“Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti

Presentato con successo all’ultimo Sundance Film Festival arriva nelle saleUn giorno devi andare, terzo lungometraggio di Giorgio Diritti con Jasmine Trinca, Anne Alvaro e Pia Engleberth.

Augusta ha un dolore, terribile; la morte di un figlio mai nato, la perdita della capacità di procreare, l’abbandono di un marito insensibile. Decide di scappare da sé e dai ricordi seguendo suor Franca, missionaria amica della madre che gira tra le tribù dell’Amazzonia insegnando la civiltà e l’amore di Dio. Augusta conta di ritrovare un senso per la propria esistenza, lontana da tutto, sperimentando il fascino di una vita primitiva. Decide di staccarsi da suor Franca quando si rende conto di non essere in grado di condividere “la professione dello Spirito” che anima lei e gli altri missionari, l’offrire conforto e medicine in cambio di battesimi e matrimoni. Va a vivere in una favela vicino Manaus, ospite di persone conosciute nel viaggio. Lì, pur tra la miseria autentica, il degrado e la sporcizia, ritrova la felicità e la propria femminilità all’interno di una comunità in cui il poco che c’è è importante solo se condiviso.

Sentirà di nuovo l’impulso ad andar via, vedendo quella comunità venir meno travolta da un lutto così vicino al suo. Si isolerà su una spiaggia solitaria, in compagnia dei pensieri, fino a ritrovare il sorriso.

Il cinema di Giorgio Diritti si è sempre interrogato sul rapporto tra l’uomo e la natura, allo stesso tempo conforto e minaccia, ma unica dimora verso cui tornare. È il modo in cui l’uomo si colloca nella natura uno dei temi deIl vento fa il suo giroe deL’uomo che verrà.È il rapporto tra individuo, comunità e natura il centro diUn giorno devi andare.

Il dolore di Augusta la porta via dalla vita di tutti i giorni per spingerla lungo un cammino interiore che parte da migliaia di chilometri di distanza da casa. La ricerca di sé parte da un isolamento in una realtà aliena, in un mondo al di là del mondo conosciuto in cui annullare l’esperienza quotidiana in un randagismo evangelico su una mappa infinita di tribù. Non è quello che Augusta cerca, e lo capisce presto. La sedentarietà e lo spirito di condivisione sono l’essenza della sua ricerca, la dimensione in cui ritrovarsi. Nella favela trova la possibilità di quella famiglia che mai più potrà avere, madre, finalmente, non solo dei numerosi bambini vestiti di stracci, ma anche dei loro genitori e fratelli, guida di tutti, parte di una solidarietà più grande in cui acquisire, di nuovo, un senso. «Non è tempo di Dio ma di rimanere sulla terra», dice a suor Franca prima di separarsi da lei. Come Simone Weil inAttesa di Dio,che riceve in dono da un missionario, Augusta segue una via solitaria al cristianesimo, al di fuori della Chiesa ma in mezzo agli altri, per accoglierne e comprenderne le esigenze e le contraddizioni. Il suo viaggio parte dalla metafisica, dalla ricerca trascendentale del senso del dolore per arrivare a trovare risposte nell’immanente, nel contatto con gli uomini e con la terra, nello spirito dell’uomo, non in quello di Dio.

Giorgio Diritti, con la consueta fotografia di Roberto Cimatti, fa grande cinema di immagini, di paesaggi in cui è possibile sentirsi annientati dal tutto o parte di esso. Continua la sua indagine sulla natura, ne denuncia l’intimo legame con la vita sin dall’apertura, con l’ecografia del figlio mai nato proiettata nel blu del cielo amazzonico, accanto alla luna.

È la natura, nella forma di fiume impetuoso, a trascinare via il fragile equilibrio della favela e la ritrovata serenità di Augusta. È la natura, nell’isolamento finale, a consolarla e accoglierla e a offrirle un nuovo futuro, dal mare.

Jasmine Trinca porta addosso il dolore di Augusta come una maschera di apatia che lentamente si sgretola rivelando un volto nuovo, più forte, più sicuro. Regge il film con poche parole e con la sola presenza.

(Un giorno devi andare, Giorgio Diritti, 2012, drammatico, 110’)

“Le effemeridi” di Stéphanie Hochet

«It’s the end of the world as we know it and i fell fine», cantavano i R.E.M. nel lontano novembre 1987, e potrebbe essere l’adeguato motivo da accompagnare alla lettura dell’ultimo lavoro di Stephanie Hochet, Le effemeridi (La Linea, 2012).

Il governo inglese ha annunciato un evento eccezionale per il 21 marzo. La fine? Apparentemente. E ciascuno la vive alla propria maniera: Il pittore Simon Black a Londra con la sua amante Ecuador; Alice insieme al suo primo amore; Tara, voce narrante, e Patty nella loro fattoria scozzese. Mancano tre mesi e allo scoccare della data fatidica, in quello che sarà l’ultimo passaggio tra l’inverno e la primavera, tutto finirà.

Con uno sguardo fotografico e una empatia sentimentale, Stephanie Hochet ci regala nel suo ottavo romanzo una polifonia di soliloqui e di destini, più che comuni, del tutto umani, che messi insieme vanno a completare un dipinto incompiuto, un quadro che si concentra unicamente sulla società odierna, la nostra, proprio nell’ora della fine, quando l’uomo è più debole.

È uno di quei romanzi fondamentali nella formazione generale di un autore e di un’autrice come la Hochet, un po’ maudite, un po’ indie, molto rock. Non vi è nulla di autobiografico, ma è un romanzo ugualmente sofferto e duramente partorito, dove dove l’uomo è rappresentato nei suoi aspetti più oscuri e negativi, antieroe contrapposto all’idea di uomo come eroe positivo. L’autrice, pertanto, è spinta da un perpetuo scavare nelle zone più buie dello spirito umano, nei suoi incubi ricorrenti poi non così inconsci.

