un cinema giovane, timido o arrogante, brillante e comunicativo, che cerca la sua strada per poter esprimere la creatività e il talento dei suoi artefici».

L’edizione 2013 è stata aperta da Il Futuro (2013), della regista cilena Alicia Scherson. Già presentato con successo al Sundance Film Festival, il film è frutto di una coproduzione tra Italia, Cile, Spagna e Germania ed è tratto da Un romanzetto canaglia di Roberto Bolaño. La storia è molto semplice: Bianca e il fratello Tomas perdono i genitori in un incidente stradale e si ritrovano soli a Roma, nell’appartamento della famiglia. La svolta avviene quando Tomas trova lavoro in una palestra e diventa amico di due ragazzi più grandi che poco dopo si stabiliscono a casa loro. I due, dediti alla delinquenza, convinceranno Bianca a introdursi nella villa di un ex attore per sedurlo e, successivamente, provare a ricattarlo. Del film colpiscono la fotografia e le interpretazioni di Rutger Hauer e Nicolas Vaporidis, un po’ meno lo sviluppo di una storia dal grande potenziale forse non sfruttato a pieno.
 

 


Continuiamo parlando di un corto fuori concorso e di un film made in USA. Il primo è Zinì e Amì (2012) storia d’amore tecnologica e leggera che strappa molti sorrisi in sala. Zinì, interpretato da Alessandro Tiberi (noto al grande pubblico per Generazione 1000 euro e Immaturi, oltre che per la serie tv Boris), decide di acquistare Amì (Sasha Zacharias), donna-androide perfetta programmata per innamorarsi di lui. Ma qualcosa non va e la sua perfezione mancata diventa l’ossessione del giovane che prova a farla riparare. Da citare anche la partecipazione sempre apprezzabile di Silvio Orlando e le diverse chiavi di lettura donate allo spettatore in soli cinque minuti.

Two Hundred Thousand Dirty (2012) narra invece, in maniera comica, le vicende di uno squallido negozio di materassi della provincia americana, nel quale lavorano lo scorbutico Rob, lo sboccato Manny (il rapper Coolio) e Martin, uno squilibrato. Le loro vite sembrano cambiare quando la deliziosa Isabelle viene assunta e li convince a uccidere, con la promessa di 200.000 dollari, l’ex marito.

Il lungometraggio, tra quelli che abbiamo visto, che ci è piaciuto di più è I’m Nasrine (2012) della regista Tina Gharavi. Nato da una coproduzione tra Inghilterra e Iran, proprio in Iran inizia la vicenda: Nasrine viene arrestata ingiustamente e durante l’interrogatorio subisce violenza. Il padre, a quel punto, decide che per lei e il fratello Alì la soluzione migliore è andare a vivere lontano, nel nord dell’Inghilterra. Poco dopo il loro arrivo, Nasrine inizia l’università e stringe amicizia con una comunità gitana inglese, mentre Alì inizia a lavorare e tutto sembra andare per il verso giusto in questa nuova vita da occidentali. Tutto si complicherà con gli eventi dell’11 Settembre e altre spiacevoli sorprese. Il film appare completo, una storia semplice che non sfiora mai la banalità e porta a riflessioni e spunti interessanti.

Altri lavori che meritano una citazione sono i due corti tedeschi Waldesruh (2012) di Marc A. Misman e The last border (2012) di D. Butterworth. Nel primo, due uomini devono liberarsi di un cadavere seppellendolo in una foresta ma una serie di eventi tragicomici cambieranno i loro programmi. Il secondo, invece, è la storia di Alfred guardia di frontiera che lavora alla frontiera tra Germania e Repubblica Ceca. Ogni giorno, Suzanne arriva su una bicicletta e oltrepassa il confine con un sacco di riso, fino a quando i nuovi trattati dell’Unione Europea decideranno l’apertura delle frontiere. La decisione sconvolgerà la vita di Alfred che sfogherà il suo rancore e diventerà cinico e spietato nel controllare la giovane, dimenticando un piccolo ma decisivo particolare.

