“Il nipote di Rameau” riletto da Silvio Orlando

Iniziamo con l’inizio visto con gli occhi della fine: «I miei pensieri sono le mie puttane». Una frase che un testo settecentesco di Denis Diderot lascia scivolare sul palco, come una moneta rotolata per caso fuori da una tasca troppo piena. Il nipote di un celebre compositore, un aristocratico e una cameriera si contendono la proprietà della proposizione. Probabilmente non esiteremmo nemmeno per un attimo nella scelta del creatore di questa frase se conoscessimo il primo personaggio: un mellifluo adulatore di signorotti, vissuto all’ombra del suo ben più celebre zio, decanta i vantaggi della piaggeria e sembra, con le sue parole, immiserire l’uomo e il suo pensiero. Non ostenta cultura né tenta di rimarcare la grandezza dell’intelletto umano questo personaggio a cui Diderot diede il nome di “nipote di Rameau”. Un senza nome dunque, che parla per chi non sa parlare o magari non vuol parlare. Parla per la folla di lusingatori che cova ogni giorno nei salotti più signorili, ma anche per chi ha semplicemente scelto di porre al di sopra di ogni altro imperativo quello della soddisfazione dei più carnali istinti.

La parola e il pensiero, per il nipote di Rameau (Silvio Orlando), sono esclusivamente funzionali all’adulazione, ai più triviali corteggiamenti, o al massimo al prevalere in filosofiche dispute da osteria, come quella che ingaggia con l’aristocratico (Amerigo Fontani). Quest’ultimo è distinto, acculturato, sofisticato, uomo di alti ideali, di tenace fede nell’umanità e nelle sue potenzialità. C’è poi una docile e sognatrice cameriera (Maria Laura Rondanini), che come una trottola ruota tra le mani dell’adulatore.

Tornando all’incipit de Il nipote di Rameau non si potrebbe non pensare a questo punto che sia stato il personaggio che dà il titolo all’opera a formularlo. Eppure non è così. L’inizio dell’opera di Diderot prevede la digressione preliminare dell’aristocratico. Rileggendo il testo la frase spicca rapida e perturbante in mezzo alla descrizione delle placide giornate del ricco possidente. Contemporaneamente il nipote di Rameau svolge la sua pantomima epicurea, ma con sagaci argomentazioni smonta pezzo per pezzo l’apparente fermezza morale dell’altro. Si percepisce sempre più una corrispondenza tra il turpe e il nobile, come se l’uno fosse solo l’atra faccia dell’altro. Il disgusto del nobile è presto soppiantato de un vivo e partecipato interesse, a tratti un vitale bisogno, per le argomentazioni dell’adulatore. Diderot capovolgerà dunque la prospettiva, deturpando l’immagine del nobile ideale, sostituendola con quella del più reale cortigiano.

A ben vedere tutto questo era in piccolo già successo, per un breve istante, proprio nel bel mezzo di quell’apparentemente placida presentazione iniziale.

Si trova forse proprio in questi dettagli il valore di un testo a lungo non rappresentato in Italia. La messa in scena di Silvio Orlando, in questo caso attore e regista, rende ancora più marcata la focalizzazione sul protagonista, dominatore assolutamente incontrastato del palco. Le luci infatti sono sempre funzionali alla definizione dello spazio scenico del personaggio, le musiche ne sottolineano i racconti goliardici. Gli oggetti di scena sembrano anch’essi ruotare attorno al nipote di Rameau, che con il suo tocco dà loro vita. Forse è proprio questa estrema univocità a determinare un lieve calo nell’interesse per il personaggio principale, che tuttavia riprende ogni volta la propria cangiante forma grazie alla sottigliezza del testo diderotiano.


Il nipote di Rameau
di Denis Diderot
regia Silvio Orlando
con Silvio Orlando, Amerigo Fontani, Maria Laura Rondanini

Prossime date:
Teatro Elfo Puccini, Milano – dal 26 febbraio al 10 marzo 2013

“Il destino è un tassista abusivo”: a tu per tu con Luca Manzi

Abbiamo incontrato Luca Manzi in una piccola libreria del quartiere Trieste, a Roma. Giusto il tempo di presentarci e subito l’autore prende confidenza e inizia a parlarci del suo romanzo, Il destino è un tassista abusivo, edito da Rizzoli.

«Con questo romanzo, Il destino è un tassista abusivo, ho cercato innanzitutto di creare una macchina comica, fare ridere è sempre il primo e principale obiettivo; ho cercato di farlo con una storia realistica, ma con degli aspetti di surrealismo che sperano di essere quel quid di irrealtà che sai che può esistere nella vita. Come quando pensi di fronte a qualcosa che vedi: È strano, ma ce po’ sta. Del resto Fabrizio Corona è andato in Tribunale per mano con la mamma e dice di essere cambiato, sperando che il giudice lo assolva per quello, a quel punto tutto è possibile».


Come nasce l’idea per questo romanzo e da dove viene la passione per la scrittura?

Sono laureato in Letteratura Italiana e quindi ho sempre avuto un rispetto paralizzante per i libri: i libri sono una cosa seria. Poi più ti avvicini ai 40 e più te ne fotti dei tuoi rispetti umani, quindi mi sono deciso a provarci. Ho cominciato a pensarci, ma non avevo una storia. Ho cominciato a riflettere sul mistero dell’amore, che detto così è un po’ orripilante, volevo raccontare la non conoscibilità delle emozioni umane. Poi a un certo punto, mi ricordo come se fosse oggi, ero in cucina con una mia amica che si era appena lasciata con il suo fidanzato e mi ha detto: «Ma io faccio sempre lo stesso errore!». Allora ci ho pensato anche io e mi sono accorto che invece faccio ogni volta errori diversi. Da queste riflessioni ho incominciato a scrivere le parti del passato della storia del personaggio e le sue caratteristiche vere e proprie. Sono partito da Giorgio, il protagonista, ho cominciato col pensare a un personaggio che potesse aver avuto una serie incredibile di sfighe emotive, a come potesse essere, e poi sono venuti gli altri, e la storia ha cominciato a rapprendersi intorno ai personaggi. Lavoro tantissimo sui personaggi, poi il plot viene da solo per quanto mi riguarda. Sto su un personaggio finché non comincio a vederlo e a un certo punto comincia a fare delle cose. Quando inizia a farle da solo, puoi iniziare a credere a quel personaggio. Spesso i miei lettori sono convinti che i miei personaggi esistano, che io abbia semplicemente avuto la fortuna di incontrarli e poi usarli nel romanzo, e questa è la mia più grande soddisfazione come scrittore. Nessuno di loro esiste, sono il frutto di tutto questo lavoro, del non avere fretta, del lasciare che si facciano le ossa: è un fatto di stratificazioni successive, di metabolismo del personaggio. Sono una persona pigra e posso pensare ad altre mille cose interessanti da fare o non fare nella mia giornata oltre a scrivere, mentre ci sono scrittori più metodici che hanno proprio bisogno di scrivere. Quindi ho lasciato che questi personaggi crescessero, sobbollissero, e ho scoperto infine che sono tutti figli della mia personale frustrazione; proprio perché non esistono, ma mi piacerebbe averli tra i miei amici. A quel punto stai lì ed è quasi come se li seguissi con un microfono per vedere che fanno. Non avevo un editore e ho scritto questo romanzo veramente come volevo scriverlo io.


