“Macbeth”, regia di Andrea De Rosa

Andrea De Rosa, nella sua rilettura del Macbeth shakespeariano, sceglie un attore di stazza, un incredibile Giuseppe Battiston, e una Frederique Loliée stizzosa, violenta, nervosa. E costruisce tutto il suo lavoro attorno a degli elementi che fanno parte di un ingranaggio destabilizzante, che mette a disagio lo spettatore. Una lettura “a lato” della tragedia di Shakespeare, un inquietante dramma, ambientato in un interno borghese, per niente rassicurante, nonostante la sua asetticità. Qui si muovono i personaggi, che sembrano usciti dalla testa di Quentin Tarantino o del Kubrick di Arancia Meccanica, e in scena a imporsi è la miseria dell’uomo, esaltata, moltiplicata a dismisura da De Rosa, che fa muovere la storia tra le stanze di una casa arredata in modo minimale ma che ospita, in realtà, un percorso di sangue che porterà Macbeth dritto alla corona. Forte di una messa in scena volutamente esagerata, De Rosa si affida alle risate sguaiate, alla crudeltà, alle maschere di Battiston e alla sfrontatezza della Loliée per mettere in scena la banalità del male, la sete di potere, il desiderio di gloria di un uomo che è, soprattutto, vittima dei suoi legami. Si fa sentire l’apporto al suono di Hubert Westkemper, curatissimo sin nei minimi dettagli, e soffoca il pubblico fino a esautorarlo dal suo ruolo di spettatore, costringendolo a subire un rito, la preparazione al delitto, a essere testimone di un orrendo assassinio. Un Macbeth intimista, terrificante, dove sono tre bambolotti dalla voce metallica a dare la profezia, figli mai avuti, annunciatori di sventure. Lady Macbeth partorirà, alla fine, in uno dei momenti più alti dello spettacolo, feti di bambini destinati a morire e Macbeth, solo alla fine consapevole della sua sorte, finirà per combattere con Macduff, nato con cesareo, nella foresta di Birman, appestata dal sangue e dai corpicini pendenti dei bambini mai nati, attaccati a un filo. La profezia si avvera e termina un lavoro imponente, difficile, parodico ma che non può non affascinare lo spettatore.

 

Macbeth
di William Shakespeare
regia di Andrea De Rosa

Visto al Teatro Bellini di Napoli il 4 dicembre 2012.

Scripta Manent. Una nuova libreria del pensare indipendente.

Ieri 4 dicembre in via Pietro Fedele 54-56 è stata inaugurata la libreria Scripta Manent, un nuovo spazio per la realtà editoriale indipendente ricavato in un quartiere, l’Appio Latino, che di iniziative del genere «aveva fame», come ha testimoniato parte dei presenti all’evento.

Un progetto nato rapidamente, ci informano i due ideatori Lina Monaco e Maurizio Ceccato, che in meno di due mesi hanno radunato titoli scelti di un numero non tanto grande, ma ragionato di case editrici. Partendo da Hacca, e/o, :duepunti e passando per Piano B, minimum fax, 66thand2nd, L’orma e tante altre, avvertiamo immediatamente la voglia di effettuare una proposta precisa, di guidare alla scelta un lettore che, in uno spazio minimale e per nulla dispersivo, si orienta facilmente tra nomi noti e meno noti.

«Anche un solo segno fatto su un pezzo di carta rappresenta una scelta politica», spiega Ceccato, ed è per questo che in una realtà sempre più liquida, di cui il web è il primo stendardo, si sperimenta ancora lo strumento che rende questo universo tangibile: la carta. E Scripta Manent lo fa esponendo, ma soprattutto scegliendo l’indipendenza attraverso un procedere che guarda prima di tutto in se stesso, «al tanto che ancora c’è da esplorare sul versante comunicativo».

E la comunicazione, a Scripta Manent, arriva da ogni dettaglio, da ogni segnalibro poggiato, dalle cartoline che ci presentano il logo della libreria: un uomo in nero con colletto e polsini bianchi è legato a una sedia le cui gambe leggermente inclinate sembrano quasi non riuscire a reggerne il peso, ma ha ancora una mano libera per stringere la penna d’oca grazie a cui, chissà, riuscirà a scrivere e a liberarsi. 
 


Al crocevia tra la biblioteca privata e il laboratorio di idee, il lavoro di Ceccato e Lina Monaco è anche un tentativo di essere un luogo di diffusione di idee e di proposte – rappresentato in prima linea dalla distribuzione di Watt, una delle realtà più interessanti nel panorama delle riviste letterarie –, aggiungendo una nota più profonda nella ricerca, dimostrando di voler dare spazio a chi per primo lo fa, incidendo sempre più sull’idea di andare verso strade forse rischiose, ma certo ancora libere.
 

“Il Trono di Spade”, dai romanzi di George R.R. Martin

Un altro grande successo per HBO e per George R.R. Martin. Pensate a una casa di produzione che ha già collezionato diversi successi e che prende in considerazione un best seller fantasy che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo: questi sono alcuni degli ingredienti per la realizzazione di una serie televisiva vincente.

Siamo in un medioevo fantastico, dove le stagioni durano anni, dove le vicende dei sette regni ruotano attorno al Trono di Spade di Approdo del Re e dove, tra lande desolate, si erge un’altissima Barriera che divide ciò che è noto dall’ignoto. Famiglie protagoniste delle prime due serie sono: i Targaryen (Daenerys e Viserys sono gli unici discendenti della cosiddetta “dinastia dei draghi”), i Lannister (famiglia eterogenea e pronta sempre a stupire), i Baratheon (tra cui Robert che è l’attuale re dei sette regni) e gli Stark (numerosi e molto uniti). I vizi sembrano oramai aver preso il totale controllo di Robert Baratheon che, agli occhi del vecchio amico Eddard Stark – e non solo –, non è più in grado di prendersi cura né della sua famiglia né tanto meno del regno. I Guardiani della notte, che sorvegliano ventiquattro ore al giorno la Barriera, ritrovano al di là della stessa i cadaveri di alcuni bruti e vengono, infine, uccisi da entità ignote. Intanto Vyseris ha deciso di far sposare la sorella con il capo dei Dothraki (tribù nomade e fiera) poiché pensa che grazie a tale unione riuscirà a riconquistare i sette regni che gli spettano, dato che suo padre Aerys era stato brutalmente ucciso dallo sterminatore di re (Jamie Lannister, uno dei fratelli della regina Cercei moglie di Robert Baratheon). Dopo la misteriosa morte del Primo Cavaliere del re, Jon Arryn, re Robert si reca a Grande Inverno per nominare Eddard Stark come suo successore. L’improvvisa e strana caduta da un’altissima torretta di Brandon Stark, penultimo dei discendenti della famiglia di Grande Inverno, e l’arrivo di Eddard ad Approdo del Re sono l’inizio di una serie di vicende intricate e sorprendenti. Da questi primi episodi si svilupperanno, con la presentazione di molti altri personaggi, tradimenti, guerre, preghiere, uccisioni, atti coraggiosi, astuzie e colpi di scena.

La partecipazione di George R.R. Martin come aiuto sceneggiatore in alcuni episodi ha garantito la fedeltà della serie nei confronti dei libri. HBO, come ha ampiamente dimostrato ad esempio con Spartacus, ha calcato molto la linea su caratteristiche che attirano molto il pubblico (soprattutto maschile): il sangue e il sesso.
La prima serie di Game of Thrones [titolo originale de Il Trono di Spade, ndr], andata in onda per la prima volta in America nel 2011, ha da subito riscontrato un ottimo seguito di pubblico. La seconda serie, fruibile da aprile 2012, ha anche ottenuto un notevole successo e ora gli appassionati attendono impazienti la terza che sarà disponibile a partire da marzo 2013.

Leggere i libri prima di vedere la serie darà certamente un valore aggiunto allo spettatore. Per chi volesse comprendere qualcosa a proposito della saga cartacea – Le Cronache del ghiaccio e del fuoco – potrà consultare anche un ulteriore articolo.