Infine, molto interessante il documentario del regista Pawel Pstragowski, Buffer Zone (2012). Tra il 2011 e il 2012 un gruppo di attivisti decide di occupare Ledra Street, a Nicosia, per protestare contro il mancato accordo che doveva risolvere l’annosa questione della frattura cipriota. In questa striscia di confine (più mentale che fisica), ragazzi turco-ciprioti, greco-ciprioti, spagnoli, francesi, polacchi e di altri paesi si accampano per una settimana, poi un mese, poi cinque mesi e così via. Inizia così la storia (vera) di decine di giovani che provano a combattere quotidianamente il capitalismo, le divisioni dell’isola e l’odio ideologico. Una bella favola moderna che è diventata realtà.
 

 


Il Festival si è concluso con i RIFF Awards e con la consapevolezza che la rassegna è stata, come ogni anno, qualcosa di unico e essenziale per il cinema, una boccata d’ossigeno importante. Questi sono i premi assegnati dalla giuria:

Miglior Lungometraggio Internazionale
Ombline di Stéphane Cazes, Francia 2012

Miglior attore/attrice sezione lungometraggi internazionali
Melanie Thierry per Ombline

Miglior Lungometraggio Italiano
Ex-aequo: Transeuropae Hotel di Luigi Cinque
Aquadro di Stefano Lodovichi

Miglior attore/attrice sezione lungometraggi italiani
Giorgia Cardaci per L’ultima Foglia di Leonardo Frosina

Miglior Film Documentario internazionale
Mapa di León Siminiani, Spagna 2012

Menzione Speciale
The Suffering Grasses di Iara Lee, Usa 2012

Miglior Film Documentario Italiano
La valle dello Jato di Caterina Monzani & Sergio Vega Borrego

Menzione speciale
Con quella faccia da straniera – Il Viaggio di Maria Occhipinti di Luca Scivoletto

Miglior Cortometraggio Internazionale
Column di Ujkan Hysaj, Repubblica del Kosovo 2012

Miglior Cortometraggio Italiano
Matilde di Vito Palmieri

Miglior Cortometraggio Studenti
Momo di Teodor Kuhn, Slovacchia, 2012

Menzione
Nicoleta di Sonia Liza Kenterman, Grecia/UK 2012

Miglior Cortometraggio d’Animazione
Animalario di Sergio Mejía Forero, Colombia, 2012, 3D Animation

Miglior Soggetto per Sceneggiature di Lungometraggio – Premio Fabrique du Cinema
L’invito di Massimo De Angelis.

Miglior Sceneggiatura per Cortometraggio – Premio Factotum Art
Primo di Marco Tosti

 

“Pista nera” di Antonio Manzini

Aosta non ha i vaporosi e cangianti tramonti romani, né un fremito ciarliero percorre le sue strade. I muri delle case valdostane spiccano nitidi fra maestosi larici e cumuli di neve, incastrando lo sguardo in un orizzonte gelido e aguzzo. Da sei mesi, il vicequestore Rocco Schiavone detesta con risentita malinconica quella terra ordinata e dedita al lavoro, senza rassegnarsi al trasferimento punitivo dall’adorata Roma.

Antonio Manzini, sceneggiatore e autore romano, ama vistosamente il salace protagonista del suo nuovo giallo Pista nera (Sellerio, 2013), e gli regala un singolare acume investigativo, ammantato da un’indole capricciosa e da un’etica senza pudori né rispetto verso i sottoposti, poiché, spiega Camilleri, «in Manzini la trama poliziesca è solo un pretesto per narrare la società».

L’irriverente Rocco reclama da subito le attenzioni del lettore, mostrando il proprio fastidio verso il delitto accaduto nella sperduta Val d’Ayas. Nei pressi della rinomata Champoluc, meta prediletta da sciatori arditi, il giovane Amedeo Gunelli percorre l’abituale scorciatoia verso la pista indicatagli dal capo Luigi Bionaz, quando le ruote del suo cingolato urtano contro un animale, o almeno così crede. Ha appena investito un uomo sepolto da uno strato nevoso. Il cadavere ha un tatuaggio inconfondibile e tra lacerti di carne e resti organici spuntano indizi determinanti, del tabacco sfuso e un fazzoletto.