La trama del romanzo prosegue in maniera abbastanza lineare e si concentra sulla storia d’amore tra Giorgio e Agnese. Avrei preferito che non si fosse mai concretizzato il loro sentimento, che rimanesse una “pippa mentale” di Giorgio, perché mi è risultato un po’ banale, quando invece questi due personaggi non lo sono affatto.

Ho imparato che il romanzo, una volta scritto e pubblicato, non è più mio, quindi hai ragione anche tu. Il personaggio è anche tuo. È mio finché non te lo faccio leggere. Quasi tutte le donne odiano Agnese, dicono che è una stronza! Le stronze invece amano Agnese. È incartata, è un personaggio quasi esclusivamente potenza. Giorgio si infatua di questa ragazza in potenza e ne stima il coraggio. Lei è una che vuole una cosa e la fa, mentre lui no. Ad Agnese piace Giorgio e gli va a suonare a casa perché lui non avrebbe mai il coraggio di esporsi: insomma, è una con due palle così. Poi è anche emotivamente squilibrata, incapace e instabile. Forse non viene fuori il suo coraggio, non lo so, forse è una menata tutta mia. Ho voluto mantenere la trama bassa per allontanarmi dalla scrittura cinematografica, ho voluto espandere i tempi per poter finalmente raccontare quello che volevo io anche senza far succedere le cose, che è una cosa che invece in televisione o al cinema devi fare. Anche se alcuni momenti del libro sono descritti come se fossero scene da girare e questo è dovuto alla mia forma mentis di voler vedere la scena mentre la scrivo. Ho scoperto che questa cosa mi aiuta moltissimo nel rendere credibili le mie storie. Ogni stile è un sistema chiuso di segni che devono essere coerenti tra loro, credibili appunto.


I personaggi sono il punto forte del romanzo, sono ben costruiti e molto divertenti. Forse è una capacità che ti porti dietro dal tuo lavoro di sceneggiatore [Boris, Don Matteo, ndr]?

Ma non credo che ci siano differenze tra sceneggiatura e romanzo sotto questo aspetto; un personaggio è un personaggio, semplicemente è la cosa che più amo scrivere e credo che mi vengano bene per questo motivo. I personaggi non bisogna mai sovrapporli. Ognuno ha il suo compito e la sua unicità: Davide è magia, mistero, Franco è l’animale, Mario è prigioniero del suo tempo, Giorgio è frustrato, è uno che vorrebbe, ma non riesce. Non riesce perché è sfortunato, perché trova le persone sbagliate, perché è incapace, un mix di queste cose. Traggo ispirazione dal quotidiano: amo girare in bici, guardare le facce della gente e immaginarmi le storie che ci sono dietro a quelle facce. Quando scrivo per il cinema, guardo vecchi film, simili a quello che sto scrivendo, e rubo, cerco di carpire personaggi e situazioni. Boris è ispirato a un film che si chiama Living in Oblivion [Si gira a Manhattan, versione italiana, 1995, ndr], che non ha visto nessuno. È la storia di un regista che cerca di girare una scena di un film, con Steve Buscemi che interpreta il protagonista. Sono debitore alle serie e alla letteratura inglese, tipo The Office [serie televisiva britannica, ndr], che è un capolavoro. Scrivere una sceneggiatura o un romanzo per altri aspetti è però molto diverso: quando scrivo per il cinema, non scrivo per il lettore, scrivo per il regista, gli attori, devi pensarla così, sennò poi ti incazzi se te la tagliano. Devi accettare di essere al servizio di un altro. Quando scrivi un romanzo decidi tutto tu, mentre nella sceneggiatura ci sono delle regole molto strette e a volte i tuoi spazi di creatività sono molto limitati.


Quando parlo del Tassista abusivo per consigliarlo in giro, leggo sempre il pezzo in cui Mario, fratello di Giorgio, gli dà i consigli sulle donne.

Questi giovani che “la sanno” esistono, li vedi, sono cresciuti nel mondo dove li hanno convinti di poter capire le cose. Io lo trovo avvilente, però mi fa anche molto ridere. C’ha 25 anni e crede di sapere tutto. Mario dice continuamente al protagonista come si sarebbe dovuto comportare con le donne in generale e con Agnese. Tipo quando gli dice: «Se la donna non ti capisce è fatta!» È una cosa che ho scoperto essere vera, non ci avevo mai pensato (me l’ha detta Mario appunto!). La funzione fondamentale di molte donne è avere qualcosa di incomprensibile da capire, e allora sono felici! Quando si incastrano in questa scatola in cui vogliono capire ma non riescono si realizzano.


Tutte abbiamo vissuto queste cose e tu non dovevi raccontarle, rendendole così esplicite: ora siamo fregate!

La prima cosa a cui pensano le donne a volte è: «Vabbè mi vuole scopare!» E lo capisco pure perché è pieno di uomini che pensano principalmente a quello. Quando questo non succede, quando un uomo non ci prova smaccatamente e subito, spesso si intimoriscono, si intrigano, non capiscono! A volte pensano di essere sbagliate, o pensano che il ragazzo in questione sia sessualmente contorto o un omosessuale represso. Che poi in realtà la domanda più ovvia che spesso non vi fate è: «Avrà forse i suoi tempi?» È una cosa che una donna non accetta quasi mai. Ci presumete a volte inconsciamente come Sex Machine: «Quello vuole solo scopare!», ma se non lo facciamo c’è il caso che entriate in crisi. Sospetto ci sia una parte di voi che pensa: «Ma come… sono io a non dovertela dare, non tu che non la vuoi oppure che devi decidere… ma come ti permetti maschio prevaricatore, ricomincia subito a cercare di prevaricarmi eh?»


