Le scelte di Achab: a tu per tu con Giulia Ichino (prima parte)

Incontrare Giulia Ichino, editor Mondadori per la narrativa italiana, è come passare il Rubicone di parole e dubbi reciproci che dividono spesso chi quel mare di parole l’ha creato (lo scrittore) e chi, invece, in quel mare decide di tuffarsi (l’editor appunto), per scoprire se nei suoi fondali c’è qualche perla da sollevare trionfante o almeno una grossa ostrica, che quella perla la sta ancora fabbricando.

Il problema o l’opportunità, a seconda del livello di ottimismo su cui navigate, è che questo mare è diventato all’improvviso un oceano in tempesta, con una miriade di nuove correnti di trame fra cui scegliere e un brulicare di pesci-personaggi che sbucano fuori dalla loro storia, spesso senza alcuna idea della direzione che volevano prendere. Nel frattempo poi agli editor, novelli capitani Achab (che la loro balena bianca non la vogliono uccidere, ma solo tenere tutta per sé, perché possa continuare a produrre parole in un’area protetta), hanno cominciato a togliere le navi, anzi le vele della promozione da usare per scegliere il vento più giusto per arrivare sull’isola di lettori onnivori. Gli scrittori così si sentono sempre più soli e nella solitudine ricominciano compulsivamente a scrivere, generando il loro mare di parole. Come tartarughe giganti, sembrano non aspettare che le loro uova si schiudano per seguirle e accudirle mentre si uniscono al grande oceano, ma saltano subito su una nuova trama, più importante, più d’effetto, più contemporanea, più “di moda”, con la quale sono sicuri di raggiungere finalmente il loro pubblico, i loro lettori ideali, che in quanto tali, probabilmente non esistono; purtroppo nessun Achab tirerà la loro trama sulla nave e così a noi lettori toccherà l’ennesimo libro giallo, con l’ennesimo commissario, murato nel suo provinciale e sicuro ritaglio d’Italia. Nella storia non dimentichiamo la piovra gigante del marketing, che tutto sa e se non sa, crea, decidendo le sorti dell’oceano di parole e di tutti i suoi naviganti.


Cosa ne pensa Giulia Ichino di questo mio burlesque d’ispirazione melvilliana? Rispondente alla realtà? È vero che il mare di pubblicazioni in Italia è diventato un oceano incontrollabile che separa sempre di più scrittori e editor? Così come sono sempre minori i mezzi per promuovere o sostenere tutto ciò che si pubblica? E se è così, perché continuare?

Poni questioni gigantesche, come il mare che descrivi in maniera così suggestiva. È giusta l’immagine dell’editor e della sua ricerca, dell’impazienza di chi scrive, così come quella delle uova, che mi piace molto perché per chi lo scrive un testo diventa come un figlio: e la natura profondissima del legame fra autore e testo un editor la deve conoscere e rispettare. Detto questo ed essendo verissime queste cose dal punto di vista emotivo, confermo che siamo di fronte a un mare, che è in tempesta, ma non è incontrollabile. Non è impossibile proporre nuovi libri oggi. Certo, siamo in un momento di produzione editoriale sconfinata, anche senza tenere in considerazione il self-publishing; solo con gli eBook le possibilità per chiunque di essere presente nel panorama editoriale sono enormemente amplificate. A me capita spesso di decidere sulle sorti di un romanzo, scegliendo alla fine di non proporlo per la pubblicazione e non perché sia “brutto” o immeritevole di essere stampato (questo tipo di testi sono spesso già scartati a un primo esame), ma perché quello che io sono chiamata a esprimere non è – o non solamente – un giudizio estetico assoluto ma in primo luogo la valutazione di un funzionario editoriale in relazione ai progetti della casa editrice. La quale, in questo caso, è una grande casa editrice generalista con tutte le straordinarie opportunità ma anche con i confini che questo comporta. Noi ci rivolgiamo a diversi tipi di lettori e, nello stesso tempo, ci misuriamo con tutta l’articolazione della narrativa che viene letta oggi in Italia – verso l’“alto” e verso il “basso” del mercato (per quanto io non ami queste categorie) –, cosa che ritengo estremamente stimolante.

È vero che quando arrivano tantissime proposte rischi di non vederne più nessuna. Scegli alcune scommesse forti su cui si lavora e per altre meno forti non si parte proprio. Nell’archivio che è alle tue spalle sono conservati anni di “pareri” editoriali, le lettere di Gallo, Vittorini, Sereni, Pontiggia, i loro scambi su testi su cui si confrontavano e discutevano a lungo prima di decidere per la pubblicazione o il rifiuto. Io non ho vissuto quel tempo da massimo 10 libri di narrativa all’anno e relativi successi da 20mila copie, quando tutto veniva fatto con ritmi oggi inimmaginabili e con la possibilità di dedicare a ogni passaggio editoriale un tempo di “gestazione” di mesi e anni. Sono arrivata in Mondadori quando la narrativa italiana letteraria la facevano Renata Colorni e Franchini, quella commerciale Magagnoli: oggi è diverso, la narrativa italiana è gestita “tutta insieme”, dai thriller ai premi Strega, con una cinquantina di titoli all’anno, e spesso anche di più. Questo però non vuol dire che le potenzialità per un autore di questi 50 siano minori oggi di cinquant’anni fa. Chi vende poco oggi, spesso vende un po’ di più di quelli che vendevano poco un tempo. Un libro può trovare i suoi lettori in posti lontani, grazie alla Rete. C’è quindi la speranza che il dominio dei megaseller serva comunque per tenere in piedi realtà come questa e posti di lavoro, permettendo di lavorare su due binari, dedicando ai lettori che possono apprezzarlo libri diversi, pubblicati con numeri diversi.

Noi non scriviamo libri, noi possiamo un po’ migliorarli, scegliere il titolo giusto, la grafica, ma poco di più. Oggi le prime tirature sono spesso più limitate rispetto a quelle che vorremmo far uscire. Quando noi le proponiamo ai circuiti distributivi ce le abbassano. Ciò avviene di certo perché noi editori riforniamo i librai in tempi sempre più veloci – quindi se un libro “si muove” e il libraio ne aveva prenotate poche copie, quelle nuove arriveranno tempestivamente –, ma principalmente per la sempre più scarsa propensione al rischio che caratterizza questo periodo di crisi, spingendo i librai a privilegiare titoli di autori “sicuri” a emergenti o esordienti. Tanto che noi, come molti altri editori (vedi Garzanti), prepariamo per i librai materiale di supporto, punti forti del volume, connessione al filone, agli altri testi analoghi, cronistoria nascita dell’opera, tutto pur di convincerlo a offrire un’opportunità a un titolo “nuovo”. Prima ciò non era necessario, questa analisi la faceva il libraio. Anche in quest’ambito, la Rete può essere una strada in più per la fruizione dei contenuti in termini promozionali. Ma nemmeno questa è la “bacchetta magica” che si potrebbe sognare. E il “vecchio” passaggio in tv? Non assicura più il movimento di prima. Quindi alla fine ciò che è vero è che regole non ne esistono. Le risorse sono limitate, sì, quindi siamo costretti a scelte forti, lavoriamo sui due binari: consolidamento letterario e andamento commerciale. Di solito, però, il primo non garantisce il secondo.


Quale e quanta attenzione pone un editor nei confronti dei lettori? Ossia quando sta leggendo un testo lo considera più o meno valido in funzione del gruppo di lettori cui potrebbe essere proposto? Si è mai trovata di fronte a un libro che considerava eccellente e che non ha potuto far uscire per timore di non trovare il cluster giusto di lettori cui offrirlo?

Cerco sempre di mantenere un minimo di distanza fra la mia sensibilità e la percezione che del testo potrebbe avere il lettore. Quindi sì, mi è capitato di trovarmi di fronte a un libro che consideravo “significativo per me” e che ho rifiutato. Con questo non voglio dire che esista un “paradigma” valido per tutti i libri Mondadori! Noi eravamo e siamo generalisti, ma con una viva attenzione alla letteratura, alla ricerca – senza la quale non si crea nulla di nuovo, senza la quale si può essere buoni stampatori e distributori o al massimo buoni “publisher”, ma non editori degni di questo nome. Arnoldo Mondadori era un contadino delle campagne mantovane che ha iniziato stampando i giornaletti per i militari reduci da Caporetto, poi è passato ai sussidiari per la scuola, si è arricchito e ha iniziato a invitare a casa sua in villeggiatura scrittori come Thomas Mann pubblicando anche Margaret Mitchell, quella di Via col vento, e tanti altri grandi romanzi popolari. Arnoldo fu uno dei pochi ad avere la forza di far circolare un po’ di letteratura americana durante il fascismo, sebbene sia stato criticato – anche da suo figlio – per non essersi schierato apertamente contro il regime. Da un certo punto di vista sarebbe molto più facile lavorare in una realtà, per fare un esempio, come quella di minimum fax, che ha un’identità storico-culturale nettissima, ma trovo divertente, vivificante lavorare in Mondadori proprio perché la casa editrice ha un’anima laica, mobile, aperta. La nostra linea editoriale è quella di una ricerca costante volta a dissodare nuovi territori e insieme a raggiungere i lettori appassionati dei generi più svariati. Certo, tendenzialmente ci si propone di arrivare in libreria con un numero di copie “visibile”, almeno superiore alle cinquemila. Da noi alcuni libri particolari, di nicchia, seppur pregevoli, rischiano di soffrire. Identificare un preciso gruppo, un cluster di lettori cui indirizzare questo o quel libro è difficile e non so quanto utile. Il famigerato marketing va molto al di là di una “profilazione dei lettori” e di un soddisfacimento dei loro presunti bisogni immediati: il marketing è uno strumento, come tanti, per consentire a ogni libro di trovare il suo spazio nelle librerie e nella Rete sempre più affollate. Ma pubblicare libri resta sempre una scommessa: entusiasmante, rischiosa, foriera di sorprese.


