“Balkan Burger” di Stefano Massini

Disponiamo la farina sul tavolo a formare un vulcano. Al centro di questo andiamo a inserire gli ingredienti da impastare. Al centro c’è l’inferno. Ma l’inferno del vulcano centrale è definito dalle pareti di farina bianca. Sono i contorni a definire gli ambiti. Si può descrivere una guerra con il negativo della sua fotografia. Così come un vulcano non sarebbe che uno spazio vuoto, se non fosse per le pareti di pietra che lo rinchiudono in sé. Se quindi se ne ha abbastanza delle guerre descritte per la loro perdita di senso, forse è il caso di definire le guerre per il senso che intorno ancora scorre tumultuoso. Forse in quel senso ritroveremo anche una certa allegria. È l’allegria della farina bianca, che pian piano definisce l’impasto centrale. È una ricetta delle più antiche, da cui il teatro può trarre molto.

Stefano Massini affida a Luisa Cattaneo il compito di creare tali legami di senso. Mimica e gestualità sono fatte per scolpire queste pareti di ironia talora spensierata, talaltra amara. L’amarezza non è mai indagata, se non come negativo di una vita che scorre tra i monti della Bosnia-Erzegovina e che presto dovrà cimentarsi con l’ineluttabilità delle guerre di religione. Razna (Luisa Cattaneo) dovrà rapidamente cavalcare la topografia della Bosnia per rimanere in vita. Eppure lo farà come un torrente che scende a valle, con svolte improvvise, che tuttavia hanno il pregio della naturalezza, come se ogni ostacolo non fosse altro che una demarcazione dello slalom di movimenti fluidi che avvolgono lo spettatore. Anche le religioni, presunto scrigno di verità umane, sono per Razna solo un vestito da dismettere al cambio di stagione, una piccola parte di una filastrocca di un alfabeto di feste religiose che travalicano nomi e insegne. Razna deve danzare su queste note, danzare intorno alla guerra, sfiorando quel vulcanico centro, senza mai toccarlo, per definirlo.

Le musiche di Enrico Fink non sono dunque solo il tappeto rosso degli eccidi balcanici, ma il motivo che permette a Razna di oscillare attorno agli eventi accarezzando con dolcezza la loro brutalità. Perché al centro c’è il macello balcanico, il Balkan Burger del titolo. In mezzo ci sono ponti di barche in fiamme, teste mozzate e sangue rutilante. E anche quando uno schizzo di quel sangue colpirà il volto di Razna, la ragazza saprà macellarlo a suo modo e immetterlo in un prodotto di macabra quanto ironicamente spensierata fattura.

Il testo di Stefano Massini ha dunque il pregio di contenere un personaggio che afferma con forza il proprio punto di vista, sino a portare allo spettatore una visione che solo di riflesso mostra le cupe ombre degli orrori umani, forse troppo accecanti per essere osservate direttamente.

Balkan Burger
di Stefano Massini
con Luisa Cattaneo
musiche di Enrico Fink

Prossime date:
Arezzo – Teatro Verdi, 15 marzo
Modena – Teatro Tempio, 16 marzo

“La cosmonauta” di Jo Lendle

Comincia il conto alla rovescia. Comincia dall’alto, dai numeri doppi, per arrivare ancora più su.

Per azzerare lo scarto e mordere il vuoto. Basta un attimo a scrivere il salto, buttando il piede al di là della linea.  Ma dietro quell’attimo si stagliano altri conteggi, sfilate, palazzi di cifre arrampicate oltre il cielo.

C’è sempre un intero paesaggio di cose che ci porta a scegliere, a partire. A condensare tutto quanto nello spasmo di un niente. A separarci da un pezzo di vita come se lo partorissimo noi stessi. Ed è proprio uno stacco da terra il senso del primo romanzo di Jo Lendle, La cosmonauta (Keller, 2013).

Il nucleo racconta di Hella, giovane donna che si ritrova presto madre e che ancora più prematuramente rimane senza il suo frutto. Perde Tobi una sera tra le altre, mentre è immersa nella vasca a stemperare l’influenza. Il telefono strepita e in quel momento lei gli ha già detto addio. Anche se non lo sa.

Tobi partecipa a una manifestazione, ma quella protesta gli costerà troppo. Gli costerà il viaggio più ambito, quello verso la luna. Non c’era nulla che anelasse di più, tanto da riempirle la stanza di lampadine disposte come la volta celeste. E allora sarà a Hella a muoversi per lui. Partecipando alla prima spedizione aperta al pubblico. Non sarà facile, non può esserlo, anche se una porzione di sé è sempre stata sospesa, si è sempre sentita galleggiare sugli sguardi della gente, come quando era ragazzina e le sembrava che il suo spirito «levitasse sotto la soffitta». Il tragitto nasce nel cuore di Tobi, nel vaso stesso dei suoi brividi, e non appena lui muore s’insinua come un seme nel petto di sua madre, con la consapevolezza che il loro sangue e il loro amore fossero i degni eredi di quel volo.

Hella si mette in macchina in direzione Asia Centrale, attraversa vari luoghi, steppe larghe come silenzi dilatati, per raggiungere un non-luogo, un’anticamera del passo più grande.

E quell’odissea prima di essere spaziale è enormemente terrestre. È metafora di una perdita e di un risveglio. Hella si sposta dentro se stessa, nelle geografie deserte della sua malinconia, in quella solitudine che è un crepaccio sempre aperto, un grido ammutolito.

Compie azioni semplici, costellazioni di piccoli gesti e minimi incontri, percorre a ritroso il suo sentiero e poi sbarca alla base spaziale. E lì ad aspettarla c’è qualcosa di più. C’è un viso diverso, un altro nome da imparare. C’è l’esatto punto di snodo tra il suo passato e i giorni nuovi. C’è quello che Hella non può prevedere, più impegnativo, forse, di una missione interstellare. C’è lo sforzo che ogni incontro, che ogni nuova avventura chiede senza sconti a chiunque voglia gettarsi.

Desiderare ha un peso. Il peso dei nostri corpi e di quelli in cui impattiamo, che siano pianeti oppure respiri. Il peso di un progetto, che qui permea tutto il romanzo fino a formare una scia.