«“Vedi… la donna, tempio delle contraddizioni, si lamenta sempre che gli uomini pensano solo a quello.”
E rifece il gesto chiarificatore.
“Ma quando poi trovano un uomo che le corteggia, ma sembra non volersele portare a letto…”
Sembra…”
“Sembra, sembra. Dicevo, quando trovano uno che si… finalmente! Come loro sognano da una vita si interessa solo della loro anima, della loro emotività… in realtà vanno in tilt; non capiscono. E…”
“Si intrigano!” aggiunsi di slancio.
“Bravo! E lo vedi che se ti applichi… Devi pensarla come essere puramente spirituale. Non si deve vedere che vorresti saltarle addosso impugnando uno sgarratore da cucina. Lei così non ci capisce più un cazzo, si intriga, e quando finisce il corso…”
E rifece il gesto.
“Ho capito.”
Rimasi un attimo a riflettere.
“Vabbe’, però, in pratica… cioè, adesso che vado là, a lezione, che devo fa?”
“Ma che, ti devo risolvere tutto io? Fai quello che ti pare. L’importante è che tu lo faccia con atteggiamento di assoluta filantropia asessuata. Tu da oggi sei il Gandhi del Quadraro.”»


(Luca Manzi, Il destino è un tassista abusivo, Rizzoli, 2012, pagine 346, euro 16,50)

“Bastarde” di Gretelise Holm

Bastarde, edito da Lantana nel 2012, è il secondo romanzo della danese Gretelise Holm, classe 1946, scrittrice e giornalista, vincitrice del premio della Danish Accademy for Crime Fiction. Il libro, che già dal titolo si preannuncia molto forte, si rivela altrettanto interessante.

«Gli uomini devono imparare, come le donne, a non sentirsi mai sicuri, mai completamente liberi». Questo scrive l’Amazzone, la misteriosa donna che sta terrorizzando Copenaghen. Soprattutto gli uomini, contro cui compie atti di violenza, lasciando come firma un biglietto, il primo di una lunga serie, recita: «Per ogni donna violentata castreremo un uomo».

L’ispettore Rolf Greve e la sua squadra iniziano a indagare per mettere fine ai crimini a opera sconosciuta carnefice, le cui intenzioni sono ben chiare: ogni uomo deve provare le stesse paure che impediscono alle donne di vivere in assoluta tranquillità, e di compiere semplici azioni, come fare jogging da sole o parlare con sconosciuti senza il terrore di essere aggredite.

In questo clima di tensione insostenibile si aggiunge un fatto di cronaca nera: all’università di Skovholm, dopo la festa di Halloween, il corpo della giovane Rebekka viene trovato nel suo letto, strangolato con la cinta dell’accappatoio ancora stretta al collo. Il primo e unico indiziato è il professor Kamper, che aveva una relazione con la vittima e vi aveva trascorso insieme l’ultima notte. Un’altra scoperta aggraverà la posizione del professore: Rebekka era incinta. Jonas Kamper vieni quindi arrestato e condannato. Solo due persone credono alla sua innocenza. La moglie Sara e la giornalista (in pensione) Karin Sommer, alla quale proprio la signora Kamper si è rivolta per indagare e trovare delle prove per scagionare il marito.

Iniziano a svilupparsi due trame: quella dell’Amazzone – capace con i suoi gesti di capovolgere lo stereotipo della donna vittima e dell’uomo aguzzino –, e le indagini di Karin Sommer, che agisce nella speranza di ribaltare la sentenza che ha condannato Jonas Kamper a quattordici anni di prigione.

L’implacabile scrittura della Holm, famosa nel nord Europa proprio per le storie della sua eroina Karim Sommer, permette di leggere una versione al femminile del romanzo che ha aperto la strada a queste tematiche e ambientazioni: Uomini che odiano le donne di Larsson.

Ma oltre l’intreccio poliziesco, il tratto che rende Bastarde un lavoro originale e degno di interesse, è l’essere un approfondito e spietato scorcio sui problemi delle donne al giorni d’oggi. C’è la giovane e indifesa vittima dell’omicidio, c’è la matura giornalista segnata dalla morte del compagno che solo dal lavoro riesce a trarre forza per andare avanti. Ci sono le donne che hanno i mariti in prigione, quelle che hanno scelto di sposare un carcerato, e poi c’è lei, l’Amazzone. Intenta a infliggere agli uomini la sua missione: profanare, umiliare e offendere gli individui di sesso maschile che si sentono invulnerabili. Troppo.

Al lettore navigato, il romanzo potrà forse apparire privo di suspense e colpi di scena, fatta esclusione ovviamente per l’epilogo. Tuttavia, è innegabile che la scrittura della Holm riesca a mantenere costantemente vive l’attenzione e la curiosità del lettore. Se si è alla ricerca di un thriller dalla trama insolita ma coinvolgente Bastarde è decisamente consigliato. Anche agli stomaci più deboli.

(Greteliste Holm, Bastarde, trad. di Bruno Berni, Lantana, 2012, pp. 294, euro 15)

“De Nittis” al Palazzo Zabarella di Padova

Dal 19 gennaio fino al 26 maggio 2013 è aperta nel trecentesco Palazzo Zabarella di Padova una mostra dedicata al pittore Giuseppe De Nittis, il più celebre italien de Paris e uno dei protagonisti più importanti della pittura europea della fine del XIX secolo, contemporaneo di Boldini, dei macchiaioli e amico di Manet. Promossa dalla Fondazione Bano e dalla Fondazione Antonveneta, curata da Emanuela Angiuli e da Fernando Mazzocca, la mostra prende spunto dalla celebrazione allestita al Petit Palais di Parigi nel 2010 e raccoglie più di cento opere provenienti dalla Pinacoteca De Nittis di Barletta – che detiene la più ricca collezione di dipinti dell’artista –, dal museo Carnavalet di Parigi, dal Musée des Beaux-Arts di Reims e molte altre splendide tele provenienti da collezioni private esposte al pubblico per la prima volta.

Giuseppe De Nittis nasce a Barletta nel 1846, si forma all’Accademia di Belle Arti di Napoli e, dopo un breve periodo a Firenze, si trasferisce a Parigi nel 1867 dove, raggiunta la piena maturità, acquisisce grande notorietà e valore internazionale, condividendo con gli Impressionisti le tematiche del paesaggio, del ritratto e della raffigurazione della vita moderna. La sua casa parigina è il luogo d’incontro del circolo culturale franco-britannico ed è frequentata da artisti e intellettuali quali Manet, Degas, Caillebotte, Alexandre Dumas fils, Zola, Oscar Wilde. Nel 1874 è invitato da Degas a partecipare alla prima Esposizione degli Impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar. Nello stesso anno, in seguito alla rottura con il mercante d’arte Goupil, soggiorna regolarmente a Londra dove frequenta l’amico James Tissot e incontra il banchiere Kaye Knowles che gli commissiona diverse vedute di Londra. Il pieno successo arriva nel 1878 quando presenta alla terza Exposition Universelle di Parigi le sue più importanti opere, tra cui le celebri “Place des Pyramides”, “Trafalgar Square”, “La Banca d’Inghilterra”, presenti oggi a Padova.

