La “Cavalleria rusticana” secondo Pippo Delbono

«Scusate l’intrusione, sono il regista di questo spettacolo». Così comincia la Cavalleria rusticana di Mascagni. Ma è Delbono a parlare, a effondere nell’aria le prime note stonate di quest’opera imponente e popolare. Racconta due storie personali legate alla sua Pasqua, dove la perdita e il lutto sono fortemente presenti e si ricollegano magicamente alla scena finale con Delbono che si avvicina alla madre di Turiddu, affranta, e le porge la mano, un appiglio per non lasciarsi risucchiare dal mare delle lacrime, dal dolore della tragedia appena compiuta.

L’orchestra del Teatro San Carlo, superbamente diretta dall’israeliano Pinchas Steinberg, attacca il preludio e la scena non si apre su un paesino della Sicilia bensì su uno spazio dalle pareti screziate di rosso, colore del sangue e del peccato. Ci sono tante sedie, disposte ai lati, che un po’ ricordano Pina Bausch, un fuoco vivo arde al centro della scena. Può partire la Cavalleria di Delbono, angosciante, deragliante, di rottura. Terribile, se non si entra nell’ottica del regista. Meravigliosa, come una poesia viva e sofferta, ed eccessiva. Gli interpreti in scena sono bravissimi, pienamente in parte e supportati da un coro che, probabilmente, ha raggiunto uno dei suoi vertici. Turiddu, un possente Stuart Neill, è conteso tra Lola, una seducente Giuseppina Piunti, e Santuzza, una Susanna Branchini commovente e disperata. Ma Lola è sposata con il carrettiere Alfio – meraviglioso il suo ingresso in scena – che si vendicherà del torto subito. E al grido di «hanno ammazzato compare Turiddu» si chiude disperata una Cavalleria rusticana che non ha eguali nella storia del teatro lirico.

Non ha eguali soprattutto per la messa in scena di Delbono, costantemente sul palco, presenza ingombrante, pesante, che si aggira come uno spettro a seguire la sua rappresentazione, fantasma non visto con accanto il suo Bobò, attore storico della sua compagnia, sordomuto. È Delbono ad accogliere gli attori nella sua rappresentazione, ad aprire le porte e il portellone centrale e a fare entrare solo fasci di luce a dispetto del calore e del colore giallo torrido a cui siamo stati abituati dalle classiche rappresentazioni della Cavalleria rusticana. Qui la luce entra solo dalle porte laterali, dentro quest’entroterra dell’Io più profondo c’è spazio solo per il dolore, la sconfitta, la perdita. Come se Delbono avesse voluto amplificare all’ennesima potenza – e in questo è supportato dal coro e dagli attori tutti assolutamente centrati – la tragicità della vicenda. E, nonostante alcune mancanze, Delbono ha reso fortemente presente lo spirito di Mascagni rimanendo, nonostante le critiche e i fischi del pubblico, fedele agli originali intenti.


Cavalleria rusticana
di Pietro Mascagni
regia di Pippo Delbono
direttore d’orchestra Pinchas Steinberg

Andato in scenail 18 luglio 2012 presso il teatro San Carlo di Napoli.

“Sacré Bleu” di Christopher Moore

«Come fate a sapere, quando pensate al blu – quando dite blu –, che state parlando dello stesso colore che pensano tutti?»

Le riletture iniziano ad avere un ruolo fondamentale nella bibliografia dello scrittore statunitense Christopher Moore. Prima il Vangelo, poi Re Lear. Con Sacré Bleu (Elliot, 2012) Moore si auto-assurge a burattinaio del mondo dell’arte e, in generale, della genesi delle maggiori opere dell’uomo, attraverso il Colorista, figura ambigua e angosciante, in un romanzo pieno di humor e di suspance.

Tutto ruota attorno a Lucien Lessard, pittore-panettiere. Touluse Lautrec, suo amico fidato, passa il tempo bevendo («dipingerei anch’io qualche fattoria, ma le mettono tutte così lontano dal bar») e nei bordelli. La morte di Vincent Van Gogh scuote le coscienze degli artisti. Theo, il fratello, quello che espone gli Impressionisti, è sconvolto. Poco dopo, muore anche lui e sono gli artisti a rimanere turbati. Gauguin, sottolineando il “dramma” del dover vivere per e con l’arte dice: «Come farò a sopravvivere, adesso? Theo era l’unico che mi vendeva i quadri».

Intanto Lucien conosce Juliette, che diventa amante, modella e musa. Si chiudono nella stanza dietro la panetteria, lui dipinge, lei si lascia dipingere. Fanno l’amore. Mamma Lessard, che già detesta il modo di vivere del figlio e dei suoi amici, non approva questa relazione. C’è qualcosa di strano in quella ragazza. E qualcosa, infatti, non va. Lei sparisce per due anni, e il giovane pittore-panettiere va in crisi. Da questo momento in poi, Lucien, assieme a Touluse-Lautrec, si imbatte in una storia dai risvolti impensabili per l’umanità, dove l’importanza e il senso più profondo del Sacré Bleu (interessante, comunque, pensare al significato arcaico dell’espressione francese sacrebleu) prende piede di pari passo con lo scorrere dei fatti. E mentre i due cercano di capire quale segreto si celi dietro il blu oltremare, e chi (cosa?) sia il Colorista, continui sbalzi temporali, dalla Londra del XIX secolo con Whistler, alla Roma di fine XV secolo con Michelangelo (memorabile il discorso del Colorista all’artista di Caprese: «Che si fotta, il diavolo. Sono io che dico al diavolo cosa fare. Il diavolo mi spolvera lo scroto con la lingua. Il David di Donatello ce l’ha in mano, il testone. Non puoi fare meglio di Donatello. Meglio che ti dai alla pittura»), vanno a comporre, un po’ alla volta, la struttura di un’opera dal ritmo serrato, che toglie il respiro, in cui appaiono, tra gli altri, personaggi illustri della pittura francese come Manet, Pisarro, Degas e Renoir – il momento in cui viene descritto il tentativo di Manet di cogliere il colore del fumo dei treni ha una potenza poetica da rendere l’episodio un racconto a sé stante.

Moore, come con Biff ne Il Vangelo secondo Biff (Elliot, 2008) e Taschino in Fool (Elliot, 2009), trasforma la parodia in verità. La forza con cui Lucien Lessard diventa a tutti gli effetti un impressionista e il Colorista il perno su cui ruotano le sorti dell’arte, confermano un concetto espresso da Giancarlo De Cataldo nella quarta di copertina: Moore è «un autore da trattare con la venerazione riservata a mostri sacri come Neil Gaiman e Haruki Murakami».

