“Macadamia Nut Brittle” di Ricci/Forte

Giunge finalmente alla Galleria Toledo di Napoli uno dei lavori più rappresentativi di Ricci/Forte, Macadamia Nut Brittle, non un omaggio al gelato Haagen Dazs quanto piuttosto una critica mirata alla società dei consumi. È di sesso che si parla, della sua natura carnivora e delle modalità di consumo, attraverso lo schema del dominante e del dominato in una performance magmatica, anti-narrativa, dove il palco diviene uno stambugio frequentato da quattro corpi abitati da solitudini tormentate. Un sesso anaffettivo che mangia e si fa mangiare, in cui il corpo esplica ciò che di oscuro risiede nell’anima, che ha appetiti proprio perché possiede un involucro. Il corpo introietta un’immagine, maschile/femminile, e ne assorbe forme, odori, umori, desideri. Questo processo, che poi provoca una coazione a ripetere, viene reso sul palcoscenico attraverso una performance d’impatto, cinica, disperata, feroce nei momenti comici – che spesso rimandano, nel caso in questione, a una Napoli popolare e a sua volta violentata – e straziante nelle narrazioni dei protagonisti le cui parole si conficcano nella carne, divorandola pian piano. L’ossessività del pos-sesso si riflette anche in uno stile di vita incentrato sul superfluo, sull’oggetto, organo esterno al corpo ma anche un supporto alla psiche, per citare Ruyer, che non sottrae ma riempie quando ci si sente svuotati. Le serie tv, i reality show, il gelato Macadamia da divorare davanti al televisore, il sesso meccanico, i muffin.

Infine il corpo stesso, che s(’)offre e deve divorare, anche senza gu(a)stare la sua preda, antropofago, dominato da istinti primari che, reiterati, diventano rituale condiviso. Un cannibalismo che può essere endogeno, praticato nei confronti dei membri della stessa comunità, o eterogeno. Ma, in realtà, il sesso descritto da Ricci/Forte, per quanto umiliante e degradante, è il retaggio proprio di pratiche scomparse, che oggi si ritrovano solo nell’atto del mangiare o giustappunto nel sesso vorace, soprattutto quello più estremo. Gli uomini di Ricci/Forte hanno una chiara coscienza del sé, non si sottraggono alla propria identità ma la vivono, andando contro l’etica dei nostri giorni, minando l’esperienza romantica per morire tutte le volte nel coito sadomasochista, nella crapula, che serve solo per sopportare meglio una società che, a sua volta, padroneggia e schiavizza i nostri corpi. Il sesso, allora, violento, spietato, che non vuole lasciare il posto alla purezza dell’amore (bellissima la sequenza in cui la magnifica Anna Gualdo viene legata come un salame e presa a calci mentre lei parla d’amore vero), diviene un viatico per scaricarsi, annullarsi in un altro corpo, a sua volta, martoriato da un Potere più grande di lui.

Difficile sostenere un lavoro tanto ardito ma i tre bravissimi performer – Giuseppe Sartori, Andrea Pizzalis, Fabio Gomiero – e la stravagante Wonder Woman, interpretata dall’ottima Anna Gualdo, riescono nell’impresa di centrifugare gli stilemi del contemporaneo – anche nelle quanto mai perfette improvvisazioni – per darli in pasto senza pietà ad un pubblico, ormai, preparato rispetto alle prime repliche. Un teatro necessario, forse ipercalorico, talvolta ammiccante, ma intelligente e sfrontato, importante proprio perché pieno di coraggio.

 

Macadamia Nut Brittle
di Stefano Ricci e Gianni Forte
regia di Stefano Ricci
con Anna Gualdo, Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori
in collaborazione con Garofano Verde Festival

Andato in scena dal 23 al 25 marzo presso la Galleria Toledo di Napoli. 

“Il libro di Mush” di Antonia Arslan

Un libro che parla di un libro. Un libro che parla di un libro che è molto di più di un libro. Un libro che è qualcosa da custodire, con gelosia, nonostante intono a noi tutto stia crollando.
Un libro che è sentimento, amore, fede. L’anello di congiunzione tra quello che si è stati, si è e si sarà. Per questo va difeso con tutte le forze.
Si tratta di un testo sacro, è ovvio. Il testo sacro del popolo armeno, attualmente esposto al Matenadaran, nel Museo dei manoscritti antichi di Yerevan: il Msho Charantir, per essere precisi. O anche Il libro di Mush come lo chiama, italianizzandolo, Antonia Arslan che ne ha scritto “l’ultima storia” nell’ottimo volume omonimo pubblicato da Skira (curatissimo come sempre).
Il Msho Charantir è un’opera preziosa: per il contenuto e per le incisioni e le miniature che lo rendono unico. C’è moltissimo lì dentro: e lo sanno i protagonisti che lo vogliono salvare, nonostante pesi ventisette chili e mezzo e che di guai non ne ha portati certamente pochi.

Ci troviamo in una pagina di storia. Anno 1915. C’è un lago ed è il lago di Van, non saprei neanche trovarlo su una cartina geografica. C’è un fuoco che ci manda contro le sue braccia-fiamme. C’è un telo nero che non ci vuole far vedere ma che quando va via si porterà con sé cento, mille, centinaia di migliaia di donne, uomini, bambini sterminati. 
Possono morire gli uomini (ed è un genocidio, quello armeno, troppe volte dimenticato dai libri di storia delle nostre scuole), persino i popoli, ma non la loro memoria.
L’ultimo alito vitale, sopravvissuto a tutto, va custodito con forza. Come la fiamma olimpica non si deve spegnere, le radici non si devono estirpare.

Noi ci appelliamo a questa speranza: al racconto prima, al mito poi.
Ci facciamo condurre per mano dall’autrice in un luogo di cui non sappiamo niente a osservare creature meravigliose, titani, eroi ed eroine. E non ci perdiamo: tutto grazie a pagine di rara bellezza, poesia cristallina, quella che solo le voci d’oriente sanno trasformare in condivisa stereofonia.
Osserviamo e osserviamo ancora, immobili. Vorremmo cercare, noi, di portare in salvo questo libro, come se si trattasse della nostra terra, della nostra storia, della nostra fede. Della nostra memoria.
Vorremmo stringere Anoush e Kohar, unirci alla loro forza, alla loro resistenza, al loro libro-talismano per “restare insieme”. Ma non possiamo fare niente, noi, se non assistere inermi e in silenzio.