La mostra è articolata in otto sezioni organizzate secondo un criterio espositivo cronologico ed è ottimamente allestita su pannelli dallo sfondo blu scuro che fanno risaltare le sfumature cromatiche delle tele. Il percorso inizia lungo le rive dell’Ofanto e continua attraverso le vedute sperimentali e realistiche delle falde del Vesuvio.
 


Continuando al piano superiore, si è accolti dall’autoritratto del pittore e il ritratto di sua moglie Léontine Gruvelle, “Giornata d’inverno”, e si prosegue percorrendo le avenues parigine delle corse dei cavalli nel Bois de Boulogne e le rive della Senna, per passare infine alle rappresentazioni del centro di Londra e di “Westminster”, e delle capitali europee trasformate dai cantieri edilizi. La pittura di De Nittis conosce la vita convulsa dei grandi boulevards parigini, i divertimenti della “Lezione di pattinaggio” e l’intima mondanità del “Salotto della principessa Matilde” (Bonaparte).
 


Essa si inoltra alla scoperta della natura luminosa di Napoli e del suo vulcano (“Pioggia di cenere”), e si spinge fino a perdersi nelle ombre rarefatte dei palazzi sulle rive del Tamigi. Da segnalare la presenza di un’interessante sezione dedicata alla fortuna artistica nel ’900 delle opere di De Nittis e alle opere di difficile attribuzione, come il notevole ritratto “Ore tranquille” nel quale è stata recentemente rinvenuta una duplice firma, che permette di ricondurre la paternità del quadro all’opera di Vittorio Corcos. La mostra si conclude con i grandi ritratti a pastello di modelli femminili, di scene in plein air e con il capolavoro “Colazione in giardino”, olio su tela del 1883 terminato da De Nittis poco prima della sua scomparsa, avvenuta improvvisamente nell’estate del 1884 a Saint-Germain-en-Laye nella sua casa di campagna.
 


De Nittis
Palazzo Zabarella, Via degli Zabarella, 14, Padova
19 gennaio – 26 maggio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito: www.zabarella.it

“Il comandante” di Jürg Amann

Poche pagine pesanti, dense di significati, eppure scorrevoli e leggere alla lettura.  Pubblicato da Atmosphere (2013), questo monologo, ingenuo e sconvolgente come il suo protagonista, nasce dalla raccolta degli appunti personali di Rudolf Höss, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz,da parte di Jürg Amann, che ne ha selezionato i passaggi salienti da una voluminosa raccolta scritta in carcere, in attesa della sua esecuzione. La parabola della vita di un uomo ripercorsa attraverso una scelta di passi completa ed efficace (sono un’amante della brevitas e apprezzo questo aspetto del lavoro di Amann), senza inventare nulla. Ogni frase e ogni episodio diventano un pungolo di riflessione a livello storico e a livello umano.

Rudolf Franz Ferdinand Höss è un nazionalsocialista convinto, che viene incaricato di cercare e sperimentare un metodo rapido, e se possibile anche economico, per poter uccidere il maggior numero di ebrei contemporaneamente. Sin da bambino spicca la sua indole solitaria e poco incline ad affezionarsi agli altri, nemmeno ai suoi familiari. Trova un minimo di attrattiva in una sola attività: fare il soldato. Dunque, seppur la sua vita fosse stata indirizzata al sacerdozio per volontà paterna, Höss si arruolò nelle SS, diventando in breve tempo un personaggio di spicco e ritrovandosi dentro un ingranaggio più grande di lui. Aveva del resto tutte le carte in regola perfare carriera in un ambiente del genere: farsi poche domande ed eseguire gli ordini del Führer senza commentare.

Non serve che io faccia nemmeno un cenno alla storia raccontata, così tristemente nota in tutto il mondo. Non serve nemmeno che io dica quanta cinica freddezza c’è nelle parole di quest’uomo. Si può immaginare con estrema facilità. Credo che il libro vada letto esulando da questi temi: non è un libro di guerra e non è un romanzo. È qualcosa al limite tra autobiografia e monologo teatrale: le scene si materializzano davanti agli occhi con una forza non comune, inducendo necessariamente il lettore a farsi le domande giuste, quelle che il suo interlocutore non si è fatto durante la vita.

Un’operazione letteraria che credo meriti davvero, perché se da un lato (quello che per primo salta all’occhio) evidenzia la crudeltà umana, dall’altro tende a mostrarne la fragilità, che molto spesso è l’altra faccia della stessa moneta. Perché leggendo si rabbrividisce (o almeno a me è successo così) a pensare, più che agli orrori causati, alla pochezza di un uomo, e forse un po’ a quella di tutti quanti noi.

(Jürg Amann, Il comandante, trad. di Emanuela Cervini, Atmosphere libri, 2013, pp. 67, euro 10)

[Amarcord] “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli

Giovanni Vivaldi è un uomo semplice. Impiegato pubblico prossimo alla pensione, ha una sola, semplice, ambizione: far entrare il figlio Mario, giovane neo-diplomato in ragioneria, non particolarmente bello né brillante, nel suo stesso ministero e condividere con lui gli ultimi anni della sua vita professionale. Pur di riuscire a inserirlo in una corsia preferenziale per il concorso di ammissione, Vivaldi è pronto a sottoporsi a ogni tipo di umiliazione con i propri superiori, tra servilismo e massoneria. Proprio il giorno dell’esame, con le informazioni arrivate dai piani alti a dare sicurezza, Mario viene ucciso da una pallottola vagante esplosa da un rapinatore in fuga.
Capolavoro indiscutibile, Un borghese piccolo piccolo (1977) segna una svolta nella produzione di Mario Monicelli. Di fronte al deterioramento progressivo della società italiana, prima ancora dell’esplodere della violenza della P38, non c’è più spazio per la bonarietà, per quell’opinione comune degli Italiani brava gente di De Santis. La commedia, seppur già critica, si tinge di nero, si fa amara, si incupisce fino a diventare dramma, orrore. Non c’è più indulgenza per i difetti dell’italiano. Far ridere dei vizi, delle debolezze, vuol dire giustificarli. Si è persa ogni traccia di solidarietà umana. La difesa della condizione sociale è l’unica lotta che valga la pena combattere, a ogni condizione. Lo sa bene il Giovanni Vivaldi di Alberto Sordi, qui in una interpretazione straordinaria.