Il cast è composto da attori talentuosi (Sean Bean, Lena Haedey, Peter Dinklage etc.) la cui recitazione è quasi sempre impeccabile. La riproduzione del mondo fantastico creato dalla geniale mente di Martin è minuziosa e seducente. In questo mare magnum di caratteristiche positive è davvero difficile trovarne qualcuna negativa. Certamente deve piacere il genere e si deve guardare con molta attenzione ogni puntata. I dettagli, infatti, sono fondamentali al fine di una perfetta comprensione dell’evolversi della storia.

Non mi resta che augurarvi una buona lettura e visione!

 

“Qualcosa di scritto” di Emanuele Trevi

Qualcosa di scritto è il saggio romanzato di Emanuele Trevi, un importante testimonianza sul percorso narrativo e non solo di Pier Paolo Pasolini.
Trevi si muove tra i documenti del Fondo Pasolini, nell’appartamento di Via Cavour a Roma, dove sperimenta la difficile convivenza con Laura Betti, storica attrice del film Teorema e donna dal carattere particolarmente difficile. Trevi  incontra Pasolini attraverso le testimonianze di Laura e ripercorre, foglio per foglio, il cammino di Petrolio da manoscritto a romanzo edito. Il privilegio di leggere direttamente dal manoscritto, consultando le correzioni manuali dell’autore friulano, consente a Trevi di formulare ipotesi filologiche e di beneficiare di rivelazioni che gli permettono di intravedere la gestazione dell’ultimo e incompiuto lavoro del poeta di Casarsa. Se è vero che parte di questa conoscenza è filtrata dagli occhi di Laura Betti, è altrettanto vero che i suoi racconti aiutano il nostro autore a rendere più palpitante e vivo l’incontro con il poeta de Le ceneri di Gramsci. Trevi sottolinea la natura visionaria del testo,in certi passaggi quasi surrealistica, mettendo il luce la brutalità con cui, lasciato nel silenzio dei lavori incompiuti dal 1975, appaia vent’anni più tardi come una specie di “mostro riemerso dal passato”. Il “libro-mostro”, decontestualizzato e pubblicato in un’epoca storica posteriore, era apparso di difficile comprensione ai lettori  del 1992, sembrando un romanzo alquanto oscuro ed enigmatico.

Il romanzo narra le vicende di Carlo e del suo sdoppiamento. Carlo e Carlo II sono destinati entrambi a diventare donne e, da donne, a tornare nuovamente uomini. Impossibile non pensare alle Metamorfosi di Ovidio, autore che Pasolini, uomo dalla solida preparazione classica, conosceva bene. L’escamotage delle metamorfosi serve a Pasolini per carpire la realtà in senso panico e intelligibile, offrendo al lettore l’opportunità di un viaggio sensoriale e spirituale attraverso le vicende del protagonista sdoppiato. Dietro Qualcosa di scritto, tuttavia, si cela anche un processo al Novecento, alla sedimentazione di quei valori e rapporti di potere di cui Pasolini aveva sempre denunciato lo strapotere e gli intenti mistificatori. Carlo e Carlo II sono la metafora della società italiana dell’epoca, delle contraddizioni che la animavano e dell’affarismo cieco e del perbenismo che la contraddistinguevano. In sintesi, un processo alla borghesia.

La comunicazione e la comunicatività erano sempre state al centro della ricerca linguistica pasoliniana, nulla era  mai casuale nell’opera del regista di Accattone: nel cinema come nella narrativa o nella poesia. Anche l’intervista, che per i più è solo occasione di potersi promuovere, per Pasolini costituiva un genere ben definito e l’attenzione al particolare era fondamentale per non concedere la possibilità ai mass media di strumentalizzare o mistificare un prodotto interamente letterario o intimamente ideologico.

Con questo saggio palpitante, Petrolio non solo viene sottratto dal mare oscuro in cui ha giaciuto dal 1975 al 1992, ma anche dalla nebbia che lo aveva circondato dal 1992 a oggi. Il romanzo viene analizzato da un punto di vista sociale, storico, letterario e politico. Ideologico, nel senso letterario del termine. Il pregio di Emanuele Trevi è quello di condurci, passo dopo passo, alla conoscenza di uno dei testi più controversi dello scorso secolo. Il saggio Qualcosa di scritto costituisce, in ultima analisi, una tappa fondamentale nella conoscenza di uno degli scrittori e intellettuali più importanti dei nostri giorni.

(Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, 2012, pp. 246, euro 14.28)

Via Aspromonte 100

Sono in coda. È tutto fermo. Come sempre quando passo di qua ho una leggera aritmia. Non corro mai per strada, eppure qui scivolo via senza mai distrarmi, non voglio guardare il suo lato. Voglio solo andarmene e subito. Invece ora sono obbligata. Sono in fila. Una luce lampeggiante fa capolino qualche macchina avanti alla mia. Prendo respiro e mi faccio coraggio. Guardo a destra. Il carcere è lì, fisso a puntare su di me, sulla mia vigliaccheria.

Non ho mai contato le spine di una rosa, non mi sono mai chiesta se fossero dispari o pari, se crescessero insieme o lontane tra loro. Se il fatto che siano leggermente ricurve come una piccola mezza falce di luna, come una minuscola onda che si getta alla vita, siano determinanti per il loro difendersi. Proprio come una mendicante che si piega in due per non mostrare il volto a chi un giorno l’ha calpestata o semplicemente ignorata. Ecco, non so neanche perché mi sia venuta in mente. Io ne ho sempre avuto paura; paura delle rose e di quei mendicanti. Ho sempre schivato i loro sguardi così carichi di pacatezza, di consapevolezza universale. Li percepivo ovunque, quando uscivo dal cinema, ed era troppo tardi per trovarmi da sola; quando mi alzavo presto per prendere il bus della scuola e sentivo il territorio tracciato dal puzzo di urine che andava a fondersi con l’odore ripugnante dell’asfalto; quando correvo senza fiato e i loro occhi per un istante cercavano i miei, completamente sbandati, come a volermi indicare la strada, la sopravvivenza. Loro si muovono e nessuno ne sente il passo, nessuno sente lo scricchiolio dei loro pensieri, nessuno gli suggerisce la direzione e tanti hanno una rosa con sé.
Un giorno ho chiesto: Che cosa è la libertà? Mi hanno risposto: La libertà è un’emancipazione inventata, è un concetto che non sussiste perché diventa reclusione nel momento in cui ne attribuiamo il significato. Soffochi se ti fermi e cerchi di contenerla, di trovarne il limite. È in quel momento che diviene trappola, ghigliottina, cappio. Pensai: quanta sciocchezza e quanta ingenuità.
E ora quanti pensieri inutili, interrotti a ogni punto, virgola ed esclamazione, così da non permettere all’emozione di pensare a te. Non c’è storia, mi arrendo.
Ricordo.
Avevi sempre una sciarpa azzurra o verde. Una di quelle di seta indiana che facevano tanto tendenza. Una testa riccia e un sorriso fiero: Marianna, ti chiamo così perché il tuo vero nome, oggi, evocherebbe solo dolore. Tu, seconda di tre figli, di una famiglia amante del quieto vivere. Avevi sei anni più di me allora e se ci penso li hai anche adesso. Ma all’epoca erano così tanti.
Oggi invece potrei guardarti negli occhi e non avere paura.
Tu, giovane, bella, colorata, con una bicicletta bianca e un maglione sformato, io, una ragazzina innamorata di tuo fratello e dei tuoi modi, del tuo essere così preziosamente donna senza mostrarsi.
A volte, casualmente, mi concedevi qualche momento, senza neanche accorgertene.
Senza chiederti nulla raccontavi cose che non conoscevo, ma dal suono tanto affascinante.
Parole che uscivano con equilibrio e nobiltà, che non avrebbero mai tuonato il loro effetto devastante. Non c’erano né spine, né rose, solo grandi giardini, pieni di profumo e di libertà. Nessun mendicante.
Eppure era inverno. E Parlavi di biscotti al forno, di studio e uscite serali, sorridevi e filavi via dai tuoi amici. Eh sì, sempre così dicevi: «Devo andare, ho amici che aspettano».
E io pensavo: anche io avrò amici da grande e loro saranno con me, e io sarò come lei: dritta, fiera, limpida.
Ora guardo questo muro, alto e invalicabile, che non cambierà mai la sua identità, che trasuda di sconfitte nude, di soffitti scrostati che ricordano le ceneri di corpi insufficienti.
Qualche anno fa lessi su un giornale una tua frase: La giustizia borghese non è legittimata a giudicare i rivoluzionari!
La lessi come la bicicletta bianca alla sua ultima corsa. Una bicicletta che fino a ieri avevo visto passare sotto casa, e che mai avrei potuto immaginare che qualcuno potesse cancellare.
E invece accadde.
Capii così che non saresti tornata.
Chissà, se mentre ribadivi quanto fosse divertente fare una passeggiata sotto la pioggia con le ruote della bici ad affondare nelle pozzanghere, cercavi di spiegare cosa fosse la coscienza, la libertà, la resurrezione. Cosa fossero quelle isole che non si trovano sui libri ma che qualcuno stava costruendo per noi.
Forse non era così, forse era davvero solo un gioco da ragazzi, bagnarsi e tornare a casa sapendo di aver sfidato il tempo.
Volevo cercare anche io la libertà, quella che si trova sui libri di scuola, sulle pagine di ogni Costituzione, sulle réclame dai colori riservati, sulle canzoni ascoltate alla radio, sui versi dei poeti o sui tatuaggi dei marinai. Volevo capire perché per ostentare in serenità la loro bellezza, le rose dovessero aver bisogno di spine, perché i barboni non avessero paura di uomini e bambini e camminassero per strada urtando ogni cosa, crudeli nella loro certezza, nel loro essere assoluti, ma non ho mai pensato che desiderandola, la libertà, come un amante brutale, l’avrei perduta, per questo forse mi sono fermata alla sua smania.