In una parentesi pre-apocalittica farcita da una straripante creatività e da una scrittura pressoché perfetta, la Hochet ci diletta ancora una volta con l’estetica dell’assoluto e una essenziale metafisica della fine. Un Annuncio, sinonimo del nulla, di un traguardo e una catastrofe imminente, che obbliga l’uomo a riconsiderare la propria esistenza, la propria vita, le priorità che ci si è posti. Non vi è alcun limite alla fantasia, non vi è alcun elemento sovrannaturale e mistico. Qui, Dio non esiste.

Con i suoi continui riferimenti filosofici e letterari, Le effemeridi conquista per il suo incalzare, trascinando il lettore verso la conclusione. Temi come l’amore, il sesso, la morte, si aggrovigliano tra le ossessioni, i pregiudizi e le convinzioni dei personaggi. È una commedia, che, nella sua tragicità, non lascia più spazio ad alcun aut aut.

Tra pulsioni distruttrici e tensioni creatrici, tutti i personaggi coltivano una comune nevrosi e una demistificazione della morte di per sé. E allora, tra temi woolfiani e il dissacrante realismo di Bacon o di un urlo alla Munch, c’è chi come il pittore Black, nell’orrore della malattia che devasta i corpi, cerca di dipingere, ancora una volta, un odore.

Se vi è una cosa sicura è la data: 21 marzo. Il “certo” sta nella fine. Oserei dire, un romanzo atrocemente ottimistico. Per sapere in che cosa consiste l’Annuncio, bisogna leggere l’ultimo romanzo di Stephanie Hochet e sperare in qualche cosa, poiché la speranza è sempre l’ultima a morire.

 
(Stéphanie Hochet, Le effemeridi, traduzione di Monica Capuani, La Linea, 2013, pp. 160, euro 14)

“Francamente me ne infischio” di Antonio Latella

Il nuovo progetto drammaturgico di Antonio Latella, Francamente me ne infischio, riprende il discorso teatrico che, da qualche anno, sta affrontando con la sua compagnia Stabile/Mobile. Sono cinque movimenti che riprendono la cultura pop americana attraverso la lente deforme del romanzo Via col vento di Margaret Mitchell. La scrittura è affidata a Federico Bellini e Linda Dalisi, cinque atti frammentari tenuti insieme dallo stesso concetto di partenza : l’American Dream, poi infranto.

Il primo atto è costruito seguendo una carrellata di luoghi comuni americani; è il sogno di Rossella, che vede il futuro della sua America e ne avverte le contraddizioni. Un’America che parte proprio da lei, dal suo corpo, dalla sua terra, dalla sua storia. Ottima idea di Bellini, meno convincente la realizzazione che, a tratti, appare esagerata e troppo enfatica. Latella segue con occhio esperto le linee narrative della Dalisi e di Bellini e non è mai fuori posto, esalta la recitazione delle tre attrici in scena, bravissime e decise, dalla forte presenza scenica.

Atlanta, città protagonista del secondo movimento, è la città dove si raccolgono fondi per le vittime della guerra di secessione. Atlanta è anima molteplice di quell’America guerrafondaia e pacifista, è l’America spensierata ma vestita a lutto, sfacciata, impertinente e indipendente.

In “Black”, terzo movimento, sono le tre Americhe, quella degli Indiani costretti nelle riserve, quella nera degli schiavi e, infine, l’America dei padroni, dei colonizzatori.

In tutti gli atti, Latella cambia sempre registro, rinuncia a ogni meccanismo di narrazione per portare avanti il suo concetto di America, fatta del verde dei dollari e dei prati e del nero del petrolio e degli schiavi.

Il teatro di Latella è fatto di immagini, visionario, post-pop, che non lascia lo spettatore indifferente. Decisamente straniante il suo nuovo percorso, è un teatro estremo e debordante, che rinuncia a ogni principio narrativo per offrire un corpo disarticolato. Il lavoro di drammaturgia, però, non sempre è riuscito, soprattutto nel primo atto, mentre la Dalisi appare certamente meno scontata e più fresca. Si tratta di un teatro che va accettato così com’è, che può peccare di essere talvolta pretenzioso ma, di certo, non appare derivativo.

                                                                                                  

Francamente me ne infischio
regia di Antonio Latella
drammaturgia di Federico Bellini e Antonio Latella
con Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca


Prossime date:
10/04/2013 – Le Fornaci – Terranuova Bracciolini (AR)
13/04/2012 – Teatro Palamostre – Udine
17-21/04/2013 – Teatro i – Milano


Per ulteriori informazioni:
http://www.antoniolatella.com/?q=inscena

Libreria Modusvivendi: un punto d’incontro

«Marcella e Salvo sono in India», mi dice subito Fabrizio Piazza, che si occupa dell’organizzazione degli eventi per la libreria Modusvivendi di Palermo. Ottimo inizio, mi dico, per quella che avrebbe dovuto essere un’intervista ai due librai, Marcella e Salvo Spiteri. Non c’è miglior modo di “non conoscere” due palermitani sui generis come loro: non deve essere stato semplice aprire una libreria indipendente nella Sicilia che legge poco, nella Palermo in cui, a distanza di pochi metri, due grandi catene (delle quali è facile intuire i nomi) si dividono il salotto della città, tra via Cavour e via Ruggero Settimo, a ridosso di quel Teatro Massimo sulla cui architrave grandeggia l’iscrizione: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». E pare che di quest’avvenire ben pochi si siano curati, negli anni dominati da grandi librerie fast-food. Ma questa è storia nota e, a Palermo come a Milano, poco cambia.

Torniamo dunque a Marcella e Salvo, con l’India nel cuore. Provengono dal tessile. «Prima di diventare librai lavoravano nel settore dell’abbigliamento e del tessile», dice Fabrizio Piazza, ed è per questo che vanno spesso in India: importano da lì tutte le stoffe, le sciarpe, gli oggetti d’artigianato che sono in vendita nella libreria. «Aprendo una finestra sull’India possiamo dare respiro ai libri, e vendendo libri possiamo dare respiro all’India». Aiutare un popolo povero, favorire un commercio equo di prodotti d’artigianato di qualità, è utile a un mercato librario sempre più contratto, ma che non intende desistere dal progetto di vendere libri di qualità, di non scendere a compromessi con le grandi catene di distribuzione o con i libri di consumo.
 