Rocco coordina una squadra di inetti, fatta eccezione per il riservato Italo Pierron, presto coinvolto dal vicequestore nei suoi loschi traffici, e l’avvenente ispettrice Caterina Rispoli. La vittima, il catanese Leone Miccichè, era sposato con una donna di grande charme, Luisa Pec, il cui possesso, ragiona Rocco, giustificherebbe un delitto nell’universo illogico e iniquo delle ragioni umane, anche se l’indagine destabilizzerà la calma rassicurante e contraffatta della valle. Il freddo attanaglia il cocciuto commissario, che si abbandona a una selvatica concupiscenza adulterina, mentre la moglie si diletta in giochi lessicali e con lui vagheggia una fuga in Provenza, liberi dal suo «lavoro di merda». Rocco occupa sì una buona fetta fra le viltà e le miserie difformi di cui è testimone, ma grazie alla sua schiettezza gioiosa schernisce le ipocrisie sociali, pur accettandole con complicità.

Per paradosso, il suo linguaggio infarcito di volgarità è qualunquisticamente abile nel rappresentare i mali endemici e invisibili dell’Italia, colti nelle sembianze del perbenismo del giudice e della doppiezza egoista e edonista di Rocco. Ne risulta un cinismo virulento legato tuttavia a un’inquieta conoscenza dell’ingiustizia volontaria del male umano, poiché «in natura la morte non ha colpe». In un mondo che maschera il dolore con retorica e verità tranquillizzanti, Rocco sa di non potersi mostrare vulnerabile e impone con il suo ateismo pragmatico la curiosità verso i fatti, riuscendo grazie a una sfrontatezza spontanea e bonaria a non annegare nei cerchi disperati e sgraziati che uniscono i destini umani.

Senza eccessi di mestizia, Manzini accoglie nella sua prosa tersa un silenzioso mal di vivere, un rapporto coniugale ossidato e il perplesso rimpianto di essere altrove, mostrando con delicatezza l’umanità di un perdente. Formatosi con Camilleri presso l’Accademia Nazionale dell’Arte Drammatica, l’autore padroneggia il poliziesco e i tempi comici; pur rispettando i vincoli del genere, la narrazione ostruisce il passaggio ai cliché, né le ripetizioni e le scene più convenzionali (le cene con gli amici in primis) inabissano un’autentica capacità di raccontare col sorriso le manchevolezze umane.


(Antonio Manzini, Pista nera, Sellerio, 2013, pp. 278, euro 13)

“Tempeste” di Thad Ziolkowski

Non è il libro che racconta l’America, né quello che rivive un percorso individuale. Tempeste (E/O, 2012), primo romanzo di Thad Ziolkowski, si avvicina però spesso a entrambi. Un racconto che nella sua coralità esalta le sfaccettature del singolo, le qualità assenti e presenti, una delle molte Americhe.

La storia lineare di personaggi che cercano un divenire e di pari passo un presente, guardando alle possibilità come bivi. Così Lewis Chopik, tornato dalla madre Abby a Wichita dopo essersi laureato in lettere e aver rotto il suo rapporto con Victoria, occupa il suo nulla. Le pressioni del padre che lo spinge verso il dottorato, il tentativo della madre di inserirlo nella sua nuova vita di «cacciatrice di tornado», il fratello Seth, personaggio complesso, comico e tragico, filosofo tossicodipendente e psichicamente spostato, lo accompagnano verso l’alterità – elemento del possibile. Una casa simile a una comunità hippie, lontana da qualsiasi idea piramidale di famiglia, è il luogo che come un tornado raccoglie tutto ciò che i suoi abitanti si portano dietro. Bipolarità, dipendenze, ansie e illuminazioni.

Ziolkowski non mostra l’evoluzione di ciò che cambia, ma mette in contatto ciò che è cambiato. Porta direttamente al punto in cui ognuno si trova e da lì mostra la problematicità che ogni individuo porta nella rete dei rapporti. Aggiunge una nuvola a un cielo già in tempesta.
Spalanca la forbice delle scelte che contraddistinguono l’esistenza, mostrando quella biforcazione tra una vita nella contemplazione dell’immateriale o del materiale in una maniera che sa essere profonda ma anche paradossale, tanto da ritornare ossessivamente a proporre, su tutti, un interrogativo emblematico per un mondo decadente: «Dovrei farmi un iPhone?».