In fondo, il ritmo, la trama, l’ironia, sono il modo con cui lo scrittore statunitense sembra chiedersi: qual è il vero rapporto tra Uomo, Arte e Dio?


(Chistopher Moore, Sacré Bleu, trad. di Luca Fusari, Elliot, 2012, pp. 320, euro 18)

“Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

In Sicilia, da sempre, c’è un grande sovrano: il sole. E quello siciliano è un caldo che ha poco a che fare con i vari Scipione, Caronte e Minosse. Il re sole dell’isola immersa nel Mediterraneo è atavico, antico come la memoria dell’uomo, eternamente presente. Ubriacante. E torna spesso nelle pagine dell’unico romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Torna per descrivere quello che i protagonisti de Il Gattopardo vedono tra Palermo e la residenza di Donnafugata. Torna per far capire il carattere dei siciliani. Torna, infine, per spiegare la millenaria storia dell’isola.

Il Gattopardo racconta un cambiamento. Storico, certo. Camicie rosse, elezioni per i primi sindaci dell’Italia unita, monarchia borbonica che sta lasciando il passo a un’altra monarchia ma dall’accento lontano e piemontese. Ed è una Storia dove per la prima volta il Sud, e la Sicilia, hanno un ruolo centrale. Non più periferia ma perno del lato eroico del Risorgimento. Un’Unità d’Italia lontana dagli intrighi e dalla diplomazia di Cavour. Un’Unità d’Italia che ha poco a che fare con Napoleone III, gli accordi di Plombieres, Magenta, Solferino, San Martino, la pace di Villafranca. Quello che investe il Regno delle Due Sicilie è l’entusiasmo disorganizzato di tanti, soprattutto giovani, che si gettano in una avventura che qualche decennio dopo diventerà un aggettivo. Alla “garibaldina” appunto. 

Ma è anche un cambiamento che coinvolge quella storia che spesso viene definita con la “s” minuscola ma che di minuscolo non ha proprio nulla. Almeno per chi la vive, o è costretto a viverla. Famiglie blasonate che si intrecciano con i nuovi ricchi. Prestigio sociale e soldi, soldi contanti, soldi veri, proprietà in continua espansione. La vicenda della famiglia Salina. La figura del Principe Fabrizio. Biondo in una terra di mori. Appassionato di matematica e astronomia in una terra di naviganti e contadini. A fare da contraltare i nuovi ricchi. Spesso poco più che cafoni ripuliti come don Calogero Sedàra.

Il Gattopardo non si ferma a questo. Contiene in sé un numero infinito di letture. Ed è soprattutto un romanzo sulla sicilianità. E in quest’ottica Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci regala alcune delle pagine più intense della letteratura italiana del Novecento. È il dialogo tra il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo e il Principe Salina. Chevallay arriva in Sicilia per proporre al Gattopardo un posto nel Senato italiano. Ruolo che sarà rifiutato. Ed ecco che si presenta l’occasione per penetrare il carattere e la storia de «l’America dell’antichità». Un popolo quello siciliano da una parte governato da un sole crudele e dall’altra da secoli di dominazione straniera e incomprensibile. Ma non per questo meno nobile. Con la conseguente sensazione di dipendere sempre da cause di forza maggiore. In un clima atmosferico che scoraggia ogni attività pratica e che favorisce invece la riflessione e la contemplazione. Risultato? «Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali». E soprattutto: «i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che si credono perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria».

Alla fine Giuseppe Tomasi di Lampedusa parla sì di un cambiamento, ma che non è avvenuto e che non avverrà mai. Non ci sono riusciti i cavalieri di re Ruggero, gli Svevi, gli Angioini, i Borboni. Non ci riuscirà Vittorio Emanuele II. Perché «questo è il paese degli accomodamenti, non c’era la furia francese». Perché come dice Tumeo durante una battuta di caccia con il Principe Salina «questo è don Calogero, l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così».  


(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli)

“Rebetiko Gymnastas” di Vinicio Capossela

Passare un anno nel ventre di una balena a ubriacarsi di rum, addormentarsi sognando le Pleiadi e risvegliarsi in Grecia, con i piedi indorati di sabbia e lo sguardo che si allontana verso tre strisce di terra scivolate nel mare a formare il tridente di Poseidone o un candelabro che illumina tutto l’Egeo.

È successo a Vinicio Capossela, poeta e ammiraglio del nostro cantautorato che, ultimata con Marinai, Profeti e Balene (La cupa – Warner, 2011) la sua “Marina Commedia” e riposto nella stiva il cappellaccio di Achab, si è rimboccato i pantaloni fino alle ginocchia e con una paglietta in testa si è allontanato dalle profondità mitiche degli abissi fino a raggiungere le panche della prima taverna, canticchiando le sue vecchie canzoni. Lì, da un fortunato incontro con Ntinos Chatziiordanou, Vassilis Massalas, Socratis Ganiaris e Manolis Pappos, musicisti greci di rebetiko con i loro bravi bouzouki in braccio e cent’anni di folklore da raccontare, è nato Rebetiko Gymnastas. Un impasto di greca meraviglia, dalla prima all’ultima traccia, registrato ad Atene negli studi Sierra e prodotto da La Cupa-Warner.

Il nome del tour che partirà il 19 Luglio da Tarvisio (UD), Rebetiko Gymnastas – Esercizi allo scoperto, racchiude e svela lo spirito di questo progetto tutto mediterraneo che nasce dalla volontà di «fare un esercizio di ribellione e di identità», come dichiara lo stesso Capossela, «per ricordarci che siamo originali: che abbiamo un’origine».

Il percorso di ricerca sull’uomo e sulla storia della sua anima millenaria, portato avanti attraverso il mito e la letteratura in Marinai, Profeti e Balene, opera “ciclopedica” di straordinario lirismo, si veste con Rebetiko Gymnastas di un abito sicuramente più popolare, ma ugualmente affascinante e ricco di storia e di spunti per chiunque voglia prendervi parte.

Il rebetiko è, infatti, un genere musicale greco di carattere folkloristico, che esce allo scoperto negli anni ’30 del Novecento dopo aver a lungo risuonato nelle taverne e nelle prigioni dei porti del Pireo e della penisola calcidica, tra un bicchiere e l’altro di ouzoEra la musica del popolo, di chi era povero e col povero si stringeva, danzando. «È musica che viene dal basso e che si condivide a tavola, come un’eucarestia», ci suggerisce ancora Capossela.