Trama onirica, molto più poetica della sua stessa scrittura, garbata, a tratti antica, che a volte si addentra in descrizioni troppo lunghe. Non intaccando comunque la magia di un dono.

Avvicinandoci a un punto senza atmosfera né gravità e dimostrandoci come qualunque posto conservi i nostri sogni possa chiamarsi “casa”.

(Jo Lendle, La cosmonauta, trad. di Franco Filice, Keller, 2013, pp. 184, euro)

“L’uomo dei sogni” di Jean-Christophe Rufin

L’uomo dei sogni (edizioni e/o, 2012) di Jean-Christophe Rufin (tra le altre cose, il fondatore di Medici senza frontiere) è senz’altro un bel romanzo, certamente una storia appassionante e ben scritta, di sicuro anche un libro interessante, ma senza ombra di dubbio e principalmente esso rappresenta il tentativo di “disseppellire” il ricordo, nonché gli insegnamenti, di un personaggio realmente esistito, la cui memoria si perde tra le pieghe a volte impietose della Storia.

Siamo a cavallo tra il Trecento e il Quattrocento, in Francia, terra devastata dalla lunga e sanguinosa Guerra dei cent’anni che vide contrapporsi, a partire dal 1337 e per ben centosedici anni, il Regno di Francia e quello d’Inghilterra: al termine del conflitto il volto dell’Europa non fu più lo stesso. In questo spazio desolante e cupo si muove, inevitabilmente circondato nella sua Bourges dal solco di miseria, massacri e carestie che il Medioevo portava con sé, il protagonista del libro: un uomo straordinario che inseguendo un colorato e caldo sogno di libertà cambiò per sempre il volto di un’epoca.

Da figlio di un conciatore di pelli, Jaques Cœur arrivò a essere nominato argentiere di re Carlo VII e nobile, diplomatico di corte e consigliere fidato della corona, possidente e ricco a tal punto da prestare egli stesso denaro al suo sovrano. Tra i primi a intuire i veri vantaggi del rapporto con il Medio Oriente, Cœur coltivò sempre il grande sogno di allargare i confini del ristretto e opprimente, piccolo e asfittico mondo nel quale l’uomo medievale era costretto, quale bestia in gabbia.

La sua fortuna cessò con la morte improvvisa di Agnès Sorel, altro intrigante personaggio di questa vicenda, la quale, amante ufficiale del re e donna dalla viva intelligenza, aveva favorito fino ad allora il suo amico Jacques. Abbandonato dal re all’invidia e all’avidità dei cortigiani, fu accusato di crimini immaginari, arrestato nel 1451, condannato alla reclusione, i suoi beni confiscati. Nel 1454 evase dalla prigione riparando a Roma, dove papa Callisto III gli affidò la guida di una parte della flotta da lui armata contro i turchi. Jacques Cœur si ammalò durante la campagna, morendo sull’isola greca di Chio nel 1456.

Questa è la storia quale ci è stata tramandata, veritiera non sappiamo fino a che punto (non si conosce per esempio la reale natura del rapporto tra il nostro personaggio e la bella Agnès). Altra cosa invece è la lettura e l’interpretazione che di questa grande vita ci offre Rufin: dentro di sé egli sente che tutto ciò che riguardò quell’uomo nacque da un incontro fatale, quello con i suoi sogni più profondi.

«L’uomo sciolse il laccio del sacco. L’animale che ne balzò fuori aveva la taglia di un piccolo mastino […] mi fissava con occhi bianchi come porcellana orlati da una riga netta di peli neri. Mai avevo visto un colore del genere […] L’episodio rimase isolato. Non avevo bisogno che si ripetesse per esserne definitivamente marchiato. Avevo intravisto un altro mondo, un mondo terreno e vivo, non quell’aldilà della morte che ci promettevano i Vangeli. Aveva un colore, quello del Sole. E un nome: l’Arabia […] Pioggia, freddo, oscurità e guerra non erano il mondo intero. Al di là delle terre del re esistevano altri spazi di cui non sapevo niente ma che potevo immaginare. Quindi il sogno non era solo la porta della malinconia, una semplice assenza al mondo, ma molto di più: era la promessa di un’altra realtà».

Si tratta di una ricostruzione convincente e avvincente, il cui unico neo, se ci è dato dirlo, resta la scelta del cosiddetto punto di vista del narratore, quella prima persona che sì ci trasporta, secondo il rifacimento di Rufin, dentro il diario scritto da Cœur prima di soccombere al suo destino, ma che, al contempo, appesantisce inevitabilmente la narrazione, rendendola a volte schiava dei pensieri e retro-pensieri del protagonista. Il testo rimane, nonostante ciò, qualcosa di più di una rievocazione suggestiva: esso si configura come l’incontro con un uomo vissuto davvero, anche se non nella nostra epoca, le cui vicissitudini parlano a ciascuno di noi, come, del resto, anche il suo celebre motto: «Ai cuori valenti nulla è impossibile».

In ultimo ci preme riportare, quale fondamentale chiave di interpretazione di questo libro, il proposito ultimo di Rufin: «La cosa importante, il mio unico desiderio, è che questo mausoleo di parole non racchiuda un eroe morto, ma liberi un uomo vivo».


(Jean-Christophe Rufin, L’uomo dei sogni, trad. di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni e/o, 2012, pp. 416, euro 18,50)

“Narcopolis” di Jeet Thayil

Un unico lungo periodo compone il prologo del primo romanzo dello scrittore indiano Jeet Thayil, già conosciuto per i suoi versi poetici: Narcopolis (Neri Pozza, 2012). Bastano poche pagine per entrare in una dimensione ovattata e desiderare un tiro di pipa, un altro e un altro ancora. A ripetizione. Per perdersi, sentirsi, ritrovarsi e abbandonarsi di nuovo.

