“I fantasmi” di César Aira

Il cantiere di un palazzo in costruzione, a Buenos Aires. La mattina dell’ultimo dell’anno: architetti e arredatori che mostrano lo stato dei lavori, futuri inquilini che capricciosamente rimescolano la disposizione delle stanze, operai cileni che non aspettano altro che il pranzo, ad accorciare, per una volta, la giornata lavorativa. E, come se niente fosse, un plotone di fantasmi che fluttuano nell’aria, sghignazzando qua e là, senza destare il minimo scompiglio.

Nulla di incredibile, non ci siamo imbattuti in una storia per bambini, né in un romanzo fantasy, siamo semplicemente approdati nell’universo narrativo di César Aira, scrittore argentino estremamente prolifico e, a tratti, delirante. Chi già conosce l’autore non si stupirà, infatti, che in una narrazione apparentemente iperrealista, come quella de I fantasmi (edizioni Sur, 2011), il suo ultimo libro, si vadano a inserire elementi del tutto fantastici. Non si tratta di realismo magico, nulla a che vedere con l’atmosfera mitica e favolistica di Macondo: non vi è nulla di più reale – e realistico – della stanchezza di una ventina di operai che lavorano sotto il sole cocente di Buenos Aires, né delle infinite proteste di quattro bimbetti scalmanati che scappano via tra gli appartamenti ancora in costruzione piuttosto di fare la siesta. Non vi è nulla di più reale dei sogni e delle insicurezze della Patri, la giovane protagonista del romanzo, che vive con la sua famiglia in una casetta improvvisata all’ultimo piano dell’edificio perché suo padre, Raul Viñas, un cileno che sognava di fare l’architetto, si è ritrovato in Argentina a fare la guardia al cantiere.

Queste sono le scene alle quali assistiamo, quasi come davanti a un film, perché la scrittura di Aira ci avvolge, inondandoci di dettagli impercettibili, grazie ai quali ogni impressione che abbiamo è profondamente visuale e riconoscibile. Nel contesto apparentemente comune costruito dall’autore, però, ci sono almeno due elementi stranianti, che richiedono piena fiducia e pieno affidamento da parte del lettore: nella calma sospesa e afosa del pomeriggio del 31 dicembre, infatti, nessuno sembra preoccuparsi del fatto che quattro bambini scorrazzino indisturbati per un edificio sprovvisto di ringhiere e protezioni, quasi l’intero palazzo fosse come avvolto da un’immobilità tale da non concepire nemmeno l’idea della caduta; allo stesso modo, nessuno è apparentemente scosso dalla presenza dei fantasmi. Non immaginiamoci paurosi ectoplasmi o lenzuoli bianchi, i fantasmi di Aira sono del tutto simili a uomini nudi con la pelle cosparsa di calce: «Robusti, alti come argentini», dispettosi, appaiono schiamazzando qua e là, sapendo che, oltre ai membri della famiglia Viñas, solo i bambini possono vederli. Tra questi, la Patri è l’unica che riesce a entrarvi in contatto davvero. Li sente ridere e vociare, e ne è perfino attratta: dal suo punto di vista – quello di una ragazzina in crisi, alla ricerca di un amore adolescenziale che curi la sua perenne sensazione di inadeguatezza – quegli uomini semitrasparenti rappresentano l’ignoto, la novità, qualcosa di irripetibile. Come irripetibile è l’occasione che le si presenta quando viene invitata al veglione di Capodanno dei fantasmi. Ne è tanto affascinata da accettare quasi senza esitazioni, forse senza rendersi conto che, per parteciparvi, dovrà essere morta.

È solo verso la fine del romanzo, quando la narrazione sembra decisamente accelerare – celebre è la cosiddetta huida hacia adelante, ovvero lo slancio della scrittura di Aira, sempre protesa verso un finale, per quanto improbabile –, che d’improvviso comprendiamo la storia che abbiamo davanti: non il semplice resoconto, a tratti surreale, di un pomeriggio dell’ultimo dell’anno, ma uno spaccato profondamente realistico e commovente. Tutto è in bilico, tutto è precario, non costruito: il cantiere, la situazione economica della famiglia Viñas, le certezze della Patri, l’arte stessa. Come sempre, la cifra stilistica di Aira unisce alla pura e semplice narrazione ricercate incursioni nel campo della saggistica. Un sogno è il pretesto per un’ampia digressione sull’architettura da un punto di vista sociologico, la scena di madre e figlia davanti alla tv richiama un commento tecnico sulla struttura degli sceneggiati, e così via. Il fulcro continua a essere, in ogni caso, la discussione sulla letteratura stessa: «Il non costruito è caratteristico delle arti che esigono per la loro realizzazione il lavoro retribuito di un gran numero di persone […]. Il caso più tipico è quello del cinema […]. Con le altre arti, in misura maggiore o minore, succede la stessa cosa. Però si potrebbe concepire un’arte nella quale le limitazioni della realtà fossero minime, nella quel il fatto e il non fatto si confondessero, un’arte istantaneamente reale e senza fantasmi. Forse esiste, ed è la letteratura».


(César Aira, I fantasmi, trad. di Raul Schenardi, Sur, 2011, pp. 140, euro 15)

Concerto straordinario per i 70 anni di Maurizio Pollini

Il 18 gennaio 2012 è stato un giorno memorabile per gli appassionati di musica classica. A Roma, alla Sala Santa Cecilia, Maurizio Pollini ha festeggiato i suoi settant’anni suonando, per la prima volta nella sua carriera, Mozart. Ha scelto il Concerto per pianoforte n. 23 K 488, che commosse anche Stalin, e, inutile dirlo, l’interpretazione è stata magistrale. Concerto brillante e vivace, in La maggiore, potente, evocativo, impetuoso, toccante. Dopo un primo movimento introduttivo in cui vengono illustrati i temi della composizione, è soprattutto nell’“allegro assai” che si avverte il genio compositivo del suo autore. Sono note che entrano dentro, che contemperano la gioia e il dolore, soprattutto per il retrogusto sinfonico e i picchi melodici toccati dal concerto. Pollini si abbandona alla partitura riuscendo, da gran maestro, a offrire, sin da subito, un’interpretazione piena di poesia, lirica e impetuosa, intimista e non meccanica.