Le caratteristiche della musica rebetika sono facilmente riconoscibili, soprattutto negli inediti: già dai primi battiti di “Abbandonato” ci sentiamo in terrazza, sul mare, a pranzo, e iniziamo a godere delle corde pizzicate che, alternate a percussioni decise, ci accompagneranno per tutto l’ascolto. “Rebetiko Mou”, seconda traccia, ci porta subito al cuore del disco con un ringraziamento alla Grecia che non può attendere il finale; la terra rebetika è ignota, ma il senso di appartenenza provato da chi scrive è ancestrale al punto che in quella terra vorrebbe morirci, «ebbro fino agli occhi», tra gente straniera, tradendo la birra di Hannover, città in cui Vinicio è nato nel 1965, per la retsina, tipico vino bianco greco («Baciami una volta / e lasciami morire / in mezzo a chi non sa di me. / Nelle braccia della notte / cado senza mani a te»).

“Misirlou” rivisita una canzone popolare greca già arrivata al successo grazie alla versione per chitarra elettrica realizzata da Dick Dale nel 1960 e colonna sonora del film Pulp Fiction, mentre “Cancion de las simplas cosas”, che chiude la serie di inediti, è una reinterpretazione esemplare del classico di Mercedes Sosa.

La voce si distende calma su un’unica linea melodica, δρόμος – dròmos, in cui si fondono sapientemente armonie orientali ed europee; questa costituisce un blocco più o meno fisso che si ripete per tutto il pezzo, ma viene variamente elaborato nei momenti più intensi.

È applicando questa linea guida principale che Capossela, assistito dal prezioso aiuto dei compagni greci, ha rielaborato gli altri nove pezzi: uno del russo Vladimir Vitsosky, “Gymnastika”, e otto suoi. Dall’album Camera a sud (1994) ritroviamo “Non è l’amore che va via”, in una passionalissima versione sirtaki da tramonto su Creta; da Il ballo di San Vito (1996) arrivano l’infiammata “Contrada Chiavicone” e “Morna”, che anche in versione rebetika conserva i suoi accenti argentini e lo stesso fortissimo impatto emotivo grazie alle sue parole incatenate di poesia («La notte che viene è un’orchestra/di lucciole e ginestra/ tra echi di brindisi e fuochi / vedovo di te»); si aggiungono i quattro capisaldi di Canzoni a manovella (2000), a detta di molti il migliore album dell’ammiraglio: “Con una rosa”, “Signora Luna”, “Contratto per Karelias” e “Corre il soldato”, i cui ritmi rebetici, già presenti nella versione originale, sono qui ancora più incalzanti e travolgenti; conclude questo nuovo viaggio “Scivola vai via”, che, tratto dal primo album, All’una e trentacinque circa (1990), è sì un pezzo che preferiamo decisamente nell’originale versione blues waitsiana, ma a cui è affidato il compito di legare in un modo comunque efficace le scoperte e i colori nuovi a tutta l’opera di Capossela, fin dalla sua prima brillante prova.

Vinicio si sveste e si riveste, si trasforma, e lo fa «per debito nei confronti della Grecia, che ha donato al mondo oltre alla civiltà anche una delle più straordinarie musiche urbane del mondo».

«La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli./ Più leggero d’un sughero ho danzato tra i flutti». (“Il battello ebbro”, Arthur Rimbaud, 1871)

Capossela suonerà in concerto al tramonto del prossimo 26 Luglio presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma.

“Cinquanta sfumature di grigio” di E.L. James

Nato sul web come fan-fiction, Cinquanta sfumature di grigio, primo di una trilogia (seguono Cinquanta sfumature di nero, uscito il 26 giugno, e Cinquanta sfumature di rosso, il 17 luglio), ha iniziato a circolare come e-book su Kindle e iPad. Negli Stati Uniti, il libro ha venduto 10 milioni di copie in sei settimane, e adesso tocca all’Italia, dove è già primo nella classifica dei libri stranieri. Fifty Shades of Grey(il titolooriginale) è davvero il fenomeno editoriale del momento, vista laffluenza delle fan alla presentazione del libro, anche qui in Italia. Un successo planetario, insomma, che si appresta a raggiungere e superare le vendite di altri best seller come Harry Potter e Il codice Da Vinci.

L’incontro tra Miss Steele e Mr Grey ha la forza travolgente di un uragano. Anastasia, dolce e spensierata ventunenne è ancora lontana dal tentativo di capire il mondo maschile. La sua vita a Vancouver trascorre tra lavoro e studi al termine. Un giorno la sua amica Kate le chiede di fare un’intervista, al posto suo, per il giornale studentesco. Se pur inesperta, Anastasia si troverà a sottoporre una serie di domande al signor Grey. Questa magnanimità, le costerà cara. Cristian Grey, bello come pochi, è un giovane imprenditore miliardario, attento a non rivelare nessun particolare del proprio privato. Almeno fino a quando la sua vita non urta quella di Miss Steele.

Attrazione, passione, tormento, autocontrollo. Le emozioni rischiano di esplodere nella lettura. Non è solo puro erotismo, E.L. James descrive con allegoria e realismo il filo sottile che divide le due vite, e quando emerge la fusione si accende la pericolosità di voler andare avanti.

Quando Ana inizia a intravedere le cinquanta sfumature di tenebra a cui il titolo accenna, per lei non è più solo una ventata di sensazioni forti, travolgenti, carnali; arriva anche la paura. Paura di scoprire l’altro, nel suo vero volto. Paura di se stessi, delle nuove scoperte. Paura di amarlo così com’è. Eppure «cinquanta sfumature di grigio» potrebbero mai ostacolare il colore marcato, imponente dell’Amore?

L’infanzia tormentata, i giochi pericolosi adolescenziali hanno reso la vita del co-protagonista un dolce, inesorabile inferno. L’ingenua e inesperta Anastasia sarà la sua salvezza o l’ennesima ossessione?

La lettura sicuramente conquista, amalgamando alle parole un mix di passione e di intrigante ironia, e potrà farvi scoprire i vostri più nascosti desideri, schiavi delle immagini che evocano le parole. La storia conduce alla fine inaspettata, lasciandoti in bocca il senso inappagato di volere di più. Fortunatamente, per questo di più, è già pronto il seguito.