«Forse il peggior nemico è IO, forse O è IO, e IO è inattendibile, la mia memoria è come carta assorbente, la mia non-memoria piena di buchi, porosa, friabile, che ricorda dettagli di trent’anni fa e nulla di stamattina, e se memoria = dolore = essere umano, io non sono umano, sono una pipa d’O che racconta questa storia nel corso di una sola notte, e l’unica cosa che faccio, che fa l’altro Io, è scrivere la storia direttamente dal bocchino della pipa».
L’Oppio sembrerebbe essere l’Io narrante incontrastato di questo romanzo, il solo che conosca, meglio di chiunque altro, nel profondo, i protagonisti di questa storia ambientata nella Bombay degli anni Ottanta. La fumeria di Rashid è la più rinomata di Shuklaji Street dove l’oppio è squisitamente servito da Dimple nelle antiche pipe cinesi, lasciatele in eredità da Mr Lee. Il personaggio di Dimple riporta alla mente il mito di Aristofane, o mito dell’androgino, narrato nel Simposio di Platone. Dimple, castrata in tenera età, diviene un’hijra bellissima, sensuale, completa, capace di conversare con la delicatezza femminile e fottere come un uomo. Il suo essere «sia donna che uomo» le ha offerto la possibilità riconoscersi in entrambi. Abbandonando così la certezza di essere e di definirsi una volta per tutte, Dimple impara quanto l’immagine altro non è che una finzione e che la verità, come concetto assoluto, non esiste.

In questa dimensione, come Dimple stessa afferma: «L’oblio era un dono, un talento da coltivare». Dal bordello, dove era cresciuta dall’età di otto anni, alla fumeria. Questo il suo salto di qualità, accompagnato anche da un nome nuovo, Zinat, con il quale Rashid aveva incominciato a chiamarla, da quando si era trasferita nella stanza fra il khana e l’appartamento dove viveva con la moglie e il figlio.
«Cambiava costume a seconda di chi voleva essere, Dimple o Zinat, hindu o musulmana. Ciascun nome aveva ornamenti specifici».
È interessante soffermarsi su come il personaggio di Dimple incarni una pluralità di essere sempre in divenire, senza mai rappresentare una stonatura. Come un dipinto dai tratti leggeri, Dimple mantiene la sua delicatezza anche quando diviene oggetto della passione sfrenata del pittore Newton Xavier, di ritorno a Bombay per la presentazione della sua nuova mostra d’arte esposta alla Jehangir Art Gallery. Attraverso l’intervento di alcuni partecipanti alla mostra, Jeet Thayil trova il pretesto narrativo per affrontare il tema degli artisti che lasciano la propria patria per andare altrove a cercare fama e fortuna. Eppure da Bombay si fugge e a Bombay si fa ritorno per nutrirsi di quelle parti di sé che in altri luoghi non avrebbero luce.

«Bombay, la città che ha cancellato la sua storia cambiando nome e alterando chirurgicamente il proprio volto, è l’eroe o l’eroina di questo racconto».
Questo l’incipit del prologo e, giocando sui termini, proprio l’eroina, o garad, ha alterato chimicamente la natura della città. Mentre hindu e musulmani si ammazzano fra loro la polvere semisintetica ruba l’attenzione dei  tanto affezionati clienti dell’Oppio. Shuklaji Street non è più la stessa. Quando Dom Ullis fa ritorno a Bombay, non trova più le stanze del sesso e dell’oppio che accompagnavano i suoi ricordi. Al loro posto sono sorti negozi e uffici.
Jeet Thayil racconta quindi un prima e un dopo. Un arco temporale in cui il denaro sembra essere diventato il nuovo Credo, l’unica religione e dove l’Oppio non è più «una questione di etichetta», quanto piuttosto una “moda” superata. Narcopolis rappresenta una lettura interessante di una realtà che è andata trasformandosi nel tempo. L’autore non risparmia scenari di miseria al lettore, cercando di gettar luce sulle problematiche sociali che si ripercuotono nella vita dei singoli. Si legge così di una popolazione che cerca di estraniarsi dal proprio vissuto di povertà attraverso l’utilizzo di droghe, ma che allo stesso tempo si interessa all’arte e alla cultura.

Pecca del romanzo l’eccessivo utilizzo di termini esotici che rimandano troppo spesso alla consultazione del glossario, rallentando e interrompendo la lettura.


(Jeet Thayil, Narcopolis, trad. di Vincenzo Mingiardi, Neri Pozza, 2012, pp. 300, euro 16,50)  

“Amok” degli Atoms For Peace

L’Amok è una sindrome del sud-est asiatico che si manifesta con un eccesso di rabbia cieca e delittuosa; chi ne è colpito, al termine dello sfogo si accascia a terra senza ricordare nulla dell’accaduto. Questo tipo di violenza viene ben rappresentata nell’artwork del disco degli Atoms for Peace, uscito ufficialmente lo scorso 25 febbraio, che non solo riprende The Eraser, l’opera prima solista del cantante Thom Yorke, ma ne è l’ideale seguito. Come la copertina, curata anche in questo caso da Stanley Donwood, in cui i dettagli dell’apocalittico disegno si fanno più definiti, anche l’album risulta musicalmente più pieno. La band che accompagna il musicista di Oxford è nata per portare The Eraser dal vivo. In un secondo momento poi si è riunita per delineare la struttura di Amok. Si tratta di un vero supergruppo di amici, fra i quali militano il bassista dei Red Hot Chili Peppers Flea, il produttore dei Radiohead Nigel Godrich, il percussionista brasiliano Mauro Refosco e il batterista Joey Waronker

Da subito quindi si può intuire quanta carne c’è al fuoco rispetto al primo disco molto più minimale. “Before Your Very Eyes” apre le danze con un ritmo incalzante, in cui le percussioni afro vanno ad accompagnare il cantato di Yorke in un brano piuttosto ipnotico.

Lo sperimentalismo è estremo, a tal punto che si nota la mancanza di un vero e proprio “singolo orecchiabile”. Yorke infatti porta avanti un lavoro con l’elettronica davvero particolare, senza tralasciare la parte umana capace di governare il tutto, come ha sostenuto in una recente intervista. Un esempio è “Judge Jury and Executioner” che tratta del potere e di chi lo subisce.