Pensa allora che l’idea provocatoria di Valentino Bompiani di staccare i petali a una margherita per capire se un libro avrà successo come mezzo altrettanto valido rispetto alle ricerche di mercato sia ancora degno di nota?

Mah, in una certa misura è così.


Leggendo la narrativa italiana contemporanea uscita negli ultimi anni, si ha l’impressione che le case editrici, parlo soprattutto di quelle dominanti sul mercato, tendano a proporre un numero crescente di esordienti (o presunti tali), con storie molti simili fra loro. C’è tanto mémoire, accompagnato dal filone apocalittico-fantasy e naturalmente dal giallo, con tutte le sue sfumature territoriali. Ma quando parlo di similitudine non mi riferisco soltanto alla storia, secondaria nella valutazione di un testo, ma allo stile degli autori, che sembra puntare a una limpidezza e semplicità anglosassone, pur non avendo la tagliente capacità di entrare davvero nell’humus dei personaggi. Ti ritrovi con questa percezione?

Capisco ciò che dici e probabilmente in parte è vero. I progetti di imitazione culturale sia consapevoli che inconsapevoli sono sempre presenti. Ma nel nostro caso non direi che si tratti di una ricerca consapevole in quella direzione. Certamente hanno funzionato molto bene alcune cose e quindi perché non riprovare? Attenzione però a innamorarsi di qualcosa che già esiste. Io lavoro molto sulla componente di originalità dei testi. Alcuni tratti come la chiarezza, la limpidezza di un testo sono un possibile strumento per la sua diffusione, ma proprio a gennaio pubblicheremo un esordiente su cui punteremo tanto che non ha i tratti stilistici a cui facevi riferimento. Uniformarsi è quello che più ci verrebbe rimproverato, in casa editrice prima ancora che all’esterno.


(Fine prima parte)

La seconda parte dell’intervista a Giulia Ichino sarà pubblicata su Flanerí venerdì 23 novembre.

Foto di copertina tratta da: 
http://www.corrierenazionale.it

[RomaFilmFest7] Settima giornata

È un film di ritorni, A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III, presentato in concorso ufficiale tra le risate e gli applausi della stampa. Ritorni che ti fanno chiedere: «Sì, vabbè, ma perché finora nulla?» Perché Roman Coppola, dieci anni dopo il suo unico lungometraggio CQ, torna alla regia con una commedia esistenziale buffa e stralunata alla Wes Anderson (i due sono amici e collaboratori), che vede il grande ritorno sullo schermo di Charlie Sheen, sei anni dopo Scary Movie 3. Poi c’è stata la televisione, Due uomini e mezzo, gli scandali, la droga e le prostitute, la caduta, la risalita, di nuovo la tv, e infine il grande ritorno sullo schermo con un ruolo che sembra fatto apposta per lui.

Charlie Swan III (Sheen, per l’appunto) è un eccentrico designer di successo che sembra avere una vita perfetta: soldi, fama, feste, vizi. Quando però la fidanzata Ivana lo lascia, Charlie è costretto a fare i conti con se stesso e la sua solitudine. Nel riconsiderare l’amore morto potrà contare sul supporto della sorella Isabelle (Patricia Arquette, anche lei di ritorno al cinema dopo anni di televisione con Medium) e degli amici Kirby Star (Jason Schwartzman) e Saul (Bill Murray). Con il tempo, Swan capirà quanto la storia con Ivana lo avesse portato a trascurare il proprio lavoro e le persone amate e proverà a recuperare prima che sia troppo tardi. 

Ci sono molti elementi di pregio nel film di Coppola. I più importanti sono sicuramente le sbirciate nella mente di Charlie cui il titolo fa riferimento. Perché Swan ha una fantasia vivida che lascia viaggiare rapidamente e che lo porta a immaginarsi costretto a combattere un gruppo di feroci squaw capitanate da Ivana (fantastico Murray conciato alla John Wayne), o a fuggire dall’organizzazione segreta SSBB (Secret Society of Ball Busters). Una fantasia di tipo infantile, quasi da cartone animato, che spiega tratti fondamentali della personalità di Charlie. Egoista, immaturo, dissoluto, questo è Charlie Swan. Sheen ci mette molto del suo, si trova a suo agio nel ruolo di un uomo carico di fascino e debolezze, bisognoso di attenzioni ma incapace di darne. È un ruolo che vale come riscatto per tutto ciò che è accaduto all’attore, o meglio che si è fatto accadere, negli ultimi anni. Perennemente schermato da occhiali da sole, Sheen si mantiene sulla superficie di Swan, sull’esteriore, fino al confronto con Ivana che precede il finale in cui scava in profondità e tira fuori tutto quello che Swan aveva bisogno di comunicare («Non mi mancherai tu, mi mancherà amarti»).

 


Nonostante la luce dei riflettori sia tutta per Swan/Sheen, gli altri interpreti forniscono una prova di alto livello, in particolare i sempre solidi Schwartzman e Murray. Originali i titoli di coda degli attori principali. Sicuramente un’ottima sorpresa nel panorama asfittico di questo Festival di Roma.

Rimane sul tema delle conseguenze del perduto amore anche Un enfant de toi del regista francese Jacques Doillon, grande scopritore di talenti femminili come Juliette Binoche e Charlotte Gainsbourg.

Aya e Louis si sono tanto amati. Hanno condiviso una vita, hanno messo al mondo una figlia. Poi il sentimento si è spento, si sono allontanati, ognuno si è rifatto una vita con nuove persone e hanno smesso di parlarsi se non davanti alla loro bambina di sette anni, Lina. Quando Aya decide di avere un figlio con il suo nuovo fidanzato Victor, sente la necessità di vedere Louis e di parlare con lui come non faceva da tanto tempo. Da questo primo avvicinamento i due rinizieranno a frequentarsi in un modo sempre meno platonico, con i due nuovi amori che dapprima accettano il loro bisogno, poi iniziano a sentirsi minacciati e decidono di difendersi. Nel frattempo, la piccola Lina osserva tutto e cerca di capire cosa stiano combinando i suoi genitori. È la bambina la forza di un film troppo lungo, noioso e verboso per essere una commedia. Sono le sue incursioni, lo spensierato caos dell’infanzia (bravissima nella sua naturalezza la piccola Olga Milshtein) che porta all’interno della struttura narrativa a far respirare lo spettatore.
 


Strutturato esclusivamente come una serie di dialoghi a due tra i vari personaggi (Aya e Louis, Aya e Victor, e così via), senza scene corali, momenti non tanto di azione, ma almeno di movimento, con la camera a spalla che segue da vicino i personaggi nei loro incontri e una regia che si limita a una serie di brevi piani sequenza e montaggi alternati, Un enfant de toi risulta pesante senza necessità. Anche trovando apprezzabile l’indagine che il film vuole condurre su una storia in grado di resistere al tempo e a successivi sentimenti come quello di Aya e Louis, il ripetersi incessante di dialoghi sull’amore e il lento evolversi della relazione tra i genitori di Lina, che conduce a una conclusione evidente sin dalla prima scena, annoia in fretta. Quando la trama si riprende, nel finale al mare con la fuga di madre e figlia e l’inseguimento dei suoi due uomini che finalmente porta un po’ di verve e di situazioni divertenti (i due uomini ubriachi a letto insieme), è ormai troppo tardi. È probabile che con un minutaggio inferiore Un enfant de toi avrebbe colpito molto di più. Peccato. Così sono solo tante chiacchiere a vuoto.

Nel frattempo, in Prospettive Italia, torna Pippo Mezzapesa, dopo la buona accoglienza riservata l’anno scorso al suo Il paese delle spose infelici, con un documentario che riprende la storia di Pinuccio Lovero, il becchino per vocazione di Bitonto che già era stato protagonista di Sogno di una morta di mezza estate, presentato dal regista a Venezia nel 2007. È Pinuccio Lovero – Yes I can.

A cinque anni di distanza dall’uscita del film, Lovero ha conosciuto una notorietà relativa fatta di interviste e passaggi televisivi, culminata nella partecipazione al programma Il senso della vita di Paolo Bonolis. Poi le porte del mondo dello spettacolo si sono chiuse e Pinuccio è tornato a fare il becchino a Bitonto, con il ricordo di una gloria che poteva essere più grande. Ma le luci della ribalta gli mancano, è convinto di avere quel che è necessario per diventare famoso, di essere un “personaggio”. Per tornare a guadagnarsi la ribalta decide di candidarsi alle amministrative del comune di Bitonto, incarico consigliere comunale, lista Sinistra e Libertà. Con un programma da lui stesso definito “cimiteriale”, improntato esclusivamente sulla riqualificazione del campo santo di Bitonto, Pinuccio avvia la sua campagna elettorale battendo inesauribile la città alla guida del suo carro funebre trasformato in auto di propaganda, con slogan, anzi, «logan» come li chiamano Pinuccio e i suoi collaboratori in un italiano incerto, tra il macabro e il grottesco – «Pensa al tuo domani»; «Perché tu possa riposare in pace» – che campeggiano sulla fotografia a mezzobusto di Lovero in tenuta da becchino, anzi, «operatore tecnico cimiteriale» come lui vuole essere definito.