(E.L. James, Cinquanta sfumature di grigio, trad. di Teresa Albanese, Mondadori, 2012, pp. 548, euro 14,90)

 

 

“State scherzando, vero?” di Macale, Appetito, De Cave

No, non stanno scherzando. Fanno sul serio. Tre giovani poeti – e non solo – uniscono i loro versi in un unico libro. All’appello abbiamo: Mariano Macale, Fabio Appetito, Marco De Cave. Ognuno le sue caratteristiche, le peculiarità, le differenze dall’altro. Comunque uniti nella stessa battaglia: Macale con “Voglio una poesia spericolata”, Appetito con “Ci sono cose che devono accadere prima di far accadere le cose” e De Cave con “Nemmeno ce ne siamo accorti che siamo cambiati quando ce ne siamo accorti”.
Davvero non scherzano; fanno sul serio. Ad accomunarli la speranza e la fiducia – spesso ben mascherata nel pessimismo – di puntare ancora una volta sulla poesia. La volontà di allineare gli intenti in un altro piccolo ma prezioso spiraglio d’arte. Il tutto condito con quel goccio di follia che non guasta mai e rende le circostanze uniche. Nel leggere le loro biografie, il tratto peculiare da sottolineare è il loro attivismo; chi in reading, chi in blog, chi in racconti, chi nel sociale, chi tutte queste cose insieme. E non è un particolare da poco; hanno capito che la poesia e la vita sono la stessa cosa, che la poesia è un impegno, una missione a cui devi per forza concedere tempo e scelte. Il tempo giusto, forse, è questo 2012, anno dell’uscita della loro silloge.
Leggendo i versi di Macale si fanno subito i conti con un contrasto forte, una commistione ardua e ben calibrata. Quella tra la forza del presente e quella del passato. Classicità e contemporaneità duettano già dal titolo dall’eco rock nostrano, per poi esplodere nell’“Ode al burro d’arachidi”. Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, appaiono elencate e scolpite nel marmo delle parole le illusione tradite dell’autore. E non solo le sue. Lo scacco umano e artistico s’alterna all’ironia fresca di altri versi, specie nella “Ricetta degli amanti”, dove il tema amoroso viene trattato in maniera originale e – fortunatamente – non banale. Pochi poeti ci riescono. “Voglio una poesia spericolata” è una gustosa satura lanx moderna, con sfumature quasi pulp (basti leggere il distico finale). Appetito è più un valorizzatore di piccole cose. Gli basta poco per tirare fuori dal suo vagabondaggio bukowskiano versi capaci di raccontare anche la fanciullesca bellezza di un aquilone. È il più contemporaneo nella forma, più prosastico e meno fedele agli schemi rispetto agli altri due colleghi, legati sì all’impostazione metrica ma pur sempre liberi di infrangerla. In un’atmosfera melanconica ad apparire per prima è la mancanza, o almeno la mancata corrispondenza con un tu femminile: “Dove sono finiti i tuoi baci”è tra i componimenti più significativi. Notevole la rivisitazione del Credo nella poesia 17 e l’auto confessione poetica due pagine dopo. Ai suoi versi, anonimi e numerati, segue la possente staticità di De Cave. Porti e città si alternano, ma il poeta è immobile e vigile nel narrarne l’essenza e nel ricavarne il messaggio comunicativo. I titoli, come molti versi, sono secchi, scarni, essenziali, su echi che ricordano il primo Montale. A rimanere impressa è la parola, il suo culto, la potenza, come nelle poesie popolate da “Sirene” e nelle bellissime “Ospedale”, “Isolato” e “Distacco”. Tra gli oceani, gli scioperi e le nevicate che popolano “Nemmeno ce ne siamo accorti che siamo cambiati quando ce ne siamo accorti” domina sempre l’occhio attento del giovane poeta, punto di riferimento assoluto nel tragitto umano.
Come avrete potuto rapidamente dedurre, questi autori sanno il fatto loro. Certo, è un opera prima, che in quanto tale non manca di lievi imperfezioni e ridondanze, ma di cui va colto ogni verso, onesto e sincero. Poiché tutto in poesia, nel bene e nel male, è vita. Ed è così che nasce l’Arte.

 

(Macale, Appetito, De Cave, State scherzando, vero?, Edizioni Ensemble, 2012, pp. 116, euro 12)

“Amorizzazioni” di Suse Vetterlein

Ci sono gli asini che sbuffano e per protesta entrano in sciopero. Ma in realtà non parlano veramente perché lo fanno solo nelle favole o nei cartoni animati.
Ci sono le mucche che non ruminano più e che quindi non producono più latte, portando alla chiusura della Ciocchindustria e gettando il paese in una «grande e profonda crisi crash economico culinario tipo inflazione galoppante anti-boom», perché un «Signore Scienziato» è venuto ad Alpo a spiegare alle vacche il meccanismo del ruminare: «In fondo non fate altro che vomitare. O rigurgitare». E allora che schifo! Meglio tentare una dieta alternativa e magari più salutare visto che i prati sono diventati ormai rari e spelacchiati. Perché non assaggiare il pesce? E chi se ne frega se l’aquila marina si arrabbia.
Ci sono poi le pecore che hanno escogitato un nuovo modo per accoppiarsi: si spogliano del loro «pelo-di-pecora», perché, come gli esseri umani, vogliono «vedersi anche nudi, per sentire la pelle liscia e morbida».
Questo è il mondo surreale di Amorizzazioni della giornalista e traduttrice tedesca Suse Vetterlein, edito dalla piccola casa editrice siracusana Verbavolant Edizioni. È un libro scoppiettante e irriverente. L’autrice dà il meglio di sé nella satira sociale e d’ambiente mettendo a nudo meschinità e ipocrisie e portando all’estremo i luoghi comuni, in un linguaggio originale e sregolato, a tratti infantile e clownesco, definito da Aldo Nove «iperpop» e «postpunk» nella prefazione, dove ne mette in luce il carattere irrisorio e provocatorio nei confronti del lettore.
Distopia che può far pensare a La fattoria degli animali di Gorge Orwell in chiave comico-grottesca, il romanzo della Vetterlein riflette in controluce i frammenti aguzzi e taglienti di una contemporaneità che chiama in causa il proprio rapporto con l’autorità e la scienza, la tecnologia e il progresso. Per cercare di risanare la grave situazione economica di Alpo, paese immaginario degli Alpi (praticamente il Sud Tirolo), viene mandato dal capo dello Stato un missionario dello sviluppo, una sorta di tecnico che potrebbe ricordare quello di nostra conoscenza. La sua proposta è quella di un ritorno al mondo arcaico pre-tecnologizzato, un «back to the nature» per attirare folle di turisti a cui vendere i prodotti locali (quali, poi si vedrà, magari un formaggio stagionato con una preparazione davvero gustosa…). Quindi niente tv e comodità varie. Gli alpigiani, però, si mostrano davvero pigri e molti non riescono proprio a rinunciare ai vantaggi della modernità.
Ad Alpo naturalmente c’è anche l’amore. Ed è veramente una storia dolce, vanigliosa e a tratti delirante (in senso buono) quella fra Maidy, la suonatrice delle campane che scandiscono il tempo nel paesino montanaro, e l’italiano Max ex Giampiero o Ermanno o Luigi, venuto in cerca di fortuna e che invece dell’oro vero troverà due trecce bionde come l’oro. Subito Maidy subisce il fascino del «nonconosciuto esotico» dai riccioli neri. Ma soprattutto se ne innamora «per il riflesso fibbiesco». Ci sarà così il «primo bacio italo-alpigiano della Storia».
Niente e nessuno sembrerebbe in grado di contrastare questo amore, neanche il cacciatore di frodo Toni, che tenta invano di conquistare Maidy. La ragazza albina, infatti, «sa perfettamente se uno recita o se invece uno è un vero stronzo stronzone che mai si potrebbe destronzare» (da leggere e rileggere è Il manifesto dell’amore vero di Maidy). E la crisi anche qui è dietro l’angolo. Ci sarà il lieto fine come in tutte le favole?
Se non ce la fate più a sentir parlare di spread, inflazione galoppante, corruzione, evasione fiscale nei toni melodrammatici di tv e giornali e vi va di riderci un po’ su, Amorizzazioni è il libro che fa per voi, proprio perché «Tutto non bene affatto per nulla niente zero boh».