(Antonia Arslan, Il libro di Mush, Skira, 2012, pp. 129, euro 15)

“L’uomo dei miei sogni” di Francesca Angeli

Metti tre amiche e un ragazzo. Quello che prima era il fidanzato di una di loro, Luisella, e che dopo essere stato lasciato senza preavviso si finge milionario in fin di vita. Ora poeta e amico personale del direttore del Premio Strega e ora intraprendente manager nel campo alberghiero. Nel primo caso per far colpo su Teresa, occhialuta e giovane scrittrice. Nel secondo caso per sedurre Sondra, donna in carriera senza carriera che si divide tra master e studi in giro per l’Europa col sogno di vivere di rendita su una spiaggia in Messico.

In una scena dove a dominare è un divano, luogo di incontro delle tre ragazze. Delle loro aspirazioni. Dei loro sogni. E soprattutto delle loro riflessioni attorno agli uomini, l’amore, le delusioni, le illusioni. In una parola Cosimo. Playboy o principe azzurro? Truffatore, simpatico bugiardo o machiavellico Don Giovanni? Ecco in sintesi L’uomo dei miei sogni, commedia scritta da Francesca Angeli e interpretata da Romina Delmonte (Luisella), Francesca Volpe (Teresa), Mara Gallinacci (Sondra) e Diego d’Elia (Cosimo). Commedia andata in scena dal 22 al 25 marzo al Teatro Agorà, zona Trastevere, e a metà mese anche a Bari, ospite della rassegna teatrale “The Actor” al Teatro Abelliano.

Si ride. Bravi attori, giovani, poco più che ventenni. Spontanei. Brillanti. I convinti applausi finali e il teatro pieno ogni sera sono la logica conseguenza di una commedia piacevole e leggera, ben scritta. Tanto che il finale aperto lascia in eredità un pensiero su tutti non appena ci si alza dalla poltrona: a quando L’uomo dei miei sogni 2?

La prima domenica di ora legale ritarda la discesa della notte su Roma. Una buona occasione per camminare, e perdersi, tra i vicoli di Trastevere con Romina Delmonte, 24 anni, pescarese, laurea in Giornalismo alla Sapienza con una tesi sull’autocensura. La passione per il teatro. Recitato e insegnato ai bambini della sua città un paio di fine settimana al mese.

Si parla de L’uomo dei miei sogni oltre quello che si è potuto vedere in scena. Il dietro le quinte, il cosa c’è dietro a uno spettacolo allestito da un gruppo di poco più che ventenni. Si parla di cosa vuol dire vivere e recitare in tempo di crisi. «Lo spettacolo è già andato in scena lo scorso anno. Una settimana per un totale di 400 persone. Ottimo per un teatro di 97 posti. Siamo riusciti a mettere anche qualcosa da parte. Ed è già un primo risultato considerando che autoprodursi vuol dire spese che si aggiriamo attorno i 4000 euro tra scenografie, costumi, l’affitto del teatro, il tecnico luci, il trasporto delle quinte, l’agibilità, la Siae, il regista, grafica, volantini. Fortuna che ci sono gli amici. Chi ci aiuta con la grafica, chi con il trasporto, chi con l’ufficio stampa».

Si continua a camminare per questo quartiere. Allo stesso tempo cuore della Capitale, con il Tevere a due passi e i pub che aprono alle sei del pomeriggio, come succede sulle rive del Tamigi, o a Birmingham, o a Manchester o in qualsiasi altra città, paese e villaggio del nord Europa.

Cosa vuol dire autoprodursi?: «Vuol dire andare ben oltre il semplice lavoro di attore. C’è la burocrazia, c’è da pagare la Siae e l’agibilità dello stabile, c’è da trovare una associazione che ti rappresenti come è successo per la rassegna barese. E ci sono tutta un’altra serie di problemi». Una pausa. Ma? «Ma dopo che sei stato in scena, tutto diventa un divertente prezzo da pagare. Far apprezzare un nostro prodotto dà soddisfazioni enormi». Soprattutto se arrivano anche gli applausi del pubblico.

Arriva così anche il tempo di una Guinness scura mentre il Tevere, e Roma, si illumina per la notte che in ritardo è arrivata.

 

L’uomo dei miei sogni
di Francesca Angeli
regia di Emilia Di Pietro
con Diego D’Elia, Romina Delmonte, Mara Gallinacci, Francesca Volpe

Andato in scena dal 20 al 25 marzo presso il Teatro Agorà di Roma.

[El País] “Per il dolore di chiamare” di Enrique Vila-Matas

Riportiamo di seguito la traduzione dell’articolo di Enrique Vila-Matas apparso ieri, domenica 25 marzo, su El País, scritto in ricordo di Antonio Tabucchi.


Che cosa diavolo siamo venuti a fare qui? Credo di avere una vaga idea di quello che risponderebbe Tabucchi. Ammiro in lui l’immaginazione e la capacità di studiare la realtà per poi arrivare a una realtà parallela, più profonda, una realtà che solo a volte accompagna quella visibile. Ricordo che amava Drummond de Andrade, che vedeva il mistero dell’aldilà come se fosse solo un vecchio palazzo di ghiaccio. Penso a questo, mentre busso alla porta del tempo perduto e mi rendo conto che nessuno risponde. Torno a bussare, e ho di nuovo la sensazione di battere invano.

La casa del tempo perduto è coperta di edera da un lato, e di cenere dall’altro. Non ci vive nessuno, e io me ne sto qui a bussare e a chiamare, per il dolore di chiamare e di non essere ascoltato. Nulla è vero come il fatto che il tempo perduto non esiste, esiste solo un casermone vuoto e condannato. E il vecchio palazzo di ghiaccio. Sette giorni fa mi è arrivato a casa un messaggio di Tabucchi, in risposta a dei ricordi di Porto Pim, mi sono immaginato: «Parli di un’epoca remota, di quando ancora c’erano le balene. Un’epoca di prima del diluvio, e tuttavia vissuta. Che strano, amico mio». È vero, che strano. Oggi Porto Pim – edera e ceneri nel luogo dove nessuno vive – è anch’esso un paesaggio del tempo perduto.