Se fossimo in un film si penserebbe al parto di un qualche geniale sceneggiatore, invece Mezzapesa si limita a riprendere la realtà di una campagna elettorale dove Pinuccio non è certo il più folle dei candidati. Il ritratto dalla politica dal basso che il documentario mette in scena offre uno spaccato sia politico che socio-antropologico, di quella che è l’Italia in certe periferie. Come il protagonista di Reality di Garrone, il sogno di Lovero è quello della celebrità televisiva, dell’apparire sullo schermo per essere riconosciuto e appagato. Quest’urgenza di visibilità non si collega a nessun talento particolare ma al consenso e alla celebrità che il becchino ha all’interno della propria famiglia, del proprio gruppo di amici. Questo è ciò che basta per Pinuccio per divenire qualcuno. Poco importa se ha solo la terza media («Ci sta gente più ignorante di me che ci governa!»), poco importa come ci si arrivi alla celebrità, se attraverso la politica, il Grande Fratello o L’Isola dei Famosi. Buffo cameo di Nichi Vendola che commenta con Lovero i risultati delle elezioni.

Nella sezione fuori concorso si segnala il ritorno di Marjane Satrapi, già autrice del celebrato cartoon Persepolis, con La Bande de Jotas, bislacca commedia nera on the road che non ha suscitato particolari consensi in proiezione stampa. All’arrivo in albergo nel sud della Spagna, una misteriosa donna si accorge che la sua valigia è stata scambiata all’aeroporto. Contatta il proprietario Didier che le riporta il suo bagaglio con l’amico Nils. I due sono in Spagna per un torneo di badminton. Dopo un pranzo insieme, i tre si trovano coinvolti in un’incredibile inseguimento a una banda di mafiosi, tutti con il nome che inizia per “j”, jota in spagnolo, che aveva assassinato la sorella della donna. Una storia sgangherata e debole, tra omaggi al western di Leone e momenti pulp, tirata per le lunghe nella parte centrale, affrettata nella conclusione. A tratti fa ridere, ma poco di più. Divertente il cast composto quasi interamente dalla squadra tecnica (con Satrapi nel ruolo della protagonista).

“Dimmi che c’entra l’uovo” di Fabio Napoli

Dimmi che c’entra l’uovo (Del Vecchio, 2012) è il titolo del primo romanzo di Fabio Napoli, ventiseienne romano, che vive ad Acilia insieme alla sua famiglia. Un libro scorrevole, che racconta le vicende di un ragazzo, laureato e precario, in cui ognuno di noi potrebbe rivedersi.

In sella alla sua bici il protagonista, Roberto Milano si destreggia all’interno del traffico romano, dividendosi tra una serie di lavori. Stacca dal bar di Mario, nel quale lavora con un contratto a scadenza, corre verso la pizzeria per la quale fa il pony express, dà ripetizioni a un ragazzino di nome Matteo, che ha solo una vaga voglia di studiare, e successivamente corre sul set dell’ultimo film porno di uno sconosciuto regista. Durante i suoi spostamenti frenetici è assillato dalle telefonate di sua madre, preoccupata per la sua salute (è affetto da psoriasi) e che continuamente gli chiede quando andrà a trovarla. «Presto», risponde continuamente lui, sempre impegnato a giostrare i suoi mille lavori. Anche delle ragazze si dimentica. Non ha tempo per i sentimenti.

Poi arriva una speranza per Roberto. Un colloquio in un fast food, che diventa un vero e proprio miraggio. L’illusione di ottenere finalmente un posto di lavoro che gli dia la possibilità di pagarsi l’affitto di una stanza a Roma e mantenersi svanisce con la fatidica domanda del test psicoattitudinale: la domanda sull’uovo.

Al colloquio incontra Marianna, ragazza giovane, allegra e spensierata, con la quale stringe subito amicizia e assieme alla quale progetta un nuovo metodo per fare “soldi facili”: una rapina in un bar. Nasce così la Banda dei Precari, che presto finisce nelle prime pagine della cronaca dei giornali romani. Il sodalizio con Marianna si stringe, lei è coinvolgente, ma a separarli c’è ancora l’ombra del suo ex ragazzo, nonché attuale coinquilino di lei e membro della Banda.

I progetti, dopo il primo colpo si ampliano. L’idea di fare soldi facili li entusiasma. Anche perché tra il fare i soldi in questo modo e avere un lavoro che oggi c’è, domani forse no, non fa tanta differenza. Ma il destino che li attende riserverà ai nostri protagonisti tante sorprese, spesso tragiche, dopo le quali nulla sarà più lo stesso.

Scrittura semplice e asciutta, descrizioni degli ambienti più giovanili della capitale, Fabio Napoli con la sua opera prima è stato segnalato tra i finalisti del premio Calvino. Storie di vita quotidiana, che raccontano con una punta di leggerezza e ironia la precarietà odierna che coinvolge i giovani e meno giovani italiani. Propone soluzioni agrodolci, per un futuro che oggi è più che mai incerto.

 

(Fabio Napoli, Dimmi che c’entra l’uovo, Del Vecchio Editore, 2012, pp. 168, euro 14)

“Peter Buck” di Peter Buck

A più di un anno dalla separazione, cosa ci rimane dei R.E.M.? Se facessimo rispondere tutti, dai fan ai detrattori, dai critici più competenti agli ascoltatori più superficiali, avremmo sicuramente svariate risposte e molti spunti di riflessione. Fortunatamente, la loro musica parla chiaro: l’ultimo disco, Collapse into Now, è il pregevole addio di una produzione con pochi pari nella storia del rock indie e non solo. E tutto il resto diventa solo chiacchiera. Un po’ come è successo in questi giorni, con la prima uscita solista di uno degli ex membri. Ovvero, il disco del chitarrista Peter Buck.

In passato i R.E.M. erano stati chiari: finché il gruppo starà in piedi, nessuno inciderà per conto suo, nonostante le molte collaborazioni a cui la band prendeva parte. Il più attivo da questo punto di vista è sempre stato Buck, capace di regalare negli anni delle collaborazione davvero pregevoli, sempre un po’ passate inosservate. Dal disco degli Hindu Love Gods – ovvero i R. E. M. con il compianto Warren Zevon al posto di Stipe – ai Tuatara, passando per i Minus 5, al supergruppo Tired Pony e ai recenti The Baseball Project, il co-fondatore della band di Athens ha sempre sfoggiato l’amore genuino e viscerale per il rock. In tutte le sue accezioni. Parliamo infatti di una persona che vanta un passato da lavoratore in un negozio di dischi e che attualmente possiede una collezione di circa 25.000 esemplari, tra vinili e cd. Non pago, recentissimamente lo si poteva ammirare dal vivo sotto pseudonimo Richard M. Nixon (un genio, signori!) accompagnato dal fedele Scott McCaughey (leader dei Minus 5 e da anni chitarrista aggiunto dei R.E.M.). Era il preambolo dall’ultima, gradevolissima, trovata.

Le poche notizie che trapelavano parlavano chiaro: album anonimo, prodotto dalla piccola Mississippi Records, solo in pochissime stampe, nessuna pubblicità, registrato in analogico e distribuito solo in vinile. Ecco le premesse dell’esordio da solista di Peter Buck. News capaci di scatenare una appassionata ricerca per l’introvabile disco. Una ricerca – qualora risultata positiva – dagli splendidi esiti.

Le canzoni sono state scritte quasi un anno fa, durante un periodo di convalescenza dovuto a un affaticamento alla schiena, in cui Buck – impossibilitato ad armeggiare la chitarra – ne ha approfittato per scrivere i testi. Sia chiaro, questo disco non è l’inizio di una nuova avventura solista, nemmeno un revival sotto mentite spoglie dei R.E.M (comunque presenti sia a livello musicale, che a livello di band, vista la partecipazione di Mike Mills, Bill Rieflin, Scott McCaughey e l’ultimo produttore Jacknife Lee). È la prova d’autore di un musicista che ha regalato al rock degli ultimi trent’anni alcune delle sue vette e che adesso sente il bisogno di mettere nero su bianco la propria antologia. Infatti Peter Buck, così si è deciso di chiamare per convenzione l’album, offre all’ascoltatore tutte le sonorità rock possibili – garage, acustico, folk, indie – e anche lo sterminato repertorio strumentale dell’autore, fatto in primis della fidata Rickenbacker 360.

Ad aprire le danze, il pezzo che già circolava in rete fin da giugno, ovvero “10 Million BC”, una sporca cavalcata dal ritornello coivolgente. Più lenta la successiva “I’m Alright”, recitata fino all’esplosione su una base molto simile a “Suspicion”, presente in Up, del 1998. Ma è sicuramente con la terza traccia che il cuore dell’ascoltatore ha un sussulto: “Some Kind of Velvet Sunday Morning” oltre a essere uno dei pezzi più belli dell’album è anche un momento dove i fasti del gruppo di Athens si fanno più lampanti. “Travel Without Arriving” e “Give Me Back My Wig” continuano la scalata rock pura e semplice del brano iniziale, mentre nella tracklist appaiono i primi pezzi strumentali: “Migraine”, “L.V.M.F.”, “Vaso Loco”. Altro momento splendido è “Nothing Means Nothing”, con l’amica Corin Tucker alla voce. “I’m Alive” è la conclusione perfetta: sia per il riff iniziale che riporta alle orecchie i momenti più distorti di Fables of The Reconstruction, sia perché la sua palpitante foga porta poi alle zone di Monster.

Nel complesso, e volendo fare un paragone con i dischi dei R.E.M., Peter Buck è il New Adventuries in Hi-Fi del chitarrista. Una gamma stupenda e varia di ciò che il rock può fare in tutte le sue sfumature. Non solo un mero passatempo da addetto ai lavori fine a se stesso, ma un disco valido e meritevole per qualità musicale. Ovviamente ai seguaci del gruppo scioltosi un anno fa dirà molte più cose e richiamerà sicuramente scenari maggiori, ma quando il rock è fatto da chi lo vive e lo ama, va consigliato a tutti. Buona caccia.