Ma la serata è stata speciale anche perché Pollini l’ha dedicata alla Fondazione Umberto Veronesi che riceverà l’intero incasso dell’evento per promuovere il progetto Young Investigator Program, che consiste in sessantatré borse di studio per giovani ricercatori da assegnare a marzo.

Nella prima parte della serata, invece, Antonio Pappano ha diretto l’Orchestra del Santa Cecilia ne La scala di seta di Rossini e nella Sinfonia concertante n. 105 di Haydn. Pappano è sempre un direttore molto comunicativo, capace di trasmettere al pubblico la sua straordinaria energia. Riesce a dare risalto a ogni sfumatura, a essere attento su tutti i più piccoli particolari regalando interpretazioni raffinate.

A fine serata, poi, con grande umiltà, si siede al pianoforte e accenna a un “Tanti auguri a te” rivolto al grande pianista milanese rompendo, per un attimo, lo scroscio interminabile di applausi rivolti a Pollini. Un solo bis, in cui si riprende il terzo movimento del concerto di Mozart, e ancora applausi. Adesso attendiamo il pianista milanese per il suo recital previsto per febbraio.


Concerto straordinario per i 70 anni di Maurizio Pollini
direttore Antonio Pappano
pianoforte Maurizio Pollini
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Rossini La Scala di Seta
Haydn Sinfonia Concertante n. 105
Mozart Concerto per pianoforte n. 23 K 488

Andato in scena il 18 gennaio 2012 presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma (Sala Santa Cecilia)

“The Artist” di Michel Hazanavicius

Nel momento storico che viviamo, nel quale la comunicazione, i mezzi di socializzazione ci invadono la vita e la “parola” si dimena per farsi sempre più protagonista, la pellicola di Michel Hazanavicius, The Artist, crea un silenzio raccolto, inaspettato. È così che ogni spettatore si trova immerso in un’atmosfera misteriosa, innaturale e inquieta.
Durante la proiezione, l’intimità coglie tutti, suscitando improvvisamente, “senza voce”, emozioni e suggestioni insolite. 
E pensare che il grande schermo in origine era proprio così: rendeva veramente attoniti e muti vecchi e bambini e stuzzicava l’interpretazione, l’osservazione delle mimiche facciali, degli sguardi.
La parola ha reso tutto più facile, ha creato comunità, insieme.
Il dubbio e la disperazione che attanagliano la mente del protagonista George Valentin, attore di cinema muto, derivano proprio da questo: tradizione o innovazione? Potrà lui, attore di successo, ma di quel cinema, di quell’arte, che vive della fama e del fascino che tale mestiere gli ha donato, cedere alle provocazioni di un mondo che sta cambiando?
L’orgoglio di George, però, tiene testa al produttore cinematografico che preferisce proporre al pubblico la scintillante idea del sonoro e così lui viene scartato.
L’ingresso in scena di una giovane e deliziosa comparsa, che si farà strada grazie al suo fascino femminile e a un seducente neo sul labbro, cambierà definitivamente le carte in tavola: la vita del cinema muto volge al termine.
Ma la trama non si perde in dettagli artificiosi, rispecchia piuttosto un modo più umani di “vedere” gli attori e le loro vite, meno invidiabili di quanto si possa pensare.
Il compromesso avviene quando la giovane starlet, Peppy Miller, decide di aiutare Valentin, del quale è follemente innamorata, in segreto. George Valentin è alla fine: un’asta fallimentare, il lastrico più totale, un incendio che gli devasta casa, e un tentato suicidio.
Eppure nulla è drammatico, perché ogni cosa riporta a un mondo fatto di lustrini e di varietà, di luci e di trucchi, un cagnolino attore e tante ballerine di tip tap, camerini e vestiti scintillanti.
La brillantezza di Hollywood.
Basterà, a Peppy e allo sconsolato George, tentare il tutto per tutto?

“Camminare, una rivoluzione” di Adriano Labbucci

«Se cercate insegnamenti sul camminare all’ultima moda, con tanto di lezioni, corsi e relativi professori, oppure ricette sul camminare come cura di sé, o infine paginate di resoconti che si perdono inevitabilmente tra il noioso e il paranoico, lasciate stare: questo libro non fa per voi».

È così che inizia il volume di Adriano Labbucci uscito per Donzelli, eppure leggendolo ci si accorge che camminare è una cosa che va fatta bene, col ritmo giusto, col passo cadenzato secondo le proprie forze: se si poggia troppo il peso da una parte si rischia di arrivare stanchi, se si va troppo lenti ci si innervosisce. Ecco, camminare segue il tempo naturale e fare le cose secondo questo tempo significa liberarsi dalla schiavitù di fare sempre il più possibile, sempre più in fretta, magari non troppo bene.

E allora camminare diventa una forma di libertà, e se n’erano accorti già gli antichi greci, secondo i quali – per dirlo con le parole di Hannah Arendt – «essere liberi non significava altro che andare in giro a proprio piacimento»; e ce ne accorgiamo anche noi, che viviamo nell’epoca della libera circolazione delle merci ma non delle persone.

Questo libro non parla dunque di marce forzate o di deliziose passeggiate tra monumenti, è più un incontro con la filosofia e la storia del camminare, da Aristotele al Novecento, passando per Kierkegaard, che non conosceva «pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una bella camminata».