 

La storia di Modusvivendi inizia nel 1997, quando Marcella e Salvo realizzano il progetto di aprire una libreria nel cuore di quella che è la loro città, poco lontano dal Teatro Politeama: la scommessa era (ed è anche oggi) quella di lanciare una nuova proposta, di vendere i libri della piccola e media editoria di qualità sottraendosi alle regole imposte dal marketing, ma compiendo scelte indipendenti, libere e non condizionate. «La libreria è stata anche un modo di manifestare ed esprimere quello che è il nostro modus vivendi, la nostra filosofia di vita».

Sedici anni dopo il progetto è lo stesso, ma è innegabile che la crisi economica e la contrazione del mercato librario abbiano portato Modusvivendi a dei cambiamenti. Vendono certo i libri in classifica – sarebbe controproducente non farlo – ma guardano principalmente ai cataloghi delle piccole e medie realtà editoriali (e qui riesco a strappare qualche nome: marcos y marcos, minimum fax, La Nuova Frontiera, Iperborea).
 


 

Ai cambiamenti avvenuti nel corso degli anni hanno cercato di reagire in modo creativo, trasformando la professione di librai in modo propositivo e rivisitando modernamente il concetto di libreria: Marcella, Salvo e i loro collaboratori continuano a leggere i libri che vendono, continuano a consigliare i loro clienti, come si faceva una volta, ma si divertono anche a preparare colazioni e pranzi della domenica in libreria, si occupano di salvare le biblioteche a rischio di chiusura (come la Biblioteca delle Balate, nel quartiere Ballarò), di sensibilizzare gli elettori alle questioni del libro (iniziativa “e-leggiamo” – evento qui), di molte iniziative nazionali o di corsi di scrittura creativa. E di presentare libri, ovviamente. A farla da padrone è :duepunti, giovane casa editrice palermitana che annovera tra i suoi autori da Platone a Nicola Lagioia, da Michel Foucault a Andrea Cortellessa.

«Non si può esser librai solo stando dietro a un bancone, ma si deve uscire fuori, andare in giro e cercare sempre nuove sinergie e nuove collaborazioni, che danno sempre degli ottimi frutti. Le persone hanno una gran voglia di essere coinvolte. Prendiamo ad esempio le colazioni: funzionano perché la gente si alza presto la domenica mattina per venire da noi, e lo fa perché sa bene che un’iniziativa del genere è fatta per unire le persone, per farle incontrare».

Non è che a Palermo la gente non si incontri, è che spesso si incontra senza conoscerne le ragioni profonde.

Prossimi eventi:
giovedì 28 marzo – presentazione di Parigi. Un apprendistato, di Roger Callois, intervengono Roberta Coglitore, Andrea Sciascia e Giorgio Vasta, cercate l’evento qui.

Per ulteriori info:
Modusvivendi Libreria
Via Quintino Sella 79
90139 Palermo
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Ringraziamo Domenico De Lisi per le foto.
 

“Trans Europa Express” di Paolo Rumiz

Trans Europa Express (Feltrinelli, 2012) è un libro di viaggio. Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz decide di affrontare un viaggio assurdo, all’inseguimento delle frontiere, un viaggio trasversale e fuori dagli schemi. L’oriente e l’occidente non importano più: Rumiz a sessant’anni decide di percorrere da nord a sud l’Europa, partendo dal confine russo-norvegese per arrivare fino a Odessa.

L’autore, triestino dunque già abitante di confini, ci accompagna con la traduttrice e fotografa Monika nel vero centro geografico dell’Europa. Il bagaglio è leggero, la velocità del viaggio è dunque alta e gli incontri numerosi, così come le difficoltà; ma è dalla velocità e dalle difficoltà che nasce la narrazione, questa è l’«equazione del viaggio». Dal nord della luce perenne, muto e gelido, i viaggiatori si spostano utilizzando i mezzi più disparati. Lo scrittore annota tutto ciò che vede e lo racconta con minuzia, a partire dagli scorci paesaggistici del grande nord, dal sole che mai tramonta e dalla vegetazione che stenta nella terra delle nobili renne. È difficile restare impassibili di fronte ai racconti di territori sconfinati e meravigliosi, oppure deturpati dagli eventi del Novecento; tutto viene narrato in modo vivido, è come essere sempre presente.

Rumiz, classe 1947, è un uomo d’altri tempi, viaggia da sempre ed è un osservatore attento, i suoi sono viaggi del corpo e dell’anima e ogni cambiamento nel mondo da lui amato è un fatto personale. L’autore ha una tendenza polemica e vagamente populistica verso l’ambiente e i suoi abitanti, la loro preservazione: per quanto il tema sia delicato e condivisibile la sua riproposizione ogni due o tre pagine alla lunga stanca e a un certo punto si ha come l’impressione di leggere dei borbottii vaghi. Ma il mondo del confine è talmente pieno e le persone che Rumiz incontra così diverse e meravigliose da restare rapiti già dal capoverso successivo; fabbriche, città, boschi, izbe, sinagoghe abbandonate, osterie, monasteri come corriere che percorrono strade nel nulla o treni dai biglietti coloratissimi e affollati di contrabbandieri, non vi sono dei non-luoghi nell’oriente di Rumiz.

L’autore chiama ogni regione con il proprio nome inviolato dalla geopolitica che ha diviso e unito senza criterio, senza far caso agli abitanti, alle etnie miste e alle culture nascoste e quasi dimenticate; passando i confini si ritrovano in luoghi dagli echi fantastici quali la Carelia, la Masuria, la Rutenia. In Trans Europa Express Paolo Rumiz ci fa abbandonare qualsiasi comodità turistica, ci fa scappare dalla grande, eguale mediocrità del Globale per cercare i frammenti dell’esplosione degli imperi d’oriente. Soprattutto fa bene ciò che ogni libro di viaggio credo debba fare: fa scoprire, vedere e sentire pur restando distanti, col proprio libro fra le mani; e non è poco.