(Thad Ziolkowski, Tempeste, trad. di Nello Giugliano, E/O, 2012, pp. 270, euro 19)

“Il testamento” di Andrea Appino

Premetto che di solito mi avvicino con circospezione agli album solisti. Succede però che il 5 marzo sia uscito Il testamento del pisano Andrea Appino, voce graffiante e chitarra degli Zen Circus, per La Tempesta che non smette di sfornare ottimi dischi. Succede che provi comunque a ignorarlo perché sono un tipo testardo. Ma pochi giorni prima di quel 5 marzo esce un video girato nelle cave di Carrara deserte, un giro di accordi familiari con un testo tutto nuovo. E m’incuriosisco.

Appino trova dei collaboratori eccellenti per la sua fatica solista: Giulio Ragno Favero e Franz Valente, basso e batteria de Il Teatro degli Orrori. Una sezione ritmica di tutto rispetto che slegata dal grosso nome si fa comunque sentire attenta e pulsante. Con loro, numerosi ospiti accompagnano Appino nell’ora de Il testamento.

Il primo ospite apre “Il Testamento”, prima traccia dell’album, ed è il violino di Rodrigo d’Erasmo (Afterhours). Canzone ispirata al Monacelli suicida, fa già capire in che termini il disco ci parlerà, unendo la tradizione cantautoriale degli anni ’70 al rock corrosivo più consono al pisano; è una canzone sulla scelta, l’unica cosa che permette di rendere una vita dignitosa – così dice la canzone stessa, c’è poco da interpretare, Appino come sempre non le manda a dire.

Il basso di Favero si sente, perfetto, in “Passaporto”, nella quale il passaporto, ciò che ci fa viaggiare e quindi ci libera nient’altro è se non la sincerità verso se stessi prima di tutto, prima di tutti.

Il brano che accompagna il video delle cave di Carrara è una cover di Bob Dylan: con “La festa della liberazione” Appino si carica in spalla due precedenti illustrissimi, Dylan e De André, il compositore e l’interprete italiano di quel capolavoro che è “Desolation Row”, e tenta un’impresa non semplice, quella di fare proprio un classico. Ma la base è stabile e la struttura regge, allargando la narrazione personale di Appino a narrazione universale, storia di famiglie e provincia tutta italiana.

Attraversa il disco una visione demistificatrice dell’amore totalizzante, una mancanza di fiducia e di potenza di un sentimento sopravvalutato.

Il confronto con gli Zen Circus è doveroso e naturale. Meno ironico, più impegnato e allo stesso tempo di più difficile ascolto è Il Testamento. Un album solista è un’apertura, e Appino stesso confessa di aver avuto in mente da anni alcuni di questi testi: una lunga gestazione personale terminata con un getto che in alcuni punti rischia di suonare ridondante, probabilmente per la lunghezza effettiva del disco.

Altre tracce invece ci ricordano di come Appino non riesca mai del tutto a lasciare il folk punk del suo gruppo, ma pazienza. Anche così è divertente, ascoltabile e profondo.


(Andrea Appino, Il testamento, La Tempesta, 2013)
 

“Passione sinistra” di Marco Ponti

Due persone, un uomo e una donna, diversissimi in tutto, nel modo di affrontare la vita, nel modo di essere, eppure uniti da una Passione sinistra nel nuovo film di Marco Ponti con Valentina Lodovini, Alessandro Preziosi, Vinicio Marchioni e Eva Riccobono.

Nina è un’attivista e blogger politica, attenta alle tematiche ambientali e sociali, che si ritrova a scrivere i discorsi per Andrea Splendore, astro nascente della sinistra italiana e candidato favorito alla poltrona di sindaco di Roma. È impegnata da anni con Bernardo, scrittore famoso ma non troppo che anela una presenza allo show di Fabio Fazio e si perde appresso alle altre donne. Quando il padre di Nina muore, i due si ritrovano a ereditare una villa al mare, sconosciuta e inattesa, custodita da un eccentrico omosessuale di nome Serge. Nina decide di liberarsene, ritenendola incompatibile con il suo stile di vita. Si fa avanti come acquirente Giulio, imprenditore nautico, vita da circoli e sorriso da atleta. All’apparenza i due non possono essere più lontani e diversi, e infatti l’antipatia è immediata e reciproca. L’odio che li separa, però, diventa presto attrazione, una passione sinistra, come la definisce Nina, mentre anche Bernardo si avvicina sempre più a Simonetta, fidanzata bionda, bellissima e cretina di Giulio.