(Suse Vetterlein, Amorizzazioni, Verbavolant, 2012, pp. 232, euro 13)

“Sanguisughe” di David Albahari

Sanguisughe, di David Albahari, potrebbe essere definito un romanzo storico sulla comunità ebraica di Zemun, che sfocia a tratti in una storia sull’antisemitismo. Quest’ultimo viene rappresentato simbolicamente nel romanzo dalle paure di più vasta portata della società serba, sempre più diffuse a partire dagli anni ʼ90: intolleranza e odio verso le persone di diverso aspetto, opinioni e posizioni. L’autore stesso ha definito Sanguisughe un romanzo sui pregiudizi che cambiano le persone facendole diventare esseri ubbidienti e ciechi. Tali pregiudizi, tuttavia, non sono certo limitati soltanto alla comunità Zemun. Le “sanguisugheˮ, sostiene Albahari, sono persone che cercano di succhiarci via tutti i residui del bene, lasciandoci nelle mani del male.  

Il romanzo, però, non può essere difinito come un testo impegnato politicamente: non vi leggiamo critiche dirette al sistema politico in Serbia nè alle crescenti manifestazioni di antisemitismo e intolleranza. Ciò che interessa l’autore è invece il testo stesso: le tecniche narrative del postmodernismo, i cambi di registro dei vari generi narrativi, le frequenti riflessioni sull’atto stesso della scrittura che rappresentano un distacco metanarrativo dalla struttura principale.

Il protagonista del romanzo, scrittore e giornalista del quotidiano belgradese Minut, assiste involontariamente a una scena che non riesce a spiegarsi e che diventa per lui, nelle settimane successive, un’ossessione e un mistero la cui soluzione, gradualmente, si erge a ragione stessa della propria esistenza. Un uomo vestito con un impermeabile nero, un ragazzo e una ragazza vicini al fiume, uno schiaffo, la ragazza che si allontana. Questi sono i protagonisti dell’episodio che segna l’inizio di una lunga ricerca fatta di domande, incontri pericolosi e casuali, presenze di segni mistici e manoscritti cabalistici che trasportano l’esistenza grigia del giornalista in un mondo parallelo, affascinante ed estraneo, fonte di frustrazioni, pericoli e paranoie, ma che allo stesso tempo gli offre una via d’uscita da una vita quotidiana altrettanto incerta e pericolosa, fatta di censure e sospetti.

La paranoia è reale o no? Esiste un legame tra gli eventi inspiegabili e la realtà gremita di tensioni e incombenti pericoli? Si può non credere in un certo tipo di legame che collega i fatti reali o immaginari con la nostra vita? Il protagonista non riesce a darsi delle risposte e proprio in questo sta la sua salvezza, nel continuo fluttuare tra la realtà, il lavoro che offre poche libertà e soddisfazioni, e, dall’altro lato, un mondo mistico fatto di incontri affascinanti, testi cabalistici e fumo di hashish.

Il romanzo non offre risposte univoche e definitive; saremo noi lettori a costruirle, se lo vorremo. La storia ha un finale aperto, gioca su regole dettate da noi, lettori postmoderni che a nostra volta non cerchiamo risposte definitive nel testo che leggiamo, ma vi cerchiamo diverse soluzioni possibili, diverse interpretazioni dei dolorosi avvenimenti storici, sebbene spesso, come in questo caso, ciò significhi rifugiarsi nel mondo del misticismo, unica reazione possibile davanti all’incombente e inutile spargimento di sangue nelle nostre terre.


(David Albahari, Sanguisughe, trad. di Alice Parmeggiani, Zandonai, 2012, pp. 360, euro 17)

“L’erba cattiva” di Ago Panini

Se amate i romanzi di formazione, la musica e gli anni Ottanta, L’erba cattiva, romanzo d’esordio di Ago Panini, è il libro che fa per voi.

Nato dalla vena artistica di uno scrittore dai molteplici talenti (Ago è, infatti, regista, musicista e pubblicitario italiano), L’erba cattiva vi terrà piacevolmente incollati per duecentocinquanta pagine alla Milano degli anni Ottanta, in un momento della storia della musica che vede nascere e diventare nuova realtà le band underground!

All’origine de La Herba Mala, band protagonista, c’è la conversione spirituale di un quattordicenne, cresciuto a pane e musica classica, che un giorno si scontra “letteralmente” con il rock e sacrifica il suo flauto traverso per una «oscena, sensuale, colorata […] Fender Stratocaster, azzurra carta da zucchero». Da quel giorno in poi la vita del nostro outsider, «l’unico che con il walkman ci sentiva Čajkovskij», si costellerà di incontri fortuiti, grazie ai quali la sua intera giovinezza si tramuterà in una lunga e distruttiva tournée in giro per l’Italia che avrà fine all’alba dei suoi trent’anni, quando presa coscienza di un talento che non è tale da condurlo a divenire una stella del rock, si congederà dal palco e dalla sua band in modo del tutto accidentale e inusuale.