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express, Feltrinelli 2012, pp. 240, euro 18)

[Focus] Il finale di “Lost”, la controversa chiusura di un mito

22 settembre 2004, l’aereo 815 della Oceanic Airlines in viaggio da Sidney a Los Angeles precipita lasciando quarantotto sopravvissuti in una situazione tragica. Impossibile rintracciare il volo scomparso dai radar. Le prime, confuse immagini si soffermano sul dottor Jack Shepard, visibilmente scosso e ferito, ma ancora abbastanza lucido da precipitarsi sulla spiaggia e venire in aiuto a più anime possibile in un inferno di sabbia, sangue e lamiere.

Triste pagina di cronaca? No, soltanto i primi minuti di Lost, probabilmente la serie televisiva più influente dell’ultimo decennio. Nel nuovo millennio poco aveva smosso il pubblico nel modo in cui ci è riuscito J.J. Abrams, e dopo la sua fine molti show hanno pagato lo scotto del confronto con il colosso in grado fare le fortune della ABC in America e di FOX in Italia. Negli anni della messa in onda, e soprattutto nei 36 mesi successivi all’ultimo episodio, si è cercato inutilmente di trovare un possibile “erede di Lost”, col solo risultato di bruciare a causa di un confronto impari tanti lavori potenzialmente di successo ma mai all’altezza delle aspettative.

Da diversi anni ormai la serie tv hanno invaso l’America, l’Europa e in più in generale tutto il mondo, diventando vero e proprio fenomeno di massa, rendendoci una generazione di tv series addicted: non c’è dubbio che gran parte del merito vada al lavoro di Lindelof, Lieber (gli altri creatori) e Abrams, schiavo probabilmente del suo stesso successo a mai in grado di replicarsi degnamente. Negli ultimi tempi il suo nome è stato legato a show come Fringe – forse il tentativo meglio riuscito, almeno per quanto riguarda le serie – ma soprattutto a due delusioni (una acclarata, una ancora in bilico tra una possibilità di redenzione e un fallimento dietro l’angolo) come Alcatraz e Revolution, aumentando la nostalgia in tutti quegli spettatori, compreso il sottoscritto, rimasti orfani dal 2010 e ancora in cerca di una serie a cui votarsi per dimenticare il passato.

Eppure neanche la vita di Lost è stata tutta rose e fiori: anzi, la sua morte ha creato una controversia mai sopita sulla quale non si è riuscito a trovare punto di accordo. Nelle ultime serie infatti la base pseudo-scientifica e l’eterna lotta tra fede e ragione hanno lasciato spazio a una piega molto più irrazionale che ha fatto storcere il naso a più di qualche appassionato. Ma è sicuramente l’episodio finale la causa scatenante delle maggiori discussioni.

Dopo sei stagioni di misteri, orsi polari sull’isola, botole, esperimenti nascosti, barche ormeggiate a largo, sottomarini, assalti dall’esterno e chi più ne ha più ne metta, la quinta ma soprattutto la sesta stagione hanno preso una via totalmente diversa, mostrandoci ad esempio la famosa sorgente di luce quanto mai fantastica ma meno plausibile. Poi, dopo 114 episodi, l’imprevedibile epilogo: la lunga serie di flash sideways (scorci di una sorta di realtà parallela) si scopre essere il viaggio di tutti i nostri protagonisti verso una sorta di limbo creato proprio da tutte le anime dei sopravvissuti per ritrovarsi insieme visto il fortissimo legame creato sull’isola. E allora quest’ultima e il passato rimangono indietro, resta solo l’ultimo abbraccio, il saluto ai compagni presenti, a chi si è redento e non c’è (come Mr. Eko) e un ultimo sguardo a chi ha preferito non unirsi in attesa del momento giusto, come Benjamin Linus. Poi la luce bianca, il ritorno sull’occhio di Jack che si chiude, Lost è finito.

E tutti quei misteri irrisolti? E tutte quelle domande rimaste senza risposta? Ma poi perché virare in questa maniera per arrivare a una conclusione che aveva poco da spartire con ciò a cui eravamo stati abituati nelle passate stagioni? Tante domande sono state poste dopo l’ultimo episodio, tanti si sono sentiti “traditi” dopo gli anni passati a chiedersi cosa potesse essere l’isola, cosa sarebbe potuto accadere. Ma altrettanti appassionati si sono stretti attorno a tutti i personaggi per l’ultimo saluto, rimasti legati a loro e all’isola stessa, con cui hanno condiviso un’esperienza irripetibile. E allora a chi dare ragione, come giudicare la serie più affascinante del nuovo millennio? Mai come in questo caso il dibattito è d’obbligo, ed è anche il motivo per cui noi di Flanerí abbiamo voluto parlarne: se avete letto questo articolo e avete seguito Lost in questi sei anni come ho fatto io la ferita lasciata probabilmente non si è mai rimarginata, e allora ogni occasione è buona per rievocare i “vecchi” ricordi e discutere insieme su questo controverso finale. Siete tutti invitati a dire la vostra, magari uniti dentro una chiesa in attesa di poter andare avanti tutti insieme.
 

“Intrigo internazionale” di Fabio Cleto

Il Saggiatore recupera la sua storica collana Le Silerchie, nata nel 1958 per volontà di Alberto Mondadori per ospitare romanzi, saggi e altre opere di particolare interesse letterario. Il primo titolo della collana fu Lettera sul matrimonio, di Thomas Mann.

Oggi, Le Silerchie tornano con Intrigo internazionale. Pop, chic, spie degli anni Sessanta (Il Saggiatore, 2013), di Fabio Cleto, celebrazione critica dell’estetica degli swinging sixties e dei fenomeni e momenti che animarono la cultura, anche undergorund, tra Londra e New York.

È il 1964. Partendo da Goldfinger, prima avventura americana dell’agente 007, ambientata tra il Kentucky e la Florida e imperniata su un attentato al cuore d’oro degli Stati Uniti, Fort Knox, e dall’esplosione della Bond-mania oltreoceano, Cleto compie una carrellata sull’immaginario erotico collettivo che si evolve in parallelo alla rivoluzione sessuale del decennio. Il corpo nudo e dorato di Shirley Eaton uccisa da Goldfinger nel film esplode sulle copertine delle riviste patinate, mentre la Pussy Galore di Honor Blackman diventa il simbolo di un nuovo modo di intendere la donna, forte e autonoma all’apparenza, ma intimamente pronta a sottomettersi al volere dell’uomo. Sono l’emblema di una nuova sessualità, libera dal gioco dei ruoli e dal comune senso morale. L’uomo diventa anch’esso oggetto di desiderio sessuale al cinema e sulle riviste per ragazzine. L’agente James Bond, simbolo di un essere uomo elitario e vincente, viene replicato in serie nei film, in forme nuove di imitazione e parodia. È l’esaltazione della spia capace di violare i tabù passando da una donna all’altra e uccidendo i nemici anche a sangue freddo ma che riesce sempre a conquistare con la sua ironia e fascino.