Con “Default” le cose cambiano: il brano ha un forte pathos dato soprattutto dal contrasto fra le tastiere suonate come fossero archi e un mix di beat e percussioni che rendono la struttura musicale quasi nervosa. In “Ingenue” è ancora un basso molto filtrato a dominare, a cui la voce di Yorke aggiunge un cantato dal groove vagamente dance. “Droppedinvece parte lenta e poi accelera con l’inserto di basso e drum-machine che sembrano perpetrare il sound della canzone precedente.

Ogni canzone di Amok è molto complessa e spesso si toccano i cinque minuti di durata. Come detto precedentemente, l’evoluzione dello sperimentalismo di Yorke è estrema e rende Amok un disco sicuramente importante.  Non un semplice divertissement dai Radiohead, come fu la prova precedente dell’eclettico cantante e compositore.


(Atoms For Peace, Amok, XL Recordings, 2013)

“Dio odia il Giappone” di Douglas Coupland

Dio odia il Giappone è un piccolo capolavoro. La storia del libro è ormai nota: Coupland lo scrisse tra il 2000 e il 2001, in giapponese e pensandolo esclusivamente per il mercato editoriale nipponico (l’autore canadese ha lavorato e studiato scultura all’Hokkaido College of Art and Design di Sopporo), e per oltre dieci anni non ne autorizzò altre edizioni, ritenendo che il solo fatto di tradurlo potesse minare alla base le ambizioni di un oggetto-libro pensato per un contesto culturale specifico e scritto servendosi di un assetto grafico e formale (la scrittura dall’alto verso il basso e da destra verso sinistra, tanto per dirne una) che a suo modo di vedere ne determinava anche la sostanza. Scorrendo l’edizione giapponese è facile dargli ragione, almeno in parte, riconoscendone l’originalità e l’unicità formale; ma non fino in fondo, perché leggendo l’edizione italiana (unica traduzione esistente) si capisce fin da subito di avere tra le mani, appunto, un piccolo capolavoro, rimasto per troppo tempo precluso dietro un’indecifrabilità fatta di ideogrammi e assenza di spazi.

Romanzo di formazione, ritratto di un Paese e di un’epoca (il Giappone della seconda metà degli anni Novanta) attraverso gli occhi di un diciottenne inquieto e spassoso, esplorazione narrativa di una Weltanschauung tanto malinconica quanto ossessionata dai propri fantasmi passati e presenti: sono soltanto alcuni dei lati che racchiudono la scrittura trapezoidale di Coupland, che si muove con agilità tra le maglie di un mondo e di una cultura da lui conosciuti fin troppo bene. Il protagonista della storia è Hiro Tanaka, un Holden Caulfield dagli occhi a mandorla che si barcamena tra aspirazioni, delusioni, sballi e amicizie. Con l’amico Tetsu condivide un appartamento alla periferia di Tokyo («lo soprannominammo Bubble Palace. Inutile dire che per colpa nostra quel posto diventò un porcaio; non per cattiveria, piuttosto perché sia io che Tetsu eravamo allergici ai lavori domestici»), vive un rapporto di amore-odio con la sorella Moriko, assiste triste e desolato alla fuga d’amore della compagna di classe Kimiko con il mormone Scott, combatte contro l’assenza-presenza dei genitori… ma, soprattutto, cerca qualcosa che si elevi al di là del presente desolato offerto dagli anni Novanta alla sua non-generazione: «E quelli come me, nati dopo il 1975? Lasciateci perdere. Ci riproduciamo, mangiamo e sempre più spesso uccidiamo. Tutti i legami tra noi e chi ci ha preceduto sono stati troncati». Sotto il velo psichedelico e allettante di rave party, ubriacature con gli amici e sessioni di consumismo sfrenato, aleggia infatti un vuoto fatto di lavoretti part-time, anaffettività e profonda solitudine: come l’antieroe salingeriano, Hiro è paranoico, turbato e insicuro, e proprio per questo, leggendone le disavventure, si entra fin da subito in empatia con lui, trovandolo divertente e avvertendo la parte più profonda di noi vibrare all’unisono insieme alla sua.

La chiave del romanzo – e di questo indimenticabile protagonista che lo attraversa come una mina vagante, lasciando il proprio inconfondibile segno in ogni cosa che pensa, dice e fa – è racchiusa nella frase d’apertura, dove Hiro dichiara: «Durante l’ultimo anno delle superiori, le tre ragazze più belle della mia classe hanno trovato la fede». Sebbene apparentemente venata di sarcasmo, nel corso della storia questa frase si libera via via delle scorie di cinismo che l’ammantano, rivelandosi infine carica di significato anche per lo stesso Hiro: se Kimiko, Kaoru e Rieko hanno “trovato la fede”, infatti, Hiro si agita e si muove nel mondo – come un pesciolino d’oro tra le correnti e i marosi di un mare infettato – alla “ricerca di un senso” da dare alla propria vita, al costante inseguimento di una via di fuga in grado di allontanarlo da quell’inconcludenza, mista a insoddisfazione e inquietudine, che riversa nelle lettere scritte a un immaginario Clone di se stesso (una delle trovate più originali del romanzo).

Al termine di un viaggio che lo conduce oltreoceano (a Vancouver, in Canada) alla ricerca di Kimiko, e poi di nuovo in Giappone – per scoprire e affrontare una verità tremenda e inquietante intorno alla vita dei propri genitori –, Hiro quel senso riesce finalmente a trovarlo, o perlomeno ne intravede le tracce oltre il fanatismo religioso, gli attentati e il collasso economico che inquinano un Paese (e forse il mondo) intero.