La forza dirompente di questo romanzo, così brioso, allegro, solare, non sta però soltanto nella storia narrata, nei protagonisti, giovani e genuini che, con la diversità dei loro temperamenti ricordano, con un pizzico di nostalgia, ognuno di noi in quell’età magica e complicata della crescita, ma sta soprattutto nello stile deciso, nel ritmo serrato e in quell’irresistibile comicità che caratterizza alcuni passaggi e che fa volare via d’un soffio la lettura.

L’erba cattiva è un romanzo rock mosso dai sentimenti, i sentimenti di chi, attraverso la musica, ha desiderato di cambiare il mondo e, cosa forse ancor più rara, un romanzo che si chiude con un’espressione di felicità nonostante la mancata realizzazione di un sogno:«Guardo Cosimo. Mi ritrovo a sorridere. E questa volta non è la mia cicatrice: è un sorriso vero. Sono felice».


(Ago Panini, L’erba cattiva, Indiana, 2012, pp. 250, euro 12,50)

[Amarcord] “Un tranquillo week end di paura” di John Boorman

Quattro amici, Ed, Lewis, Bobby e Drew, decidono di discendere in canoa il fiume Cahulawassee prima che la valle tra i monti Appalachi, in cui il corso d’acqua scorre, venga sommersa per sempre da un bacino artificiale. Nel corso del fine settimana si ritroveranno vittime di violenze inimmaginate da parte degli abitanti del posto che lasceranno segni indelebili nei loro corpi e nelle loro menti.

Cʼè qualcosa di violento e atroce in Un tranquillo weekend di paura di John Boorman. Qualcosa che anche a distanza di quarantʼanni dall’uscita in sala colpisce lo spettatore e lo lascia immerso in attoniti pensieri. Non è tanto lʼaggressione che Ed e Bobby subiscono da parte di due bifolchi durante una pausa nella discesa del fiume – con la disturbante scena dello stupro ai danni di Bobby, costretto a comportarsi come un “maialetto” prima della sodomia –, e la lotta disperata che i quattro uomini si trovano a combattere per sopravvivere, quanto piuttosto la riflessione sulla possibilità della violenza umana.

Di cosa è capace un uomo sradicato dalla società e costretto a sopravvivere nella natura selvaggia? Questo è lʼinterrogativo che il film, e prima di esso il romanzo dʼispirazione di James Dickey, che ha curato anche la sceneggiatura, si pone. Il film sovverte il mito tipico della cultura statunitense della natura come rifugio per lʼuomo bisognoso di ritrovare se stesso lontano dal caos cittadino che tanta parte ha avuto anche nella storia del cinema a stelle e strisce, come nel recente Into the wild, proponendo invece lʼimmagine di una natura ostile e aggressiva, che respinge lʼuomo civilizzato anziché accoglierlo. Per Boorman e Dickey la natura è un luogo hobbesiano di guerra perenne, in cui le regole del vivere sociale vanno dimenticate per poter sopravvivere. Questa è la conclusione cui giungono i quattro protagonisti quando si trovano braccati lungo il fiume dai due inquietanti villici. E se il primo che capisce tutto questo è il muscolare Lewis di Burt Reynolds – quello che più di tutti tra i quattro riconosce sin dallʼinizio, in una serie di dialoghi con gli amici, la necessità di un ritorno allo stato naturale per prepararsi al declino inevitabile della civiltà – che senza esitare, impugna il suo arco per salvare Ed dalla minaccia dello stupro, saranno poi proprio le due vittime dirette della violenza a reagire e a prendere in mano la situazione, come se si volesse dimostrare che alla violenza non si può far altro che reagire con ulteriore violenza. Sarà infatti Ed/Jon Voight a eliminare lʼultimo aggressore e a ordire con Bobby la trama di bugie necessaria per sottrarsi al giudizio dello sceriffo locale, portando tutti alla liberazione e allʼassoluzione finale, a cui il titolo originale, Deliverance, per lʼappunto allude.

Nel film cʼè un riferimento, sotterraneo e costante, alla guerra del Vietnam che gli Stati Uniti stavano combattendo. Come i giovani militari braccati dai Viet Cong nelle paludi vietnamite, così i quattro amici si trovano lontani da casa immersi in una natura sconosciuta e inospitale con nemici invisibili che li osservano dalle rive boscose. Quando la violenza si scatena, il passaggio allʼorrore è immediato e lʼemergere del lato più ferale dellʼanima priva lʼuomo degli abituali riferimenti alla morale e alla civiltà lasciandolo al cospetto di unʼunica, assoluta, legge: lʼistinto di sopravvivenza.

Memorabile la scena iniziale del duello chitarra-banjo tra Drew e un bambino incredibilmente dotato in unʼarea di servizio, ultimo avamposto della civiltà prima della discesa nellʼinferno dellʼessere umano. Bellissima fotografia di Vilmos Zsigmond. Tre candidature ai premi Oscar 1972, tra cui Miglior Film.


(Un tranquillo week end di paura, regia di John Boorman, 1972, drammatico, 109’)

 

“La macchina si ferma” di Edward Morgan Forster

Le cose stanno andando proprio così anche se facciamo finta di non accorgercene o, peggio, non ce ne accorgiamo affatto. «Abbiamo creato la Macchina perché eseguisse il nostro volere, ma noi ora non riusciamo a farle eseguire il nostro volere. Ci ha privato del senso dello spazio e del senso del tatto, ha offuscato ogni rapporto umano e ha ridotto l’amore a un atto carnale, ha paralizzato i nostri corpi e la nostra volontà, e adesso ci costringe a venerarla». Queste frasi non sono il manifesto di un neo-luddismo di seconda mano: la tecnica, concepita per essere funzionale al progresso, ci ha oltrepassato facendoci il più delle volte suoi prigionieri; ha modificato i nostri connotati, psichici e fisici, rendendo obbligatorio ideare nuove categorie antropologiche per tentare di definirci. Più di un secolo fa, qualcuno si è divertito, non senza un fondo di pura amarezza, a fotografare la nostra condizione. L’abilità è consistita nell’averci impressionato molto tempo prima che la tecnologia fosse giunta a uno stadio così avanzato, che i computer diventassero protagonisti e artefici di ogni ambito della vita, abituale totem domestico come da passeggio, mouse da azionare per decidere in un istante per via telematica le sorti mondiali che siano i mercati finanziari a farlo o altri; prima che grandi menti (filosofi, semiologi, sociologi, psicoanalisti) si applicassero ad aggiornare il diario di bordo dando conto di tutto ciò. Insomma molto prima che Levy e de Kerckhove (per citare che gli studiosi più celebri) sfornassero i concetti di intelligenza collettiva e connettiva evidenziando come la realtà virtuale cambi il tempo, lo spazio, il pensare, le categorie consuete con le quali siamo abituati a stare al mondo, le relazioni umane, il senso delle distanze, delle proporzioni, dei limiti, persino il campo percettivo: caduta la preminenza visiva, ora è il tatto a trasportarci nel mondo (ricorda de Kerckhove). Molto prima che il sociologo Zygmunt Bauman parlasse delle relazioni virtuali nel nostro mondo “liquido-moderno” come «modello che esclude tutti gli altri tipi di relazione». Infine, molto prima che psichiatri e psicoterapeuti individuassero un Internet Addiction Disorder tra le condotte psicopatologiche che si manifestano online (In Italia numerosi sono stati fin dagli anni ’90 gli studi dello psichiatra Tonino Cantelmi e collaboratori, e della psicoanalista junghiana Simonetta Putti).