La fila si è sciolta e la luce blu era un’ambulanza.
Magari un giorno ti scriverò, quando riuscirò a passare su questa strada senza sentirmi inadeguata, senza pensare che le coscienze sono parenti dell’indifferenza e della paura. Magari un giorno anche tu ricorderai chi sono e chi non ero, in un dicembre di tanti anni fa. E forse un giorno capirò, incontrandoti, perché una banda armata ha scelto di rappresentare le mie fantasie, i miei sogni, sbagliando gli strumenti, vagabondando le parole, o forse no, semplicemente sarò lì ad attendere che tu esca per poi scoprire insieme, che quello che tu forse potevi vedere ma non potevi raccontarmi ritorna oggi, senza compromessi, come un risultato inutile e confuso.


A Marianna*, brigatista rossa, mai pentita, rinchiusa nel carcere di massima sicurezza di Via Aspromonte a Latina

 

Questo racconto si è classificato terzo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare, organizzato da Edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

Dall’armadillo al polpo: a tu per tu con Zerocalcare

Sarà che ormai a quei tratti semplici e veloci ci siamo piacevolmente abituati; sarà che da almeno un annetto ogni lunedì aspettiamo la nostra striscia, a volte con impazienza, altre con un velo timore, perché la risata che ci strappa è sempre accompagnata da un fondo d’amarezza; sarà che a volte ci guardiamo intorno con gli stessi occhi sgranati… in un modo o nell’altro, oggi Zerocalcare non ha certo bisogno di presentazioni.

Già sapete che il suo nome risale a un vecchio nickname scelto per fare polemica in un forum, che disegna da quando è piccolo così e che ha iniziato con fanzine e riviste autoprodotte dell’ambiente punk e hardcore romano. Già sapete che ha dedicato tre storie a fumetti all’esperienza del G8 di Genova, che dà ripetizioni a un ragazzino dalle fattezze di Blanka e che grazie all’incontro con Makkox e il Canemucco ha diffuso in autoproduzione il suo primo libro, La profezia dell’armadillo, e ha aperto un blog che ogni settimana si aggiudica migliaia di visualizzazioni.

Delle sue strisce vi avevamo già parlato tempo fa, qui. Da circa un mese di libro ne è uscito un altro, si intitola Un polpo alla gola (BAO Publishing, 2012) e si è confermato un successo ancor prima di approdare in libreria. Dall’immediatezza delle storielle del lunedì – che narrano con ispirazione autobiografica scene di vita più che mai attuali, proiettandoci in un’inevitabile empatia, fatta di ilarità, leggerezza e una buona dose di disillusione –, con Un polpo alla gola passiamo a una storia di più ampio respiro, divisa in tre parti, in base all’età dei protagonisti. Ci ritroviamo a seguire le vicende, gli intrighi e i segreti di un Calcare bambino; lo vediamo barcamenarsi tra le atroci torture tipiche dell’adolescenza, per poi ritrovarlo come già lo conoscevamo, nella contemporaneità. Rinunciando a un po’ dell’intimità che caratterizzava La profezia dell’armadillo, Un polpo alla gola si propone di narrare una storia più corale, con l’aggiunta di un elemento di mistero del tutto assente nelle tavole precedenti. Due sono le caratteristiche che sembrano invariate e costanti nella produzione di Zerocalcare: un sentimento del tragicomico, che sottende a tutta la narrazione, e la volontà di concentrarsi sul quotidiano, su vicende comuni e condivisibili, e Un polpo alla gola non fa eccezione. Un comprensorio scolastico, tre amici e un segreto. L’infanzia vista ironicamente come un periodo terribile e violento, tanto da diventare una vera e propria minaccia. Il primo incontro con il senso di colpa, poi con la crescita e i primi bilanci. Insomma, una storia di formazione in piena regola, anche se lui forse la definirebbe solo «192 pagine de disegnetti».

Dopo mesi di inseguimenti, siamo riusciti a incontrare Zerocalcare, e abbiamo finalmente chiacchierato di polpi, armadilli, pantoni e altre strane creature.

 

In quanto a fumetti, siamo purtroppo dei profani, quindi partiamo dalle basi. Ci spieghi come nascono i tuoi disegni? Fai tutto a mano, usi una tavoletta grafica o qualche altro strumento digitale?

Faccio quasi tutto a mano, non per scelta, ma perché non sono molto capace a usare i programmi, chi lo fa risparmia un sacco di tempo e di inchiostro, ma a me viene un tratto tutto tremulo se uso la tavoletta. Quindi devo fare prima lo storyboard, poi il disegno con la matita, poi l’inchiostro con i pennarelli sulla matita, poi cancello, scannerizzo e soltanto nell’ultima fase riempio le campiture nere con il secchiello di Photoshop per risparmiare inchiostro, anche per le sopracciglia. Poi ci passo il grigio delle ombre, quella è l’unica cosa che faccio con la pennetta perchè tanto anche se è tremulo non si vede in realtà. Io so’ proprio old school. Alcune cose le faccio in automatico, tipo l’Armadillo lo faccio pure nel sonno. A Lucca abbiamo fatto 1.700 disegni in due giorni e mezzo, sabato era una cosa tranquillissima (sabato 24 ottobre, all’evento Zerocalcare vs GarageZero), fino a 10 ore consecutive sono rodato per farlo tranquillamente.

Bianco e nero, scala di grigi o colori? Come, quando e perché?

Colori pochissimo, solo per le locandine dei centri sociali. Bianco e nero senza grigi mai, perché il grigio lo uso proprio per mascherare il fatto di fare disegni super basilari e usare il grigio mi sembra un po’ più professional, infatti uso anche i pantoni sui disegni da fare nei libri per farli un po’ meglio. Mi piacerebbe fare le cose acquerellate super poetiche, ma manco ci provo, non so’ proprio capace assolutamente. Ho sempre fatto tutte cose in scala di grigi perché in realtà io vengo da cose come le fanzine, autoproduzioni, locandine per gli spazi occupati, cose che devono costare poco. È anche la cosa più veloce che c’è, ci metto 10-15 minuti, a usare i colori ci metterei un’ora.