Ricco di invenzioni narrative, disseminato di una serie ininterrotta di sorprese e spiazzanti colpi di scena, abitato da personaggi di cui è difficile dimenticarsi, e narrato dalla voce di un protagonista al quale ci si affeziona fin da subito come a un fratello minore, Dio odia il Giappone – accompagnato dalle illustrazioni pop di Michael Howatson e tradotto da Anna Mioni – è sicuramente uno dei romanzi più interessanti degli ultimi anni, divertente e al tempo stesso profondo. Come Hiro scrive in una lettera indirizzata al suo Clone immaginario, una volta finito il libro di Coupland anche il lettore non può fare a meno di chiedersi: «Cosa spinge le persone a fare quello che fanno? Ci svegliamo la mattina, ci ricordiamo chi siamo e dove siamo e a volte dimentichiamo il giorno della settimana, oppure la stagione, e dobbiamo fare uno sforzo di memoria, ma prima o poi ci tornano in mente. A volte mi piace immaginare come potrebbe essere svegliarmi e non ricordarmi proprio nulla: chi o cosa sono, dove mi trovo e in che momento. Svegliarsi così mi costringerebbe a diventare nuovo. Mi costringerebbe a reinventare me stesso, che lo voglia o no».


(Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, trad. di Anna Mioni, Isbn Edizioni, 2012, pp. 224, euro 9)

“Ad Nòta” di Raffaello Baldini

La casa editrice Sugaman ha un sottotitolo e un ideale editoriale: «Libri elettronici, senza limitazioni». Sugaman è curata da Paolo Nori e Alessandro Bonino ed è interamente digitale, produce solo ebook, ai quali eliminano i DRM (i lucchetti digitali, per intenderci) per rendere il libro elettronico un oggetto vero e personale, lasciandosi dietro l’annoso dibattito col libro cartaceo.

Al piccolo ma brillante catalogo della casa editrice il 6 dicembre scorso è stata aggiunta la raccolta poetica Ad Nòta (Sugaman, 2012), del romagnolo Raffaello Baldini, narratore e poeta dialettale di Santarcangelo di Romagna. Proprio nel dialetto santarcangiolese è scritta Ad Nòta; quella di Sugaman è un’edizione in italiano e dialetto curatissima, quasi una sperimentazione tecnica semplice ma brillante per gli ebook reader: il passaggio dall’italiano al dialetto è possibile tramite un semplice link a fine versi. Chiude l’opera una postfazione di Giuseppe Bellosi sulla poesia e sulla lingua del Baldini.

L’essenza del dialetto, come il Baldini ben sapeva, è l’oralità: portò in giro per la Romagna i suoi componimenti in reading poetici, divertendosi e divertendo, dissimulando il carattere amaro e tragico dei suoi componimenti, divenuti talmente famosi da essere richiesti dal pubblico come le canzoni ai concerti.

Ad Nòta racchiude trentotto componimenti: trentacinque monologhi e tre racconti corali. La presenza della morte e dei morti, del ricordo, è costante; una visione pessimistica della vita salta all’occhio nel componimento finale, “La féila” (“La fila”), allegorico monologo ambientato in una fila che non si capisce da dove sia partita, dove stia andando, nella quale si dubita anche del fatto che si cammini, o che una volta arrivati (dove, poi?) ci sia davvero qualcosa ad aspettarci, «un bancone, un palco»; e in mezzo alla fila si litiga, ci si prende per i capelli, ci si agita. L’amore è un altro tema ricorrente, come nel dolce componimento “Murgantòuna” (“Mocciosa”) e, deluso, nella danza di “E’ bal” (“Il ballo”).

Ma com’è possibile che una lingua così radicata nella sua terra, intima e estranea ai più riesca a essere di tutti, a plasmare ed elevare la poesia? La lingua del Baldini, come dice lui stesso, è la lingua delle cose: il poeta nasce e conosce parlando in dialetto, e in dialetto ordina e ci spiega il mondo. E il mondo poetico del Baldini è composto da figure minute e goffe, vite normali della provincia; il linguaggio è piano, complice di una lirica che lascia spazio alla narrazione in un’epica sconclusionata e agrodolce dei nessuno – e quindi di tutti.

Nel 1995, presentando l’edizione mondadoriana di Ad Nòta, Pier Vincenzo Mengaldo scrisse che «se non restasse ancora vivo il pregiudizio pigro per il quale un poeta in dialetto è un “minore”, anche quando è maggiore, Raffaello Baldini sarebbe considerato da tutti quello che è, uno dei tre o quattro poeti più importanti d’Italia» e potrei davvero chiudere qui. Venuto a mancare nel 2005, Raffaello Baldini ha portato il suo verso leggero (in senso calviniano) e dialettale, quindi marginale, all’universalità della grande poesia.

 

(Raffaello Baldini, Ad Nòta, Sugaman, 2012, pp. 126, euro 2,50)

“I nutrimenti terrestri” di André Gide

In una celebre frase, Leo Longanesi ci ricordava che non era la libertà a mancare, bensì gli uomini liberi. Esente da questa massima è, senza dubbio, lo scrittore francese André Gide. Libero pensatore e anticonformista, Gide si è sempre distinto per la sua ribellione profonda e sanguigna contro la secolarizzazione di ogni forma di tradizione “forzata”, contro la cecità delle ideologie, delle religioni e del perbenismo della classe borghese. La produzione di Gide spazia dal romanzo al pamphlet politico, dall’opera teatrale agli studi di estetica. Oltre a I nutrimenti terrestri, altri romanzi come I sotterranei del Vaticano, L’immoralista La sinfonia pastorale sono entrati a far parte – fin dal primo giorno – nella storia della letteratura francese e risultano ancora oggi, per le tematiche espresse e per la trama avvincente, molto coinvolgenti e di scottante attualità.

Con I nutrimenti terrestri lo scrittore dà vita a un dibattito che ha per protagonista la storia e il suo attore principale, l’uomo. Si tratta, infatti di un inno alla bellezza della natura, all’abbandono panico al piacere dei sensi, per sperimentare l’intero ventaglio emozionale che essi ci offrono. Il libro, opera giovanile di Gide, è anche il sincero invito ad abbandonare le idee preconcette, le stratificazione secolarizzate della nostra società per ri-trovare l’essenzialità perduta e ri-tuffarsi nella natura delle cose, cioè nel fluire naturale della vita di cui l’uomo è atomo e attore.