Oltre al grande inventore di ricordi e creatore di narrazioni, c’era un Tabucchi profondamente immerso nella realtà, uno scrittore che aveva compreso che Berlusconi, grazie al suo impero televisivo e mediatico, aveva creato un mondo fittizio e che gli italiani erano caduti in una specie di Truman Show dal quale non sarebbero usciti per anni, se anche Berlusconi se ne fosse andato. E non bisogna dimenticare, diceva, che quello show aveva prodotto leggi molto concrete e un regime spaventoso. E, ancor meno, dimenticare le responsabilità di coloro che avevano tollerato, accondiscendenti, uno spettacolo così grottesco.

Tabucchi sentì il bisogno di andarsene quando quell’infame spettacolo italiano iniziò a influenzare seriamente la sua vita. Si trasferì a Lisbona, dove a volte scriveva dell’isola di Corvo e della lontananza. Io ho scritto tutta la vita della Donna di Porto Pim, libro che considero un capolavoro, un artefatto letterario che a volte contemplo come se fosse un Moby Dick in miniatura. Meno di cento pagine che rappresentano un esempio perfetto di libro di frontiera, un marchingegno composto da racconti brevi, frammenti di ricordi, diari di trasferimenti metafisici, appunti personali, biografia e suicidio di Antero de Quental, schegge di una storia catturata sulla coperta di una nave, mappe, bibliografia, astrusi testi legali, canzoni d’amore: elementi a prima vista contraddittori e, soprattutto, estranei alla letteratura, trasformati da una profonda volontà letteraria in narrazione pura. Un libro memorabile, come tanti altri suoi: Requiem, Notturno indiano, Piccoli equivoci senza importanza, Sostiene Pereira, Si sta facendo sempre più tardi.

In quanto a Corvo, è l’isola più remota dell’arcipelago delle Azzorre. Ci si può arrivare solo via mare. Non dimenticherò mai il giorno in cui Tabucchi vi sbarcò e vide un uomo che aveva un mulino a vento per macinare il grano e che gli chiese, stupefatto: «Signore, che cosa è venuto a fare su quest’isola?» A Corvo ci si va per andarci, seppi poi che pensò Tabucchi, al quale sarebbe piaciuto essere uno di quei portoghesi che nel XV secolo arrivarono per la prima volta nelle Azzorre e lì trovarono un paradiso. Quella era un’epoca senza dubbio remota, di quando c’erano ancora le balene. Un’epoca che oggi ci sembra, con immenso dolore, già estremamente lontana, e tuttavia, per quanto possa apparire strano, davvero vissuta.
 


Fonte: http://elpais.com/
 

Enrique Vila-Matas (Barcellona, 1948) è considerato da molti il maggiore scrittore spagnolo vivente. La sua opera narrativa include romanzi come Esploratori dell’abisso e Dublinesque, entrambi pubblicati in Italia da Feltrinelli, ma anche volumi di racconti, articoli e saggi.

“Tintoretto”: Jacopo Robusti alle Scuderie del Quirinale

Jacopo Robusti, detto Tintoretto, fu un pittore atipico e, sicuramente, il più anticonformista del suo tempo. Autore prolifico, capace di riprendere le visioni innovative di Tiziano trasformandole, soprattutto nell’uso della prospettiva. Un uomo che dedicò l’intera sua vita alla pittura, capace di produrre veri e propri capolavori in pochissimo tempo senza mai divenire un mercenario: un caso eclatante sono i dipinti della Chiesa della Madonna dell’Orto a Venezia che lui eseguì senza compensi ma solo per un “impegno di fede”. Fu anche per quest’aspetto uno dei pittori più chiacchierati del suo tempo e la mostra, in programma fino al 10 giugno alle Scuderie del Quirinale, a Roma, racconta, in maniera precisa, la sua vita artistica, attraverso quaranta capolavori selezionati da Vittorio Sgarbi.

La prima opera, che si staglia nello spazio della sala numero uno, imponente, è il bellissimo “Miracolo dello schiavo”, un vero e proprio capolavoro visivo, con l’apparizione improvvisa di San Marco su di uno schiavo, riverso a terra, sfinito per le torture subite poiché sorpreso dal padrone a venerare le reliquie del santo. Sembra un film con le sue dinamiche precise – sensazione che si avrà per tutta la durata della mostra – , è un cerchio che avvolge chi si appresta a guardare l’opera, tutto è teso verso il centro della scena, cioè verso lo schiavo: San Marco che scende in volo a salvare il servo, il movimento della folla che sgomita per vederlo, un attimo dopo l’aguzzino che mostra alla folla gli strumenti di tortura spezzati dal santo. Un quadro dal forte impatto emotivo, dalla vocazione teatrale, dove tutto è studiato fin nei minimi particolari, a partire dall’effetto luce-ombra che domina l’intero quadro.

La mostra, ben organizzata, suddivide le opere del Tintoretto a seconda dei temi trattati e offre una raccolta di quadri provenienti dalla National Gallery di Londra, come nel caso di “San Giorgio uccide il drago”, o addirittura da Vienna, se ci riferiamo a quel capolavoro d’arte profana di “Susanna e i vecchioni”. Anche qui, il Tintoretto sospende l’azione, si può solamente intuire quel che accadrà dopo. Seguiamo Susanna, la sua mano affusolata, la carnagione chiara, probabilmente una giovane donna ricca, a giudicare dai gioielli posti ai suoi piedi, che si sta apprestando a fare un bagno. Intanto, celato dietro a un muro di rampicanti, c’è un vecchio disteso che, in compagnia di un altro “vecchione”, posto in altra posizione, sta spiando la giovane fanciulla. Tintoretto mostra il momento prima della violenza pensata e orchestrata dai due uomini ed è geniale nel rappresentare tutta l’avidità e il luridume dei due che non vedono l’ora di scaraventarsi sulla ragazza.