 

Se dovessi aiutare Flanerí a orientarsi meglio nel mondo del fumetto, che cosa ci consiglieresti?Modelli, miti, fumettari emergenti?

La roba emergente la leggo pochissimo in realtà, sembro stronzo che non voglio fare pubblicità ai miei concorrenti, ma in realtà… Ho sempre dei problemi a parlare di modelli perché poi si pensa che io voglia fare delle cose come loro, preferirei definirli gusti, sennò poi dicono: «Ammazza tu vorresti fare come questi e poi fai sta merda?» Mi piace Gipi, che piace a tutti i lettori di fumetti ovviamente, lui scrive un botto però, fa pure gli acquarelli, quelle cose super poetiche, io zero. Lo scontro quotidiano, che è un volume francese di Manu Larcenet, mi ha generato un sacco quel meccanismo di immedesimazione, lo stesso di cui parlano i miei lettori quando dicono: «Mi ci sono rivisto un sacco in quella storiella!» Questi sono i due che mi fanno scattare questo meccanismo. Però il motivo per cui mi leggo poca roba di italiani esordienti e mi leggo più roba francese, blog, fumetti, eccetera è perché in verità in Italia – ed è forse questo il motivo per il quale a me le cose hanno funzionato – ci sono poche persone della mia età che raccontano un pezzo della mia generazione, mentre in Francia si fa molto più spesso.

 

C’è davvero una differenza tra comics e graphic novel? Se sì, quale? E soprattutto, l’Armadillo è un fumetto e il Polpo una graphic novel?

No, non c’è nessuna differenza. Il termine graphic novel non so quando è stato introdotto, ma io credo banalmente che sia un modo per spostare i fumetti dai reparti per bambini delle librerie e poterli mettere in altri settori, dargli una dignità così da farli comprare anche dagli adulti. Mi hanno detto che l’Armadillo non poteva essere una graphic novel perché non aveva abbastanza omogeneità, era più una raccolta di storie, mentre col Polpo io avevo pensato che adesso finalmente mi avrebbero potuto dire che mo’ ho fatto una graphic novel, invece l’altro giorno a Bologna una persona mi ha chiesto: «Ma dopo l’Armadillo e il Polpo pensi di fare una graphic novel?», e quindi vuol dire che ancora non vengo percepito così.

Le tue storie si adattano molto bene all’immediatezza del formato breve dato dalla singola striscia. È stato difficile passare a un racconto più lungo e strutturato? Scelta obbligata o spontanea? Quale delle due forme preferisci? Sono solo varianti, o a partire dalla forma già raccontano storie diverse?

È stato super difficile per me passare da breve a lungo, l’ho fatto proprio come esperimento in un momento nel quale tutto il carrozzone del blog non si era ancora messo in moto così tanto e non mi sono preoccupato troppo del risultato finale. Nel corso delle cose ho cercato di fare un lavoro il più possibile metodico, ma io so’ l’antimetodo per eccellenza. Su una storia breve bene o male riesco a giostrarmi, ma su una storia di 190 pagine, specialmente perché ci deve essere un elemento mistery che va risolto, se tu non hai un metodo diventi scemo, e infatti so’ diventato scemo cercando di aggiustare i pezzi. Avevo un’idea ogni volta di un raggio di 5 pagine, però per seminare degli indizi che poi devono far arrivare il lettore a un compimento, lavorare così è la fine. Avevo un’idea di base, però non avevo uno storyboard completo o una sceneggiatura. Mi hanno proposto di fare un libro con una storia unica e io ho accettato tranquillamente, però ho proposto io di introdurre questo elemento un po’ mistery, perché mi andava di raccontare una storia così in quel momento. C’ho messo 9 mesi, un parto. Per facilità preferisco la storia breve, perché è meglio per la mia indole pigra. Poi però è figo ritrovarsi un malloppone davanti, dà soddisfazioni riuscire a fare una cosa lunga. La prossima cosa che vorrei fare è una cosa ancora più lunga del Polpo, però questa volta la vorrei fare in maniera super metodica, come lavorano le persone che fanno ’sto mestiere davvero. Poi sono sempre io, con i miei personaggi.

 

Secondo il sito della BAO, Un polpo alla gola appartiene al genere: «epica del quotidiano». La definizione mi ha fatto sorridere, ma credo sia quella in assoluto più appropriata ai tuoi lavori, ti ci rispecchi?

Io dico che faccio i disegnetti. Nella parola quotidiano mi ci rispecchio, ma è l’epica che mi mette in difficoltà.

 

La trovata, quasi metaletteraria, di inserire personaggi già noti nelle tue strisce dà risultati spesso esilaranti, ma come avviene la scelta? Sei innamorato di un personaggio e decidi di inserirlo a mo’ di omaggio, o lo scegli perché ti piace calarlo nel ruolo che preferisci?

Uso queste cose o per impersonare emozioni o per raffigurare persone realmente esistenti che incontro nel quotidiano. Quando si tratta delle emozioni, è un modo per evitare le didascalie, quindi quando devo rappresentare una situazione di angoscia cerco un personaggio che in qualche modo ricordi e sia associato da tutti a quell’emozione. E un po’ la stessa procedura avviene quando uso personaggi noti al posto di amici o di persone che incontro per strada, soprattutto per le storie brevi dove ho pochissimo spazio per raccontare i caratteri.

 

La mia striscia preferita, per ovvi motivi, ahimè, resta Perché non possiamo dirci trentenni. L’impronta generazionale è forte in tutta la tua produzione, ma cosa ci dici dei tuoi lettori? Sei riuscito a raggiungere anche chi non è tra i 20 e i 30?

E, a proposito, hai mai pensato di rappresentare generazioni diverse dalla tua?

Ho dei lettori non più giovani, 60enni, e anche più piccoli, però comunque intorno ai 18. Non so in realtà che cosa capiscono. Ho provato a raccontare generazioni diverse dalle mie, ma soltanto quelle che ho passato, cioè il bambino che sono stato e quindi forse sempre la mia generazione. Nel Polpo avrei voluto raccontare anche i pensieri degli altri due personaggi, Secco e Sarah, ma soprattutto con la ragazza mi sarei trovato in difficoltà perché sono cose che non ho vissuto e non sono riuscito a trovare un omologo femminile dei Cavalieri dello Zodiaco, quindi non volevo ricorrere a super stereotipi oppure sbagliare citando delle cose che in realtà le ragazze non hanno condiviso.

 

Quest’ultima domanda è quasi d’obbligo: il giro di presentazioni di Un polpo alla gola sta andando alla grande, ma quali sono i prossimi progetti in cantiere?

Dopo un primo momento super bulimico, in cui volevo accettare mille cose, adesso sto nella fase in cui non voglio accettare niente oltre le tre cose che mi sono prefissato per l’anno prossimo: dedicarmi al blog, farlo con un po’ più di continuità, fare un libro lungo con la BAO per l’anno prossimo, al quale voglio lavorare bene, con calma e probabilmente questa primavera mi piacerebbe fare… scusate il singhiozzo, c’ho il singhiozzo da 8 anni… vorrei fare con Makkox (che sarebbe quello che ha avuto l’intuizione per l’apertura del mio blog) l’auto produzione delle storie del blog, però non vorrei che sembrasse un’operazione zozza e commerciale, vorremmo fare una roba che comprenda anche un sacco di inediti, che raccontino un po’ di quest’anno che ho passato. E poi non voglio fa’ proprio nient’altro.

 

E per finire… ce lo fai un disegnetto?