Menalca, il maestro, racconta la propria vita al suo discepolo Nathaël. Spinto dalla sete d’avventure, Menalca ha iniziato a percorrere strade sconosciute, ha finalmente scoperto la gioia del suo corpo ed è entrato in contatto con la natura. Ha dato sfogo a ogni possibilità di sperimentare la gioia rinnovando – in ogni istante – il fervore e l’accondiscendenza del suo cuore alla ricerca della felicità, una felicità che consiste soprattutto nel vivere pienamente. L’amore e l’accettazione serena del mondo rafforzano lo spirito umano che riesce finalmente a liberarsi dalle idee meschine che gli impediscono di essere contento e che sono fortemente ingannevoli perché frutto d’immagini e idee false, prodotte dalla nostra storia e dalla nostra cultura.

I nutrimenti terrestri è un’opera fortemente ibrida e di difficile catalogazione: a metà strada tra gli appunti di viaggio e la storia romanzata, tra le annotazione di diario, il dialogo filosofico e il dizionario poetico, il libro di Gide è un vero e proprio fiume in piena che travolge e appassiona i suoi lettori. Le diverse forme di scrittura, mescolate sapientemente dall’autore, rappresentano i diversi momenti dello spirito, sono atte a sottolineare le infinite emozioni di cui è capace l’animo umano. Lo scrittore stesso, dopo aver invitato il lettore a educare la propria sensibilità e ad assecondare le proprie emozioni, ci suggerisce di risolvere i contrasti interiori superando i limiti imposti dalla morale e dalla religione. Tuttavia l’autore non ha nessuna intenzione di salire in cattedra e assurgere ad ammaestratore. Lo dimostra il fatto che, alla fine del libro, ci viene indicato di gettare il volume, di non cercare di vivere ciò che già è stato vissuto, che è più saggio, infatti, trovare il proprio cammino.

Per concludere, c’è da dire che la a scrittura di André Gide è influenzata da diverse fonti e, spesso, molto differenti tra loro. Il simbolismo, per esempio, ne ha contaminato gli esordi, così come l’opera Così parlò Zaratustra di Friedrich Nietzsche ma anche i testi biblici come Ecclesiate e Cantico dei Cantici. Alla base de nutrimenti terrestri, tuttavia, è chiara – soprattutto – l’influenza dell’umanesimo panteista del XVI secolo mentre la lezione di Dostoevskij, d’altro canto, gli ha ispirato il gusto dell’introspezione e della fine analisi psicologica.

 

(André Gide, I nutrimenti terrestri, Mondadori/Garzanti)

“Apnea” di Lorenzo Amurri

Cosa accadrebbe a un chitarrista ventitreenne, di buona famiglia ma scapestrato, pieno di tatuaggi, che ha impostato tutta la sua vita su «sesso, droga e rock’n roll», se in una fredda domenica mattina si schiantasse contro il traliccio di una funivia durante una giornata sulla neve al Terminillo?
Lo racconta Lorenzo Amurri in Apnea. Perché è la sua storia, perché è la sua vita. Amurri, in questo racconto doloroso ma sarcastico, stupisce per la sua lucidità e per la semplicità con cui ci cala in un universo che nessuno di noi vorrebbe mai nemmeno lambire. Quello della malattia, soprattutto se irreversibile, degli ospedali, dei medici, degli infermieri e del dolore.
Ecco, questo libro è un bagno nel dolore. Un’apnea, appunto. Un dolore per una vita spezzata, per un amore (quello per la musica) abbandonato per sempre. Perché quello che più preme al giovane Lorenzo è poter riacquistare l’uso delle mani e non stupisce vedere che nel momento in cui appare a tutti chiaro che questo non sarà mai più possibile, l’unico pensiero di Lorenzo sia quello della morte.

Apnea è anche, e soprattutto, una storia di vita, senza troppa retorica o vittimismo. Un viaggio tra morfina, barriere architettoniche, la fine della carriera da musicista, gli amici di una vita incapaci di far fronte a tanto dolore, la famiglia che non ti lascia solo anche se a te non basta mai e l’amore incondizionato di una donna coraggiosa che silenziosamente e pazientemente diventa, suo malgrado, una roccia su cui aggrapparsi per non annegare. Tuttavia, le incomprensioni che la vita riserva, a tutti, ma forse specialmente a chi ha molto altro a cui pensare, sono dietro l’angolo. E un uomo che si chiude a riccio nel suo dolore diventa impenetrabile e nemmeno l’amore più puro e incondizionato può sopportare il silenzio. L’unico pensiero è quello di farla finita: si capirà ben presto che non è tanto la voglia di morire quanto la possibilità di capire se si può essere in grado, finalmente, di fare qualcosa da soli e di scegliere per se stessi.

La scrittura è asciutta, netta, dettagliata e sagace, molto spesso divertente. Sembra che il Lorenzo musicista sia riuscito a lasciare il passo a un nuovo se stesso. Sempre artista, ma portavoce di un’altra specialità. Dopotutto, Amurri è figlio d’arte: suo padre Antonio è l’autore, tra le altre cose, di Sono come tu mi vuoi.
Apnea non è un bel libro se si pensa che è stato scritto con la nocca di un mignolo da un tetraplegico, Apnea è un bel libro e basta. Cosa accadrà a Lorenzo si scoprirà solo arrivando alla fine del libro, un viaggio che vale la pena di essere intrapreso perché per quanto leggerlo può sembrare doloroso e provocarci delle fitte (non so se al cuore, ma di sicuro allo stomaco), è quel dolore che serve a capire quanto importante sia ciò che abbiamo. Ogni tanto non può farci che bene.


(Lorenzo Amurri, Apnea, Fandango, 2013, pp. 251, euro 16)  

“A portata di mano” di Tilman Rammstedt

 

A portata di mano di Tilman Rammstedt (Del Vecchio, 2012) è un romanzo che racchiude molteplici componenti. In primo luogo è la storia di un viaggio on the road di tre amici che partono dalla Germania, attraversano il Belgio e arrivano in Francia. In secondo luogo è anche, e soprattutto,un romanzo di formazione, in cui troviamo tre trentenni nel pieno di una crisi post-adolescenziale che li porta alla disperata ricerca di se stessi.