“Le ceneri di Jan” di Jan Jaromil

È raro che mi occupi di libri di poesia. Questo sia per la predilezione – ormai nota – che ho per la prosa, ma anche perché ritengo che la poesia si stia distaccando inesorabilmente da quei suoi valori semantico-simbolico-sociali che da sempre ne hanno contraddistinto la natura. Raro, ma a volte può capitare. Soprattutto quando scovo, qua e là tra le carte, lirismi eccelsi, in grado di trascinare l’animo del lettore come i cavalli alati di Platone. O, ancora, quando vecchi amici di tempi andati, durante una gradevole cena nostalgica, tirano fuori all’improvviso versi mai uditi, capaci però di rimanere impressi nella memoria come l’eco melodica di certi passeri di montagna.

Quest’ultima è la sorte capitata al libro di cui mi accingo a scrivere: Le ceneri di Jan, di Jan Jaromil, pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Imprimatur.

Devo infatti ringraziare il caro amico Bedřic Liszt, oltre che per la sua ottima birra artigianale, soprattutto per aver colpito la mia attenzione citando, nel bel mezzo di un banchetto, alcune poesie di questo giovane poeta boemo, morto suicida a Praga, all’eta di vent’anni, il 19 gennaio del 1999, a trent’anni esatti dalla scomparsa del patriota cecoslovacco Jan Palach.

Un titolo polivalente, quantomai azzeccato, quello scelto dall’editore triestino. Sebbene infatti la silloge poetica di Jaromil – l’unica purtroppo, data la morte prematura dell’autore – si intitoli Má Vast, cioè La mia Patria, con un chiaro riferimento all’opera del compositore ceco Bedřic Smetana, altrettanto limpido è il rimando del titolo italiano a Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini. Facile intuirne il motivo: sia Pasolini che Jaromil furono attratti, il primo per contingenze storiche, il secondo per un’ossessione compulsiva culminata poi nell’estremo gesto di darsi la morte, dalla figura di Jan Palach, uno degli eroi della Primavera di Praga.

La raccolta poetica di Jaromil è divisa in tre sezioni – “Infanzia”, “Il viaggio”, “Gli anni del tumulto” – contenenti undici poesie ciascuna, per un totale di trentatré componimenti.

La prima sezione, quella più acerba, è marcatamente aulica: quasi fosse preso da un istinto onirico, il poeta descrive il villaggio natale di Zdikov, nel sud della Boemia, la natura che lo circonda e la vita quotidiana della sua numerosa famiglia. Nonostante una evidente inesperienza dell’autore dal punto di vista metrico-sillabico, merita menzione la sua undicesima poesia, “Congedo”, che chiude la prima parte, introducendo quello che sarà il tema centrale della seconda sezione, cioè il viaggio da Zdikov a Praga: «In una vaga disperazione il vento / si dibatte sulle pieghe della giacca, / sgualcita, / come lo sguardo di chi se ne va / senza voltarsi, senza mostrar / il cuore fra le mani / per timore di restar legato / al tremito dei corpi per lui più cari».

La scoperta di un mondo altro da quello familiare di Zdikov accende nel giovane poeta la scintilla del verso libero. Abbandona così definitivamente la metrica classica e a trarne giovamento è, sicuramente, la sua vena lirica, indiscutibile nel breve componimento “La mia Moldava”, in cui l’identificazione tra il poeta e il fiume Moldava, che si allontana dalla sorgente per andare a morire come affluente, è inequivocabile e totale: «Sfuma il cielo nella notte / immemore del suo azzurro colore / e la Moldava ignara scorre / ed io con lei verso un’imperitura memoria. / Lontano si intravede la diafana fosforenza dell’alba: / non è più tempo di restare entro gli argini del letto».

La terza e ultima parte non lascia scampo a dubbi circa la sorte che toccherà al giovane poeta: l’amore per la patria, da sempre incastonato nel cuore dei boemi, esplode inesorabile sotto forma di sdegno, di rivolta verso uno stato corrotto e dimentico della gloria passata, condannando il giovane Jaromil alla morte più ingiusta ma anche la più eroica. I versi di “Piazza San Venceslao”, scritti in ricordo di Jan Palach, sono la testimonianza ultima e, anche per questo, indelebile della forza lirica del poeta di Zdikov: «Lasciai l’aria stringendo i denti / mentre il cuore franava giù dal mio patibolo. / Si incendiò il cielo / ma solo nei miei occhi. / E alla cenere tornai come ogni altro uomo / fino ad allora».

Riposi dunque in pace il giovane Jaromil. Con l’augurio che i suoi versi possano animare anche le vostre emozioni così come hanno fatto con le mie.

[RomaFilmFest7] Sesta giornata

«Revenge never gets old», la vendetta non invecchia mai, si legge sulla locandina di Bullet to The Head, nuovo film di Walter Hill presentato in anteprima fuori concorso al Film Festival di Roma. No, la vendetta non invecchia mai, ma non è la sola. Neanche i duri invecchiano, neanche quando la logica e il buon senso, oltreché l’artrite, imporrebbero il ritiro. Perché il film di Hill è il classico film di uomini duri per uomini duri, che siano poliziotti o criminali cambia poco. Uomini muscolari, che si menano di santa ragione, del tutto estranei alle ferite (se non a quelle strategiche, che incorniciano il volto di sangue per sguardi ancor più truci), che fanno saltare in aria palazzi e si allontanano in ralenti mentre tutto brucia sullo sfondo. E per un film del genere ci vuole un duro vero, uno di quelli con le vene che esplodono, il collo capace di trainare un aratro, un carisma irrefrenabile, magari un vecchio leone che sappia catalizzare il pubblico con un solo guizzo di bicipite. Uno di quelli della vecchia scuola, insomma. Uno alla Stallone, per intenderci. Anzi, ci vuole proprio Stallone. E allora eccolo, il vecchio Sly, che a 66 anni torna a calarsi nei panni di un killer dal corpo di marmo e il cuore appena più tenero.
 


Era da Shades del 2004 che Stallone non interpretava un ruolo in un film che non fosse da lui scritto o diretto. Nel frattempo ci sono stati i sequel a quindici anni di distanza di Rocky e Rambo, la cafonissima serie di The Expendables, qualche particina in tv e null’altro.
Ora eccolo tornare nel film di Walter Hill, premiato a Roma con il Maverick Director Award per la sua carriera di sceneggiatore (The Getaway), produttore (Alien) e regista (I guerrieri della notte), pronto come ai vecchi tempi a vedersela con esplosioni e cazzotti.
Stallone è Jimmy Bobo, un sicario di New Orleans che dopo un lavoro andato a segno vede il suo socio eliminato a coltellate in un bar da un omaccione di nome Keegan (Jason Momoa, il Khal Drogo della serie Game of Thrones) che poi tenta invano, con una rissa in bagno, di sbarazzarsi anche di lui. Bobo viene contattato da Kwon (Sung Kang), un detective della polizia di Washington arrivato in Lousiana per indagare sull’uomo eliminato da Bobo e socio, un ex poliziotto corrotto in possesso di alcune informazioni trafugate dal database di D.C.
Il criminale e lo sbirro sono costretti a collaborare alla ricerca del mandante sia dell’omicidio dell’ex poliziotto che del socio di Stallone. Si troveranno ad affrontare un’intricata serie di rapporti tra malavita e politica ordita dall’affarista africano Morel, in un mondo di corruzione e arrivismo.
Pur basandosi su un plot abbastanza trito, Bullet to The Head è un film che riesce a sorprendere. La coppia Bobo-Kwon funziona benissimo nonostante sia l’ennesima variazione sul tema della strana coppia che Hill aveva già frequentato ai tempi di 48 ore e Danko. L’accoppiata piedipiatti-killer è la vera forza del film, somma in sé una serie di altri duo già sfruttati al cinema: l’interrazziale, il giovane-vecchio, moderno-antico, legale-caotico, e così via. Quello che viene fuori è un susseguirsi di battute fulminanti che i due si scambiano in ogni scena. Pur risultando un po’ troppo irrigidito dal botulino, Stallone sorprende con una carica ironica senza precedenti. È lui a strappare risate e applausi per tutta la proiezione. Una prova incredibile di un attore che, grazie anche al grandissimo mestiere di Hill, riesce ancora a sorprendere il pubblico.

È roba da duri anche il secondo film asiatico a sorpresa, insieme a 1942, presentato oggi in concorso ufficiale. Si tratta di Duzhan-Drug War, il ritorno alla regia di Johnnie To, maestro pluripremiato, stimato tra gli altri da Quentin Tarantino, del cinema di Hong Kong che a partire dagli anni ’90, con la sua casa di produzione Milkyway, ha completamente rinnovato il genere noir imponendosi all’attenzione mondiale. To è la carta a sorpresa a cui si affida Müller, che già negli anni della direzione della Mostra di Venezia ha sempre fatto largo affidamento sulle opere del regista di Hong Kong, presentando in concorso Exiled nel 2006, Mad Detective come film a sorpresa nel 2007, e Life Without Principle, candidato anche all’Oscar come miglior film straniero, nel 2011.
In Drug War, il capitano di polizia Lei, durante un’operazione antidroga, si imbatte in ospedale nel trafficante Ming, ricoverato dopo essersi schiantato con la sua auto mentre fuggiva dal rogo del suo laboratorio di anfetamine. Il capitano accetta l’offerta dello spacciatore che, in cambio della vita (in Cina la produzione di droga è punita con la morte), si propone come collaboratore per sabotare l’intera rete di distribuzione di stupefacenti nell’intero sud-est asiatico. La squadra di Lei inizia così un viaggio nel mondo della grande distribuzione di eroina e cristalli, identificando e smascherando tutti i signori della droga.
Il film di To è una novità assoluta. Per la prima volta si parla apertamente della realtà dello spaccio di droga in Cina, in quella che è una delle tratte di distribuzione più importanti del mondo. In compagnia del suo fido socio e sceneggiatore Wai Ka-Fai, To fornisce un film compatto e frenetico che si muove incessante lungo le autostrade della Cina orientale sulla scia bianca della droga. Una carrellata di personaggi memorabili, come l’imprenditore ittico Fra Haha, che si vuole espandere nel mondo della droga, e i fratelli sordomuti che confezionano anfetamine per Ming, fa da cornice allo straordinario Lei di Honglei Sun, fenomenale per doti di trasformismo che il suo personaggio richiede nelle scene da infiltrato.
Forse il film migliore visto tra quelli in concorso finora. Un action tirato che inchioda alla sedia. Un documento importante per capire che cosa sia la Cina oggi.