Bruno Munari all’Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra

Passeggiando a nord di Londra, nel quartiere di Islington, precisamente al numero 39 di Canonbury Square si può incontrare un edificio che, dietro le sembianze di una casa georgiana, cela a un primo sguardo la sua natura di museo. Abituati ai grandi centri londinesi votati alla contemporaneità artistica, quali la Tate, questo museo appare subito in confronto piccolo e dimesso. Eppure la Estorick Collection of Modern Italian Art è un luogo da scoprire, di quelli che disvelano vere preziosità, splendide opere italiane della prima metà del passato secolo, in particolare riconducibili al movimento futurista. Balla, Boccioni, Carrà, de Chirico, Manzù, Modigliani, Morandi, Russolo, Severini, Soffici sono solo alcuni degli artisti presenti nella collezione permanente che ha preso forma negli anni Cinquanta del Novecento, grazie all’azione di Eric Estorick e di sua moglie Salome Dessau, i quali iniziarono ad appassionarsi all’arte del nostro paese dopo la scoperta, durante un viaggio in Svizzera, del libro Pittura e scultura futuriste (1914), di Umberto Boccioni.

L’edificio è strutturato su più piani e tra diverse stanze dalle dimensioni raccolte, alcune deputate a ospitare la collezione del museo e altre utilizzate per mostre temporanee dedicate sempre a figure dell’arte contemporanea italiana.

In questo momento, e fino al 23 Dicembre 2012, è possibile visitare una brillante esposizione incentrata su un artista ironico e poliedrico, espressivamente prolifico: Bruno Munari (1907-1998) è difficile da riassumere, impossibile quasi, perché troppo vasta è stata la sua riflessione, troppo alto il numero e svariata la natura dei suoi lavori: «Né pittore, né designer, né pedagogo, ma tutte queste cose insieme» ha detto Gillo Dorfles, cofondatore insieme ad Atanasio Soldati e a Gianni Monnet, nella Milano del 1948, del gruppo MAC (Movimento Arte Concreta), che promuoveva un’arte che voleva svincolarsi dalla rappresentazione mimetica della realtà e che allo stesso tempo si distingueva dall’astrattismo post-cubista non volendo avere riferimenti con la natura o con l’ambiente. Munari si è dedicato all’astrazione, dunque, ma anche alla concretezza, la materia e la tecnica sono aspetti a fondo indagati che l’hanno condotto a costruire e a sperimentare: «L’arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di esperienze nuove, nelle forma, nel contenuto, nella materia, nella tecnica, nei mezzi», affermava lui stesso. Il “fare” come matrice del suo lavoro è ciò che ha spinto le sue ricerche, assumendo importanza nell’ambito di tutte le sue riflessioni, come per esempio quella sul mondo dell’infanzia: l’artista, sempre attento alla dimensione della pedagogia, è da riconoscere come il fondatore dei “laboratori per l’infanzia”, spazi ricreativi per avvicinare i più piccoli al mondo dell’arte, luoghi attivi in cui far convivere didattica e gioco. Il gioco, appunto, è uno degli elementi fondamentali dell’operare di Munari, qualcosa che lo definisce a partire dalla personalità, un uomo che non prende mai troppo sul serio se stesso e quello che fa, un impegno continuo unito a un intelligente distacco che lo porta ad accostarsi con ironia e leggerezza alle cose del mondo.

La mostra londinese Bruno Munari: My Futurist Past, indaga diversi aspetti di una variegata e composita opera. La curatrice Miroslava Hájek, profonda conoscitrice dell’artista, ha lavorato al suo fianco, organizzando la sua collezione e ricevendo direttamente documentazione sul suo lavoro. L’esposizione è così la manifestazione di uno studio attento, specialistico che dona spunti importanti per comprendere un mondo caleidoscopico. La Hájek, mostrando certi lavori, ha offerto un’idea chiara del percorso di Munari e, seppure siano poche paragonate al corpo complessivo, queste parti lasciano la sensazione di aver compreso l’ampiezza di un mondo molteplice e ricco.

Si trova una sala dedicata ad approfondire i rapporti con il futurismo: nel 1926 Munari giunge giovanissimo a Milano e conosce Marinetti, che non solo lo introduce nel gruppo futurista milanese, ma lo considera il più brillante e promettente tra gli esponenti. Si distingue, infatti, per originalità e creatività e accoglie l’attenzione rivolta al movimento e allo spazio, riflettendo sul superamento della dimensione statica del dipinto. Si trovano esposte in mostra le “macchine inutili” e quelle “aritmiche”, simili le prime ai mobiles di Calder, sculture formate da lunghi parallelepipedi e forme geometriche sospese in aria da fili trasparenti; le seconde, invece, pioneristiche per quanto concerne l’arte cinetica, sono definibili come opere in azione, messe in moto da meccanismi a molle che riconducono alla mente le sculture meccaniche e in movimento di Tinguely (il quale fu stimolato dall’incontro con l’artista italiano).

La partecipazione al futurismo, dal quale in seguito si slega per ovviare a una vita artistica troppo definita, etichettabile, lo avvicina anche al mondo delle avanguardie, agli esiti del surrealismo, del dadaismo e allora si comprende come tutto questo sostrato culturale lo conduca a realizzare un’opera come “Indicazioni per costruire un agitatore di coda per cane pigro”, una pagina illustrata in cui viene spiegato il funzionamento di tale marchingegno.

Ma le ricerche sulla forma sono solo all’inizio del loro procedere. Il quadro “Positivo-negativo con linee curve” del 1950 rappresenta un’altra intuizione giocosa dell’artista, quella di mettere lo spettatore in condizione di riconoscere quale sia il primo piano della figura e quello dello sfondo. Un’astrazione che si accompagna a quelle di stampo geometrico, collocate accanto, precise e imponenti anche in quanto a dimensioni fisiche dei quadri.

 

Un’altra fase della vita dell’artista alla quale necessariamente la mostra fa riferimento è quella della produzione grafica, il Munari designer, identità questa che unisce la creatività alla funzionalità e alla comunicazione.Nel corso degli anni Venti e Trenta lavora a capo del settore grafica di riviste come L’ala d’Italia, La rivista illustrata del Popolo d’Italia, Natura, La Lettura, L’almanacco letterario Bompiani, Tempo e Domus, e si occupa di campagne pubblicitarie di importanti aziende italiane come Pirelli, Campari, Olivetti e Agip. In mostra si possono osservare alcuni esempi di tali illustrazioni.

La mostra si conclude in una sala ai piani superiori dedicata unicamente a “Concavo-convesso”, forse l’opera più rinomata dell’artista. Si tratta di una scultura appesa, a rete metallica, che ricorda la forma di una nuvola. Ci si trova dinanzi a uno dei primi esempi di installazione nell’arte italiana, insieme all’ambiente nero spaziale di Lucio Fontana.
 


L’opera non è pensabile o fruibile slegata dall’ambientazione che costringe lo spettatore a vivere un’esperienza sensoriale, emotiva completa, «l’oggetto vibra di effetti ottici ma la sua ombra, riempiendo lo spazio circostante e creando effetti paralleli, diventa forse più importante e innesca nello spettatore una reazione emotiva che l’oggetto da solo non riesce a trasmettere».

Uomo dall’ingegno multiforme, Bruno Munari ha lasciato una grandissima eredità di opere e di idee e questa mostra rivela la grande ricchezza di un animo giocoso e di una carriera infinitamente creativa.

 

Bruno Munari: My Future Past
Presso l’Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra.
Fino al 23 dicembre 2012.

“Bagliori estremi”, a cura di Anna Boccuti

«Dio non gioca a dadi, gioca a nascondino». E ancor più ama farlo tra le pagine di un libro di narrazioni pigmee per scelta, non per difetto costituzionale. Credereste voi sia possibile che la frase d’esordio sia essa stessa un racconto fatto e compiuto? Ebbene sì lo è (l’autore si chiama Fabián Vique), se il raccontare si fa bagliore estremo, scossa che “sequestra il lettore”, lo sconcerta, lo punge e lo annichilisce in un istante portandolo al di là del consueto, del consentito; in profondità, nei meandri della realtà che si tinge di irreale, tra le pieghe del mistero, dell’assurdo o del fantastico sulla scia di Borges o di Cortázar. Avrete queste e altre scosse, punture sottopelle, destabilizzazioni intrapsichiche e muscolari, immergendovi nel mondo fitto, frammentato e talvolta lancinante dei Bagliori estremiMicrofinzioni argentine contemporanee, antologia pubblicata nella collana Gli eccentrici (suggestive le copertine: immagini create dalla pittrice e traduttrice Federica Di Lella) dalla casa editrice salernitana Arcoiris. Una giovane realtà editoriale che predilige pescare oltreoceano, in acque tumultuose ma vive, anziché restare nello statico catino mediterraneo malato di accidia.