Per il suo ritorno sul grande schermo dopo quasi dieci anni d’assenza Marco Ponti decide di partire dal romanzo del 2009 di Chiara Gamberale Una passione sinistra (Bompiani) per costruire una storia di sentimenti e opposte attrazioni. Che non si sia di fronte a un nuovo miracolo come per la sorpresa Santa Maradona (2001) è evidente sin dalle prime battute: mentre Marco Mengoni rende omaggio, a modo suo, a Giorgio Gaber cantando “Destra sinistra”, la voce fuori campo di Nina guida e aiuta lo spettatore nel collocarla a sinistra dello schieramento politico (qualora le immagini di lei alle manifestazioni non fossero sufficientemente chiare) fornendo allo stesso tempo la chiave per leggere il film: una commedia qualunquista sulle distanze ideologiche che possono essere abbattute. Così, attraverso una carrellata di luoghi comuni e macchiette, di stereotipi socioculturali che vogliono essere allo stesso tempo derisione bonaria e condanna, rimane solo il già visto. Nina (Lodovini) è la radical chic impegnata nel sociale ma sotto sotto un po’ omofoba, Giulio (Preziosi) lo squalo seduttore e pratico, Bernardo (Marchioni) lo scrittore più impegnato a vendere la propria immagine che i propri libri. Si salva Simonetta (Riccobono, la migliore tra gli attori), stupida e ignorante come pochi, ma capace di spiazzare con la sua visione del mondo semplice e ingenua.

La vera forza dei film di Marco Ponti, sia da regista che da sceneggiatore (Cardiofitness, L’uomo perfetto), è sempre stata la scrittura veloce fatta di battute continue e fulminanti, di scambi brillanti capaci da soli di sopperire a eventuali debolezze della trama. In Passione sinistra manca tutto questo. A prevalere nei dialoghi tra i protagonisti è la banalità, con battute riciclate e trite (le storpiature di titoli cinematografici in chiave pornografica, ancora); le parole non danno ritmo, non approfondiscono. Manca la forza comunicativa di Santa Maradona e di Andata + Ritorno.

Ponti prova a costruire una commedia sociale velata d’impegno politico, ma riesce solo a tratti. L’aspirante sindaco Splendore è credibile nel suo essere lontano dagli ideali di sinistra di cui si fa portavoce e nel suo esprimersi solo per slogan dedicati ai “giovani”, ma il risultato complessivo della cifra espressiva di Passione sinistra è un qualunquismo senza approfondimento, superficiale. Se l’intento era quello di riflettere e far riflettere con disincanto e ironia alle cose brutte dell’Italia d’oggi non è riuscito, decisamente.

Si salva qualche dialogo (in generale quelli tra Bernardo e Simonetta, alcune cose tra il sindaco e il suo braccio destro), ma nient’altro.

Geppi Cucciari, nel ruolo dell’amica di Nina sbrigativa ma saggia, contribuisce a dare al tutto un respiro ancor più televisivo.

 

(Passione sinistra, di Marco Ponti, 2013, commedia, 91’)

 