Ma è anche l’animo ritrattista del Robusti a incuriosire, soprattutto con i suoi due autoritratti, il primo, posto a inizio mostra, ce lo mostra giovane, con lo sguardo acceso, pieno di vitalità. L’ultimo, posto significativamente a fine percorso, lo rappresenta vecchio, stanco, vissuto ma con la tenacia che l’ha sempre contraddistinto. In mezzo, c’è tutta la sua poetica, la libertà creativa del genio che si può soprattutto ritrovare nei quadri commissionati dalla Scuola Grande di San Marco e dalla Scuola Grande di San Rocco. Finalmente Roma riesce a spiegare al grande pubblico la grandezza di quest’artista rendendogli il giusto omaggio con un’esposizione importante e di prestigio.

 

Tintoretto
dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, Scuderie del Quirinale, Roma

Orari: domenica-giovedì 10-20, venerdì e sabato 10-22.30.
Ingresso: intero € 10, ridotto € 7.50

Per ulteriori informazioni:
http://www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-001.html

“Il professore non torna a cena” di Alessio Dimartino

Sergio fa l’archeologo. Scava dentro una terra appassita, tra scorze di carne senz’aria.
Pesca dei resti, li estirpa da un guscio di notte e li porta alla luce di altri viventi. Perché qualcuno ne possa ancora godere. Cerca pezzi preziosi, scuce un suolo d’inverno invecchiato, estrae il suo tesoro e poi lo riassesta , ricoprendo quel buco con un nuovo respiro.
La Rossa fa la guardiana. Si apposta, scruta, controlla, trova sempre la roccaforte migliore per non perdere di vista il suo obiettivo. Perché osservandolo con cura lo può anche comprendere. È come se aumentando le distanze potesse accorciarle, tagliando nastri e perimetri di gesti lontani. E avvolgendoli attorno a quel corpo. Consuma il suo oggetto con discrezione, riparata da tutto, fuorché dai suoi occhi. Così aguzzi e dentati che non può sfuggire.
Sono questi i loro mestieri. O almeno questo è quello che sembrano, nelle vicende e nello stile del libro di Alessio Dimartino, Il professore non torna a cena (Giulio Perrone Editore, 2012).
Perché in fondo ogni lavoro è abitato dal modo in cui lo si svolge. Da come ciascuno lo intende e lo popola. Di mostri e profeti. Di favole spente e ossessioni pungenti.
C’è chi fa il libraio come si fa il muratore, spostando ceste intercambiabili  di pagine indistinte. Chi tratta un saggio come un blister di supposte, l’importante è che vada a buon fine, non importa passando da dove.
C’è chi invece fa l’imbianchino neanche fosse Mirò. E quel bianco assorbe tutti i colori indicibili.
È così anche per loro. Che non sono né un archeologo né una guardiana. O forse lo sono, ma non lo fanno.
Sergio è stato assunto come tecnico specializzato per un’azienda di protesica chirurgica: vende protesi al miglior offerente, le piazza sul mercato, un mercato di attese sfibrate, che agognano un frammento, un minimo ingranaggio per ricominciare. E  lui ricomincia da chi ha già finito. E si è raffreddato dentro un bel feretro. Recupera porzioni, dispositivi incastonati tra le vertebre dei morti. E li rimette in circolazione, a un prezzo che non si esprime tutto in cifre. Per altro, in un momento come questo, opera e guadagna a tempo indeterminato, incarnando un’accecante rarità.
Ma non basta, non può bastare. Non a chi si accorge della cenere quando gli piove addosso. E allora fuma, un tiro dopo l’altro, un pacchetto dopo l’altro, fuma i giorni come fossero stecche, senza che polmoni riescano a riempirsi, senza che nulla attenui lo squallore. Non la ragazza, che lo lascia senza scalfirlo. Lo lascia inalterato, nella sua steppa di caverne senza uscita. Lo lascia convinto che quasi niente valga la pena, che sia tutto acido, sporco, imbrattato, tranne forse suo padre, troppo ingenuo per chiamare macchie le nuvole. Convinto che uomo e donna giochino a colpirsi senza mai andare a segno. Che la volgarità sia un tratto ventrale, che dimora nel petto come una costola e che non serva evitare le brutte parole quando si hanno brutti pensieri. Serve solo andarsene, sbattere la porta e non voltarsi se fa troppo rumore.
La Rossa, che è nata con un altro nome, ovviamente non esercita proprio quella professione. La esplica in parte, ma è assorbita da un altro progetto. Cambiare il mondo. Semplicemente. Senza negoziati. E abbattere tutti gli ostacoli che lo impediscano.
Iniziando da un professore, colpevole di una vita tranquilla, modesta. E di teoria scomode per chi anela la giustizia. Marta, che non si gira più se la chiamano così, scandaglia attentamente, guarda bene, guarda a fondo e più guarda e più si trova in superficie. Galleggia intorno a tante domande. Che si rapprendono addosso a una sola: Perché? Perché la vittoria passa attraverso la morte di un uomo? Marta s’interroga e non sa rispondersi. E l’edificio barocco delle sue buone intenzioni non può che creparsi.
Avviando la spirale. Quella che abbraccia entrambi: Sergio e Marta, il Grigio e la Rossa. In un modo del tutto inaspettato. In un romanzo che diventa un diario, quello che tiene Sergio su consiglio del suo terapeuta.
E poi ancora un altro romanzo.
Un vortice che Dimartino fa parlare di tutto il cinismo possibile. Asfittico, senza finestre. Secco, lontano da ogni vago tentativo di espandere il volume dei propri periodi. Che implodono nel loro buio.
Una Weltanschauung pennellata di disgusto, nauseata, disfattista. Anzi, quasi certa che non c’è più nulla da disfare. Quasi , appunto. Perché forse anche soltanto saperlo, chiedersi il motivo, opporre stomaco e pelle a un sistema che sembra immutabile, significa qualcosa. Un po’ d’ossigeno, un tratto di penna, una pagina scritta che diventa eroica per un solo istante. Per il resto del tempo non c’è (as-)soluzione. C’è solo la voglia di leggere.