Mentre noi, affacciati alla finestra italiana, ci soffermiamo a dibattere ancora e ancora sull’unità di tempo luogo e azione, sulla barba di Aristotele piuttosto che su quella di Platone, sulla morte del romanzo che intanto continua a disporsi, fosse pure in versione porno soft, nelle scaffalature di ogni emporio per poi svuotarle; mentre qui da noi si discute se la forma racconto possa mai, eventualmente previa domanda in carta bollata, rottamare il romanzo ed è materia di primarie e scommesse; altrove fanno conflagrare tutte le contraddizioni, le irrisolutezze e le inquietudini di tempi post-eroici in forma di racconti ridotti all’osso. Ossicini del pensiero, del sapere, delle emozioni, del lessico, della visionarietà, della creazione.

Gli scrittori da quelle parti sono diventati come artificieri al contrario: non disinnescano l’ordigno che è la realtà, ma lo fanno esplodere particella per particella. E nascono quelle curiose forme altrimenti ribattezzate micro finzioni: «Genere tanto diffuso in area ispanoamericana e ancora cosi poco familiare» da noi, conferma nell’introduzione dedicata all’intrepido lettore, Anna Boccuti, ricercatrice di lingue e Letterature Ispanoamericane all’Università di Torino che si è avventurata nel terreno scivoloso della traduzione di questi esemplari. L’antologia eccentrica (la collana è diretta da Loris Tassi, professore a contratto di letterature ispano americane) raccoglie i componimenti di ventuno autori più o meno noti al pubblico; scrittori argentini, perché non provengono solo dalla città di Buenos Aires ma da tutta l’area rioplatense; accomunati dall’aver dato vita a «piccole feroci creature» secondo l’incisiva definizione dell’argentina Ana María Shua che come autrice di microletteratura ha ottenuto il più importante riconoscimento in ambito iberoamericano. Le piccole feroci creature dell’antologia sono ripartite secondo un criterio tematico «per restituire al lettore un’idea complessiva delle diverse possibilità esplorate dal genere».

Per dare un’idea di che sostanza siano fatti questi componimenti ecco un assaggio, “Poeti” di Ana María Shua: «Naufrago in questo mondo remoto dove non passano né passeranno le nostre navi, perso su questo granello di polvere distante da tutte le rotte commerciali dell’universo, sono condannato alla solitudine essenziale dei suoi abitanti, incapaci di comunicare con uno strumento meno rudimentale, meno opaco del linguaggio. Io me ne servo per lanciare messaggi cifrati che solo gli altri naufraghi possono comprendere. La gente ci chiama poeti».

Certo è difficile classificare queste produzioni ibride: a volte somigliano a prose liriche, altre a motti di spirito, aforismi che si approssimano all’haiku. O, al contrario, non somigliano a nulla di ciò che abbiamo in mente, non sono paragonabili a niente né catalogabili, esistono e basta. È la letteratura argentina che “funziona” così dalle sue origini, spiega al lettore italiano spaesato la prefatrice; basti tornare con la mente alle celebri Finzioni borgesiane senza andare troppo indietro nel tempo. Nella brevità c’è anche la rivelazione di un modo di percepire la realtà: il senso delle cose è deflagrato e a noi sopravvissuti non resta che raccogliere i frammenti scomposti e incandescenti di questa atomizzazione e sub-atomizzazione fisica e metafisica. Qualche volta le schegge di realtà sono aghi che dilaniano la carne del lettore; altrimenti somigliano a piume solleticanti o a ludiche ricreazioni, a liberatori congedi dalla vita, prigione e tomba.

Certo, il rischio è che concentrando e condensando al livello massimo l’arte narrativa si giunga al grado zero della comunicazione stessa e si resti senza parole. “Senza parole” è proprio il titolo del micro racconto di Diego Golombek: «Venne il giorno in cui finirono le parole. Non accadde all’improvviso: il vocabolario si ridusse a poco a poco e la gente restava a bocca aperta, senza sapere che nome dare a una cosa o come chiamare qualcuno. Verso la fine erano rimasti soltanto i gesti».

Oppure il rischio è che succeda come nel racconto di Carlos Culleré, “Fine delle fini”, e che tutta questa iperattività all’osso sia l’annuncio della fine. «E ciò che è accaduto, che io so che è stato anche se non so né quando né come né perché è così semplice: è stata la mia vita, la tua vita, la vita di tutti e anche la storia universale. È accaduta all’improvviso una volta per sempre e, in verità, mai».

Ci pare che siano rischi da correre se vogliamo avere notizie fondate sul presente e tentare di capire in che razza di contenitore ci siamo andati a ficcare.

Per chi volesse saperne di più, il prossimo 6 dicembre, alle ore 14 nell’ambito della Fiera dell’editoria di Roma, Più libri più liberi, sarà presentata la collana Gli eccentrici.

 


(Bagliori estremiMicrofinzioni argentine contemporanee, a cura di Anna Boccuti, Edizioni Arcoiris, 2012, pp. 184, euro 12)


Info sul sito:
www.glieccentrici.com

“Songs of a Lifetime”: Greg Lake al Teatro Ambra alla Garbatella di Roma

«I’ve been completing my autobiography, so I guess we should start “From the Beginning”». È questo l’inizio del racconto, l’inizio del viaggio. Proprio come viaggio è stato infatti concepito questo nuovo Songs of a Lifetime che, come racconta lo stesso Lake in uno dei tanti momenti discorsivi della serata, è nato mentre l’ex front-man crimsoniano scriveva le sue memorie. Nel momento in cui canzoni e musiche venivano alla mente e si legavano a ricordi e a esperienze maturava la scelta di raccontare questo percorso attraverso la musica stessa, costruendo una sorta di autobiografia musicata dove pezzi di esistenza corrispondevano a pezzi musicali. L’idea è decisamente affascinante e suggestiva: scoprire il percorso di uno dei protagonisti del progressive rock anni ’70 attraverso una miscellanea di brani da lui scelti e interpretati è infatti il modo più diretto, semplice ed efficace di entrare in sintonia con un’intera fetta di mondo artistico.

Nell’analisi dell’esibizione, andata in scena al Teatro Ambra alla Garbatella di Roma in un piovoso sabato sera di dicembre, sono due i livelli attraverso i quali costruire un discorso critico: un primo livello, che è narrativo e dialogico, è composto di racconti, di aneddoti e di storie; un secondo livello, che è invece più strettamente musicale e artistico, è fatto di musica, di canzoni e di note.

Narrativamente parlando la serata esaudisce solo parzialmente le aspettative. Greg Lake si presenta da solo sul palco con l’intento di mettersi a nudo, ma le storie narrate sono scarse rispetto alla globalità del tutto e incidono relativamente poco sull’ascoltatore, perdendosi troppo spesso in dettagli di dubbio interesse: la prima chitarra, regalata a Natale da una madre in difficoltà economiche, con la quale Lake comporrà il suo primo pezzo reso famoso poi con gli Elp, “Lucky Man”; la prima volta che vide Elvis dal vivo, durante il primo tour degli Elp, del quale reinterpreta “Heartbreak Hotel”; l’amicizia fraterna con Robert Fripp, con il quale condivise il primo maestro di chitarra. L’atmosfera si fa più profonda solamente quando Lake racconta di come nacque l’intramontabile copertina del primo disco dei King Crimson, il deformato e iconico uomo schizoide del ventunesimo secolo, e della triste sorte toccata al suo creatore Barry Godber, stroncato da un infarto pochi giorni dopo aver terminato l’opera.