L’affanno di Vivaldi è volto tutto al mantenimento di uno status di gloria molto relativo; quell’incarico ministeriale, simbolo del livellamento piccolo borghese, che è per lui fonte di prestigio (del tutto personale) e arrogante strumento di rivendicazione di pretese al di sopra della propria portata. Sovrano assoluto nel suo piccolo, microscopico, regno familiare, nostalgico dell’autoritarismo mussoliniano – uomo vero capace solo lui di far andare le cose per il verso giusto – di cui prova a replicare modi e comportamenti nell’intimità domestica, Sordi è pronto a sottomettersi con i potenti, i superiori, pur di mantenere lo status quo della dignità percepita. Come il monarca che crede di essere, Vivaldi fa di tutto per assicurare l’ereditarietà della carica interinale al figlio, non in base a un semplice favoritismo alimentato dalla stima vantata come principale sentimento dei più nei suoi confronti, ma appellandosi al merito autentico del giovane Mario, che ha studiato, ha fatto ragioneria, sa dire «yes», e ai suoi occhi di padre è colto e bello come un eroe romantico. La galleria delle maschere inquietanti attraverso cui il borghese di Sordi e Monicelli passa per aprire la strada ministeriale al figlio è scolpita nel marmo e nel bronzo dell’intera storia sociale italiana. I colleghi grotteschi, i rituali massonici a base di amaro Montenegro e scantinati, il capo reparto vanesio e forforoso, sono l’Italia di quegli anni, ma non solo: una democrazia adolescente e del tutto impreparata alla civiltà e al merito, ancora arenata in logiche clientelari di piccoli feudi di potere.

La raffica di mitra che strappa il figlio dal solco della storia e gloria paterna distrugge tutte le certezze su cui si basava quel mondo piccolo del sovrano Vivaldi. Le colonne della sua autorità, il figlio da plasmare a propria immagine, la moglie da sottomettere crollano e con esse le sicurezze riposte in quella borghesia infinitesimale e simbolica che era centro dell’universo. E Vivaldi si illude che la vendetta sull’assassino del figlio possa essere un nuovo inizio, la benzina in grado di riavviare il motore del mondo, ma diventa invece il combustibile che brucia le ultime macerie, l’incendio che porta via quella moglie ridotta a un vegetale di dolore e di cui Sordi si è ritrovato a essere non più padrone ma servo. Nella solitudine finale del pensionamento coatto, celebrato sbrigativamente da colleghi ormai riassorbiti dall’indifferente routine, il borghese piccolo piccolo scopre che solo la violenza, o l’idea di essa, può essere il carburante, o la speranza, perché il mondo riprenda a girare, affermando la necessità dell’orrore come strumento di reazione all’orrore stesso, come scudo e spada non solo contro l’altrui violenza, ma contro l’ipocrisia della società, contro le devianze del tessuto civico prima ancora che sociale, come tentativo ultimo di restaurazione di un ordine in declino.

(Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli, 1977, drammatico, 118’)

“L’inferriata” di Laura Di Falco

“U Scogghiu”, così gli abitanti di Ortigia, «sangue e cuore della vera Siracusa», soprannominano «ora con orgoglio ora con affettuoso compatimento» la loro isola, al tempo dei greci centro politico e amministrativo dove aveva sede il palazzo del tiranno. Qui, fino alla metà del Novecento, è sopravvissuto un «mondo proibito ai più costituito dagli ultimi palazzi nobili rimasti ancora in piedi». Il confine naturale del mare separava infatti il nuovo, il moderno ancora in fasce negli anni Cinquanta, rappresentato dalla città di cemento, da una cultura, quella degli ultimi baroni siciliani, in via di estinzione, recalcitrante dall’acquisire la terribile consapevolezza che quel sistema di valori e di gerarchie a lungo perpetrato e da loro difeso, in un futuro assai prossimo, non sarebbe stato più rispettato.

Di questo declino parla il romanzo L’inferriata (Verbavolant 2012) di Laura Di Falco, uscito per la prima volta per i tipi di Rizzoli nel 1976 e finalista quello stesso anno al Premio Strega, nonché recensito con favore da Eugenio Montale. Lo ripubblica ora la nipote della dimenticata scrittrice siciliana, Fausta Di Falco, compiendo un’opera di recupero che è insieme un omaggio e un gesto di nostalgico affetto per luoghi e persone.
Laura Di Falco fece parte del circolo degli “Amici della Domenica” ed esordì nel 1950 con un racconto apparso su Il Mondo di Pannunzio. Ma il suo primo libro che fu anche un grande successo di pubblico fu Paura del giorno (Mondatori 1954).
L’inferriata è la storia di un amore all’inizio vietato, perché metteva in discussione ogni convenzione, di una giovane rampolla, la liceale Diletta De Marco, per un ragazzo dai non nobili natali: «Per trovare un compenso immaginò che di Mario non fosse rimasto che il corpo, svuotato d’ogni suo pensiero e convincimento. Quel corpo, tuttavia, l’attirava a sé, incondizionatamente, la liberava da ogni problema, diventava l’unica isola di approdo». Quest’amore, che si inserisce in un contesto di tensioni familiari, proprio quando non sarà più ostacolato svanirà. Quando infatti Mario Denaro verrà introdotto da fidanzato ufficiale in famiglia il suo mutato e conformistico comportamento ripugnerà Diletta al punto da costringerla a rifiutarlo per la disperazione della sua ansiosa quanto anaffettiva madre Emma.

Ma L’inferriata è soprattutto romanzo sul mutamento dei costumi nell’Italia del profondo Sud alla fine degli anni Sessanta, quando dal continente provenivano gli echi di grandi eventi: il primo uomo che tocca il suolo lunare, l’industria che avanza e il boom economico. Nel cuore dell’isola ormai sono evidenti invece i segni materiali del disfacimento. Ne è simbolo il lampadario di Murano caduto e frantumatosi in mille pezzi nella camera gialla della nonna di Diletta dalle pareti affrescate, su cui si focalizza significativamente ad apertura di romanzo la scrittrice: «[…] la sorte dell’immenso lampadario di Murano, gioia degli occhi al primo risveglio del mattino degli antichi marchesi che avevano abitato tanto tempo prima nel palazzo, era segnata».
Di questo passato ne è soprattutto custode la nonna, «generalessa dell’esercito familiare, disseminato fra i vari palazzi di Ortigia attraverso varie figliolanze e complicati intrecci di parentele, sovrintendente agli avvenimenti non solo interni, ma anche esterni al palazzo, nell’arduo compito assurto ormai a missione di tenere alto l’ultimo prestigio della nobiltà dello Scoglio, contro l’espandersi prepotente della città nuova di cemento oltre il ponte della Darsena».
Tra onore e prestigio da rispettare, un’eredità da salvaguardare dall’assalto di sorelle e parenti indebitati e prospettive di enormi e nuovi guadagni legati al turismo, vediamo muoversi il padre di Diletta, Gino De Marco, rappresentante della arricchita borghesia e quindi suo malgrado minaccioso germe della purezza di nobiltà della famiglia della moglie. In tutto questo la felicità di Diletta passa in secondo piano mentre è facile riconoscere quei meccanismi di corruzione e favoritismi non ancora tramontati nel bel Paese.
Con una scrittura immaginifica che fa dell’isola siracusana un luogo anacronistico di rovine gravide di umidità e ombre fuori dal tempo, Laura Di Falco ci lascia ascoltare gli ultimi sussulti del mondo di ieri, il mondo dei Viceré di De Roberto.