(Adriano Labbucci, Camminare, una rivoluzione, Donzelli, 2011, pp. 154, euro 15)

“Il figlio di Babbo Natale” di Sarah Smith

Pare ci sia gran fame di riferimenti classici purché rivisitati, aggiornati, fruibili quasi a mo’ di street food. Favole aggiornate; parola d’ordine originalità a tutti i costi. Mettiamo il caso de Il figlio di Babbo Natale, film d’animazione apparso nelle sale cinematografiche italiane il 23 dicembre e già scomparso, tempo di programmazione un paio di settimane perché il mandato del Babbo è scaduto e ci apprestiamo a svolgere altre trame e cerimonie tra frappe, castagnole, caste e cosche. A breve le produzioni non saranno neanche più stagionali, piuttosto meteore quel tanto che basta a soddisfare emotività del momento. Già il tema in effetti è precario: Babbo Natale è divinità dei consumi (o di quel che resta dei consumi) in servizio qualche ora; esaurito il compito si trasferisce un anno in ghiacciaia. Nel film animato diretto da Sarah Smith, prodotto per conto della Sony dagli studi britannici Aardman Animations, autori di movie in plastilina, dei successi Galline in fuga e Giù per il tubo e dell’indefinito Gnomeo e Giulietta, scopriamo che Santa Claus è divinità dei consumi una e trina, perché ha famiglia, moglie e due figli. Ecco la novità. Anzi se per questo ha anche un padre, Nonno Natale di 136 anni, una dinastia di antenati che va fino al capostipite San Nicola, una organizzazione altamente tecnologica per fare il giro del mondo e portare i regali a tutti i bambini, una sala comandi che neanche il Pentagono, una mega slitta astronave e un esercito di elfi. Con Il figlio di Babbo Natale si va quindi alle origini del Natale, cercando soluzioni alternative alla “vulgata” e raschiando il fondo del barile in tema. Un figlio di Babbo Natale si chiama Arthur, è imbranato e idealista, appena si muove fa danni e per questo è stato relegato nella polverosa e cartacea stanzetta di smistamento posta mentre tutta la complessa organizzazione della consegna regali è affidata al fratello maggiore Steve, un fanatico paramilitare che conta di sostituirsi presto al padre, in carica ormai da settant’anni.

E pensare che Babbo Natale finora passava per essere un solitario un po’ tocco, senza figli né moglie, con al seguito al limite folletti aiutanti e le renne che chiama per nome. Il film invece si incarica di farne un capofamiglia e di rispondere ai dubbi dei bambini: «Come fa Babbo Natale a portare così tanti regali in tutto il mondo in una sola notte? Come passa dai camini che, tra l’altro, non ci sono più?» La pellicola dà risposte anche a questo attivando fantasia all’uopo. Interessante è il fatto che è giusto un secolo che il cinema lavora per consolidare lo spirito del Natale. La prima versione cinematografica di Canto di Natale di Dickens è un film muto del 1911; la più recente è quella del 2009 di Robert Zemeckis realizzata in tecnica mista dalla Walt Disney. Pietre miliari del genere sono e restano La vita è meravigliosa di Frank Capra del 1946 e Miracolo nella 34a strada di George Seaton del 1947. Da quel momento l’elenco di film dedicati a Babbo Natale o al Natale è lungo, persino deprimente. È vero che il film cerca di dare una svolta alla faccenda in chiave umoristica e leggera con un’idea originale: Babbo Natale è uno che presto o tardi deve andare in pensione, anche se gli attuali governi non ce lo farebbero andare, e si pone il problema del turn over. Arthur Christmas (titolo originale del film) è il degno successore proprio perché ipocondriaco, goffo, sensibile alla magia ma non pratico di tecnologia. Sarà lui a scovare la falla nel sistema che rischia di far incrinare il mito del Natale e a salvare il salvabile. In combutta con Nonno Natale, a bordo di una slitta antiquata guidata da renne che vanno perdendosi nel cielo, realizzerà una missione pressoché impossibile: portare il regalo a una bambina dall’altra parte del pianeta che è stata saltata dal sistema ipertecnologico. Perché conta anche il minuscolo individuo perso nel mondo. Così, diventando percorso formativo del personaggio antieroe, la pellicola fa trionfare lo spirito natalizio come rivincita del marginale e inatteso. Retorica o no, ogni stagione commerciale ha la sua divinità da immortalare: l’anno scorso è comparso Hop, film dedicato al coniglietto pasquale, d’esportazione americana, a glorificare una festa da noi meno sentita. Inevitabile poi che anche le creazioni riuscite si pongano sulla scia di invenzioni antichissime, se non millenarie. Si propongono versioni alternative zeppe di messaggi delicati che uniscono al diletto l’utile del botteghino. Il consumismo “sentimentale” e light è pur sempre consumismo e noi siamo dentro il caravan serraglio e la slitta di consumi farciti di messaggi di valore. Ci vorrebbe l’irruzione sullo schermo di un dio Mitra in tutte le stagioni a riportarci al vero spirito della vita come incessante nascita: sacrificio del toro, la bestia in noi, lotta contro le tenebre, esaltazione della luce, delle energie rinnovabili e soprattutto di quelle non rinnovabili del nostro pianeta.

“L’aventure des Stein” al Grand Palais di Parigi

Grazie a una proroga dovuta all’altissima affluenza, è possibile visitare ancora per pochi giorni (fino al 22 gennaio) la mostra, ospitata al Grand Palais di Parigi, sulla collezione degli Stein, illuminata famiglia di mecenati americani (di origine ebraica) stabilitisi a Parigi a partire dai primi del 900.

Sin dalla prima sala si è in grado di farsi un’idea piuttosto precisa della rilevanza delle opere esposte, o meglio ancora sin dalla primissima tela, un quadro di piccole dimensioni di Cézanne, “Les Baigneurs, grand planche”, caratterizzato da un tratto veloce e dalla solita proverbiale cura delle ovattate volumetrie.

A questo fanno seguito altri lavori dell’artista di Aix-en-Provence sullo stesso soggetto e, subito dopo, alcuni dei famosissimi studi di Degas sulle ballerine colte nelle più dissimili e fortemente innaturali pose.

Passando poi alla seconda sala, dopo essersi lasciati alle spalle alcune copie originali di testi che, per un verso o per l’altro, hanno giocato un ruolo importante nella vita e nella formazione della grande famiglia di collezionisti (come un’edizione del 1902 di La varietà dell’esperienza religiosa: uno studio sulla natura umana dello psicologo e filosofo William James, del quale Gertrude Stein seguì alcuni corsi al tempo dei suoi studi di medicina e psicologia), possiamo godere della sensualità della grande tela di Bonnard “La sieste”, raffigurante una ragazza distesa a pancia in sotto su un letto, dormiente e all’apparenza estremamente rilassata, i cui glutei e le cui gambe sono delicatamente lambiti dalla luce che penetra da una finestra che ci è dato solo immaginare.