(Alessio Dimartino, Il professore non torna a cena, Giulio Perrone Editore, 2012, pp. 328, euro 15)

[Trend] “Cock” di Mike Bartlett

In questi giorni, al teatro Belli di Roma, si sta svolgendo la XII edizione di “Trend – nuove frontiere della scena britannica”, rassegna ideata e curata da Rodolfo di Giammarco, che mette in scena, per la prima volta nella capitale, testi assolutamente inediti in Italia della giovane drammaturgia inglese. Si tratta di un’operazione di grandissimo interesse che porta inevitabilmente lo spettatore a fare un raffronto con l’agonizzante scrittura teatrale italiana, da anni fossilizzata su vecchie dinamiche, incapace di rinnovarsi e di trarre linfa vitale dall’urgenza della contemporaneità.

Cock, di Mike Bartlett, nella frizzante traduzione di Noemi Abe, racconta la storia di John, giovane omosessuale che, frustrato nell’intimo da un compagno soffocante e insicuro, si lascia sedurre da una ragazza che incontra tutti i giorni durante il tragitto in metro per andare a lavoro. Lei s’insinuea nella sua vita come una fresca brezza primaverile. Un vento leggero e piacevole che arriverà però a sconvolgere, come un uragano, le sue certezze e la sua fragile psiche. John si trova così inavvertitamente catapultato nel tumulto delle sue emozioni più intime, nell’ambivalente essenza dell’io, fatto di un maschile e un femminile in apparente lotta e per nulla intenzionati a lasciarsi sopraffare l’un l’altro.

La messinscena è essenziale, pulita: spogliata degli elementi scenografici a dare forma alle cose e agli ambienti solo le luci che disegnano sul pavimento un rettangolo, un ideale ring su cui si stagliano, definiti, i corpi degli attori, il loro pensiero scolpito in un lessico fluente ed efficace. Non ci sono musiche: i cambi di scena sono anticipati da brevi spazi di silenzio e dalle uscite dei corpi dal rettangolo di luce. Tutto ciò che non riguarda la parola, i dialoghi serrati tra gli attori è superfluo, non serve nient’altro che il linguaggio a dare forma e vita alle emozioni contrastanti che albergano nell’animo del protagonista. Il suo “io” scisso tra la certezza di una relazione già esistente e solida e un’altra nuova e assolutamente indeterminata va ben oltre l’essere eterosessuale o omosessuale: è la scelta di essere se stessi, al di là di una categoria, al di là di una distinzione di genere. I due partner di John, che non a caso non hanno un nome, altro non sono che i due lati della stessa medaglia, i due emisferi in cui è scissa la sua natura più profonda: dovere e piacere, serietà e leggerezza, sense and sensibility. Il dramma è chi e cosa vuole essere veramente John, quali le sue vere aspirazioni del cuore?

Merito della regia e degli attori è saper trasmettere l’impellenza di questa domanda con tanta chiarezza da suscitare nello spettatore l’emozione stessa che interrogativi simili portano con sé, emozione che inevitabilmente lo accompagnerà fin fuori dal teatro. Se gli altri spettacoli della rassegna sono all’altezza di questo, meglio non farseli sfuggire. Le domande non sono mai abbastanza.

 

Cock
di Mike Bartlett
regia di Silvio Peroni
traduzione di Noemi Abe
con Margot Sikabonyi, Enrico Di Troia, Fabrizio Falco, Jacopo Venturiero

Lo spettacolo, in scena il 23 e il 24 marzo, fa parte della rassegna teatrale “Trend – nuove frontiere della scena britannica”, fino al 30 marzo al teatro Belli di Roma.

Per maggiori informazioni:
http://www.teatrobelli.it/

“Il tribunale delle anime” di Donato Carrisi

Bene e male. Da sempre dentro di noi e da sempre dentro la letteratura. Presenti anche ne Il tribunale delle anime di Donato Carrisi, coinvolgente opera seconda dell’autore salito alla ribalta con il successo de Il suggeritore, vincitore nel 2009 del premio Bancarella.

Raramente si è vista nella narrativa recente una Roma così nera e cupa. Avvilente e frustata dall’incessante pioggia, con al suo interno una malcelata covata di crimine e trame misteriose. Una Roma di indizi nascosti nelle chiese, ma soprattutto, una Capitale dove le fanciulle spariscono nel vuoto. E poi vengono trovate sgozzate.

«Uccidimi». Questo è il tatuaggio sul petto di Jeremiah Smith. Questo è ciò che vedono i primi soccorsi quando entrano nella sua villa e lo trovano in fin di vita. Vicino a lui c’è un pattino, appartenente a una ragazza scomparsa anni fa e trovata in seguito brutalmente trucidata. E molto probabilmente non è un caso che la rianimatrice che scopre tale particolare sia proprio la sorella della vittima.

Forse Jeremiah Smith è il colpevole della scomparsa di tante altre ragazze, poi trovate uccise. L’ultima si chiama Lara e sulle sua tracce, oltre alle forze dell’ordine, ci sono anche Clemente e Marcus, appartenenti al misterioso ordine dei Penitenziari. Quest’ultimo personaggio, dalla cicatrice sulla tempia ancora fresca, combatte contro incubi terribili, convivendo ogni giorno con la perdita della memoria e un innato istinto indagatore. Sarà lui a guidarci nella serie di delitti e di misteri che si susseguiranno inarrestabili pagina dopo pagina. Il tracciato della sua ricerca s’incrocerà con la vicenda di Sandra, agente milanese della scientifica, giunta nel capoluogo capitolini per fare luce sulla morte del marito. Loro saranno i binari sui cui il ritmo e la cadenza del thriller poggerà le basi. A spezzare il tutto, i capitoli riguardanti il Cacciatore, il quale va in giro per il mondo alla ricerca di un serial killer davvero unico. Insomma, le credenziali per l’ottima riuscita del libro ci sono tutte e le sue potenzialità vengono sfruttate a pieno, ma aggiungere qualcosa di più sulla trama sarebbe – come si suol dire – un delitto.