Affianco all’affermazione della spia britannica si delinea una nuova figura, ambigua e eccessiva: miss Camp, che parte dal concetto di camp come eccesso e abuso volontario del kitsch nelle rappresentazioni artistiche e nel quotidiano, dal vestiario all’arredamento. Punto di partenza è la disamina critica del concetto di camp operata da Susan Sontag in un saggio comparso sulla Partisan Review nel 1964. Era la prima volta che un fenomeno popolare riceveva il riconoscimento di una trattazione intellettuale. Il saggio della Sontag darà via a nuove riflessioni in materia e ad uno sviluppo rigoglioso del fenomeno che si combinerà con le avanguardie artistiche della Factory di Andy Warhol e con il mondo omosessuale e la sua letteratura e rappresentazione su cui si concentra la terza parte del saggio.

Corredato da un imponente apparato fotografico che alterna locandine di film, copertine di libri e riviste d’epoca a ritratti dei protagonisti di quegli anni (Warhol, Sean Connery, Lou Reed, Dennis Hopper, Twiggy e molti altri), Intrigo internazionale è una compiuta e interessante analisi dei fenomeni meno evidenti della cultura e del mondo anglosassone degli anni Sessanta che concilia il pop con l’alternativo, il mondo eterosessuale con la cultura gay che si andava delineando nei nuovi spazi dell’arte. Fabio Cleto, docente universitario a Bergamo e grande conoscitore della cultura camp e queer, a cui si era già dedicato in opere precedenti (su tutte, i due volumi di Pop camp pubblicati nel 2008 da marcos y marcos di cui è stato curatore), ha il pregio di unire la compiutezza di un lavoro accademico documentato e rigoroso con una leggerezza espositiva che ben si sposa con la colorata freschezza della materia trattata.

(Fabio Cleto, Intrigo internazionale. Pop, chic, spie degli anni Sessanta, Il Saggiatore, 2013, pp. 160, euro 13)

“Tiziano” alle Scuderie del Quirinale

Fino al 16 giugno, le Scuderie del Quirinale ospitano Tiziano, che si inserisce come ovvia conclusione di una serie di mostre allestite in quegli stessi spazi e dedicate ai più grandi artisti veneti, come Antonello da Messina (che veneto non era di certo, ma che grazie agli incontri e alle influenze che subì nella città lagunare, diventò il pittore rivoluzionario che è stato), Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto e Tintoretto. Difficile non venire immediatamente coinvolti, già dalla prima sala, dalla grandezza del maestro e dalle sue opere, fondamentali per le evoluzioni artistiche dei pittori che gli sono succeduti. Le scelte di ordinamento sono le stesse utilizzate per la mostra su Vermeer o altri: colpire e coinvolgere il visitatore già dall’ingresso del percorso. Questo primo spazio – occupato dal dipinto “La stradina” del maestro olandese nella precedente esposizione – ospita il “Martirio di San Lorenzo”, eseguito per la chiesa dei Gesuiti di Venezia. Una pala di enormi dimensioni e di forte impatto, che emoziona e rapisce lo sguardo, senza che ancora si sia varcata la soglia. Tuttavia, il comportamento del visitatore in questa prima sala è ben diverso da quello che ha avuto di fronte all’opera di Vermeer: se "La stradina" attirava naturalmente a sé nella volontà di ammirarne i dettagli fotografici e la resa della luminosità, davanti al "Martirio di San Lorenzo" si rimane immobili, ammutoliti e impressionati, e occorre tempo per avvicinarsi a cogliere gli altri dettagli del dipinto.

 

 

Databile intorno agli anni ’50 del XVI secolo, appartiene a un Tiziano molto maturo, più o meno settantenne, che nella rappresentazione del martirio del santo porta i risultati della pittura tonale a sublimi estremi. «La mia notte non ha tenebre: tutte le cose risplendono di luce», dice San Lorenzo indicando ai soldati la luce mistica che sta squarciando il cielo scuro, e la pennellata del veneto si frange in mille vibrazioni accentuate da quella luminosità divina che proviene dall’alto.

Dopo questo iniziale coup de théâtre, il percorso fa un balzo indietro, tornando alle prime opere di Tiziano, dagli esordi a Venezia tra soggetti religiosi e profani, fino ad arrivare alle commissioni per Carlo V. Tutte le opere presenti in mostra provengono da grandi musei internazionali o dalle loro sedi originarie e credo che questa visione di insieme di alcuni tra i capolavori del pittore sia molto utile e ben riuscita. Purtroppo l’illuminazione a led, buona per cogliere i più minimi dettagli, tradisce un’ipervisione sbagliata: la profondità e l’iridescenza dei colori usati da Tiziano non vengono fuori e tutto si appiattiscono in una massa uniforme. Il manto della Vergine nella “Deposizione nel sepolcro”, proveniente dal Museo del Prado di Madrid, è tra i particolari che più ha pagato questo tipo illuminazione.

 

 

Al piano superiore, il percorso offre alcuni tra i ritratti più famosi, come quello di Paolo III, di Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino, e di Carlo V, che diventeranno modelli per il modo di rappresentare l’effigiato, facendo attenzione non solo alla somiglianza fisica, ma a far venire fuori la psicologia del personaggio e il suo ruolo sociale. Insieme a questa tipologia di dipinti, sono esposti quadri dai soggetti mitologici e allegorici. Il più enigmatico è sicuramente la “Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza”, dalla National Gallery di Londra, che raffigura tre teste d’uomo, a rappresentare le tre età –  giovinezza, età adulta e vecchiaia –  che sovrastano tre teste di animali. Questa visione aristotelica della vita umana divisa in tre fasi era un tema molto usato nella pittura del XVI secolo, declinato in una grande varietà di invenzioni iconografiche.