Altre rappresentazioni femminili presenti sulla stessa parete sono “Nu bleu” di Matisse – figura dalla corporeità prominente – e “Grand nu allongé au coussin jaune” di Vallotton, una donna la cui serena levigatezza è resa ammiccante dall’espressione e dal morbido gesto del braccio abbandonato al bordo del letto.
Sulla parete opposta vi sono poi alcune magnifiche opere di Picasso: l’enorme e solenne tela “Meneur de cheval nu” – dove sembra regnare una misteriosa fissità mista a un assoluto e spettrale silenzio; il rarefatto, malinconico e cupo “Nu assis” e la straordinaria “Femme à l’eventail”, una figura dalla gestualità magica ed ermetica, dal profilo di un’inumana e quasi iconica rigidità e dalla posa magnetica capace di ammaliare anche ad una rapidissima e lontana occhiata.
Si arriva così ai coloratissimi e luminosi “Etude de femme chouchée” di Henri Manguin e “La gitane” di Matisse, per giungere quindi a quell’esplosione di vitalità che è “La femme au chapeau” sempre di Matisse – la cui donna in questione possiede però uno sguardo nostalgico (o forse semplicemente annoiato) che in qualche modo si oppone all’estrema vivacità della tavolozza.

Nella terza sala troviamo invece una serie di interessanti inchiostri su carta di Matisse e Picasso e l’attenzione è presto richiamata dagli strani e seducenti volumi e proporzioni delle figure di quest’ultimo.

Di notevole impatto sono poi, a mio parere, “Garcon à la bouteille de lait” (ancora Picasso), lavoro – i cui colori ricordano il già citato “Nu assis” in cui la condizione di miseria del soggetto ritratto sembra essere sottolineata con immensa partecipazione emotiva; la grande tela di Marie Laurencin “Apollinaire et ses amis”, un tripudio di eleganti linee curve; il ritratto meditabondo di Allan Stein eseguito sempre da Picasso e quello di Matisse dal titolo “Autoportrait”, in cui dominano tinte bluastre che illuminano l’espressione attenta e quasi severa dell’artista francese.

Le ultime sale del piano, quasi interamente dedicate a Matisse (di cui gli Stein furono grandi amici nonché primi e appassionati compratori) ci presentano – dopo “Femme assise au fichu”, ennesimo personaggio picassiano dall’atteggiamento malinconico e stanco – una serie di sfavillanti dipinti a olio su tela (soprattutto nudi) del maestro del fauvismo, in alcuni dei quali le figure tendono fortemente a confondersi con lo sfondo.

Per quanto riguarda Matisse segnaliamo ancora, continuando, “Paysage d’automne. La foret de Fontainebleau”, tela dai colori fortemente contrastanti (dominano il giallo degli alberi di mimose e il rosa del resto della vegetazione) e dal segno delicato e sinuoso; “Buffet et table”, febbricitante e rigogliosa opera puntillista, tripudio di luce, colore e “joie de vivre”; lo spigoloso ritratto di Michael Stein, dalle tinte terrose e dalla frontalità quasi perfetta; il grande olio su tela“Le thé dans le jardin”, con la luce che, filtrando attraverso gli alberi, crea grosse chiazze luminose in terra; e infine, in mezzo a opere di qualche suo allievo – nel 1908 Sarah Stein lo incoraggia infatti ad aprire un’accademia – gli interessanti “Nu debout. Le modèle”, la cui inquadratura leggermente dal basso rende l’immagine spiccatamente statuaria, e “Homme nu”, entrambi eseguiti con colori grigiastri, violacei e verdastri.

La parte conclusiva dell’esposizione, al piano inferiore, è invece una mastodontica carrellata (unita a qualche sporadico intervento di altri autori) di opere delle varie fasi della produzione di Picasso (anche lui molto legato agli Stein).

Una prima sezione è dedicata al rapporto di intima amicizia tra lui e la scrittrice d’avanguardia Gertrude, amicizia suggellata dal ritratto che egli realizza nel 1906 ispirandosi a un altro dipinto, anch’esso presente in mostra, “La femme de l’artiste dans un fauteil” di Cézanne.

Gertrude è raffigurata da Picasso seduta, con le mani sulle ginocchia e l’aria pensosa, in una stanza dallo sfondo quasi indistinto; le viene affiancato il dipinto (solo di un anno più tardo ma stilisticamente lontano anni luce) scelto per pubblicizzare l’evento, ovvero “Nu à la serviette”, un ritratto di donna dall’anatomia e dai lineamenti radicalmente semplificati e distorti sul genere, per intenderci, di “Les Demoiselles d’Avignon” di cui, tra l’altro, gli Stein acquistano diversi studi qui esposti, importanti testimonianze di una fase precubista dello spagnolo, all’inizio poco compresa dai più.

Si passa così alla penultima sala, dedicata al periodo cubista dell’artista di Malaga, dove spiccano “Buste de femme (Fernande)”; la composizione a grandi tasselli di diversi colori “Homme à la guitare” nel quale, in linea col proclamato spirito di decostruzione radicale e di frammentaria ripetizione di oggetti sotto differenti prospettive, è decisamente difficile distinguere sia l’uomo che la chitarra in questione; e il più che mai affine “Femme à la guitare”, articolato assemblaggio di varie forme tra le quali è possibile intravedere, all’apparenza unico spunto antropomorfico, l’accenno di un sorriso.

L’ultima sala è infine dedicata al post-cubismo e al “neo-romanticismo” e ospita lavori come quelli di Juan Gris, Picabia (ad esempio “Les Acrobates”, tela che sa di omaggio al Picasso dei soggetti circensi, ma dove vi è un gusto per contorni decisamente più marcati) e, dulcis in fundo, la scultura in bronzo di Jo Davidson raffigurante, ancora una volta, Gertrude Stein seduta a gambe incrociate e rappresentata come estremamente corpulenta, veicolante una fisicità quasi monovolumetrica.


Matisse, Cézanne, Picasso… L’aventure des Stein
Parigi, Les Galeries nationales du Grand Palais
fino al 22 gennario 2012

“Imaginaerum” dei Nightwish

Il 2011 ci ha lasciato sparando, tra le sue ultime cartucce, il nuovo album dei Nightwish, Imaginaerum.