Quello di cui possiamo parlare sono però i punti di forza con cui l’autore intesse questo nero movimento narrativo fatto di morte e giudizio, salvezza e condanna. Donato Carrisi, forte dei suoi passati studi e delle specializzazioni in criminologia e scienza del comportamento, mostra tutta la sua competenza tecnica e la fonde in una struttura narrativa coinvolgente. Il risultato è thriller di alto livello, che cattura per il ritmo, che rimane impresso per i personaggi e i contenuti. E di questo periodo non è cosa da poco. Anche per sapere chi vince alla fine in questo “tribunale”, tra il Bene e il Male.


(Donato Carrisi, Il tribunale della anime, Longanesi, 2011, pp. 464, euro 18,60)

“Between the Times and the Tides” di Lee Ranaldo

Torna sulla scena discografica internazionale Lee Ranaldo.

Formatosi artisticamente nell’entourage avanguardistico newyorchese di Glenn Branca, dal quale ha sicuramente ereditato una certa tendenza alla dissonanza, deve la sua notorietà al fatto di essere una delle quattro teste pensanti dei Sonic Youth, rinnovatori instancabili dell’esplorazione scientifica degli effetti alienanti dovuti alle contemporanee metropoli post-industriali.

Il Lee Ranaldo che troviamo in questo suo nuovo Between the Times and the Tides (Matador, 2012) è però un uomo di una certa età, con capelli bianchi e occhiali da sole, che sfoglia annoiato gli album di famiglia, le foto ingiallite dal tempo, proprio mentre la “gioventù sonica” è sul punto di implodere seguendo vie parallele alla separazione della coppia Moore-Gordon. Seduto con la sua birra ghiacciata, Ranaldo immagina come suonerebbe un suo proprio mondo pop-rock. Assistiamo quindi al tentativo di svincolarsi dalle esperienze precedenti, per avvicinarsi – sempre a suo modo sia ben chiaro – alle recenti evoluzioni del nuovo cantautorato americano, richiamandosi quindi alle sue radici rock ’n roll che, a quanto pare, hanno sempre resistito dietro la figura di estremo sperimentatore sonoro.

Troviamo, ad accompagnarlo in questo che potremmo chiamare un esperimento al contrario – ovvero il tentativo di uno sperimentatore di professione di fare qualcosa di più normalizzato – vecchi compagni di viaggio, come il batterista Steve Shelley, già con lui nei Sonic Youth dal 1986 in poi, e il bassista Jim O’Rourke, assiduo collaboratore in fase di mixaggio e produzione del medesimo gruppo, accanto a nuove leve, come Nels Cline, il chitarrista artefice delle stratificazioni sonore degli Wilco, e John Medeski, tastierista poliedrico proveniente dai fangosi territori del jazz-fusion del formidabile trio Medeski, Martin & Wood.

Come si diceva il disco sterza prepotentemente verso atmosfere melodiche più consone, quasi canoniche, che risultano molto vicine, pur mantenendo le peculiarità dovute al singolare e riconoscibilissimo approccio chitarristico-armonico di Ranaldo, alle felici esperienze di recupero delle forme tradizionali del rock a stelle e strisce che stanno caratterizzando la scena contemporanea statunitense. Non è quindi assolutamente un disco da scariche adrenaliniche che vivono di tensioni nervose metropolitane. L’ansia orrorifica che permeava gli esordi dei Sonic Youth, ma anche i lavori solisti di Ranaldo, si dissolve al sole del nuovo millennio: mettendo da parte Il manuale per l’uso improprio della strumentazione rock, Ranaldo ci mostra il suo lato pulito, quasi benpensante. Dieci tracce da viaggio, per un coast to coast sognante da New York alla California.

L’ascolto si fa quindi esile. L’orecchio, adagiato sulla morbidezza degli arrangiamenti freme nell’agilità dei brani, scopre influenze forse sorprendenti, come il canto alla Micheal Stipe, voce dei neo-disciolti R.E.M, su “Lost (Plane T Nice)”, o i refrain chitarristici di “Waiting on a Dream”, costruiti su complesse trame armoniche nelle quali si riconosce l’inconfondibile cifra stilistica di matrice Wilco, sempre al limite del manierismo. Troviamo poi linee melodiche sempre molto semplici, lineari, ma dense e umide, di quell’umidità che appiccica la maglietta alla pelle e i pensieri alla testa – la strofa di “Off the Wall” ne è un esempio lampante, la ascolti e non va più via dalla testa –, accostate a venature vocali che diventano a tratti tipicamente blues (“Hammer Blows”), a ricordare che anche Lee Ranaldo, come tutti forse negli Stati Uniti, proviene da monumenti come Neil Young, Bill Crosby e Bob Dylan.

Ma vent’anni di musica non si cancellano in un batter d’occhio, e questo è un disco che, pur avendo tutte le influenze e le caratteristiche appena elencate, suona anche tipicamente Sonic Youth senza pur tuttavia esserlo mai veramente. Un ossimoro che è forse voluto, incomprensibile razionalmente, ma che ha comunque una sua logica genealogica ben precisa. Between the Times and the Tides si inserisce infatti a pieno titolo nel processo di normalizzazione musicale e di avvicinamento progressivo alla forma canzone rock tradizionale che i Sonic Youth avevano intrapreso già nei primi anni novanta, più precisamente con Dirty (DGC, 1992), e con il quale veniva seguito un metodo compositivo che inseriva elementi avanguardistici all’interno di forme tradizionali, nell’intento di stravolgerle e alienarle da sé stesse. Nel tempo si è però concretizzato un processo per il quale questi elementi estranei, che potremmo definire extra-rock, che erano funzionali allo straniamento della forma canzone e alla sua destabilizzazione interna, sono andati scemando avvicinando lo stile compositivo di Moore e compagni a una musica che, per quanto permeata di un tipico sound Sonic Youth sempre molto riconoscibile, suonava sempre più consona, sempre più imbrigliata nelle strette maglie del modello strofa-ritornello-strofa. E il punto centrale è proprio questo: l’ultimo lavoro solista di Ranaldo si inserisce senza soluzione di continuità in un percorso che era già quindi in atto da almeno un ventennio e che va dal sopra citato Dirty, fino agli ultimi Rather Ripped e The Eternal.