Chi ci ha fotografato con tanto anticipo raccontando un mondo tecnologico senza più direzione è sorprendentemente lo scrittore inglese Edward Morgan Forster, conosciuto e celebrato per i romanzi Passaggio in India, Camera con vista, Maurice a cui ha arriso il successo anche grazie alla trasposizione cinematografica. Poco noto è invece La macchina si ferma (The machine stops), racconto che li precede. Sarebbe improprio definirlo fantascientifico perché, almeno in parte, è profezia che si avvera. Piuttosto rientra nella narrativa anti-utopica o distopica da Swift a seguire, che ha connotati precisi, compreso l’uso dell’immaginazione, attiva, verrebbe da dire, per fare la radiografia al futuro. Ora lo ripropone la casa editrice italo francese Portaparole che l’ha pubblicato nella collana Maudit applicando il felice criterio editoriale della proposta bilingue: in lingua originale e nella traduzione in italiano. Certo è bene sempre contestualizzare ogni atto creativo: come spiega nell’introduzione la docente universitaria Maria Valentini che ne ha curato anche la traduzione, il racconto di Forster, pubblicato per la prima volta nel 1909 sulla Oxford and Cambridge Review e in seguito nell’antologia The Eternal Moment, ben prima delle più celebri produzioni di Huxley e Orwell (rispettivamente Brave New World del 1932 e 1984 del 1948), nacque con un intento polemico nei confronti dell’ideologia positivistica imperante, fiduciosa nella realizzazione di un paradiso in terra grazie all’estensione della tecnica a ogni ambito dell’esperienza umana. Così è nella visionedi Herbert George Wells cui Forster si contrappone: l’autore de La Guerra dei Mondi e La Macchina del Tempo, nel 1904 in A Modern Utopia descriveva la nascita di uno stato mondiale perfetto perché governato dalla tecnologia. Ben diversamente vanno le cose nel racconto di Forster che ci porta in un pianeta in cui, tanto per cominciare, si abita nel sottosuolo perché le città sono precipitate in basso fino a una dimensione sepolcrale, private del contatto con la superficie, l’aria, la luce, il corso del sole, l’avvicendarsi del giorno e della notte, e totalmente automatizzate. Vashti e Kuno, la madre e il figlio protagonisti della storia, vivono come tutti gli altri, non più terrestri, ognuno in minuscole celle, tutte uguali tra loro, come quelle di un alveare, isolati e senza contatto che non sia attraverso uno schermo, sorta di computer e videotelefono insieme, che collega all’istante chiunque con il globo tutto dando luogo a relazioni tanto immediate quanto sempre a distanza e superficiali. Non si fa fatica a riconoscere almeno in parte modalità comportamentali e relazionali quotidiane, diffuse e automatiche: dall’uso di Facebook o altri cosiddetti social network, a quello di chat e webcam. Li accudisce, li protegge e al tempo stesso li nullifica la “Macchina”, pronta a soddisfare ogni esigenza di umani non più umani, dai corpi molli, atrofizzati perché disabituati a svolgere le loro naturali funzioni, dall’individualità indifferenziata; Macchina, in assenza di religione o ideologia, venerata come divinità. Gli abitanti di questo mondo del sottosuolo si spostano raramente perché la Macchina ha reso anche i posti uguali tra loro per cui non esiste più varietà e se si spostano lo fanno per mezzo di enormi aeronavi. Kuno però, da novello Ulisse, non si omologa, vuole conoscere il mondo che sta sopra e oltre, non crede sia inabitabile e irrespirabile come dicono e trova il modo di salire in superficie. Convoca sua madre (la costringe a viaggiare, non si vedono di persona da dopo la nascita secondo le regole della Macchina guidata da un fantomatico comitato centrale) per raccontarle ciò che ha scoperto: il sistema lasciato a se stesso si sta guastando. Solo abbandonando la città sotterranea ci si potrà salvare. Vashti non gli crede, nessuno gli crede né vuole uscire dal torpore. Il meccanismo di questo mondo invece collassa perché l’aggiustatore automatico smette di funzionare e uccide tutti. Tuttavia la morte è l’unica via di redenzione perché finalmente realizza il contatto umano: la madre bacia il figlio.