 

 

La critica d’arte si è molto interrogata davanti a questo dipinto, cercando di svelarne il significato e il rapporto tra il tema della prudenza e quello delle età dell’uomo. L’opera è una sorta di ammonimento, ricorda di usare prudenza nell’agire, rappresentando con un vecchio la capacità di memoria, con un uomo adulto l’intelligenza e con un giovane la possibilità di fare previsioni. Gli animali, identificabili in un lupo con la testa volta all’indietro, in un leone ripreso di fronte e in un cane che guarda in avanti, ben si accordano nei loro gesti con le teste umane che portano sopra di loro. Anche la resa pittorica ha un significato simbolico dal momento che la luce che illumina i volti arriva frontalmente su quello giovane, per poi disperdersi su quello più anziano, lasciandolo quasi in ombra.

Il percorso si conclude con la “Punizione di Marsia”, una tra le ultime opere che dipinse Tiziano, proveniente dal Museo Nazionale di Kroměříž, Repubblica Ceca, che ci fa ritornare stilisticamente al dipinto della prima sala, con le sue pennellate ricche, violente ed estremamente espressive. Si dice che il personaggio seduto e pensieroso sulla destra, Mida, sia un autoritratto dello stesso Tiziano: un uomo anziano che assiste alla morte ben consapevole di quello che sarà il suo destino al quale non potrà sottrarsi.

 

 

Tiziano
Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma
5 marzo – 16 giugno 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.scuderiequirinale.it

“L’hotel azzurro” di Stephen Crane

L’hotel azzurro (Mattioli 1885, 2012) è considerato uno dei migliori racconti di Stephen Crane, scrittore e giornalista nato a Newark nel 1871 e morto a Badenweiler nel 1900, e la cui poetica si colloca nel solco del realismo letterario americano.

Sullo sfondo di un Nebraska i cui colori, forme e atmosfere si caricano di una profondità mitopoietica, il narratore individua fin dall’incipit il fulcro della propria storia in un colore, in una certa tonalità che, attraverso una similitudine ornitologica, lega insieme natura e civiltà, in una terra un tempo selvaggia e che ormai – al crepuscolo dell’Ottocento – pare essere addomesticata, normalizzata, dominata: «Il Palace Hotel di Fort Romper era intonacato d’azzurro chiaro, un colore che si trova anche sulle zampe d’una specie di airone, tale da costringere quest’uccello a proclamare la sua presenza contro qualsiasi genere di sfondo. Il Palace, allo stesso modo, sembrava gridare e ululare, tanto da far sembrare l’abbagliante panorama invernale del Nebraska niente più d’una landa silenziosa, paludosa e grigia».

Fra le pareti in legno di questo albergo che grida e ulula a un paio di centinaia di metri dalla stazione ferroviaria che ne rappresenta il principale fornitore di clienti – avventurieri, viaggiatori di passaggio, forestieri –, Crane fa dialogare tra loro i temi a lui più cari: la miseria e l’isolamento, l’emarginazione e l’intolleranza, il gioco d’azzardo; e lo fa attraverso una mano di carte finita male, giocata tra quattro sconosciuti appartenenti ognuno a un gruppo etnico, a una classe sociale (e forse a un’epoca) diversi: «uno svedese vacillante, con l’occhio svelto e una valigia da quattro soldi enorme e lucida», «un cowboy alto e abbronzato, in viaggio verso una fattoria al confine con il Dakota», «un ometto silenzioso che veniva dall’Est» e Johnnie, il figlio del proprietario dell’albergo.

Se il colpo di scena finale – risentendo, in maniera inevitabile, delle evoluzioni e delle sofisticazioni narratologiche maturate nel corso di più di un secolo di storie letterarie e, soprattutto, cinematografiche – risulta datato e per niente sorprendente, a rendere interessante il racconto di Crane è un elemento sociologico: raccontando l’incontro-scontro fra quattro personaggi (e culture) così diversi fra loro, in un Nebraska che nella sua apparentemente pacifica desolazione è il simbolo di una violenta lotta di conquista del West ormai conclusasi e sopita, L’hotel azzurro da un lato mette a fuoco la fine di un’epoca (preparando il terreno, con quasi sessant’anni di anticipo, al lirico ed elegiaco canto funebre del West che caratterizza tanti dei capolavori di Peckinpah), mentre dall’altro racconta la nascita di una nazione – gli Stati Uniti d’America – come il risultato di un brutale scontro fra culture, tradizioni e popoli diversi.

Con Gangs of New York, Martin Scorsese ci ha mostrato come la città più influente e immaginifica del pianeta sia nata nel sangue e dalla lotta fra la comunità degli irlandesi e quella dei rivali “nativi”; più di un secolo prima, Crane anticipava il regista americano raccontando la stessa storia, ma in modo più crepuscolare e intimista, attraverso una metaforica partita a carte giocata in uno sperduto albergo tinteggiato d’azzurro, attraverso un sospetto, attraverso un assassinio, mentre il West ululava e gridava la sua promessa ormai lontana e svanita, perché già nel 1898 – come dice l’uomo dell’Est – i tempi erano cambiati:
 

«Oh, non saprei, forse ha letto qualche romanzetto da quattro soldi, probabilmente s’immagina di trovarsi in mezzo a… Sapete, sparatorie, pugnalate, cose così».
«Come sarebbe?», fece il cowboy, scandalizzato. «Mica siamo nel Wyoming o in qualche posto del genere. Questo è il Nebraska».
«Giusto», disse Johnnie. «Aspetti di arrivare sul serio nel West».
L’uomo dell’Est ridacchiò. «Non è più come una volta, nemmeno lì. Ormai i tempi sono cambiati».