La storia si apre con Felix che, dopo aver ricevuto l’invito al matrimonio di Katharina, decide di andare a trovarla. L’autore prende spunto da questo avvenimento per raccontarci di tre ragazzi che sono stati in passato amici e amanti e che col tempo hanno finito per allontanarsi.

Felix è un pediatra single, Katharina una studentessa che da più di tre anni cerca di finire la tesi del dottorato, mentre Konrad è ormai un accademico, tiene seminari e svolge ricerche universitarie. Dopo una lunga amicizia intervallata da una storia d’amore fra Katharina e Konrad, durante la quale si è consumata anche una breve avventura fra Katharina e Felix, i tre si sono separati: il triangolo di affetti e segreti ha infatti portato allo sgretolarsi di entrambe le relazioni e il conseguente allontanamento dei tre amici che hanno preso strade diverse arrivando a non sentirsi per tre anni.

Questo fino all’improvviso invito al matrimonio di Katharina.

La reazione di Felix all’avvenimento inaspettato è di contattare il vecchio amico Konrad per partire subito alla volta di Amburgo, e rapire Katharina. La decisone viene presa senza riflettere profondamente sulle implicazioni di un vero e proprio rapimento ai danni di una cara amica del passato, né tantomeno preoccuparsi minimamente della possibile reazione che lei potrebbe, giustamente, avere. Rapire Katharina appare d’un tratto chiaramente come l’unica soluzione possibile secondo Felix per andare avanti nelle vite di tutti e tre: bisogna riunire il trio di anni prima, passare insieme del tempo e ritrovare quel periodo della vita che tutti e tre ricorderanno sicuramente con nostalgia.

Perché non tornare a essere FelixKatharinaeKonrad?

Tuttavia, al di là dell’apparente ironia, A portata di mano è un romanzo incentrato sul difficile e lungo processo di crescita dell’individuo, che oggigiorno va ben oltre la tanto sognata adolescenza e lascia i ventenni, e anche i trentenni, spaesati perché non riescono a sentirsi ancora uomini completi, sebbene sappiano con certezza di non poter più essere considerati adolescenti. Emblematica, in questo senso, è la scelta dell’autore di usare il viaggio come strada per portare avanti questa crescita, la ricerca di un qualcosa che neanche i personaggi stessi sanno bene cosa sia, pur essendo sicuri che l’unica soluzione è continuare ad andare, a muoversi, senza doversi fermare mai.

Sullo sfondo di questo viaggio inquieto, con decine di ore alla guida, svariate discussioni e innumerevoli silenzi, c’è un ulteriore personaggio, sempre presente e immobile: il mare. In un freddo e piovoso inverno sulla costa francese, il mare è contemporaneamente strumento di evasione verso luoghi lontani e interlocutore silenzioso di tante riflessioni e proposte per possibili futuri. D’altronde, come sostiene lo stesso Felix più volte: «Neanche il mare è molto bravo a prendere decisioni. Cambia in continuazione i suoi confini, si muove avanti e indietro, lascia oggetti, poi se li riprende la volta dopo, e così è assolutamente impossibile stabilire l’inizio preciso del mare».

(Tilman Rammstedt, A portata di mano, trad. di Carolina D’Alessandro, Del Vecchio editore, 2012, pp. 232, euro 13)

“Educazione siberiana” di Gabriele Salvatores

Il freddo penetrante, le nevi bianchissime e i troppi gradi sottozero sono i colori e le caratteristiche della Siberia, luogo in cui è ambientato il nuovo film di Salvatores, Educazione Siberiana.

La prima considerazione? Ogni suo film è diverso dall’altro e nessuno si assomiglia; un regista che non si accomoda mai sulle vecchie pellicole incarnando la vera passione per l’Arte del Cinema.

Educazione siberiana è tratto dall’omonimo libro di Nicolai Lilin edito nel 2009 da Einaudi; un romanzo di formazione, ambientato nell’ultimo ventennio dello scorso secolo, nell’ex Unione Sovietica.
Anni di cambiamento, in cui il tempo fa da padrone e stravolge la realtà: dopo la caduta del muro di Berlino, la modernizzazione, seppure lenta e osteggiata, si fa spazio prepotentemente.

Anni in cui il consumismo ha soppiantato in modo rapido e precipitoso la violenza del comunismo: violenze che si sommano ad altre.

Le terre della Siberia narrata sono profondamente sconvolte; terre in cui gli ideali sani di libertà e di lotta, soprattutto, alla libertà, si perdono con il consumismo dilagante, e della libertà, ottenuta con il sangue e con i denti, non si sa più che farsene. Diventa uno slogan vuoto, una merce sul bancone.

Il libro, da cui si ispira liberamente, è un memoir di ricordi, di situazioni, di personaggi che si alternano, senza una vera e propria linea narrativa, che, invece, Salvatores ha ridisegnato aggiungendoci un pizzico di romanticismo.

I protagonisti sono due ragazzi di dieci anni che crescono insieme, amici per la pelle, istruiti dal saggio e criminale nonno Kuzja, maestosamente interpretato da John Malkovich. Da inseparabili compagni di piccoli furti ed esercitazioni con le armi, i due crescono con principi differenti e gli anni di lontananza che li dividono finiscono per creare due opposti, un’antitesi di ruoli: uno corrotto dai tempi e dai costumi nuovi, l’altro tradizionalista, integro, non disposto a cedere a compromessi.

Attraverso una serie di contraddizioni, viene proposto un elenco di parole chiave, fondamentali e simboliche, che svelano il mistero e il compito spirituale di questa banda di “criminali onesti” come loro si definiscono, un ossimoro già particolare, che si batte per il bene collettivo.

Codice. Una parola ripetuta spesso nel libro; un codice etico al quale sottostare, severo, rigidissimo, paragonabile all’onore della mafia siciliana. La contraddizione viene proprio dal considerarsi nel giusto, dal perdono del Signore «per i peccati che siamo costretti a commettere». C’è il codice dei tatuaggi, tutto siberiano. Per “gli onesti”, il tatuatore è come un confessore: è lui che decide come inchiostrare le pagine della tua pelle. E non basta solo volerlo, bisogna anche guadagnarselo.