Il settimo lavoro della band finlandese (secondo interpretato dalla voce di Anette Olzon che ha rimpiazzato Tarja Turunen, uscita dal gruppo nel 2005) portava con sé molte aspettative, legate a diversi fattori.

Da una parte prosegue la discussione sul valore di Anette, soprattutto nel paragone con la voce e con le emozioni che ha regalato Tarja; dall’altra i Nightwish hanno presentato a dicembre un lavoro ben più ambizioso di un semplice album: Imaginaerum infatti si presenta come colonna sonora dell’omonimo film, in uscita nel 2012.

Ideata e scritta da Tuomas Holopainen (tastiera e compositore della band), la pellicola racconterà la storia di un vecchio compositore ormai prossimo alla morte con un’immaginazione originale e unica che spesso lo porta a pensare di essere ancora fanciullo, che nel mondo onirico mescola i propri sogni di anziano con il mondo di fantasia e le musiche della propria gioventù.
Nel suo lungo viaggio l’uomo troverà tutti i ricordi più importanti della sua intera vita, fino ad arrivare all’inevitabile istante della morte.

Imaginaerum non è soltanto un insieme di canzoni, dunque, ma si rivela essere un vero e proprio “giro sulle giostre della vita” (come fatto capire da Holopainen e dalla stessa copertina dell’album, l’ingresso di una parco giochi ormai abbandonato) da vivere sulla propria pelle e nella mente oltre che nelle orecchie.

La prima traccia dell’album, “Taikatalvi”, sembra infatti una ninna nanna in lingua finlandese, anticipata da un rumore di carica come di un carillon che comincia a suonare per accompagnare l’ascoltatore nel mondo del sogno.

I toni cambiano in “Storytime”, con cui inizia il viaggio attraverso l’immaginazione del bambino, prima di ricordare che il tempo della gioventù è ormai finito e irrecuperabile. Il ritmo incalzante e decisamente orecchiabile di questa canzone l’hanno resa il primo singolo estratto da Imaginaerum.

Il viaggio continua con “Ghost River”, ma cambia radicalmente direzione quando si arriva a “Slow, Love, Slow”.

La rabbia, i sentimenti più prorompenti lasciano spazio a una canzone più lenta ma decisamente più sensuale, ispirata dalla musica dei nightclub americani di oltre 50 anni fa. Vengono a galla la passione, un amore più corporale e meno platonico, destinato però a spegnersi in una tromba lontana e un ticchettio che porta al ritorno dei ritmi precedenti, con “I Want My Tears Back”.

La successiva “Scaretale” richiama alla mente tutte le paure e gli incubi che accompagnano ognuno di noi durante l’infanzia e la crescita. Anche la voce di Anette cambia registro per introdurci nell’atmosfera di un circo degli orrori, che porta con sé un alone di mistero e angoscia.

Dopo la strumentale “Arabesque”, creata appositamente per essere inserita nel film, “Turn Loose The Mermaids” ci regala un’atmosfera più incantevole e gradita. Una magnifica ballata che si pone però come preludio a una fine che sembra sempre più vicina, ormai.

“Rest Calm” ne è la prova. La sensazione è che la morte si faccia sempre più incalzante. Il vecchio compositore, accompagnato da un ritmo angosciante e pieno di forza, vuole portare dentro di sé tutti i ricordi della sua vita; tutte le facce conosciute, tutti i migliori e i peggiori momenti riposano nel sogno, in attesa di riemergere di nuovo.

Ma a questo punto la fine è inevitabile, non c’è più modo di tornare indietro, non c’è più possibilità di attendere. In “The Crow, The Owl and The Dove” il ritmo cambia nuovamente. La morte è ormai a un passo, la consapevolezza prende il posto dell’angoscia e allora la mente si prepara a un destino inevitabile, anticipato da “Last Ride Of The Day”.

Il suono è incalzante, è potente, ma è anche pieno di sicurezza: il compositore non ha rimpianti, ha vissuto la sua vita ed è ormai pronto a vederla finire. Anche in questo caso il titolo ci suggerisce esattamente il messaggio della canzone: “L’ultimo giro del giorno” annuncia la morte ormai alle porte.

A decretare la fine è “Song Of Myself”, il lavoro più imponente dell’album. La traccia, che dura quasi quattordici minuti, si divide in una parte cantata, dove la voce di Anette è accompagnata da un coro, e un dialogo successivo in cui gli strumenti fanno da sottofondo a un dialogo tra due adulti (un uomo e una donna) e un bambino. Quello che ne segue non è facile da spiegare, ma va letto e apprezzato per alcuni passi quali: «Come puoi essere semplicemente te stesso se non sai nemmeno chi sei? Smettila di dire “so come ti senti”, come può qualcuno sapere come sta un altro?» Una lunga indagine sulla vita e sulle azioni degli uomini, che chiude la storia, il cerchio dell’esistenza e, di conseguenza, anche Imaginaerum.

In realtà un’ultima traccia, che ha lo stesso nome dell’album, è presente. Ma porta con sé i titoli di coda di questo lavoro, con un lungo medley  tra tutte le canzoni dell’album.

A conti fatti Imaginaerum è più di un semplice nuovo disco, Anette si rivela essere più di un semplice rimpiazzo per Tarja e sicuramente questo viaggio merita più di un complimento.

Taggami pure, ma non toccarmi

Una mia cara amica ha cambiato la foto del suo profilo, di recente (Facebook, certo…). Per qualche ora l’ha lasciata com’era: io le cingo castamente una spalla e rido, in piedi, accanto a lei seduta. Rido felice della presenza sua come di quella di altri, tanti, per la prima volta in una casa mia (non del tutto: è mia mese per mese) a celebrare una ricorrenza per troppi anni lasciata cadere nelle pastoie delle mie depressioni.

Poi l’ha tagliata, la foto-profilo. Ha tagliato me. Rimane la mano, posata non a ghermire (e si vede). Allegoria perfetta dei tempi, questa rimozione.