Presentato infine l’ultimo film italiano in concorso di questa edizione, E la chiamano estate. Cinque anni dopo i fischi di Venezia che accolsero Nessuna qualità agli eroi, Paolo Franchi torna al cinema con la storia di Dino (Jean-Marc Barr) e Anna (Isabella Ferrari), una coppia di quarantenni apparentemente felici nel loro grande amore. C’è qualcosa però che non torna, un’incapacità della coppia di essere completa. Dino non è in grado di fare l’amore con sua moglie. Alcuni anni prima la drammatica morte per suicidio del fratello a cui era molto legato lo ha reso incapace di manifestare fisicamente i propri sentimenti. Ama Anna ma non può farci l’amore. Per lui amore e sesso sono due mondi distanti, intangibili. Per questo sfoga i suoi istinti in frequentazioni sessuali sordide con scambisti e prostitute sfregiate. Lontano dalla sua donna Dino riesce a sfogare la carne, ma si tratta appunto solo di uno sfogo, un’emorragia di sudore che lo lascia con un vuoto crescente e un senso di colpa verso Anna. Lui vorrebbe soddisfarla, ma non può. Non ha il coraggio di intraprendere un percorso di psicanalisi che lo costringerebbe ad affrontare il passato. Cerca da solo una soluzione al problema, inizia a rintracciare i passati amori di Anna, gliene offre la carne, li implora di fare sesso con lei, sprona la moglie a cercarsi un amante. Anna ama Dino di un amore che non ha bisogno di fisicità. Lei è felice con lui così com’è. Si chiede come sarebbe un amore diverso con lui, ma è convinta che non sarebbe migliore di quello che hanno. La frustrazione di Dino, però, li spinge sempre più lontani e quando lei si lascia sedurre da un giovane spasimante è già troppo tardi perché la loro storia si possa salvare.
 


 

Lento. Algido. Ripetitivo. Estenuante. Questi i primi aggettivi che vengono in mente una volta usciti dalla sala. Sarà per la struttura narrativa fatta a sequenze mescolate non in ordine cronologico. Sarà per la fotografia abbacinantemente sovraesposta sui toni di bianco di Cesare Accetta e Enzo Carpineta. Sarà che Dino non fa altro che accoppiarsi con sconosciute, giacere sul letto con la moglie, inseguire i suoi ex. Sarà che tutto sommato non succede nulla per tutti i novanta minuti di film che sorprenda lo spettatore. Sarà che il finale è chiaro, se non dalla prima, dalla seconda scena. Sarà che le riprese iperrealiste, che quasi spiano la vita della coppia, rendono tutto distante, asettico, privo di emozioni. Sarà che le voci off che commentano foto e illustranoex post la storia di Dino e Anna non aggiungono nulla. Sarà che anche se si prova a fermarsi e a cercare un eventuale senso più profondo del film non ci si riesce. Forse vuole essere un’indagine sulla coppia moderna, un’analisi del ruolo del maschio, dell’impossibilità di un amore che non sia passione, delle frustrazioni dell’impotenza, forse tutte queste cose insieme. Ma non ci riesce.
Fortemente criticato durante la conferenza stampa, E la chiamano estate è un film lontano anni luce dal pubblico, che non riesce a sfruttare a pieno un buon soggetto, sviluppato dallo stesso regista, per inseguire un manierismo espositivo che non colpisce se non in maniera negativa. E quando poi ci si ferma a pensare di nuovo al film, dopo averne assimilato i testi e i sottotesti, vengono in mente quattro aggettivi per descriverlo che sono già noti. Lento. Algido. Ripetitivo. Estenuante.

La collana Zoo ||| Scritture animali di :duepunti edizioni

Che cosa unisce dei cammelli polari, tre cani, tre gatti, un topo, un fagiano, alcuni pesci e un bel po’ di ragni? Semplice: Zoo ||| Scritture animali, la collana di :duepunti edizioni che vogliamo presentarvi in maniera più approfondita.

«Zoo nasce dal desiderio di convogliare l’attenzione del pubblico dei lettori italiani verso il mondo animale, come punto di riferimento e, spesso, vero e proprio specchio dei comportamenti umani. Ridotti in cattività, sfruttati nel lavoro, temuti come irriducibili testimoni di una Natura selvaggia, gli animali hanno ispirato molte delle pagine più belle della letteratura universale – dai bestiari medievali a Moby Dick – sollevando sempre l’urgenza di osservare il mondo con uno sguardo che vada al di là del ristretto orizzonte dell’uomo»

La collana, diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini, ha come scopo – chiaro sin dalle prime tre uscite – quello di creare un luogo (uno zoo, ma senza sbarre) al cui interno noti autori italiani contemporanei possano interagire con alcuni animali, scelti quasi come totem, dando vita a una serie di racconti lunghi – una forma testo ibrida, anzi, a metà tra il racconto e il romanzo – incetrati, appunto, sul mondo animale. Un luogo ecocompatibile, per la precisione: «I libri si presentano in un formato di 9 x 14 cm, con un’elegante impaginato che si rifà alle proporzioni dei testi medievali e sono stampati con inchiostri a base di oli vegetali e materie prime naturali rinnovabili, su carte ecologiche certificate FSC (Forest Stewardship Council)».

Dunque, per ricapitolare, abbiamo ogni genere di animale, una serie di scrittori noti, un formato originale e l’interno del libro realizzato con materiali naturali. E la copertina? Qui sta l’ulteriore novità di questa interessante collana: «Per la prima volta in Italia è stata usata per le copertine la speciale Elephant Dung Paper (premio BBC World Challenge), prodotta artigianalmente in Sri Lanka con “cacca” di elefante nel completo rispetto dell’ambiente per finanziare un programma per la tutela degli elefanti della Millennium Elephant Foundation – World Society for Protection of Animals (WSPA)».

Fin qui tutto chiaro? Allora non resta che addentrarci in questo «zoo senza sbarre per animali di carta» e capire più a fondo il particolare connubio sorto tra scrittori e animali.

Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari, di Giuseppe Genna, Mio padre non ha mai avuto un cane, di Davide Enia e Alter E (un fagiano), di Mario Giorgi, sono i tre titoli che hanno aperto la collana.

Il primo volumetto è un omaggio di Genna alle Operette morali di Giacomo Leopardi: i cammelli polari di cui si parla sono creature misteriose che appaiono improvvisamente e recano con sé un messaggio profondo, quasi catartico, riguardante l’umanità intera.

L’animale protagonista del racconto di Enia – notevoli i picchi di lirismo della sua narrazione – è, invece, Nerone, un grosso cane nero, che accompagna l’autore come una specie di guida spirituale, tra le strade di Palermo, devastata dalle stragi di mafia del ’92.

Giorgi narra invece una storia di sdoppiamenti di personalità e spersonificazioni in cui il fagiano diviene, per il personaggio principale, immagine di riferimento per intraprendere un percorso di autoanalisi e di ricerca interiore nel tentativo di liberarsi della propria immobilità psichica.

A questi tre titoli fanno seguito La stanza degli animali, di Giulio Mozzi, Fine della violenza, di Nicola Lagioia e Il grande cacciatore, di Carlo D’Amicis.

Nel volume firmato da Lagioia compare per la prima volta la figura del gatto. Esattamente una femmina di nome Diana, il lato più umano di una famiglia bestiale e di un ventenne disastrato che avvelenano le proprie giornate all’ombra della terribile Tangenziale Est di Roma.

È nuovamente un cane, invece, l’animale scelto da D’Amicis: con la consueta ironia che lo caratterizza, l’autore racconta un paradossale triangolo di relazioni che terminerà con la morte del quadrupede Spariscy – nome che è tutto un programma – , unica preda/vittima di un cacciatore ottuso e incapace.

Poi è il turno di Gatta gatta, di Matteo B. Bianchi, La compagnia del corpo, di Giorgio Falco (di cui potete trovare la recensione sul nostro sito) e Le avventure di Super Trappi, di Fulvio Abbate, la cui storia è illustrata dalla figlia dell’autore, la piccola Carla Abbate. E ancora Pesci, di Evelina Santangelo (anche di questo titolo è presente la recensione su Flanerí).

Negli ultimi titoli della collana, La ricerca del legname, di Marino Magliani e Tutti i ragni, di Vanni Santoni, pubblicati dalla casa editrice palermitana lo scorso aprile, compaiono due tipologie nuove di animali: i topi e i ragni.

Nel caso del racconto di Magliani, la cui surreale ambientazione non deve trarre in inganno vista l’antropomorfizzazione dei personaggi, il protagonista è Fernando, un roditore ex poliziotto alle prese con una misteriosa scomparsa – evidente l’omaggio dell’autore a “Il poliziotto dei topi” di Roberto Bolaño.

Santoni invece “disgusta” i lettori con apparizioni di aracnidi di vario genere e dimensione, quasi fossero elementi formativi della coscienza del protagonista, lungo un percorso esistenziale che va dalla fanciullezza all’età adulta.