(Stephen Crane, L’hotel azzurro, trad. di Francesco Franconeri, Mattioli 1885, 2012, pp. 72, euro 9,90)

“Il cielo è dei potenti” di Alessandra Fiori

Non è un buon momento per parlare di politica. Forse perché da troppo parla da sola. Gorgogliando lamenti e rivendendoli al triplo del prezzo di costo. Spacciandoli per sensi compiuti. E soprattutto, perché parla senza più nessuno davanti alla sua bocca. Gli altri sono intorno, ad additarla ridacchiando, a stendere distanze. A ricamare diffidenze. Gli altri sono altrove. Ma la storia della politica non è quella di un fantasma. È la nostra stessa pelle, che ogni giorno cerca di grattarsi. È la storia di un Paese e dei suoi inganni, quella confluita nel romanzo di Alessandra Fiori Il cielo è dei potenti (E/O, 2013).

Il nome per tutti è quello di Claudio Bucci, onorevole esponente della Prima Repubblica, partito dal basso, partito da poco. Dalle campagne di Fiano e dal fortore di caciotte. Da un padre avvocato di cause microscopiche e mai retribuite. Da una madre di legno, con le mani di spigoli che bucano ogni possibile carezza. E qualcosa d’indomabile cresce assieme a lui. Una fame viscerale, fermentata nelle code sulla Via del Mare, nelle partite di calcetto davanti alla parrocchia. Un istinto che lo porta lontano dall’università e addosso ai Comitati Civici. Claudio ha la sua vocazione, una spinta fideistica che lo proietta in alto senza cercare Dio. Forse per sentirsi tale, per guardare il mondo come si fa da un satellite. E la politica ha la forma di una fiaba, un’avventura circense e pirotecnica in cui conquistare applausi e spazi.

Si accosta al Partito maiuscolo, quel Centro magnetico in cui converge mezza Italia. Prima comincia dalle sezioni minori, perché il suo moto periferico vuole virare lontano da se stesso. Il viaggio è lungo, il viaggio è tortuoso, passa per Milano prima di tornare a Roma, dove pulsano i muscoli di chi comanda. E Claudio scopre in fretta le tappe obbligate, gli ingranaggi, i linguaggi, i riti più o meno conclamati di quell’habitat: imbussolamenti, tessere, correnti. Un ciclopico gioco dell’oca in cui aspettare il proprio turno, per rilanciare il dado e ingoiare più caselle. Claudio scalpita, freme perché non si accontenta, perché il primo sorso lo asseta più del digiuno. Una prima elezione, una prima vittoria, sono l’antipasto di un pranzo sempre troppo magro. Il suo nome deve palpitare, rimbalzare ovunque, colonizzare giornali e tv.

Certo, ci vuole anche l’amore per condire la vita. E quello si affaccia prestissimo, frusciando nel cotone di un vestito estivo, gocciando in un gelato da passeggio. Claudio s’innamora di Giuliana, che sogna di fare la cantante e che poi si fa bastare di essere sua moglie, di alimentare la sua brama espansionista. Lo ama e lo sostiene, gli tocca la fronte mentre la febbre sale. Ma anche lei finisce per scottarsi la mano e perde di vista la temperatura di suo marito. Che s’impenna, oltre i numeri e il corpo. La corsa all’oro continua, sono gli anni urlanti di piombo, quelli in cui il comunismo mostra i denti vampireschi e innesca lo spasmo del controllo. Un sistema che protegga la democrazia. E ancor di più se stesso. Con strati di appoggi, favori di scambio, meccanismi occulti che sorreggano la quiete.

Il suo grande progetto si tramuta in un gorgo, un girone dantesco in cui ciò che conta è contare di più. Un seggio in Parlamento, un’etichetta di sottosegretario, sono quelli gli obiettivi che gli riempiono il sangue, che legittimano l’essenza della sua circolazione. Anche a costo di un attentato, del freddo alle gambe sopra l’asfalto, di qualche aggancio scomodo, di una loggia inquietante, di una famiglia persa per strada. Perché si può tradire tutto, tranne l’avidità. Il potere arriva, assieme ai soldi, ai sorrisi, alle voci che leccano e a quelle che implorano. Alle amanti che sporcano la fedeltà. Ma non è mai sufficiente. E del bene comune teoricamente alla base della vita politica non resta che la moneta di qualche discorso da spendere bene.

Il romanzo è la commedia del comando raccontata dall’interno, la parabola strozzante di un uomo seduto nella stanza dei bottoni che rappresenta se stesso e un’intera classe di governanti e governati, costretti a riflettersi gli uni negli altri. E nel Paese che hanno eretto e distrutto nel valzer di leggi e violazioni infinite. C’è più da riconoscersi che da stupirsi, c’è il ritratto asciutto e stringato di un popolo scaltro e arraffone rifugiato dentro un nome soltanto, immolato sul foglio a pagare per tutti. Ironico, tagliente, cinico e leggero al tempo stesso, il libro inchioda a una domanda ineludibile: la Storia è destinata a ripetersi o forse i potenti che gonfiano il cielo sono anche quelli capaci di lottare perché non piova soltanto su alcuni? La scommessa, come la letteratura, resta sempre aperta.

(Alessandra Fiori, Il cielo è dei potenti, E/O, 2013, pp. 296 , euro 18)

“Dio giocava a pallone” di Giorgio Ghiotti

Volenti o nolenti, la prima cosa che ci colpisce di Dio giocava a pallone (Nottetempo, 2012) è l’età del suo autore, Giorgio Ghiotti, classe 1994. Si tratta di un libro breve ma denso, una raccolta di sei racconti che mettono a nudo la maturità dell’autore e la sua capacità di mettersi in gioco con un’opera prima da non sottovalutare.

Una sperimentazione linguistica che va dall’uso della punteggiatura, a volte assente, come a dare un ritmo particolare alla lettura, all’uso di un linguaggio particolarmente alto, che talvolta rischia però di far perdere quello che è il punto della narrazione. Ma sperimentare, nel campo della scrittura, significa anche creare e descrivere vite che non sono le nostre, immedesimarci in narratori che non potrebbero essere più distanti da noi: in questo Ghiotti riesce benissimo. In un racconto in particolare, “Cinque”, il narratore è una donna di mezza età, madre di un bambino di nove che richiede molto del suo tempo per via di problemi di salute, ed è proprio in queste pagine che possiamo vedere l’autore dare il massimo di sé, offrendoci una storia ben raccontata, toccante, scritta con un linguaggio molto semplice, al contempo mai banale, in cui molti possono riconoscersi, proprio per il suo carattere così autentico. Un giusto equilibrio, quindi, tra inventiva e consapevolezza di quali siano i limiti da rispettare per non vanificare la realtà narrativa.