Intendiamoci: io le voglio bene, ma non quel bene. Chi ci conosce lo sa, e credo mai avrebbe dubitato di scopi (timbro aperto) “altri”. La rimozione è allegorica: rende la presunzione (etimologica) imposta (dal consumo) di dover imparare a poter bastare a noi stessi. Rende la rivendicazione di essere noi, artefici degli stati d’animo che ci rendono belli tanto da meritare di farci copertina dei nostri album (alba?!) digitali. La mia amica ha ritagliato la causa del suo sorriso e della sua raggiante bellezza: io, la situazione, la sua stessa presenza lì a onorare il mio invito.

Dovremmo resistere a questo complotto pro-singletudine. Resistere con tutta l’energia di cui siamo capaci nelle rivolte perché… non è così che funziona. Non siamo belli affascinanti profondi attraenti desiderabili di per nostro: lo siamo in relazione.

Mi si dice spesso (vanitas vanitatum) che sono bello. Buffo, perché mi viene detto sempre dopo che ho espresso il mio io più vero in relazione. Che per me poi significa servire secondo talento il prossimo. In soldoni, mi si dice che sono bello dopo una lezione, dopo una chiacchierata di taglio personale, dopo che ho saputo sacrificare il mio utile a quello comune o altrui. Io mi diverto così: evidentemente traspare. Dal cuore agli occhi, che ne so io: mi specchio, come la mia amica sa, di rado.

Mi pare così ovvio, il meccanismo, ma non mi riesce di farlo intendere (e che follia, che altra donna non s’avveda di quanto bella si fa quando le ronzo attorno!). Non mi riesce, specie se uso quelle parole. Capisco il rifiuto del sentore liturgico (che ci posso fare?! è il mio lessico!), ma c’è altro: c’è una barriera di preconcetto. Bello ormai è sexy, sexy è seducente, seducente è ben vestito, ben vestito è tonico, tonico è a dieta, a dieta è palestrato, è…

È quell’odioso indaffaratismo che sta avvelenando ogni relazione. Rapacizzandola. Hic et nunc, tutto. Last minute anche dei sorrisi.

No, non mi offende esser stato tagliato via (tanto la mano resta, e pure il braccio…). Mi preoccupa il bisogno di essere monade. L’impulso al me, centro di ogni accadimento e sensazione. Uomini isola, posture in posa, sorrisi autoreferenziali. Promozionali.

Il rischio è la relazione, l’evento, senza spin-off

Considerazioni sul Ces di Las Vegas

È tempo di tirare le somme, una volta spentesi le luci, sull’edizione 2012 del Consumer Electronic Show di Las Vegas.
La novità che più ha colpito l’immaginario degli addetti ai lavori è senza ombra di dubbio la linea di Ultrabook presentata da Intel. Questa categoria di portatili, che strizza l’occhio ai tablet, è stata creata dall’intuizione/necessità di alcuni produttori di rivitalizzare un mercato, quello dei laptop, che sembra avviato a un inesorabile declino. Gli Ultrabook sono dei veri e propri notebook, ma con alcune differenze: presentano uno spessore e un peso minimi – in media si parla di circa 20 mm per 1,3 kg – e sarebbero dotati di una batteria con durata variabile dalle cinque alle otto ore; consentirebbero inoltre un avvio veloce, garantendo al contempo delle prestazioni superiori ai tablet, e si avvicinerebbero per potenza di calcolo a un normale personal computer. Intel, durante il Ces, ha mostrato degli Ultrabook con schermo touch. Il costo di tali prodotti si aggirerebbe intorno ai 1.000 dollari. Secondo alcuni però non si tratterebbe di una novità, ma di una risposta (con quattro anni di ritardo) all’uscita del MacBook Air di Apple. Comunque una spinta al mercato del mobile computing.
Sul fronte dei tablet uno degli annunci più efficaci che si è sentito a Las Vegas è stato quello che hanno portato congiuntamente i CEO di Nvidia e Asus per quanto riguarda il loro nuovo tablet quad-core da 7 pollici con Tegra 3: l’EeePadMeMoME370T. Il tablet in questione sarebbe equipaggiato con il sistema operativo Android 4.0 e verrebbe venduto a 249 dollari, un prezzo veramente concorrenziale. L’idea è che con questa mossa i due colossi puntino al mercato dei tablet low cost, per ora regno incontrastato di Amazon Kindle Fire e del Nook Tablet.

Molte perplessità ha generato la notizia dell’intenzione, da parte di Toshiba, di produrre nel 2012 un tablet dalle dimensioni inedite: 13.3 pollici. Di questo maxi-tablet non si sa ancora molto, se non che secondo i piani alti della casa giapponese sia destinato a quanti desiderino un tablet di dimensioni maggiorate rispetto alla media. Un bel prodotto che è stato presentato, sempre in ambito tablet, è senz’altro l’Acer Iconia Tab A700, dotato di piattaforma Nvidia Tegra 3; questo tablet, dalle forme estetiche classiche, è in grado di offrire una risoluzione Full HD (1920×1080) sul suo schermo da 10,1 pollici, e pesa soltanto 650 grammi. Acer inoltre garantisce per il suo tablet un’autonomia di circa 10 ore.
Affascinante la proposta di Lenovo che, con il suo IdeaPad YOGA, ha creato quello che all’apparenza sembra essere il più classico dei notebook (sistema operativo Windows 8), ma che una volta capovolto si trasforma in un tablet multitouch; dal peso complessivo di 1,4 kg, con uno spessore di 17 mm e uno schermo da 13,3 pollici, il prezzo previsto alla sua uscita dovrebbe essere intorno ai 1.199 dollari.

Il titolo di “Best of Ces”, per quanto concerne la categoria telefonia mobile, è stato assegnato allo smartphone di Microsoft, il Nokia Lumia 900, grazie alle sue caratteristiche tecniche ed estetiche all’avanguardia. Questo Windows Phone presenta, tra le sue caratteristiche principali, un display AMOLED Clear Black da 4,3 pollici con risoluzione WVGA 480×800 pixel, e un processore Qualcomm Snapdragon APQ8055+MDM9200 a 1,4 Ghz. Il Nokia Lumia 900 disporrebbe inoltre di un’autonomia massima di 7 ore in conversazione e di 300 ore in standby.
Questo è stato anche l’anno della OLED TV a marchio Samsung. Questa linea di televisori sarà in grado di offrire prestazioni avanzate grazie all’utilizzo di processori dual-core. Questi nuovi modelli garantiranno risoluzione e definizione delle immagini di altissima qualità. Grazie all’ausilio di una videocamera integrata si potrà permettere all’utente di controllare la tv con i soli movimenti delle mani e i comandi della voce. Ulteriore possibilità è quella offerta dalla funzione di “Smart Evolution”, che consentirà, a chi lo volesse, di sostituire il processore per garantirsi nel tempo un prodotto sempre al passo con le innovazioni tecniche, senza dover cambiare tutto l’apparecchio. Esattamente quello che avviene con i computer attuali.