(Laura Di Falco, L’Inferriata, Verbavolant, 2012, pp. 272, euro 15)

“A Wolf in Preacher’s Clothes” di Jon DeRosa

Davvero un bel personaggio Jon DeRosa. Detto onestamente, con un po’ di sana invidia. Trentaquattro anni, from New Jersey, origini italiane. Tatuato barista di notte a Brooklyn, quasi completamente sordo dall’orecchio destro. Chitarrista, fondatore del progetto shoegaze Aartika nel 1999. Studia canto classico indiano con LaMonte Young e Marian Zazeela. Realizza musiche per cinema e tv. Nel 2012 il grande passo, la svolta che non t’aspetti: l’esordio solista, come autore, come crooner. Una scelta coraggiosa e fortunata chiamata A Wolf in Preacher’s Clothes. Esordio fantastico, capace di presentarci un songwriter che in futuro risentiremo sicuramente. Merito d’una voce che arriva dritta all’anima e una sensibilità compositiva pari a poche. La vita di DeRosa comunica e si riflette nelle sue canzoni. La maggioranza delle storie di A Wolf in Preacher’s Clothes nasce proprio dietro al bancone del bar, tra un turno e l’altro. Siamo tra il Barfly bukowskiano e il Tom Waits di Closing Time. Una posizione privilegiata, dove osservare, comunicare e assimilare le miriadi di storie e vicende notturne, trasformandole in dolci melodie. Interessante notare come le canzoni non nascano durante le ore più nere e insonni (dove spesso molti artisti si rifugiano per comporre), ma all’alba, quando la frenesia metropolitana inizia a scemare e la tranquillità dell’imminente nuovo giorno permette al cantante di mettere per iscritto le vicende vissute. E di riflettere sui tanti aspetti della vita.

A Wolf in Preacher’s Clothes è una collezione di ritratti, più che un grosso autoritratto. Come ha ammesso l’autore – confermando l’accenno biografico-lavorativo – per lui è molto più facile parlare di sé raccontandosi tramite altri personaggi che parlare in prima persona. Probabilmente è uno strascico delle passate esperienze musicali introspettive. Birds of Brooklyn”, prima traccia e primo singolo, getta tutte le carte sul tavolo: sinuosi riff di chitarra, impeccabile base ritmica, arrangiamento strumentale coinvolgente ed emotivo, e soprattutto la voce di DeRosa, l’unica che l’ascoltatore vuole sentire per sapere come vanno a finire certe malinconiche vicende della vita. Più “spaccona” e altrettanto magnifica “True Men”, da dedicare alla donna da conquistare, dove nel ritornello viene citato il titolo del disco. La successiva “Snow Coffin” ha la partitura strumentale più struggente dell’album e un ritornello fuso al suo interno destinato a rimanere impresso per sempre. Non mancano i momenti più spensierati e felici, musicalmente più solari: “Who Decides?” vale per tutti. Dicevamo dei ritratti metropolitani, con protagonisti le tante anime da bar: “Tatooed Lady’s Blues” è il sentito pegno d’amore in chiave blues all’affascinante donna ricordata per i suoi tatuaggi. Il gran finale dell’album è chiamato “Hollow Heart Theory”. Talmente oppresso da tante sventure, il protagonista del brano, per non arrendersi, decide di appigliarsi a teorie ormai superate, come quelle della Terra cava. La performance vocale di DeRosa è talmente alta ed empatica da non meritare alcun commento.

A Wolf in Preacher’s Clothes è un disco fortemente connotato. Lo stile, la produzione e gli arrangiamenti sono tutti fedeli alla moderna scuola dei crooner. Questo lo precluderà a molti ascoltatori non avvezzi al genere. Va però detto che Jon DeRosa non è avaro di riletture e spunti molto personali, sia nelle musiche, ma soprattutto nei testi: moderni, notturni, sentiti e toccanti. Tali splendidi versi passano per la sua voce, la padrona assoluta, che certamente ammalierà anche i più lontani e prevenuti. Quindi, attendete la notte giusta. Vivetela fino in fondo. Aspettate l’alba e poi, mentre vi apprestate a tornare, iniziate ad ascoltare Jon DeRosa. Vedrete che tutto starà al posto giusto.

(Jon DeRosa, A Wolf in Preacher’s Clothes, Rocket Girl, Goodfellas, 2012)

 

[Oscar 2013] “Vita di Pi” di Ang Lee

Se tuo padre, dietro suggerimento di un caro amico estasiato dalla piscina comunale di Parigi, decide di chiamarti Piscine Molitor, l’unica cosa da fare per evitare le inevitabili prese in giro a scuola è distrarre i compagni il primo giorno riempiendo la lavagna di cifre decimali successive a 3,14 per far capire a tutti che ti possono chiamare semplicemente Pi.

Inizia sostanzialmente con questo aneddoto, il primo di una lunga analessi che occupa bene o male tutto il film, Vita di Pi del regista taiwanese Ang Lee, reduce dai non brillanti risultati di Motel Woodstock (2009). La storia, basata sull’omonimo romanzo di Yann Martel, è infatti raccontata dal Pi adulto a uno scrittore, arrivato a casa sua, su indicazione dell’amico paterno di cui sopra, in cerca di materiale per un libro. Si sviluppa dunque il racconto della vita di Pi (interpretato dal giovane attore indiano Suraj Sharman, al suo esordio sul grande schermo), in cui si dice di come il padre fosse proprietario di uno zoo a Pondicherry, nell’India francese, dove il giovane e curioso Pi viveva con i genitori e il fratello. Talmente curioso e sensibile che inizia a seguire, oltre all’induismo, anche il cristianesimo e l’islamismo. In seguito a problemi economici, il padre decide di trasferirsi con famiglia e zoo in Canada, per vendere lì gli animali e cominciare una nuova vita.

Tuttavia la nave mercantile giapponese su cui si erano imbarcati viene affondata da una tempesta nel mezzo dell’oceano Pacifico. Solo Pi riesce a salvarsi, e si ritrova a bordo di una lancia di salvataggio insieme a una zebra, un orango e una iena. La iena uccide i due animali prima di essere a sua volta sbranata da Richard Parker, la tigre del Bengala dello zoo, sbucata incredibilmente sulla coperta della scialuppa.