Educazione. L’educazione siberiana è questa Regola, predicata scrupolosamente come un Vangelo, che tenta di sopravvivere, tramandandosi, seppur senza speranze, alle nuove generazioni, in cui i nuovi codici, violentissimi anche essi, ne modificano l’osservanza.

Il tempo. In una società dove il tutto e subito è la consuetudine e dove l’importante è farlo il più velocemente possibile, la sola sopraffazione sull’altro permette la sopravvivenza, la tradizione dei criminali siberiani non ammette corse e soprusi. Un tempo di cambiamenti, inoltre, rinnova le antiche terre di Stalin modificandone l’aspetto, rendendo ancora più povero chi si confronta con i grattacieli sorti all’improvviso.

Commuovente la scena in cui i giovani siberiani, ritrovatisi in città, sperimentano per la prima volta una giostra, e “Absolute Beginners” di David Bowie fa da sottofondo al loro divertimento. «Un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare», afferma il vecchio Kuzja che detta un’educazione sentimentale siberiana al nipote Kolima.

Il regista di Mediterraneo ha ancora un ardore da sperimentatore e indaga i labirinti di questa cultura nordica, degli ideali della criminalità per bene e della criminalità per male, del fascino del nuovo e l’attaccamento alla tradizione, alle radici, temi a lui cari, rinnovando la sua carriera.

Un film immenso e ricco di significato, di stimoli e di simbologia. Uno stratagemma che, senza fingere, collega il passato al presente con un filo rosso sottilissimo; un intuitivo Gabriele Salvatores, che non delude mai.

(Educazione siberiana, di Gabriele Salvatores, 2013, drammatico, 110’)

 

“Delitto a Villa Ada” di Giorgio Manacorda

«Un parco selvatico, addirittura fiabesco nel suo silenzio e nel suo isolamento». Eppure si trova a due passi dal caos, Villa Ada, tra il vociare di Via Salaria e il traffico del Foro Italico. Il commissario Antonio Marco Sperandio ci andava tutti i giorni, a Villa Ada. Alle sei e trenta del mattino i cancelli sono ancora chiusi, così entrava da un buco della cinta muraria e iniziava a correre mentre ancora non c’era nessuno, tra i rovi e l’intrico di rami, nel sottobosco incolto e inquietante. «Ma il rischio è il mio mestiere. Si ripeteva la vecchia battuta nell’arco di varcare il muraglione». I giorni si succedono uguali nei pressi del laghetto basso, dove si incrociano e si riconoscono, o si mancano di pochissimo, quelli che corrono tutti i giorni, puntuali, dando inizio alla giornata con quell’intervallo di fitness e fatica che quasi li ossessiona. «Lei non s’immagina quanti n’ho visti passà», racconta il giardiniere, «corono, corono… ma che se corono…» Finché una mattina ci scappa il morto, a Villa Ada: un poeta-barbone che aveva fatto del parco la sua casa e attaccava i suoi versi agli alberi viene trovato senza vita da colui che è il primo a fare una deposizione e diventa immediatamente il maggior sospettato, Giorgio Manacorda.

Il nome del primo interrogato dal commissario Sperandio, chiamato a occuparsi del caso, la dice lunga su tutto il libro, su tutta l’ironia di Manacorda, che arriva con Delitto a Villa Ada (Voland, 2013) al suo secondo romanzo (il primo, Il corridoio di legno, edito sempre da Voland un anno fa, è arrivato in finale al Premio Strega). Sebbene la maggior parte della narrazione sia affidata al discorso diretto dei personaggi, nel dipanarsi dell’intrigo noir si insinua l’onnipresenza dell’autore, che riempie ogni piega della storia parlando di poesia. «La capisco signor questore, qui sono tutti poeti. Non se ne può più! Ma una persona normale non c’è?».
L’elemento irreale e fortemente simbolico è una macchina da scrivere d’oro che permette di scrivere poesie perfette: «E chi non la vorrebbe! Quale poeta ci rinuncerebbe? Il talento non servirebbe più. Tanto ci penserebbe la macchina a scrivere belle poesie. È il sogno di tutti noi». Anche perché il talento, come dice lo stesso Manacorda, è il terrore della vita del poeta: «Perché pensi sempre di perderlo, il talento, e davvero lo perdi, magari solo per certi periodi, o anche per sempre, e questo è il terrore».

«A Villa Ada ci sono andato a correre per anni», ha dichiarato l’autore lo scorso 21 febbraio alla presentazione del libro alla libreria Ready Cavour (Roma), «i personaggi che corrono e che vengono interrogati si ispirano a persone che ho realmente conosciuto e ho dato loro i nomi di poeti minori, quasi sconosciuti, del Novecento».
Poeta l’ucciso, poeta il commissario, poeti, a modo loro, tutti i personaggi: Fausto (Marino) Moretti, Renato (Nino) Oxilia, Filippo (Ardengo) Soffici e molti altri, la cui scoperta lasciamo al lettore. Il questore porta il nome storpiato del commissario del Pasticciaccio: Argante Incravallo (nel romanzo di Gadda il nome è Francesco “Don Ciccio” Ingravallo). E poi ci sono i nomi veri, quelli dei poeti viventi Ulisse Benedetti e Renzo Paris, amici del Manacorda autore e del Manacorda indagato.

Partendo da questi spunti (pochi, ma ogni parola in più potrebbe rovinarvi la scoperta del colpevole), Delitto a Villa Ada è un libro che leggerete in mezzo pomeriggio con sorriso e sorpresa, ricavando anche interessanti argomenti di riflessione sulla poesia contemporanea, sul ruolo svolto oggi dalla «specie in estinzione» dei poeti e sui rapporti, non sempre pacifici, che intercorrono tra gli scrittori di versi.
«Mi sono divertito. Ho capito che se fai il narratore, in un romanzo ci puoi mettere qualsiasi cosa, non è come la poesia o il saggio […]. Se scrivi versi non è detto che tu sia un grande poeta. È possibile essere stroncati. E i poeti si offendono a morte».


(Giorgio Manacorda, Delitto a Villa Ada, Voland, 2013, pp. 144, euro 14)