Sono piccole gemme, dunque, queste storie raccolte in Zoo ||| Scritture animali, originale collana di :duepunti edizioni. Piccole pregevolezze che hanno, tra gli altri, il merito di trovare il senso nella brevità, attraverso il giusto peso delle parole, rivitalizzando la forma narrativa del racconto. Completa il progetto la scelta grafica, capace di rivelarsi oltre che nel formato ridotto, addirittura nel materiale utilizzato, vedasi la copertina realizzata con carta riciclata ottenuta dagli escrementi degli elefanti. Tornano alla mente, allora, le parole che cantava Fabrizio De André in una sua canzone di qualche tempo fa e che si rivelano ancora una volta veritiere: «Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior».

 

Per ulteriori informazioni su Zoo ||| Scritture animali:

http://www.duepuntiedizioni.it/catalogo/zoo-scritture-animali/

“Boardwalk Empire”, il ritratto violento dell’America criminale

C’è un’America, nel nostro immaginario, fatta di completi gessati e mitra spianati sotto il cappotto, capelli impomatati e auto d’epoca, coltelli a serramanico nello stivale e casse piene dialcolici di contrabbando, come negli Intoccabili di De Palma. Questi sono alcuni dei tratti che compongono lo spettacolare affresco dell’impero del crimine affacciato sulla boardwalk – ovvero la via paesaggistica fatta di assi di legno che costeggia la spiaggia e il mare – della Atlantic city degli anni ’20, i ruggenti anni del proibizionismo. Lungo la passeggiata si staglia la sagoma di un uomo magro ed elegante, con un garofano rosso puntato sulla giacca. È Enoch “Nucky” Thompson.  Ufficialmente è l’amato politico tesoriere della città, ma in realtà, è soprattutto il boss malavitoso protagonista di Boardwalk Empire, la serie americana osannata da critica e pubblico arrivata alla terza stagione in patria.

Un successo garantito dalla nuova usanza tanto in voga nello showbusiness U.S.A.: far entrare il cinema nella tv. Ovviamente il grande cinema fatto dai vari Spielberg, Hanks e Scorsese, capaci di investire alti budget e ambiziosi progetti sul mezzo televisivo. I grandi nomi di Hollywood hanno capito che la tv non è più un mezzo utile solo per offrire un intrattenimento di serie B, ma che può garantire – sotto forma di serie – uno spettacolo pari, se non superiore, a quello della settima arte.

La rete via cavo HBO ha proposto al pubblico un prodotto che non farà rimpiangere la serie di mafia per eccellenza trasmessa dalla medesima emittente fino alla sua epica conclusione nel 2007: I Soprano, ancora oggi considerata il fenomeno televisivo più importante degli ultimi venticinque anni.  Per Boardwalk Empire non si è badato a spese: alla sceneggiatura abbiamo Terence Winter (già autore de I Soprano, per lappunto), alla produzione la star Mark Wahlberg e il maestro Martin Scorsese, regista anche dellepisodio pilota. La scenografia curata perfettamente fino al dettaglio e i costumi permettono allo spettatore di timbrare il biglietto per un bel viaggio nel passato di quasi cento anni. Completa il tutto un cast di altissima taratura: Nucky Thompson, personaggio realmente esistito, ha il volto del grande Steve Buscemi, a cui è accostato quello di Michael Pitt, sempre meno giovane e ribelle ma più bravo ed intenso. Forte di queste basi, la serie, godendo dei tempi più lunghi e dilatati concessi dalla fiction a puntate, crea un affresco intrigante, sensuale, cupo e vivido dell’America ai tempi del Proibizionismo, fatta di gangster spietati e violenti non meno malvagi dei tanti loschi politici del contraddittorio periodo. Buscemi è formidabile nell’incarnare il contrasto tra i due archetipi; davanti a tutti paladino della giustizia, ma dietro, abile nell’architettare le mille trame e gli accordi con cui arricchirsi grazie anche allo spaccio di alcolici proibiti. A partire da questo nucleo iniziale, Boardwalk Empire diventa un’antologia della mala, dove a poco a poco, ancora agli esordi, appaiono personaggi come Al Capone e Lucky Luciano, solo per citare i pezzi grossi.

Ma Broadwalk Empire non è solo una serie di gangster fatta di sparatorie e violenza – comunque onnipresenti -, è anche un modo per addentrarsi nell’indole umana, spesso contraddittoria e complessa, dove i rapporti e le scelte spesso fanno più male di una pallottola. E per questo va dato plauso all’interpretazione degli attori, capaci di rappresentare questa lacerazione  e la conseguente discesa nell’abisso del male: da Pitt, sofferente prediletto di Nucky, al grandissimo Michael Shannon, nei panni del poliziotto incaricato di dare la caccia ai venditori di alcool, sempre più combattuto tra i suoi principi cristiani e le depravazione della Nuova Babilonia americana. E dopo poche puntate ci si accorge di quanto l’America di quel periodo sia tanto simile al mondo attuale.  

Insomma, tutto perfetto come in un capolavoro del cinema. No, anzi, meglio; come in un capolavoro della tv. Tanto che, puntata dopo puntata, la voglia di passeggiare sulla boardwalk corrotta e criminalesarà irrefrenabile.

 

[RomaFilmFest7] Quinta giornata

Mentre continuano imperterriti i problemi di organizzazione (la gestione delle code nelle proiezioni serali è qualcosa di aberrante: nessuna segnalazione per le file di accreditati e muniti di biglietto, niente delimitazioni, ritardi vergognosi nell’inizio delle proiezioni e incapacità assoluta nell’affrontare la folla, nonostante il massimo impegno degli addetti alla sicurezza) la quinta giornata della Festa internazionale del Film di Roma si concentra sul pubblico dei giovani e dei giovanissimi.

La mattina si apre infatti con la proiezione in anteprima di Ralph Spaccatutto, nuovo cartoon Disney per la regia di Rich Moore che negli Stati Uniti sta battendo ogni record d’incassi convincendo anche la critica. Maestoso lo scenario allestito per la presentazione del film in uscita il 20 dicembre: sul tappeto rosso dell’Auditorium, infatti, si è respirata con largo anticipo l’atmosfera natalizia, con tanto di nevicata artificiale, albero di Natale alto cinque metri e ragazze vestite, diciamo così, come Santa Claus.

Entusiasti i ragazzini accorsi per il film, presentato fuori concorso nella sezione Alice nelle città, che racconta la storia di Ralph, omaccione nerboruto che, stufo del suo ruolo di cattivo nel videogioco Félix Aggiustatutto, decide di partire per un viaggio negli altri games dove conoscerà la piccola Vanellope, minacciata da un cattivo crudelissimo. Presenti alla proiezione il regista Rich Moore, formatosi con Matt Groening nei Simpons e in Futurama, e Paolo Virzì che ha un piccolo ruolo di doppiatore nella versione italiana.

Presentato fuori concorso anche Rise of the guardians – Le 5 leggende, il nuovo kolossal d’animazione firmato Dreamworks, tratto da un racconto di William Joyce, che ha ricevuto anche il premio Vanity Fair per l’eccellenza del cinema, per la capacità innovativa e l’originalità. Nel film di Peter Ramsey, presente a Roma con il produttore Guillermo del Toro, Babbo Natale, il Coniglio Pasquale, la Fatina dei Denti, Jack Frost e Sandman si coalizzano per difendere i bambini dall’Uomo Nero che vuole entrare nelle loro menti di notte per rubarne i sogni.

Folla oceanica di ragazzine trepidanti, infine, per The Twilight Saga: Breaking Dawn part II, ultimo capitolo della saga dei vampiri luccicanti protagonisti dei romanzi di Stephenie Meyer, a cui ha fatto seguito una cinemaratona con tutti i film della serie, con giochi e quiz per il pubblico.

Di tutt’altro registro invece il ritorno sul grande schermo di Larry Clark, regista specializzato in storie di adolescenze complicate con l’elemento sessuale sempre in primo piano. In Marfa Girl, presentato in concorso ufficiale, l’ex fotografo racconta la storia di Adam, metà bianco e metà messicano, nella cittadina texana di Marfa, vicinissima al confine con il Messico e incessantemente pattugliata dalla polizia di confine alla ricerca di immigrati in fuga. Una realtà rigida, in cui è imposto un coprifuoco alle undici di sera e dove i professori del locale liceo sono liberi di infliggere pene corporali ai propri studenti. Tra le giornate trascorse con gli amici e l’inquietante presenza di Tom, agente di polizia psichicamente instabile, il sedicenne Adam inizia a sperimentare il sesso, un po’ con la sua fidanzatina Inez, un po’ con una vicina di casa particolarmente disponibile e soprattutto con un’anonima studentessa arrivata a Marfa (è lei la ragazza del titolo) per un progetto promosso da una fondazione d’arte. Proprio la sconosciuta porterà scompiglio nella routine di Adam e di tutta Marfa.
 

 

Il cinema di Clark può risultare facilmente eccessivo nel mostrare tutto ciò che gli altri si rifiutano di filmare. Sin dal suo esordio con Kids nel 1995, passando poi per il più recente Ken Park del 2002, carico di scene di sesso reali ed esplicite, Clark non si è mai fatto problemi a seguire con la sua telecamera tutti gli aspetti della vita adolescenziale, mostrandone le violenze, le fragilità, le sperimentazioni carnali e tossiche. Il dubbio che tutta la sua produzione non sia altro che uno sforzo continuo volto alla ricerca di nuovi modi di provocare è sempre presente, e costituisce il principale elemento d’accusa nelle mani dei suoi detrattori, ma la qualità estetizzante delle immagini, anche di quelle al limite dell’osceno, già elemento di forza della sua produzione fotografica (i soggetti dei suoi primi scatti erano lui e i suoi amici intenti a iniettarsi metanfetamine), fa sì che la visione di un film di Clark non può in alcun modo lasciare indifferenti.