Sul fronte degli eBook Reader, poche le novità: soprattutto tecnologie tutte ancora da implementare per migliorarne prestazioni e funzionalità. Arriva dalla Cina, però, l’annuncio di un Reader a inchiostro elettronico particolare: Hanvon, il maggior produttore di eReader del Sol Levante, in collaborazione con Mirasol, ha rivelato il suo Hanvon C18, dotato di schermo e-Ink a colori! Le specifiche tecniche promettono un prodotto niente male: schermo Mirasol da 5,7 pollici, risoluzione 1024×768 pixel, processore Snapdragon S2 da 1 GHz, autonomia di circa 3 settimane se utilizzato 30 minuti al giorno senza wifi; il sistema operativo è Android 2.3, ampiamente personalizzato dall’azienda produttrice. Inoltre, c’è il coreano Kyobo Reader, molto simile all’Hanvon C18. Eccolo in video:

 

 

In conclusione, sebbene di prodotti tecnologicamente avanzati non ne siano mancati, di sicuro non c’è stato nulla che abbia mostrato idee nuove rispetto a quanto sia già presente sul mercato. Se lo scorso anno a farla da padroni erano stati i tablet, l’edizione 2012 non ha riservato sorprese in tal senso. Certo, si sono viste tante belle novità, con migliorie che sempre più raffinate escono dai laboratori delle diverse case costruttrici, ma nulla di eclatante si è avuto modo di ammirare sul piano delle idee. Secondo molti quello di quest’anno sarebbe stato solo un allestimento di passaggio, e probabilmente non sbagliano. Ma la domanda, a questo punto, sorge spontanea: passaggio verso cosa?

 

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“Una solitudine troppo rumorosa” di Andrea Renzi

Schiacciare il mondo, compattarlo, comprimere la materia fino a farla collassare su se stessa. Perché «solo quando siamo schiacciati noi diamo il meglio». Hanta è rinchiuso in un anonimo scantinato di un’anonima città, la storia fuori fluisce, mentre Hanta la demarca con il solo ausilio delle pagine di giornale e dei libri che getterà nella sua pressa meccanica. Hanta è perciò fuori dal mondo, ma è allo stesso tempo uno dei più degni personaggi partoriti dal mondo con cui non interagisce. Eppure, in una realtà chiusa e aberrante, il personaggio dello scrittore Bohumil Hrabal è riuscito a mantenere le sue radici. Queste radici sono fatte di ricordi di una gioventù forse prosaica, ma palpabile, verace. Pochi amori, scossi dalle vibrazioni della storia, penetrate persino nella vita di un emarginato. Ricordi di una zingara silenziosamente amorosa, scomparsa poi improvvisamente alle soglie della seconda guerra mondiale. La vita di Hanta è scandita dal ritmo della sua pressa meccanica, oggetto venerato, ma anche unica amante di chi è stato scippato della dignità della sua esistenza. Tuttavia all’apparente inconsapevolezza storica e sociale della sua condizione, Hanta non associa mai l’incoscienza esistenziale ed emotiva. È proprio la consistenza marcata del personaggio dinnanzi ai travolgenti cambiamenti sociali e ingegneristici del ’900 che ne rivela tutta la possanza. Hanta è sì il rabbioso e instancabile compressore delle parole della sua epoca, ma è anche il taciturno osservatore delle aberrazioni che si producono persino nel suo ambiente chiuso. Tra queste l’avvento della pressa idraulica, gli operai sempre più attratti da viaggi in altri paesi e sempre meno attaccati a quelle piccole particelle di realtà distanti che si rintracciano nei libri, e che, come un puzzle, si collegano coerentemente grazie alla fantasia. Hanta narra i malumori di una vita, le allucinazioni dell’alcool, il suo disperato avvinghiarsi a uno strumento meccanico innalzato a simbolo della sua esistenza, fino all’ultimo scacco della società che l’ha recluso: la perdita del lavoro. È qui che si concepisce la cifra drammatica, quasi romantica, di un uomo che faceva dei pacchi di carta pressata un atto colmo di potenza artistica, insinuando tra le pagine dei giornali i capolavori della letteratura mondiale.

Il tema del contatto, dell’esposizione al fluire della vita è esaltato nella messa in scena di Andrea Renzi. Hanta (Andrea Renzi) sembra aver perso il contatto con il mondo, eppure ne sfiora i contorni toccando le pagine dei grandi libri gettati da altri. La fine dell’interazione materiale sarà anche la cesura del cordone ombelicale che nutriva l’animo di Hanta. Doppiamente sconfitto, Hanta non potrà che abbandonarsi alle sue fantasie clastiche, prima rivolte verso il mondo che l’ha emarginato e poi dirette verso se stesso. Andrea Renzi si cimenta in un lavoro di complessità notevole, continuamente in bilico nell’interpretare il recalcitrante gergo da emigrato di Hanta. Il rischio di perdere il ritmo e la scansione delle battute è sfiorato più volte, ma Renzi pare riuscir sempre a ritrovare il personaggio e a coglierne allo stesso tempo la vivida schiettezza e la spontanea complessità, in una commistione di cui sa anche calibrare bene la componente drammatica. Dice Hrabal del suo romanzo: «Non ho tentato di scrivere null’altro se non che da noi un’epoca finiva e un’altra cominciava. […] Si era spezzata un’asse di un’epoca che era durata secoli e il mio eroe Hanta si è trovato nel luogo della rottura ed è stato investito dalle schegge».