Tra i temi principali che ci si presentano sfogliando Dio giocava a pallone spiccano l’adolescenza e la sessualità, che si intrecciano inevitabilmente: la prima porta, infatti, alla scoperta della seconda, ad affrontare interrogativi e dubbi, a prendere atto delle infatuazioni verso coetanei dell’altro sesso o dello stesso sesso. Eterosessualità e omosessualità, narrate con assoluta naturalezza, sono gioia e dolore dei protagonisti e sembra che, nel narrare l’amore, in qualsiasi direzione esso vada, Ghiotti abbia riversato nelle sue parole molto di sé e molto del suo passato, inevitabilmente recente e forse proprio per questo così pieno di vita. «Belli da impazzire, ognuno con la sua storia, il suo giro da fare un po’ solo, un po’ insieme, senza mai scorciatoie»: viene da pensare che il libro sia intriso della vita personale dell’autore, che ha molto in comune con tutti noi e non solo con quelli della sua generazione.

L’unica critica che gli si può muovere, volendo spaccare il capello in quattro, è che la sua padronanza della lingua e la sua capacità di descrivere emozioni, sensazioni e sentimenti a volte vengono in parte lasciate nell’ombra dal suo notevole sperimentare: già dopo le prime pagine Ghiotti non ha più bisogno di, per così dire, dimostrare le proprie abilità linguistiche con periodi complessi – ma, si noti bene, decisamente pregevoli. Abbassando solo di poco quelle che si potrebbero definire le “pretese” dell’autore, si avrebbe probabilmente una narrazione ancora più d’impatto. In breve, comunque, complimenti.

(Giorgio Ghiotti, Dio giocava a pallone, Nottetempo, 2012, pp. 166, euro 12,50)

“The Next Day” di David Bowie

Un giorno durato dieci anni. Dieci anni di silenzio totale. Un silenzio così spesso e impenetrabile, da far perdere le speranze. Poi la sorpresa. Il regalo di compleanno dell’artista ai fan, al mondo della musica. E la storia ricomincia con un capitolo nuovo.

L’otto gennaio 2013 David Robert Jones, conosciuto da tutti come David Bowie, rilascia “Where Are We Now”, primo singolo (con annesso bellissimo video) del nuovo – inaspettato – album: The Next Day. Un vero e proprio shock: ascoltare dopo anni la voce del Duca Bianco che canta con tono spezzato e struggente: «Dove ci troviamo ora?», mentre nelle immagini del videoclip la Berlino tanto amata dall’autore passa in dissolvenza.

Il mondo della musica ha reagito di conseguenza, con fermento ed entusiasmo. Per non parlare degli affezionati che non aspettavano notizia più magnifica. Dopo il primo anticipo sonoro – sufficiente a scaldare gli animi – è arrivato anche l’anticipo visivo di The Next Day: la copertina del disco. Un apologia di reato – ovviamente musicale – in cui Bowie si permette di citare uno dei suoi lavori più immensi e celebri, capace di fare la storia della musica come pochissimi altri: Heros. Lo scatto è il medesimo, solo con il volto occultato dal riquadro bianco con impresso all’interno il titolo del nuovo disco. Una scelta forte, per molti quasi blasfema. L’autore della cover Jonathan Barnbrook ha dichiarato che la scelta è dovuta alla volontà di Bowie di sovvertire il passato, scardinare le certezze: quale modo migliore per farlo, se non usare l’immagine del disco più venerato? Intanto l’attesa cresce e il 28 febbraio esce il secondo singolo: “The Stars (Are Out Tonight)”.Pezzo più rock, con video altrettanto magnifico, e una partitura d’archi davvero notevole. Poi l’uscita del disco, e finalmente, il next day diventa il giorno in cui è possibile ascoltare l’album.

La preventiva freddezza, lo scetticismo e il sospetto cadono immediatamente. The Next Day non è un album nato da input commerciali o di vana gloria. La registrazione, lunga due anni, è avvenuta in segreto, supervisionata dal fedele Tony Visconti, che tra una take e l’altra, se ne andava in giro per New York, tentato di fermare tutte le persone con la maglietta di Bowie per dirgli che lui nelle cuffie aveva il suo disco di inediti. Aneddoti a parte, e considerando che ormai Ziggy Stardust ha quasi settant’anni, è bello percepire la vitalità del lavoro. A differenza delle opere della maturità di un Dylan o un Cohen, zeppe di nichilismo, pessimismo e morte, l’ultimo lavoro del Duca Bianco colpisce in primis per l’impatto vivo ed energetico.

Il trittico iniziale è una bomba: la title-track – dove l’artista afferma euforico il ritorno –, “Dirty Boys” e il già citato secondo singolo, sono il miglior biglietto di presentazione da mostrare alla critiche e ai fan che erano rimasti palesemente delusi – giustamente – degli ultimi lavori Heaten e Reality. Bowie non rinuncia al rock e lo fa senza mostrare il minimo segno di flessione vocale o compositiva. Gli arrangiamenti e i musicisti scelti per le canzoni – accuratamente selezionati tra i tanti nomi illustri con cui ha collaborato negli anni – danno a ogni traccia un senso autonomo e compiuto, dove niente è superfluo o stonato. Quattordici canzoni bellissime, dove spiccano i menzionati singoli, ma anche “Valentine’s Day” e l’onirico finale di “Heat”.

È giusto dirlo: non siamo di fronte all’epico. Scomodare capolavori totali come la Triologia Berlinese o Honky Dory, è fuori luogo. The Next Day dove essere visto in primis come un grande album, una testimonianza del valore immenso dell’autore, arrivato a questo punto della carriera con ancora molte cose belle da dire e da farci ascoltare. Un disco che chiude molti conti in sospeso e rende giustizia al Mito. Poi gira voce che questo sia l’inizio di un’altra triologia. Siamo pronti ad aspettare un altro Next Day.

(David Bowie, The Next Day, Columbia Records ISO Records, 2013)