Mancando la debilitazione scientifica delle forme proprie della musica pop-rock, ed eliminando del tutto le sperimentazioni sonore sullo strumento – pensiamo all’uso dei cacciaviti o dei colli di bottiglia branditi con violenza sulla chitarra – quel che rimane sono delle semplici e normalissime canzoni, che sono però splendide canzoni, forti di una scrittura ottima coadiuvata da arrangiamenti semplici ma di grande impatto. Il tutto suonato da musicisti di lunga carriera, che ricorrono a tutti i trucchi del mestiere per ottenere un disco che si fa ascoltare dall’inizio alla fine con grande leggerezza.
 

(Lee Ranaldo, Between the Times and the Tides, Matador, 2012)

“Il silenzio degli uomini”: a tu per tu con Iaia Caputo

Il silenzio degli uomini (appena pubblicato da Feltrinelli) è l’ultimo libro della scrittrice e giornalista Iaia Caputo. Dopo saggi intensi e originali sulle donne e sul loro mondo interiore, prende posizione sull’“altra metà del cielo”. E lo fa senza rabbia o preconcetti, ma con tanta voglia di capire quello che definisce «drammatico malessere maschile», sottolineando che «il nostro è un paese bloccato da una misoginia che ormai pervade l’intero corpo sociale».


Iaia, perchè parli di «silenzio degli uomini»? Media, tv, politica e cronaca sono pieni di dichiarazioni, parole, decisioni, anche politiche, prese da uomini più o meno importanti nelle nostre vite pubbliche e private di donne al tempo della crisi più nera degli ultimi tempi. A quale silenzio fai riferimento?

La parola maschile è per tradizione “pubblica”, e per quanto sapiente, illuminata o illuminante, può essere completamente scollegata dai sentimenti, dalle emozioni, dalla vita affettiva, dalla propria esperienza umana. Facciamo una riflessione sul caso Strauss-Kahn: uno degli uomini più potenti del mondo, grande economista, politico stimatissimo e, al tempo dello scandalo, destinato a correre alla Presidenza della Repubblica francese; ecco un uomo di tale valore intellettuale poteva essere allo stesso tempo un sex-addict, un molestatore seriale, senza che questo suo aspetto “privato” inficiasse la sua immagine pubblica. Cosa vuol dire: che viveva in un doppio silenzio, il proprio, e quello della complicità che lo circondava. Ora, potremmo mai immaginare che per una qualunque donna di potere varrebbe la medesima doppia morale? Non verrebbe giudicata per l’insieme dei suoi comportamenti pubblici e privati? Se Angela Merkel fosse un’incallita seduttrice di uomini, più o meno giovani, e abituale frequentatrice di prostituti, sarebbe la cancelliera tedesca?


Hai scritto un libro coraggioso, in cui colpisce la tua voglia di capire cosa c’è dietro quel silenzio maschile che, non espresso e non elaborato, può portare uomini feriti a violenze inaudite e bestiali contro le loro donne e soprattutto, fenomeno recente e sconcertante, contro i loro figli. Cosa hai scoperto indagando le ferite maschili?

Nel libro parlo di «condizione tragica» del maschile, si riferisce al grande malessere che colpisce tantissimi uomini, facenti parte di un genere che per millenni è stato il signore del mondo e che non lo è più. Questo cambiamento di posizione nel rapporto tra i sessi dovrebbe condurre a una ridefinizione della propria identità. Non tutti la accettano. E chi non vuole fare i conti con il cambiamento, pur provando smarrimento, paura, fragilità, l’unico sentimento che riesce a sentire è la rabbia: per essere stato lasciato, per la fine di un matrimonio, per la sentenza di un tribunale che affida i figli alla madre. Ecco che allora si abbandona al gesto violento. Che testimonia insieme la frustrazione per un’incontrastata potenza perduta e l’assoluta impotenza di fronte alla libertà e alla autodeterminazione delle donne.


Nel tuo saggio metti in evidenza che solo uomini consapevoli di sé e desiderosi di rompere la spirale di potere e privilegi possono ritrovare se stessi e uscire da una solitudine impotente, che sempre più spesso si esprime con atti di violenza bestiale. Quali i passi fondamentale da parte degli uomini per arrivare a un rapporto realmente di scambio di amore, di affetti, di diversità, tra uomini e donne?

Credo che in un paese diventato per molte e complesse ragioni un paese fortemente misogino, impregnato di stereotipi, così povero di donne nella rappresentanza politica, così affollato di uomini, e per giunta anziani, bisognerebbe partire dall’educazione, fin dalla scuola primaria. Ma sono ottimista: possiamo sperare che riportando le donne sulla scena pubblica, fornendo sempre più modelli positivi e autorevoli femminili, anche le relazioni tra i generi miglioreranno.


Il silenzio degli uomini costringe al silenzio anche le donne. Senza uomini coraggiosi e consapevoli, non conniventi a vecchi privilegi non si va da nessuna parte. Come dimostra il film appena uscito La sorgente dell’Amore in cui Radu Mihaileanu dimostra che nulla o quasi può la rivendicazione delle donne senza uomini solidali, in grado di ascoltare e sostenere. Il sentimento con cui consegni il tuo libro al pubblico è più intriso di pessimismo o di speranza nel cambiamento degli uomini?

Abbiamo tutti, più che mai in questo momento, il dovere della speranza. Molte cose stanno cambiando, penso a un modo diverso di intendere la paternità, un territorio nel quale tanti uomini hanno capito che la cura era, anche, piacere, tenerezza, vicinanza alle emozioni, e che era più quel che guadagnavano di quanto perdevano in termini di privilegi e libertà. Certo, c’è ancora molta strada da fare, ci saranno ancora colpi di coda, regressioni, molte contraddizioni con cui fare i conti, tuttavia, i cambiamenti sono, non solo necessari, ma inevitabili.