«Parli come se un dio avesse creato la macchina (…). Sono gli uomini che l’hanno creata, non dimenticartelo. Grandi uomini, ma uomini. La macchina è tanto, ma non è tutto», dice Kuno alla madre. Grandi uomini hanno ideato e realizzato la bomba atomica o armi di distruzione di massa o l’impianto nucleare di Fukushima esploso nell’aprile del 2011 a seguito di un terremoto e di uno tsunami con conseguenze che neanche immaginiamo. Alla tecnologia l’uomo ha delegato la responsabilità del proprio benessere; a essa si è affidato passivamente al punto che la situazione gli è sfuggita di mano. «Aveva sfruttato in modo eccessivo le ricchezze della natura. Con pacata compiacenza stava sprofondando nella decadenza; per progresso si era finito con l’intendere il Progresso della macchina» si legge nel racconto. Non è quello che accade e vediamo accadere? D’altra parte come non riconoscerci in un’umanità migrata nel mondo virtuale che vive soprattutto di relazioni “tecno-mediate”? Le nostre condizioni esistenziali non sono poi tanto diverse da quelle raccontate da Forster nel 1909: ce ne stiamo “pacificamente” in solitudine circondati magari da qualche migliaio di amici virtuali che sono motivo di vanto e orgoglio, esempio di riuscita integrazione sociale. Come i protagonisti del racconto viviamo ogni giorno l’incorporeità delle relazioni che è lo specifico della Rete, la destrutturazione spazio-temporale, l’illusione della vicinanza che talvolta può occultare la paura di contatti veri, autentici, respinti in una lontananza siderale seppur magari accessibili a un passo da noi nella vita reale. Il caso estremo a cui fa pensare il racconto di Forster è quello dei cosiddetti hikikomori, i ragazzi giapponesi che si chiudono nella loro camera rifiutando ogni contatto con la realtà che non sia quella mediata dalla virtualità; una forma di segregazione spontanea che si apparenta con il suicidio in vita. E chissà se il vivere nelle celle loculi del racconto, oltre a essere emblema di uno spazio sovraffollato e saturo, di un mondo prigione che ci rende reclusi sia pure tecnologicamente efficienti, non sia un simbolo potentissimo di un’umanità mai nata, rimasta fissata a una vita intrauterina collegata con una madre-macchina deresponsabilizzante che mentre tutto dà uccide perché annienta? Kuno sfida l’apparato anonimo e prova la nascita spingendosi in superficie che è anche ascesa sofferta alla dimensione della consapevolezza e dell’uscita dall’indistinto. Nascere in forma adulta alla vita richiede coraggio e forza eversiva. Kuno impara a usare il corpo, si muove nello spazio, scopre o riscopre in sé che «l’uomo è la misura»: spetta a lui autodeterminarsi, compiere scelte consapevoli di istante in istante, creare la realtà, diventare l’artefice di un mondo umano. Altrimenti si diviene succubi della tecnologia, con il rischio di esserne travolti e autodistruggersi. L’alternativa è un uomo che sia anche misura di tutte le cose, secondo la valutazione del filosofo Protagora, ovvero universo di potenzialità da sviluppare al meglio, che ci rendono distinti e differenziati, che ci permettono di individuarci direbbe il padre della psicologia analitica, Carl Gustav Jung. Lo stesso tema sviluppato da Forster ci porta non casualmente alla Laputa dei Viaggi di Gulliver di Johnatan Swift dove ci sono scienziati alienati e nocivi perché senza più contatto con la realtà della vita, al Castello nel cielo del grande regista giapponese Hayao Miyazaky; grandi metafore visionarie che sottintendono nella continuità straordinaria che lega artisti di ogni tempo e cultura sempre lo stesso concetto: l’uomo mosso dalla volontà di controllo e potere totale sulla natura si destina a essere un drammatico Prometeo incatenato, vittima dei suoi stessi errori. La tecnica se non padroneggiata con senso di responsabilità e coscienza del nostro essere solo ospiti di passaggio su questo pianeta ci porta all’annientamento. In quest’ottica l’esistenza di ogni individuo è sempre e a ogni istante una questione politica, una scelta continua che ha ripercussioni sull’intero globo. Forster l’ha comunicato attraverso una inquietante e profonda profezia letteraria. Il filosofo francese Pierre Levy ne L’intelligenza collettiva ce ne dà piena conferma: «Le tecnologie intellettuali non occupano un settore qualsiasi della mutazione antropologica contemporanea, esse ne sono potenzialmente la zona critica, il luogo politico».
 

(Edward Morgan Forster, La macchina si ferma, trad. di Maria Valentini, Portaparole, 2012, pp. 156, euro 16)

“La fine di qualcosa” di Paolo Di Paolo

Aprendo il recente “quaderno” di letture critiche di Paolo Di Paolo nella parte iniziale, quella che l’autore gestisce tutta in prima persona, ciò che viene fatto di chiedersi è: ma perché Di Paolo ha rinunciato a questa finezza discrittura, a questa sapienza lessicale, a questo personalissimo “movimento” sintattico, per il “basso continuo” di Dove eravate tutti, certo più vissuto, diaristico, ma indubbiamente meno ricco, perfino meno godibile – da un punto di vista strettamente letterario – di ciò che invece si trova in queste altre pagine? Forse per non “fare letteratura”? No, si direbbe: Di Paolo non poteva non aver presente, quanto meno, la Capriolo di pag. 259: «Non ho mai capito perché si dica “Questa è letteratura!” intendendo “Questo non è vero!” […] Questo “Olimpo dell’apparenza” (per usare una espressione di Nietzsche) che l’uomo è andato costruendo nel corso dei millenni è infinitamente più vicino all’ “essere” di quanto non lo siano i fantasmi confusi della nostra quotidianità».

Ma per restare, appunto, al nuovo libro, l’aspetto che più si apprezza, nel modo che Di Paolo ha di leggere gli «scrittori fra i due secoli», è l’attenzione al “farsi” della pagina, più che al suo risultato in termini di apprezzabilità estetica, impressionisticamente intesa: Di Paolo coglie sempre le leggi intime delle scelte espressive di ognuno, e là individua il senso più profondo di ogni autore, la chiave con cui penetrare nel segreto del suo offrirsi, insieme impudico e cifrato, allo sguardo di noi lettori.

E forse ciò di cui dobbiamo ringraziarlo di più è che, nella seconda parte, registrando le risposte di alcuni scrittori più sbilanciati verso “questo” secolo, finisce per delineare una specie di estetica a più voci del fatto letterario: gli interventi di Dario Fo («scartare i termini banali… cercare e portare alla luce la ricchezza del linguaggio…»), Vincenzo Consolo (strutturare le frasi «secondo un’autentica armonia sonora» con «una valenza di significante forte quanto quella di significato…»), Gianni Celati (contro la tendenza a spingere «qualsiasi discorso letterario […] verso l’attualità, assecondando la pigrizia mentale e la vocazione al consumo rapido»), sembrano i più pregevoli, i più in controtendenza rispetto a certo imperare di sciatteria formale usa-e-getta; come, per altro verso, è passabilmente irritante la contrapposizione di Rosetta Loy fra «chi scrive in un italiano chiaro e stupendo» e chi, per il solo fatto di non essere così “chiaro” (magari, banalizzando…), renderebbe “faticosa” la lettura: e chi lo ha detto, che leggere non debba costare “fatica” – o, almeno, quel minimo di sana, stimolante reattività intellettuale…! –, e che il solo parametro di giudizio sia quello della elementarità del dettato?

Ma, quali che siano le risposte che ognuno darà alla domanda, va certo ascritto a merito di Paolo Di Paolo l’avercene svegliato il gusto, così come delle molte altre che si destano mentre ci si aggira davanti a questa collezione di sfolgoranti, variegatissime farfalle-libro, fermate ad ali aperte sotto la sua acutissima, cristallina lente di acchiappa-scrittori.


(Paolo Di Paolo, La fine di qualcosa – Scrittori fra i due secoli, Giulio Perrone Editore, 2012, pp. 150, euro 13)