A un anno esatto dalla caduta del suo ultimo governo, intanto, nella sezione Prospettive Italia il documentario S.B. Io lo conoscevo bene torna a raccontare vita e opere di Silvio Berlusconi. Ci si può chiedere: serve fare ancora film sull’ex presidente del consiglio? La risposta è semplice: sì. Accolto nella proiezione per la stampa tra gli applausi e le risate per alcune gaffes divenute ormai storiche, il film di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella ricostruisce gli ultimi trent’anni dell’attività dell’ex premier, dalla nascita di Milano 2 e del suo impero immobiliare fino alla famigerata discesa in campo, dagli imbarazzi internazionali alle dimissioni che hanno aperto la strada al governo Monti.

 

 

C’è poco da ridere, in verità, nel lavoro svolto da Durzi e Fasanella. Il punto di vista assolutamente inedito che i due registi si pongono – utilizzando esclusivamente interviste inedite a ex berlusconiani “pentiti”, dall’avvocato Vincenzo Dotti a Gabriella Carlucci, da Paolo Guzzanti a Cirino Pomicino, unite a materiali d’archivio prese da programmi televisivi, spot elettorali e telegiornali – offre uno spaccato nuovo sul berlusconismo rispondendo finalmente, anche se solo dal punto di vista di addetti ai lavori della politica, alla domanda che più spesso ci si è posti negli ultimi anni: qual è il segreto del successo elettorale del Cavaliere di Arcore, come ha fatto a convincere un variegato gruppo di professionisti, prima, e un gran gruppo di elettori, poi, a seguirlo in un progetto politico senza precedenti nella storia del mondo occidentale.

Lasciando parlare i propri ospiti, Durzi e Fasanella mettono in luce per la prima volta in maniera esclusiva il mondo dall’altra parte della barricata, quello in cui si sono mossi entusiasti e convinti i berlusconiani della prima ora e i folgorati sulla via di Segrate. Dalle immagini emerge quello che è l’autentico genio berlusconiano, quella capacità di seduttore e comunicatore che è stata la sua forza nell’avvio del progetto Forza Italia e che è divenuta, con gli anni, la sua principale debolezza. Camminando nella galleria degli errori, degli orrori, di quello che è e sarà senza dubbio il presidente del consiglio più discusso dell’Italia del dopoguerra, emerge un fatto importante: Berlusconi non è mai stato un politico, lo dicono Ferrara e Cirino Pomicino. Il suo non è mai stato un progetto volto a creare un partito nuovo che durasse nell’agone politico. Il Cavaliere ha sempre venduto sé stesso, la propria immagine, il proprio corpo, e questa è stata l’arma segreta che l’ha reso l’uomo politico, e non solo, più importante in Italia negli ultimi vent’anni. Quell'arma, poi, si è volta contro di lui portandolo alla caduta.

Impreziosito dalle animazioni pop di Giacomo Nanni, che introducono i vari capitoli in cui è suddiviso il documentario, e dalla colonna sonora elettronica di Massimo Vigliar, S.B. Io lo conoscevo bene è un film importante, se non fondamentale, per comprendere l’Italia in cui viviamo oggi.

“13 sotto il lenzuolo” di Giuliano Pavone

È il nostro paese il protagonista di 13 sotto il lenzuolo (Marsilio, 2012), nuovo libro del giornalista sportivo Giuliano Pavone che offre al lettore una mitologia nazionalpopolare che diverte e rasserena i malinconici dei b-movies del fatto che, in fondo in fondo, quel gusto al “ribasso”, all’Italietta fanfarona e indisponente, al presente che “rovina sempre tutto”, è tutt’altro che è morto.

E non è morto perché la commedia sexy all’italiana, dei “siamo tutti voyeur” ma poi non si conclude niente, guardoni ma non troppo, furbi, furbetti e scapestrati, poveri ma belli, è ancora lì; c’è da qualche parte tutto questo, nonostante le banche, i SUV, le partite in televisione, internet, gli effetti speciali e tutto il resto, è lì, basta guardare, scavare, rintracciare.

Ed ecco allora che torna il padre con la canotta bianca insudiciata, il pranzo domenicale, l’aperitivo alla domenica, il sud che è come un “trerrote”, il film di Banfi o Buzzanca alla tv i pomeriggi d’estate quando ti trovi ad esaltare “Febbre da cavallo”, “L’allenatore nel pallone”, “Attila flagello di Dio”. E poi ci sono pure quelli che si vergognano e che pensierini sulla Fenech li fanno ancora.

L’Italia è anche questo ed è bella anche per questo, eterna provincia di un’Europa che ruggisce e si prende troppo sul serio. Noi no, noi ridiamo di battute trite e ritrite, volgari e perché no cafone.

Perché noi italiani è dalla terra che veniamo, altro che Rinascimento, Dante, Leopardi, Fellini e tutti gli altri, la nostra storia è un’eterna imperitura supercazzola.

E Pavone lo sa bene e prende in giro tutti noi: il grande Gatsby de’ noantri non solo s’avvicina al successo, lo raggiunge pure, ma con la truffa.

Un Tredici fasullo, come se quando il Totocalcio – che era il Totocalcio, quello sacro, quello di tutte le domeniche pure se diluviava – si potesse fregare veramente, un gioco che era come un’entità, qualcosa di superiore persino al Dio Pallone.

I ragazzi di oggi questo non lo sanno: in quella serie di 1, di X e di 2 c’era il calcio, quello vero – dei giocatori capelloni, dei mediani, dei gregari, dei portieri con i guanti troppo grandi, delle maglie di lana, dei colori opachi, dei Platini e Maradona che non erano Messi e Cristiano Ronaldo – non si poteva fregare, vinceva sempre Lui, il Tredici che non arriva mai, che ne manca sempre una.

Ma il deus ex machina funziona: una vittoria fasulla alla schedina innalza il furor maschio del protagonista che s’esalta sul corpo sognato e bramato di Morena Dani – soubrette di primo e secondo pelo, radice quadrata di eroine quali la Fenech, la Cassini e la Bouchet – e cala il sipario sugli anni settanta e a quell’aria un po’ naif  che il cinema di genere (quello delle commedie sexy) rappresentava al meglio.

A trionfare è la spregiudicatezza, il divertirsi sano degli amici, un meridione che respira futuro dagli oggetti antichi bruciati senza cura all’interno del libro, il vivere che va preso con un po’ meno serietà.

Ci piaccia o no, l’autore coglie nel segno, perché sotto il lenzuolo ci si finisce con l’astuzia e con l’intelligenza si fa il dopo. Altro che Miracolo Economico, yuppie e tutto il resto: l’Italia non è altro che una farsa e come tale non smetterà mai di esserlo.


(Giuliano Pavone, 13 sotto il lenzuolo, Marsilio, 2012, pp.224, euro 16)

[RomaFilmFest7] Quarta giornata

Di Matthew Modine, presente a Roma come presidente della giuria che assegnerà il premio alla miglior opera prima o seconda, si sa che è un attore che si è sempre riservato il privilegio di scegliere quali film fare, senza mai scendere a compromessi – salvo rare eccezioni – con il lato più commerciale di Hollywood. Pellicole diverse l’una dall’altra, dalla lunga collaborazione con Abel Ferrara fino all’ultimo Batman di Nolan, Modine sarà sempre ricordato dal grande pubblico per due ruoli: Birdy, nel film omonimo di Alan Parker, Grand Prix a Cannes nel 1985, e, soprattutto, per il soldato Joker nel capolavoro di Stanley Kubrick Full Metal Jacket. Proprio il film del 1987 rivela in questa settima Festa del film di Roma una passione meno conosciuta della star: la fotografia. Nel Foyer Sinopoli è infatti possibile apprezzare l’esposizione Full Metal Jacket Diary Redux, una selezione di circa cento scatti che Modine ha realizzato nei due anni di lavorazione del film di Kubrick. Fotografie prese sul set, che ritraggono momenti delle riprese e della vita del cast. Splendide fotografie, per lo più in bianco e nero, che rivelano, con l’aiuto delle didascalie, i segreti della lavorazione di quel film immortale. Come lo scenario della battaglia di Hue e del duello finale finale contro il cecchino vietnamita, girata interamente negli stabilimenti della Bekton Gas Works in Gran Bretagna.

C’è un cecchino anche nel nuovo film di Michele Placido, anzi, ne è il centro e gli dà il titolo. Il cecchino è il primo film francese del regista di Romanzo Criminale chiamato oltralpe dagli sceneggiatori Cedric Melon e Denis Brusseaux, colpiti proprio dal film tratto dal romanzo di De Cataldo, per realizzare un classico poliziesco alla francese con il supporto di un cast di stelle di primo livello del cinema transalpino come Daniel Auteuil, Matthieu Kassovitz e Olivier Gourmet, con l’aggiunta degli italiani Violante Placido e Luca Argentero.
 


Una banda di rapinatori di banche sta per portare a termine l’ennesimo colpo quando la squadra guidata dal capitano Mattei (Auteuil) li circonda bloccandone la fuga. Solo l’intervento di un cecchino assoldato dai malviventi e appostato su un tetto riesce a impedire l’arresto lasciando via libera alla fuga col bottino dei criminali. Mentre Mattei indaga sul cecchino, identificandolo come Vincent Kaminski (Kassovitz), i banditi sono costretti a un cambio di programma nel loro piano di fuga a causa del ferimento di uno di loro (Argentero), e si rifugiano a casa di un medico corrotto (Gourmet) che si prende cura del ferito. Mentre l’indagine del capitano va avanti emergono gradualmente dettagli che conducono sempre più lontano da Parigi, verso l’Afghanistan, esattamente in quella squadra speciale in cui il figlio di Mattei aveva perso la vita in circostanze misteriose alcuni anni prima. Nel frattempo i banditi devono fare i conti con un traditore, qualcuno che, dopo aver denunciato Kaminski alla polizia, si è appropriato della refurtiva e ha iniziato a eliminare i suoi ex soci con un sadismo crudele.