Grazie anche a una strabiliante esibizione delle capacità della grafica digitale, Ang Lee ci mostra la sopravvivenza del giovane Pi in mare aperto (che si protrarrà per 227 giorni): non si tratta solo di sfidare l’oceano, ma di convivere nello spazio limitato della lancia con la tigre. Pi si divide infatti tra la necessità di evitarla e l’istinto di prendersene cura, perché è anche grazie alla presenza dell’animale che il ragazzo, che ha sempre mostrato più di un occhio di riguardo verso gli animali e l’equilibrio del cosmo in senso lato, si dota della disciplina fondamentale per non perdere la testa e passare così i giorni.

Finalmente al sicuro, in ospedale Pi è visitato da due uomini che, per conto di una compagnia di assicurazioni giapponese, lo interrogano circa il naufragio della nave; a questi il ragazzo è costretto a raccontare un’altra versione, più verosimile ma più tragica (e che coinvolge anche il personaggio del cuoco aggressivo interpretato, nell’unica scena in cui compare, da Gérard Depardieu). È un finale che gioca quindi con la funzione e l’ambiguità della narrazione, senza però lasciare da parte il riferimento alla fede e al suo mistero.

Candidato a 11 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia (statuetta quest’ultima già vinta dal regista taiwanese con I segreti di Brokeback Mountain), Vita di Pi è un romanzo di formazione atipico, in cui il giovane protagonista, per via di una viva curiosità e di una naturale propensione all’empatia col mondo esterno, ha già in sé tutti gli strumenti, spirituali prima ancora che pratici, per cavarsela in una situazione estrema sia dal punto di vista psicologico sia da quello fisico. Si tratta di una grande favola e Ang Lee la ambienta in un mondo naturale spettacolare, di cui l’uomo non è il centro.

In definitiva, anche se a volte si potrebbe pensare che se le immagini non fossero così appaganti la placidità del ritmo rivelerebbe la noia di alcune sequenze, ci troviamo davanti a un bel film, girato bene e tecnicamente ineccepibile; si potrebbero sollevare dubbi sull’appropriatezza di una tale mole di nomination, ma i soldi del biglietto li vale senz’altro.
(Vita di Pi, di Ang Lee, avventura, 2012, 127’)

 

[Oscar 2013] “Amour” di Michael Haneke

Un copione e una sceneggiatura semplicissima. Si tratta solo di osservare una situazione ben precisa: la realtà che è sotto i nostri occhi. Fatti che abbiamo vissuto e che dovremmo, prima o poi, vivere sulle nostra stessa pelle.

Così le rughe vengono ad accumularsi sul nostro corpo, le mani sempre più fragili e doloranti, per via di un’artrosi che non credevamo potesse giungerci così rapidamente. Le ossa e le articolazioni ormai vacillano. Le macchie scure sulla pelle sempre più vistose. Il sapore dell’abitudine e dei gesti quotidiani hanno preso il posto dell’antica frenesia, del volere vivere a tutti i costi. La rassegnazione. Ora l’attesa è rivolta unicamente verso una sola parola: fine.

Basti sapere in tutto questo che George e Anne si amano. Si sono sempre amati e si ameranno anche dopo.

Questo è Amour di Michael Haneke, film vincitore della Palma d’Oro alla sessantacinquesima edizione del Festival di Cannes del 2012 e candidato a cinque premi Oscar tra cui miglior film e miglior regia. Con un realismo pungente, freddo, che fa male, il regista austriaco ancora una volta vuole sconvolgere e mettere lo spettatore a confronto con l’essenza della realtà stessa.

Con questo suo “studio” amoroso è stata scelta la condizione più estrema, il momento di contrasto per eccellenza tra reale ed eterno: la malattia. Inesorabilmente e ineluttabilmente la loro esistenza viene a frantumarsi per un attacco ischemico di Anne. Il declino sarà rapido e inarrestabile. Mano nella mano, con tutto il loro amour, scendono il vertiginoso sentiero verso il traguardo finale. Del dopo ce ne freghiamo, almeno per ora.

Haneke ha riunito una coppia sacra della comédie française. Emmanuelle Riva è semplicemente unica e stupenda. Nel film incarna l’amore malato, riuscendo ad andare al di là del sopportabile. Rappresenta la bellezza pura che lentamente va a sfiorire, dove di eterno rimane solo l’amore di e per George. Madame Riva ha sempre e solo scelto ruoli secondo le proprie pulsioni e passioni più profonde. Ancora una volta Emmanuelle rispolvera la Duras che è in lei (Hiroshima mon amour), meritando appieno la candidatura all’Oscar 2013 come migliore attrice protagonista. Anziana sì, ma di una grandezza incommensurabile.

E poi Jean-Louis Trintignant è inimitabile. Sublime. L’ultimo re del cinema francese, ha la voce e uno sguardo che si fanno mondo e che in questo ruolo esprime pura umanità, di un calore oggi così raro, così prezioso. Per Trintignant, Haneke ha rispolverato un ruolo degno e alla pari di interpretazioni cucite appositamente per lui da giganti quali Lelouch o Bertolucci.

Se proprio dobbiamo farlo, a malincuore, troviamogli pure un qualche appunto. Haneke è un regista di culto e, da un certo punto di vista, perverso. Egli rappresenta il cinema contemporaneo della morte e anche in Amour porta avanti un gioco sadico, di cui l’unica cavia, spesso inconsciamente, è lo spettatore stesso. È una forma di cinema alquanto fuori dai tempi. O meglio, ne abbiamo proprio bisogno? È una visione che non serve, in una società sempre più angosciosa e angosciante. Niente ormai gira per il verso giusto. Haneke questo lo ha studiato a tavolino. Ovviamente è maestro in questo meccanismo, banalizzando con ciò il grottesco della quotidianità. Un gioco un po’ vuoto ormai.

Il film è ottimista. Un lungometraggio la cui bellezza e al contempo tragicità è totale. La maestria di Haneke sta proprio in questo: sottolineare gli istinti reconditi di ognuno di noi. Rende umano l’uomo e lo presenta semplicemente per quello che è. Attraverso l’arte crudele di una cinepresa viene illuminato il lato nascosto dell’amore, quello della vecchiaia, dell’impotenza, della fine. Questo è Amour.
(Amour, di Michael Haneke, 2012, drammatico, 105’)

 

“Il lungo addio” di Raymond Chandler

Che differenza c’è tra un libro, o un film, noir e uno poliziesco? Per rispondere a questa domanda può essere utile leggere Il lungo addio, romanzo dello scrittore americano Raymond Chandler pubblicato nel 1953. Il protagonista è l’ispettore privato Philip Marlowe, presente anche in altri sette romanzi dello scrittore nato a Chicago, più un racconto e un romanzo incompleto.  