Il viaggio che Lake vuol condividere con il suo pubblico continua con richiami all’influenza di quello che lui giudica il più grande gruppo della storia del rock, i Beatles, dei quali interpreta “You’ve Got to Hide Your Love Away”, invitando al coro un pubblico timido. Si prosegue poi con il racconto della genesi di “C’Est la Vie”, uno dei pochi brani degli Elp da lui scritti, ispirato dalla voce di Edith Piaf ascoltata, pare, all’entrata di un café di Parigi, e reinterpretando infine un pezzo del primo gruppo rock che il nostro abbia mai ascoltato in vita sua dal vivo, “Shakin All Over” di Johnny Kidd and the Pirates. La narrazione risulta però in generale abbastanza piatta e superficiale, mancando totalmente di quel pathos e quell’intensità che ci si aspetterebbe da chi è stato al centro del vortice progressivo che ha sconvolto la musica all’inizio degli anni ’70 e che di storie da raccontare, si suppone, ne abbia veramente tante. Greg Lake si trova però decisamente più a suo agio col canto – la voce infatti, sebbene un po’ più bassa, è sempre molto intensa e profonda – mentre appare chiaro che quello del narratore non è decisamente il suo mestiere. Lake assomiglia più allo zio dall’aria sempliciotta e bonaria che i nipotini rimangono ad ascoltare in silenzio più per un astratto senso del dovere familiare che per vero piacere.

Due piani interpretativi diversi e distinti, si diceva prima, ed è proprio sul piano musicale e artistico che Lake delude drasticamente le attese. Il concerto era stato presentato come un’intima retrospettiva in cui l’autore riproponeva un viaggio lungo quarant’anni, nel quale venivano riproposti e reinterpretati vecchi cavalli di battaglia e influenze musicali. La reinterpretazione è invece assolutamente assente. Lake è solo sul palco, suona all’occasione la chitarra, il basso o la tastiera, ma tutto il resto dei brani presentati proviene da una base registrata sulla quale Lake esegue la sua particina senza sbavature e senza invenzioni. I brani sono splendidi, è chiaro: scorrono le crimsoniane “Moonchild”, “21th Century Schizoid Man”, “Epitath”, che si alternano con la produzione degli Emerson, Lake & Palmer, come le già citate “From the Beginning” e “C’est La Vie”. Musicalmente parlando però l’operazione risulta assolutamente nulla. Non c’è, infatti, nessuno sforzo da parte di Lake di riarrangiare o di proporre versioni diverse, più intime appunto, dei grandi capolavori di un tempo. Tutto suona come uno sterile piano bar auto-celebrativo, selezione musicale nichilista di un protagonista casuale di una perduta stagione gloriosa.

Ci si attendeva decisamente qualcosa di più soprattutto da un punto di vista artistico: senza nessuno spunto musicale degno di nota, senza nessuna novità interpretativa, il tutto prende l’inevitabile forma di nostalgica riesumazione dei bei vecchi tempi andati, dove uno stanco e appesantito Greg Lake si circonda di pochi fedelissimi fan strappando ovvi e facili applausi. Usando questo concerto come chiave interpretativa di un’intera carriera, forse la canzone che meglio la descrive è proprio la profetica “Lucky Man”. Ottimo cantante, bravo chitarrista e compositore mediocre, l’immagine dell’uomo fortunato descrive alla perfezione Greg Lake, che si ritrova a crescere insieme a una delle menti più geniali della musica contemporanea, Robert Fripp, e a suonare al fianco di un tastierista eccelso, il virtuoso e barocco Keith Emerson. L’impressione che questa retrospettiva autobiografica ci consegna è che Lake, forse, sia rimasto per molto tempo al centro di qualcosa che era molto più grande di lui e che ora gli sfugge totalmente dalle mani.
 

Songs of a Lifetime– Greg Lake
Evento del 1 dicembre 2012 , Teatro Ambra alla Garbatella di Roma.

“Nostalgia” di Mircea Cărtărescu

Occorre premettere da subito che è impossibile trovare in Mircea Cărtărescu, autore dei cinque racconti che compongono il volume Nostalgia, quel che si dice uno scrittore tradizionale. Ciò dipende, a parere di chi scrive, dalla difficoltà a reperire una vera e propria struttura narrativa in una qualsiasi delle sue trame. È poi la parola giusta da usare, trama, parlando di questo libro? Essa rimanda al fitto intrico di fili di cui è composto un tessuto, che non a caso era il termine utilizzato dai latini per designare un testo. Osservandola sotto questo aspetto, l’opera di Cărtărescu è inconsistente perché i suoi racconti non hanno un intreccio, né veri e propri protagonisti.

Sguarnito sul fronte dell’affabulazione, Cărtărescu ha senza dubbio altre qualità. Di fatto, la forza della sua scrittura è proprio in quella rinuncia alla «unidimensionalità del fattuale» che lo scrittore Gregor von Rezzori individuava come caratteristica precipua del popolo romeno (a cui Cărtărescu appartiene): il rifugio nel nonsenso o, se si vuole, nel surreale è la sola fonte di certezze per una nazione mutevole come lo sono i suoi confini geografici e le etnie che la compongono.
Proprio la visionarietà è fra le doti maggiori di questo scrittore che attinge a piene mani a Kafka e García Márquez e che in ogni racconto non resiste all’impulso (un poco maniacale e in certi casi sadico nei confronti del lettore) di mostrare tutto il repertorio di sogni, incubi, flussi di coscienza entro cui si smarriscono le vite dei personaggi e spesso, volutamente o meno, le redini del racconto.

Unico collante delle cinque storie è la città di Bucarest, grandiosa quinta scenica che fa da sfondo alle esistenze deliranti dei suoi cittadini, svolte per lo più nei sordidi interni dei mastodontici palazzoni dell’era di Ceauşescu.
Un torneo di roulette russa, un bambino con poteri paranormali, un uomo che perde la ragione nel tentativo di cambiare il clacson della sua automobile sono, nel grande esperimento chimico della scrittura di Cărtărescu, le occasioni da cui si innesca la reazione che porta a una instabilità continua dei fatti narrati.
Il racconto L’Architetto, ad esempio,  forse il meglio riuscito, finisce addirittura con un big bang e con il ritorno a uno stato primordiale della materia.

(Mircea Cărtărescu, Nostalgia, Voland, 2012, pp. 432, euro 18)

“L’ultima Thule” di Francesco Guccini

Guardi indietro nel tempo e sei uno studente universitario, stagioni in cui coglievi le occasioni al volo. Mi fermo e mi chiedo se di quell’incontro con Guccini al teatro Valle – quando non aveva ancora l’aggettivo occupato – ne avevo sentito parlare su La Repubblica, sui primi free press, su “ei fu” Radio Rock Italia, su quell’internet che stava entrando nelle case di tutti senza fagocitare tutto. Ricordo che però era nove anni fa. Non certo per una passione per le date ma per una mia personale mania biblio-disco-grafica: pochi giorni prima era uscito Ritratti – ultimo album studio del Maestro – e ogni volta che, successivamente,  mi recavo sullo scaffale adibito alle lettere F (Finardi, Fortis, etc.), G (Gaber, Grechi,  Guccini) e H (gruppi esotici o giù di lì) mi rimaneva l’amaro in bocca per quel vuoto temporale che cresceva anno dopo anno.