Troppo, troppo, troppo. C’è troppo sul piatto ne Il cecchino. E l’Afghanistan, e il cattivo buono di Kassovitz che non uccide ma ferisce soltanto gli avversari, e il poliziotto che sa distinguere tra giusto e legale di Auteuil, e il cattivo più cattivo dei banditi che si scopre psicotico torturatore. Tutte figure che intasano, ingolfano, stancano in fretta in un film di neanche novanta minuti che fatica a scorrere. Peccato perché con i soldi francesi il regista de Il Grande Sogno e Vallanzasca realizza un film ineccepibile sul piano dell’immagine, con l’ottima fotografia livida di Arnaldo Cantinari, e retto dal terzetto di attori francesi che offrono una buona prova, anche se il confronto Auteuil-Kassovitz sembra una brutta copia del duello Pacino-De Niro in Heat di Micheal Mann. Se il problema di fondo dell’intera produzione di Placido è che si crede un “Autore” e non solo un regista, in questa trasferta francese non si trova certo aiutato da una sceneggiatura che difetta di profondità e slancio e finisce per riproporre cliché triti o svolte improbabili e improponibili (l’inutilità della natura sadica di seviziatore e serial killer di donne del traditore, ad esempio).

Peccato, perché Il cecchino parte da basi più che solide ma finisce per svaccare completamente nel finale, con scene al limite del ridicolo (su tutte, Auteuil che si mette a sparare sulla folla con un fucile di precisione per bloccare un fuggitivo, noncurante dei passanti). Se debitamente ridimensionato, però, affrontandone la visione come un film di genere e poco altro, Il cecchino risulta comunque un discreto polar dotato di tensione narrativa.

Nella sezione Prospettive Italia si segnala l’opera seconda di Aureliano Amadei, già autore dell’autobiografico Venti sigarette, vincitore del premio Controcampo italiano a Venezia nel 2010. Amadei arriva a Roma con un documentario sull’ascesa e caduta di Giancarlo Parretti, Il leone di Orvieto, affarista italiano ex cameriere che avvia la sua fortuna in Sicilia, con la presidenza del Siracusa Calcio, trascorre un giorno come proprietario del Milan, tra Farina e Berlusconi, arriva fino alla cattura del leone della Metro Goldwin Mayer, leggendaria casa di produzione cinematografica, con cui produrrà in pochi mesi film come Thelma & Louise e Rocky V, per poi crollare in uno dei più grandi crack finanziari della storia del cinema. Presentato in concorso, il film di Amadei spicca per la venatura leggera, aiutata dalla naturale verve comica di Parretti, che attraversa tutta la ricostruzione, sospinta da una colonna sonora fatta di classiconi della musica leggera e da spezzoni di classici della commedia all’italiana posti a commento dei passaggi salienti. Un’ottima occasione per ricostruire la vicenda di un fallimento che fece storia, tra intrecci con la politica e il mondo dell’alta finanza in cui Parretti si è mosso come una rumorosa anomalia.


Delude invece il secondo film italiano presentato in concorso ufficiale, Il volto di un’altra, scritto (con Monica Rametta e Gianni Romoli) e diretto da Pappi Corsicato. Quattro anni dopo i fischi veneziani riservati al Seme della discordia, il regista napoletano arriva a Roma con un atto di accusa alla società dell’immagine e alla televisione.
 


Bella (Laura Chiatti) è un volto noto del piccolo schermo che, in compagnia del marito chirurgo René (Alessandro Preziosi), conduce un programma sulla chirurgia estetica. Cacciata dal network, che ritiene il suo volto non più attraente per il grande pubblico, rimane coinvolta in un incidente automobilistico quando un WC in viaggio verso la discarica sul camion guidato da Tru-Tru (Lino Guanciale), manutentore della clinica di René, si sgancia dal rimorchio e le si schianta sul parabrezza, sfigurandola in maniera apparentemente irreversibile. L’incidente diventa l’occasione per lei e il marito di riconquistare l’attenzione dei media e di realizzare una puntata speciale del loro programma in cui Bella sarà protagonista di una ricostruzione facciale completa. Sarà lei quel volto nuovo che il network cercava. Nel frattempo, la Terra è minacciata da un asteroide, ma la stampa è più interessata a seguire le vicende di Bella, rinchiusa nella clinica del marito in attesa dell’intervento.

Con uno stile surreale volutamente ai limiti della caricatura, Corsicato fornisce una critica dell’Italia contemporanea in cui nulla si salva dal gorgo del denaro e della voglia di apparire, neanche l’inizialmente idealista Tru-Tru, pronto a convocare uno sciopero generale degli idraulici per migliorarne le condizioni lavorative, o la madre superiora di Iaia Forte, più interessata al denaro e alle purghe che al contatto col divino. La messa in scena carica di colori e di rimandi ad altro cinema – dall’Almodovar de La pelle che abito al Grande Lebowski, dall’espressionismo tedesco al cinema giapponese, fino alle vecchie pubblicità di Carosello – diverte e colpisce.

Corsicato ha un suo stile ben preciso, fatto di contaminazioni tra generi e ammiccamenti al pubblico (il dialogo sul bianco e nero ne è chiaro esempio) e con Il volto di un’altra ne dà ampiamente prova. Dimentica solo un particolare, non di poco conto: sviluppare una sceneggiatura all’altezza dell’espressione registica. Pur partendo da un soggetto più che valido e originale, Corsicato e i suoi collaboratori non sono riusciti a sviluppare una trama capace di evitare ripetizioni e banalità. Una volta chiarito sin dai primi minuti che quello della televisione è un brutto mondo, che tutti inseguono il denaro o il quarto d’ora di celebrità e che il pubblico, anziché semplice vittima, è complice della barbarie televisiva con la sua idiozia, niente di nuovo viene aggiunto alla trama, se non la scontata redenzione di Bella che avrà sì il volto di un’altra, alla fine, ma non come ci si attendeva. E se la pioggia di feci umane che colpisce tutti durante la diretta dell’intervento di Bella vuole essere metafora di ciò che è la televisione, siamo nel pieno della banalità. E se vuole essere provocazione, siamo ancora nel banale. Se vuole fare sensazione fine a sé stessa, invece, diciamo che ci riesce, ma rimane, comunque, un espediente ben da poco per far parlare di sé.

“Sulla via della seta” al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Dal 27 ottobre al 10 marzo, a Palazzo delle Esposizioni, è aperta la mostra Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente, che si propone di ripercorrere il lungo viaggio, dalla Cina verso l’Europa, che mercanti, pellegrini e soldati affrontarono per conoscere, dominare e avere commerci con popoli lontani. La strada che si era formata lungo questi antichissimi percorsi, denominata solo in seguito Via della Seta, si snodava attraverso le città principali dell’Eurasia, centri mercantili e soprattutto culturali. Oltre alle pregiate sete e alle preziose spezie, in Occidente venivano introdotte le scoperte scientifiche o le innovazioni tecniche che animavano le moderne città d’Oriente.

Il percorso espositivo si snoda lungo sette sezioni e attraverso la ricostruzione di quattro città simbolo: Chang’an, l’attuale Xi’an, Turfan, città-oasi nel deserto del Gobi, Samarcanda, grande centro culturale e commerciale, e Baghdad, centro intellettuale del mondo islamico. Ogni sezione è arricchita dallo spettacolare allestimento, a cura di Marisa Coppiano, che regala al visitatore grande curiosità e suggestione, il quale non vede l’ora di passare alla sala successiva per scoprire quale magia gli è stata riservata. Gli allestimenti delle sezioni che riguardano la città di Chang’an, capitale della dinastia Tang, e l’oasi di Turfan sono sicuramente i più affascinanti, perché riescono a ricreare queste ambientazioni: il visitatore si troverà a rivivere un’esperienza lontana nel tempo e nello spazio e gli sembrerà di camminare nell’antica e cosmopolita città cinese, fatta di mercati e di allevamenti di bachi da seta, e di fare una sosta nell’oasi desertica dal sofisticato sistema di irrigazione. La sala dedicata a Samarcanda sottolinea l’importanza strategica che questa città fiorente ha avuto per la diffusione di ogni bene di lusso proveniente dall’Oriente e per essere stata punto di incontro tra culture lontane. Viene messo in evidenza come l’uso della carta abbia reso possibile la documentazione di transazioni commerciali e la trasmissione di testi sacri. Nella sala di Baghdad vengono ricostruite alcune invenzioni che hanno fatto di questa capitale araba una città in cui fioriva la ricerca nei campi delle scienze, della letteratura e della tecnologia. L’ultima sezione realizzata in esclusiva per la tappa italiana della mostra, mette a fuoco i rapporti che i mercanti soprattutto veneziani hanno avuto con questi luoghi, rapporti che non erano unilaterali, né riservati alla sola seta, ma fondati sullo scambio reciproco di svariati articoli di lusso.

 


Oltre ai contenuti, soprattutto la forma di questa mostra regala alla città di Roma un’offerta culturale veramente preziosa e dal respiro internazionale grazie alla collaborazione con l’American Museum of Natural History di New York. Contemporaneamente alla mostra, Palazzo delle Esposizioni organizza una serie di incontri, durante i quali studiosi, giornalisti e viaggiatori interverranno per raccontare la grande storia della Via della Seta, e un variegato cineforum che presenta film provenienti da tutti i paesi del nostro viaggio.
 


Un pubblico attento, abituato a viaggiare e con la sensibilità giusta apprezzerà sicuramente questa mostra, rendendosi conto di aver già avuto in città come Washington, New York, Londra o Berlino, solo per citare le più importanti, esperienze museali simili a quella che si avrà a Palazzo delle Esposizioni in questi mesi.

 

Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente
Dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013 presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma.


Per ulteriori informazioni:
http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/via-della-seta