Una sera, per caso, Philip Marlowe si imbatte in Terry Lennox, completamente ubriaco fuori da un locale. Terry è sposato con Sylvia Potter, figlia del ricchissimo Harlan. Quello tra i due non è un matrimonio d’amore. Lui è soprattutto una facciata per nascondere i numerosi amanti della moglie. Fino a quando Sylvia viene uccisa e Terry fugge in Messico, grazie anche all’aiuto di Marlowe. Ma quella oltre confine non è certo una vacanza per Terry che infatti viene trovato morto con accanto una lettera in cui confessa l’omicidio della moglie. Passano pochi giorni e Philip Marlowe viene ingaggiato per risolvere un caso di sparizione: un famoso scrittore, Roger Wade, con il vizio del bere che gli provoca scatti di violenza, sono diversi giorni che non torna a casa dalla bellissima moglie Eileen. Si scoprirà che i due casi non sono altro che la doppia faccia di una stessa luna.

Per introdurre il personaggio di Marlowe, e rispondere in parte alla domanda iniziale, bastano poche parole pronunciate dallo stesse detective: «Sono un lupo solitario, non ho moglie, sto arrivando alla quarantina e non sono ricco. Mi hanno messo dentro più di una volta. Mi piacciono i liquori, le donne e il gioco degli schacchi e alcune altre cose. I poliziotti non mi hanno eccessivamente in simpatia […]. Una volta o l’altra mi faranno la pele in qualche vicolo scuro […]. Nessun uomo o nessuna donna se ne dispereranno».

Il genere poliziesco è nella maggior parte dei casi una detective-story dove un investigatore privato o un federale cerca di risolvere un caso. La ricerca del colpevole è parallela a una ricerca dentro se stesso. Si tratta di libri, o film, dove la soluzione del caso ha comunque un’importanza tale da far passare in secondo piano tutti gli altri sviluppi della storia, a partire da quelli emotivi e psicologici.

Dopo la seconda guerra mondiale si diffonde il genere noir che approfondisce la ricerca esistenziale del protagonista. E le risposte che i personaggi trovano alle loro domande sono cupe, negative. Il detective è solo. Si sente solo. Frequenta un brutto giro di amicizie e i bassifondi cittadini. Le ambientazioni sono notturne, la donna diventa una dark-lady. Il mondo è tutto sbagliato. Poliziotti maneschi. Il matrimonio che è solo una facciata per coprire violenze e ninfomanie. I soldi sono unti come il potere e la grande industria. L’uomo si sente come gettato nel mondo, ha perso l’essere e quel che gli rimane è l’esistenza. Nel noir la risoluzione del caso perde di importanza rispetto al giallo, in favore dello sviluppo esistenziale del racconto.

Il poliziesco classico con la risoluzione del crimine è consolatore, riporta le cose a un perfetto stato iniziale. I buoni hanno vinto. I cattivi sono in prigione. Nel noir anche quando il colpevole muore o è assicurato alla giustizia, il lettore è portato a riflettere su quanto la società sia inquinata. E su quanto sia labile la  differenza tra buoni e cattivi.

Come spiega Philip Marlowe «Gli uomini politici sono disonesti […]. Il delitto non è una malattia, è un sintomo. I poliziotti sono come il medico che ti prescrive un’aspirina quando sei affetto da un tumore al cervello, a parte il fatto che i poliziotti te lo curerebbero col mangaello […]. La malavita organizzata non è altro che l’aspetto più sudicio del potere d’acquisto del dollaro». E quando un poliziotto gli domanda qual è l’aspetto più pulito, Marlowe risponde: «Non l’ho mai visto».


(Raymond Chandler, Il lungo addio, trad. di Bruno Oddera, Feltrinelli, 2010, pp.313, euro 8)

“Anna Karenina” di Joe Wright

Dopo Orgoglio e pregiudizio (2005) e il pluripremiato Espiazione (2008), Joe Wright prosegue la sua ricerca nella trasposizione cinematografica di grandi classici della letteratura, affrontando questa volta un mostro sacro quale Lev Tolstoj, con la sua Anna Karenina.

La storia è quella che conosciamo, lo scandalo di sempre, ambientato ai tempi della Russia imperiale: il tragico declino di Anna, «sposata senza amore» con Aleksej Karenin, dopo il fatale incontro con l’ufficiale Vronskij, che la sconvolgerà al punto da condannarla alla più intensa delle passioni e alla più misera infelicità.

Il capolavoro di Tolstoj, pubblicato per la prima volta nel 1877, oltre a essersi ben presto stabilito come un classico intramontabile, ha generato nel corso degli anni svariate trasposizioni e rivisitazioni, tra cui ben undici adattamenti cinematografici. Come gestire una materia narrativa così viva e prolifica senza scadere nel trito e nel banale? Semplice, accentuando la sua natura di remake, rendendolo palese, costruendo uno spettacolo nello spettacolo. Dalla carta alla pellicola, e dal cinema al teatro: sì, perché l’azione si svolge quasi interamente in un teatro ottocentesco, simbolo della società russa del XIX secolo, che diventa filtro e filo conduttore insieme, ospitando sontuose scenografie e offrendosi alla camera da presa nella sua interezza: non un semplice palcoscenico, bensì cambi di scenografia a segnare lo scorrere del tempo, scene corali in cui l’intero teatro è invaso dall’azione, intere sequenze girate dietro le quinte. Ebbene sì, funziona.

Candidata a quattro premi Oscar (miglior fotografia, colonna sonora, scenografia, costumi), l’ultima fatica di Wright ci tiene incollati allo schermo proponendoci una riduzione audace e a tratti autoironica del grande romanzo russo, anche grazie alla brillante sceneggiatura di Tom Stoppard e alla spettacolare colonna sonora a cura di Dario Marianelli, già vincitore di statuetta e Golden Globe per le musiche di Espiazione.

Non poteva mancare la musa di Wright, Keira Knightley, il cui viso spigoloso sembra nato per essere ornato di perle e abiti sontuosi, che però offre un’interpretazione piuttosto algida, accanto a un Jude Law del tutto convincente nel ruolo del marito offeso ma non privo di pietà. Un plauso a Domhnall Gleeson, che anima la storia parallela su cui è costruito il romanzo, dando voce a un Levin idealista ma mai patetico. Convince meno la figura di Vronskij, interpretato da Aaron Taylor-Johnson, che certo non manca di physique du rôle, ma non è il personaggio travolgente e spietato che ricordiamo. Appunto che forse va esteso all’intero film: a qualcosa, probabilmente, si doveva rinunciare, e a risentirne è stata soprattutto l’intensa drammaticità della storia, il cui tragico epilogo passa quasi inosservato.

(Anna Karenina, di Joe Wright, drammatico, 2012, 130’)