Quando su internet (internet, vi rendete conto?) leggo la notizia del nuovo album rimango di sasso: ogni tanto arrivava qualche rumors, sempre disatteso, sempre ripetuto con la stessa sicurezza: «Il prossimo mese esce il nuovo disco, lo danno per certo…» Per crederci, volerci credere, ho cercato su Facebook, sì proprio come gli adolescenti che aspettano il nuovo EP da hit parade, nelle pagine dedicate a lui, ai suoi musici o dei suoi amici. Giorno dopo giorno sono arrivati titolo dell’album, tracce, immagine di copertina. Dopo nove anni Guccini tornava davvero, non come scrittore, non come ospite di Fazio, tornava la voce della mia infanzia, della mia adolescenza, delle più importanti stagioni della mia vita.
Per la prima volta ho comprato un suo disco non in un negozio di musica, mi sono piegato alla Feltrinelli sotto casa (cd subito e vinile su ordinazione): l’ho preso in mano con la cura e l’attenzione che oggi non ci sono più, togliendo il cellophane attento a non rovinare il cartonato (altra novità, sfigurerà accanto alle altre custodie di plastica), sentendo l’odore come fosse un libro d’annata, emozionato come un bambino, come un me al passato che non sapevo fosse ancora in vita (accanto poi a una persona che credevo avessi perduto). 

Con gli occhi scorro i titoli delle otto canzoni, il numero giusto, a mio avviso, per non rischiare sbavature: due le avevo già sentite ai concerti (la bellissima “Su in collina” e l’ironica “Testamento di un pagliaccio”), una, “L’ultima volta”, in anteprima su Youtube (incredibile, vero?), una annunciata da tempo (“Canzone di notte n. 4”). Rimaneva la “totale” curiosità per le altre quattro: “Quel giorno d’Aprile” (a mio avviso la più intensa), “Notti”, “Gli artisti” e “L’ultima Thule” (canzone che dà il nome all’album).

Il primo ascolto è infantile, divorato; il secondo più attento; il terzo ti porta a dare un primo giudizio; il quarto a confermarlo; il quinto a modificarlo; il sesto a farlo tuo; il settimo a innamorati di questo lavoro. E ti ci innamori per tanti motivi: perché con qualche chilo in più, paffuto, ormai totalmente canuto, Guccini ha la consapevolezza di non essere solo un cantante ma un poeta e, non me ne vogliano tutti quelli che storcono la bocca, uno dei maggiori poeti italiani contemporanei; è la lingua a essere attenta, affinata, sempre meno svogliata, forse un po’ meno genuina ma sempre virile e caparbia. Ti innamori perché in un tempo virtuale lui parla di vita e stagioni, e parla a noi e a se stesso, alla sua terra, al fiume, al vento, alla natura incontaminata o quasi degli Appennini. Noi ci siamo dimenticati dell’alba e della gioia delle prime luci, del rumore dell’acqua che scorre tra le fronde, dell’amore per il tempo passato: Guccini ci regala emozioni e nostalgia e ci regala persino il rumore, anzi il «suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra».
E insieme a lui ci sono gli amici di sempre – aspetto solo apparentemente non legato al disco ma meravigliosa risposta alla nostra realtà di “contatti” – riuniti al Grande Vecchio, eterni ragazzini a giocare con chitarre e batterie e piani e tutto il resto, lassù sopra Pistoia, in quel mulino che dei Guccini fu e, grazie a Francesco, dei Guccini e di tutti noi sarà da qui a un futuro, speriamo, lontano. Ma è l’“Ultima Thule” a darci la botta finale: perché l’ultima isola misteriosa, l’ultimo mito cantato, è l’ultima canzone dell’ultimo album che non vedrà un ultimo concerto.

Guccini se ne va dalla porta principale, con quegli ultimi versi che ci schiaffeggiano, noi addormentati e gaudenti da tanta bellezza ascoltata: «Si perderà in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo». Guccini sarà ora scrittore, non più cantautore e gli auguro tutto il bene possibile, lo leggerò e lo leggeremo come sempre lo abbiamo ascoltato. E saremo orgogliosi di aver fatto parte di questa storia, di questo viaggio, di averne seguito le tracce, di portarne ai posteri le parole e il messaggio; di averne capito il coraggio, la capacità di andare oltre tutto e tutti, oltre le catalogazioni politiche che non sempre gli hanno affidato l’empireo che gli spettava; di andare a spasso nella memoria tra i portici cosce di Bologna, i vagoni dei treni, i viaggi, i ritratti, il bisogno d’amore e la forza d’amare, nei luoghi in cui Dio si è nascosto e in quelli in cui Dio ci ha reso migliori.

Grazie Francesco, di tutto e anche di questo saluto, sofferto, che ci hai voluto donare. In bocca al lupo per il tuo nuovo viaggio verso altre isole che anche noi cercheremo con gli occhi.

“La vera storia dei Simpson” di John Ortved

Dalle Reprints ISBN ora in libreria La vera storia dei Simpson di John Ortved. Il trentenne giornalista americano ripercorre i vent’anni di continua ascesa della sitcom animata più famosa al mondo, a partire dal debutto nel dicembre del 1989, fino alla ventiquattresima stagione uscita solo in Usa. In diciotto capitoli preceduti da un breve scritto di Douglas Coupland e da un prefazione dello stesso autore, si alternano testimonianze che danno il sapore di un lungo documentario in cui i protagonisti si accavallano nella ricostruzione dei retroscena della più divertente (e fruttuosa) esperienza televisive degli anni ’90.

Tutto comincia con un giovane e squattrinato disegnatore che da Portland si trasferisce a Los Angeles in cerca di fortuna. Matt Groening è l’ideatore della famiglia Simpson, ma non l’unico padre. Perché i personaggi dalla pelle gialla possano diventare l’ultima icona pop del ’900, deve prima avvenire l’incontro con un giovane produttore e regista di origine ebrea, James L. Brooks, e il maniacale Sam “Sayonara” Simon, sceneggiatore delle prime stagioni e artefice del tipico humor sarcastico di Bart & co. Trovato casualmente uno spazio di pochi minuti tra una gag e l’altra del Tracey Ullman Show sull’emittente Fox, la famiglia di Springfield brucerà le tappe divenendo in breve una vera e propria macchina da soldi grazie a merchandising, diritti e commissioni televisive.

Quasi subito la bomba Groening-Simon deflagrerà costringendo il talentuoso sceneggiatore, autore di alcuni degli episodi più popolari a lasciare il campo portandosi a casa una buonuscita ragguardevole e una fetta della proprietà, ma questo sarà solo il primo dei casi legati all’epopea Simpson, ricca di aneddoti e personaggi spietatamente hollywoodiani.

La vera storia dei Simpson, è la storia di come si sia creato questo americanissimo fenomeno di massa presto divenuto globale, facendo impazzire migliaia di persone di tutte le età col suo mix inedito di sarcasmo, cinismo, irriverenza ma anche buonismo, in un originale equilibrio progressista/conservatore.

All’indomani del primo episodio “Un Natale da cani”, il Time si chiedeva ironicamente: «Perché dovremmo tornare a “Genitori in blue jeans”?» Il microcosmo delle famiglie televisive rassicuranti e terribilmente medio-borghesi era compromesso una volta per tutte da questa sballata compagnia di personaggi provinciali e un po’ cafoni.

È da allora che la forza e l’aggressività della famiglia Simpson, nata dalla penna del loro ideatore come la parodia dei suoi stessi parenti (il papà Homer, la mamma Margaret e le sorelle Liza e Maggie sono la famiglia di Groening) fagocitano avversari di categoria superiore come I Robinson con un successo di ascolti inaspettato. I numeri parlano chiaro, i Simpson, vincitori di ventitré Emmy, un Peabody Award, nella classifica delle miglior serie televisive di tutti i tempi secondo Time, sono la serie più longeva nel panorama televisivo internazionale.

Ma attenzione, solo se siete dei veri feticisti della famiglia più sbomballata d’America potrete reggere fino alla fine le circa trecento pagine di interviste, articoli e ricostruzioni di questa lunga e scrupolosa indagine giornalistica. «Per chi invece vuole imparare qualcosa sulla comicità e i suoi meccanismi – avverte l’autore nella prefazione – è meglio portare indietro il libro e usare i soldi che vi restituiscono per comprare una copia in dvd di Freaks and Geeks [serie televisiva statunitense creata da Paul Feig, ndr].


(John Ortved, La vera storia dei Simpson, ISBN edizioni, 2012, pp. 309, euro 12)