Thelly, l’Amish

Wiggily bussò vigorosamente al finestrino del pick-up. Era sorridente mentre ondeggiava come un pendolo. Per il freddo si soffiava nei pugni chiusi.
«Dai, apri!»
Tobia tolse la sicura al vecchio Dodge marrone.
«Ma perché ti chiudi dentro?» chiese Wiggily.
«Non si sa mai».
«Cazzo soldato, mi vuoi far morire? La notte si gela in questo posto di merda!», disse Wiggily mettendosi a sedere, «Ce l’hai, almeno?»
«Sì, è qui dentro» gli rispose Tobia, allungando la mano per aprire il cruscotto.
Tirò fuori una bottiglia di vetro verde avvolta in un sacchetto di carta.
«Questa è roba forte, fa scoppiare il cuore».
«In questo postaccio anche l’alcool fa schifo», disse Wiggily strappandogli la bottiglia dalle mani. Svitò il tappo e si calò con avarizia il primo sorso in gola, poi si pulì la bocca col dorso della mano che scrollò energicamente più volte. Corrugò la faccia e strinse gli occhi in un brivido di dolore: «È davvero forte cazzo!»
«Passamela».
«Tieni, ma un sorso a testa».
«Rilassati amico, ne ho un’altra nascosta».
«E quell’altra cosa ancora, ce l’hai?»
«Sì, stai tranquillo amico» lo rassicurò Tobia, facendogli l’occhiolino. Portò la bottiglia ancora incartata alla bocca. Fece il suo assaggio e la ripassò subito a Wiggily.
Tobia abbandonò la fronte sul volante e sbuffò osservandosi il fango sugli stivali, poi chiese: «Alla fine il tenente te l’ha data la licenza?»
«Me la sono giocata».
«Porca puttana! Ma dico io, no?», imprecò, «potevamo tornarcene un mese a casa, dico io…»
«Il tenente è un coglione».
«Sì però anche tu, cazzo, non dovevi spaccare il naso a quel novello, dico io».
«Lo rifarei».
Andarono avanti così per un paio d’ore, raccontandosi stupidaggini e scolandosi entrambe le bottiglie. Poi Wiggily regolò lo schienale e si mise leggermente sdraiato, inarcò il braccio sinistro poggiandosi la mano dietro la testa a mo’ di cuscino, il braccio destro steso lungo il corpo. Tobia continuava a tenere la fronte sul volante, ogni tanto rinveniva con domande strane: «Te la ricordi Thelly? Quella santarella che venne l’ultimo anno a scuola?», chiese con ilarità. «Ti ho battuto».
«No, non me lo dire, hai vinto tu!?» esclamò Tobia con gli occhi luccicanti dal divertimento, battendo il pugno sul cambio, «Era vergine?»
«No…»
«Sembrava Amish, te la ricordi?»
Wiggily con uno scatto improvviso si raddrizzò sul sedile: «Ehi tu, cazzo! Non hai mai visto due Yankee che bevono?!», gridò con forza a un barbone che stava camminando davanti al pick-up, «Vattene o ti ficco un proiettile in testa, vai via!»,urlò con tanta potenza che gli si gonfiarono le vene del collo.
Il poveraccio, col terrore impresso sulla faccia, scappò via barcollando.
«Forse non ho scelto un buon posto per fermarmi», disse Tobia.
«Era pelosa come gli Amish», gli rispose all’improvviso Wiggily, archiviando con noncuranza il senzatetto. Entrambi scoppiarono a ridere fragorosamente.
Tobia cacciò dal taschino una bustina di marijuana e cominciò a rollarsi una canna.
Fumarono in tutto tre spinelli e si dilettarono a rispolverare la vecchia confidenza, con la tipica amarezza che accompagna i ricordi più felici. D’altra parte avevano passato l’infanzia insieme, si erano scambiati le ragazze quando ancora l’amore era tempo sottratto alla scoperta, erano andati a scuola insieme, poi avevano scelto entrambi di arruolarsi e di partire per il fronte. Si erano fatti forza a vicenda. Erano una coppia solidissima e così assemblati attiravano qualche, per niente sporadica, presa in giro: Wiggily era alto e muscoloso, biondo e di carnagione chiara, il tipico fenotipo vichingo; Tobia invece aveva ricevuto dal bisnonno italiano i colori bruni propri dei paesi molto assolati, oltre a una leggera forma di anemia e un’altezza limitata che gli aveva quasi causato l’esclusione dai Marines.
«Sono mesi che non sto con una donna», disse Wiggily.
«Ti sei fatto mollare da Sharon, dico io».
«Era una brava ragazza».
«Le hai messo le corna», gli rispose con un filo di voce Tobia, mentre si massaggiava le tempie.
«Lascia stare, ho un’idea. Metti in moto».
«Ma non posso guidare adesso».
«Metti in moto, dai!»
«Se mi fermano? Dico io, vuoi che puniscano anche me? Io ci tengo a tornare a casa».
«Lascia stare allora».
«Le punizioni e tutto il resto…», si giustificò Tobia, non senza imbarazzo.
Wiggily guardò fuori dal finestrino, scrutando le luci provenienti dalla via principale con l’intensità di un ghepardo che osserva un branco di antilopi. Il vialone, che s’intersecava con la stretta e buia traversa dov’erano parcheggiati, distava cinquanta metri e brulicava di squallore postbellico. Saltò giù dal pick-up e corse zigzagando in direzione della strada principale, lasciandosi dietro la portiera aperta.
«Dove vai?», gli urlò Tobia.
Dopo cinque minuti tornò indietro. Stringeva fra le braccia una giovane ragazza minuta e dai capelli posticci, che, nonostante il freddo, indossava una minigonna di jeans. La teneva sollevata da terra, bloccandola da dietro. Le tappava la bocca con la mano. Lei provava a divincolarsi, ma Wiggily era un soldato vigoroso e possente.
«Ma che cazzo fai?!», strepitò Tobia dal pick-up.
«Me la faccio, come quella Amish».
La ragazza, in un impeto di ribellione, riuscì a voltarsi e mordergli con cruda disperazione la guancia. Lui urlò portandosi le mani al viso. A quel punto lei fu libera di scappare verso il vialone, anche se la sua fuga fu interrotta più volte da cadute sull’asfalto, per via delle scarpe col tacco che indossava, troppo grandi per i suoi piedi.
Wiggily salì sul pick-up mentre Tobia continuava a guardare incredulo la ragazza che si allontanava gridando.
«Oh cazzo! Oh cazzo!» strillava Wiggily. Si controllò le mani e vide il sangue, aveva una striscia rossa sulla guancia, colava giù per il collo e iniziava a impregnare il bavero della felpa in dotazione ai Marines. Respirò odore di sangue e alcool.
Wiggily cominciò a piangere a dirotto, afferrò Tobia per la camicia e iniziò a strattonarlo: «Ti ricordi quando Thelly diceva che sono un pezzo di merda? Te lo ricordi?», frignava come un disperato , provando a fermare l’emorragia con la mano, «Tobia, io non sono un pezzo di merda, vero?», chiese in un pianto inconsolabile.
«No. No, Cristosanto dico io, certo che no».