“L’invenzione del compleanno” di Jean-Claude Schmitt

Quasi non ce ne rendiamo conto, perché sembra di essere naturalmente portati a considerare il nostro compleanno come una data da ricordare, da celebrare, tanto che ci si deve giustificare se non gli diamo la giusta importanza, ma non è stato sempre così.

Leggendo il breve saggio L’invenzione del compleanno, con cui il medievista francese Jean-Claude Schmitt si è divertito a raccontarci la storia di questa ricorrenza, impariamo che il Medioevo non era per nulla, o quasi, attento al genetliaco – d’altronde il compleanno, nell’antichità, aveva una connotazione di festa religiosa pagana e anche per questo venne rifiutato dal cristianesimo – semmai veniva ricordata la data della morte, che spalancava le porte della vita eterna e rappresentava la vera nascita, quella nell’aldilà.

La riabilitazione del compleanno avvenne con lo spostamento da un’idea di tempo circolare, come quella del calendario liturgico, a una lineare, che vede gli anni tutti diversi gli uni dagli altri, tutti figli delle idee, degli investimenti e dei progetti degli anni precedenti. Ecco forse spiegato perché Marco Polo, vissuto non molto tempo prima del Rinascimento, ed esempio di quel mercante protagonista della prima espansione economica europea, dedicò molta attenzione ne Il Milione alle celebrazioni per la nascita del khan Qubilai. È probabile che «non avesse osservato nulla di simile in patria», prima di allora.

Può venire da chiedersi quando il compleanno assunse più o meno quella forma di festa borghese così come la conosciamo oggi. Sembra che la risposta vada collocata nel 1802, quando Goethe si vide recapitare una torta con cinquantatré candeline: è qui che rintracciamo dinamiche simili a quelle attuali, di una celebrazione che è sì momento di intimità familiare, ma diviene anche, per molti, attestato di riconoscimento sociale e, nel caso di Goethe, quasi di destabilizzazione sociale, tanto che nel 1826 il re di Prussia dovette ordinare che la nascita dello scrittore non fosse celebrata con più fasto di quelle dei membri della casa reale.

Oggi il compleanno viene festeggiato talvolta con grotteschi eccessi, in un’epoca in cui la nostra attenzione è tutta per la vita terrena, quasi senza renderci conto che ogni anno segna un passo verso la fine, o forse proprio per questo: a significare la nostra esistenza, nonostante tutto.


(Jean-Claude Schmitt, L’invenzione del compleanno, trad. di Roberto Cincotta, Laterza, 2012, 112 pp, euro 18)

“Ti amo ma posso spiegarti”: a tu per tu con Guido Catalano

Capita di rado, che un libro propostoti da recensire ti rapisca al punto tale d’aver voglia di andare oltre, quasi fosse un imperativo categorico – magari un po’ pedante, il senso del sé che trapela dalle righe. È il caso di Guido catalano e del suo Ti amo ma posso spiegarti (Miraggi Edizioni, 2011). Centone poetico, manifesto virile, pallottoliere di parole che compongono, assemblate certo non a caso, un mosaico di significato davvero accattivante. Madames et messieurs, ecco a voi l’uomo.

Perché sei minuscolo, in copertina? Non ti senti alla tua altezza?

Mi piacciono molto le lettere minuscole, le trovo più gentili. Detto questo, no, mi sento senz’altro all’altezza. Ho un Ego obeso e gigantesco. Tipo, per intenderci, due metri e dieci per 160 kg. Io invece sono brevilineo. Tipo, per intenderci, un metro e sessantacinque. Ma sono cintura marrone di Judo e giro sempre con un machete nei pantaloni.

 
Giochi molto con le parole: ti vedi giullare o esorcizzi un dolore?

Esorcizzo dolori e paure. Ho molte paure. Prima tra tutte quella di morire. Ho anche diversi dolori. Magari si capiscono leggendo le robe che scrivo. Magari no. Sarebbe meglio di sì, così poi arriva qualcuno con la medicina giusta. Cerco la medicina giusta. Non credo sia un caso che i primi tre libri che ho scritto mi siano stati pubblicati da una casa editrice che si occupa di questioni legate alla Medicina e alla Farmacia.
Il più grosso dolore fisico che ho provato è stato quando mi è venuta una periartrite fulminante alla spalla destra. Mi sarei tagliato il braccio, poi per fortuna mi hanno fatto un punturone di Cortisone nella spalla. È stato uno dei momenti più belli della mia vita, il punturone nella spalla.
Forse tu però non intendevi dolori fisici.
Mercoledì prossimo vado a ritirare gli esami del sangue e così vediamo quando muoio.

 
Il metro del tuo rimare si esalta alla lettura a voce alta: le pensi in chiave performativa, le tue poesie?

Una volta no. Tanti anni fa quando ho iniziato a scrivere, no. Oggi in parte sì. Leggo ad alta voce intanto che scrivo per sentire il suono, il ritmo. Poi so che una poesia appena scritta, con tutta probabilità la leggerò davanti a un pubblico entro pochi giorni. Hai visto che frasi corte che scrivo? Adesso, intendo. Non riesco più a scrivere periodi lunghi. Sono preoccupato.

 
Qual è il tuo lettore ideale?

Quello che mi compra i libri e le belle ragazze che si innamorano di me. Ho molto bisogno d’amore, Andrea, non te lo nego.
Dunque direi che il mio lettore super-ideale è una ragazza che mi compra i libri e poi si innamora di me.
Possibilmente automunita ché io non ho la macchina perché non ho la patente.
Possibilmente con gli occhi chiari ma va bene anche scuri.

 
Toglimi una curiosità: anche tu, come i tre quarti della popolazione maschile italiana, sei convinto che prima o dopo tornerà?

Grazie per avermi posto questa interessante domanda.
La risposta è no.
Non torna.
E se tornasse non mi troverebbe.
Anche perché mi son scassato il cazzo di aspettare.
Comunque non ho capito la domanda.

[E si fa – gradevolmente – intimo: «Non è che sia brutta, Andrea, ma non l’ho capita anche se ho risposto. Ti va poi di spiegarmela bene una volta che ci vediamo?»; la chiosa, garantisco, è in stile, ndr].

 
Leggi la recensione di Ti amo ma posso spiegarti su Flanerí.