Roberto Herlitzka in “Il soccombente” di Thomas Bernhard

Il soccombente è un romanzo di Thomas Bernhard del 1983 e racconta la relazione, fittizia, tra il pianista Glenn Gould, Wertheimer e lo stesso Bernhard. I tre sono arrivati al Mozarteum salisburghese per partecipare a un corso di perfezionamento tenuto dal grandissimo Horowitz. Ma cosa accade? Gli altri due pianisti, di fronte al grandissimo talento di Gould, si sentono inferiori e, quindi, credono che sia meglio per entrambi abbandonare il pianoforte per dedicarsi ad altro. Avvertono sulla propria pelle il senso del fallimento e Wertheimer, nel momento in cui Gould lo definisce «il soccombente», sente addosso tutto il peso dell’insuccesso che lo trascinerà dritto verso il suicidio, sia artistico che fisico. L’io narrante, invece, definito dallo stesso Gould come «il filosofo»si confronterà con l’altro da sé in un soliloquio necessario per superare quest’ossessione lancinante ma anche per ricordare un periodo che ha segnato irrimediabilmente la sua vita.

Lo spettacolo ruota tutto attorno a Roberto Herlitzka, meraviglioso e volutamente sottotono, affaticato e pensoso, che interagisce con alcuni fogli posti su dei leggii, vecchi appunti di una vita ma anche la bozza del romanzo “in fieri” sulla figura di Glenn Gould. Una donna, posta al centro della scena su di una sedia si muove all’interno di una ragnatela mentale, è una figura totalmente spersonalizzata che ostacola, di volta in volta, il flusso verbale del protagonista.

La regia è davvero essenziale, d’ordinanza, costruita attorno alla figura dell’io narrante, che non aggiunge né toglie niente al complesso.

Per carità, è difficilissimo adattare il Bernhard romanziere al teatro, il suo stile è complesso, stratificato, i suoi testi ruotano sempre attorno a uno stesso concetto, che viene sviscerato e, al contempo, riempito di tanti altri concetti costruendo delle vere e proprie matrioske. Geniale Bernhard, un po’ meno Cappuccio che si è limitato a rendere un’idea su di un palco.

Nel complesso, però, Herlitzka è in parte e riesce a immergere lo spettatore all’interno del suo delirio.
 

Il soccombente
di
Thomas Bernhard
riduzione di Ruggero Cappuccio
regia di Nadia Baldi
con Roberto Herlitzka e Marina Sorrenti.

Prossime date:
16-21 aprile – Teatro Nuovo di Napoli