Una solitudine troppo rumorosa
di Bohumil Hrabal
scena e regia Andrea Renzi
con Andrea Renzi e Giulia Pica
suono Daghi Rondanini

Andato in scena dal 6 al 15 gennaio 2012 al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli

“L’uomo che inventò se stesso” di Emilio Ravel

Affascinante seduttore, libertino impenitente, baro, delatore, giocatore dissoluto, affiliato della massoneria, mago, millantatore, avventuriero, filosofo raffinato del «Copulo ergo sum» e scrittore enciclopedico. Tutto questo e molto altro fu Giacomo Casanova (1725-1798).

Ispirandosi all’Histoire de ma vie, arricchita e filtrata da un’accurata documentazione, Emilio Ravel (alias Emilio Raveggi), noto giornalista e autore televisivo, uno dei pionieri della Rai, inviato prima e caporedattore poi di Tv7, curatore di numerosi programmi e rubriche, ci restituisce in L’uomo che inventò se stesso. Vita e commedia di Giacomo Casanova, un più autentico ritratto del veneziano di umili origini. Infatti Giacomo era figlio di una bella commediante, Zanetta Farussi detta la Buranella, di cui si invaghì anche Goldoni che compose per lei un intermezzo divertente e osé, La pupilla sulla relazione della attricetta con il suo capocomico, e di un mediocre ballerino di second’ordine, Gaetano Casanova, marito senza spina dorsale che permetteva ai più illustri nobili d’Europa di godere delle grazie di sua moglie.

Casanova ebbe ben centosedici donne. Tutte un po’ amate dal simpatico farabutto, a differenza dell’algido Don Giovanni mozartiano-dapontiano, salvo poi fuggirne. Oltre che donnaiolo fu anche un femminista ante litteram: scrisse un libello, Lana caprina in cui sosteneva che fossero piuttosto gli uomini vittime dei propri istinti sessuali anziché la donna del proprio utero.

In quel perpetuo carnevale che fu la sua vita, ogni giorno davvero inventava se stesso cambiando continuamente maschera: «Non vive, gioca a vivere». Con ogni mezzo lecito e soprattutto illecito cercò di entrare a far parte di quella classe aristocratica che lo canzonava e respingeva. Si inventò perfino di essere il figlio illegittimo di Michele Grimani, nobile patrizio, proprietario del teatro San Samuele di Venezia dove lavoravano i genitori. Un profondo sentimento di inferiorità e un pungente desiderio di riscatto lo spinsero per mezza Europa alla ricerca di quella protezione e affetto, mai godute, da donne, ma anche da uomini importanti: da Matteo Giovanni Bragadin, nobile a cui Giacomo aveva salvato la vita, che gli garantirà fino alla morte affetto paterno e vitalizio, passando per sovrani (Giuseppe II d’Austria, Stanislao Augusto I di Polonia, il re di Francia), conti, letterati (fu amico di Voltaire con cui ebbe accese dispute), fino all’amicizia con il principe de Ligne che «fissò in una frase questo risvolto del suo carattere: “Il est fier parce qu’il n’est rien!». Ogni mattina il sedicente “Cavaliere di Seingalt” lottava con il nulla da cui proveniva: «Casanova però poteva contare sulla sua fantasia, sul suo carattere, sulla sua eccezionale improntitudine nell’escogitare ogni giorno un coup de théâtre nella commedia della vita».

La sua vita fu davvero un’eterna commedia ricca di effetti speciali, di cadute e di risalite, di prigionia e fughe, di gioie da giovane grande viveur e di malinconie da vecchio scorbutico bibliotecario ormai impotente. Gli eventi cruciali, quali la reclusione e la fuga dai Piombi, l’amore per Henriette, il duello d’onore con un nobile polacco e, infine, l’esilio nel castello di Dux in Belgio, ospite del conte Waldstein, dove si dedicò alla scrittura delle sua autobiografia, sono riferiti dalla viva voce di Giacomo. Questi brani, capaci di restituirci l’atmosfera e il costume del secolo dei Lumi, inseriti da Ravel e tratti dalle Memorie casanoviane, sono gli intermezzi di un racconto fluente, ironico e accattivante di questo saggio che ha le movenze di un romanzo.

Il sipario si chiude lasciando sul palcoscenico un uomo ormai vecchio e sdentato che si congeda dal mondo con un ultima battuta teatrale: «Gran Dio e voi testimoni della mia morte, ricordate che ho vissuto da filosofo e che muoio da cristiano!».

Non fu certo un’esistenza esemplare quella di Casanova, ma sicuramente originale: l’interesse e le discussioni che da sempre suscita la fama di quest’uomo non possono, del resto, lasciare dubbi a riguardo.

(Emilio Ravel, L’uomo che inventò se stesso. Vita e commedia di Giacomo Casanova, La Lepre Edizioni, 2011, pp. 346, euro 22) 

“Roma città aperta” per la prima volta in versione restaurata

Lascia sempre una ferita Roma città aperta di Roberto Rossellini. Un film che le nuove generazioni dovrebbero conoscere a memoria e presentato oggi, per la prima volta, in versione restaurata su supporto dvd oltre che in alta definizione su supporto Blu-Ray. Il lavoro di restauro è stato compiuto grazie al Progetto Rossellini e l’edizione Home Video, oltre al film, presenta una serie di contenuti d’approfondimento che impreziosiscono l’edizione.

Roma città aperta è Storia, con la S maiuscola, e documento fondamentale per raccontare un periodo oscuro del Novecento italiano. Lo ribadisce negli extra anche Renzo Rossellini, che racconta la genesi del film e i suoi retroscena. L’idea geniale di Roberto Rossellini è stata quella di fotografare la Storia senza manipolarla, stravolgendo il concetto classico di cinema. Etichettato come “neorealista”, il cinema di Rossellini va in realtà oltre ogni catalogazione perché epico e vero nel mostrare la miseria di quegli anni. È proprio l’ardore di un Rossellini non ancora pienamente maturo a rendere il film speciale, sincero, ritratto di una Roma devastata dai bombardamenti e dalla violenza nazifascista. Solo dalle macerie si riesce a costruire dell’arte vera e, come ebbe modo di scrivere Di Giammatteo, Rossellini riesce a essere fuori e dentro il cinema. Il fascino del film, ancora immutato oggi, è dovuto alla mancanza di mediazioni tra il cinema e la storia: non è presente una drammaturgia complessa in primo piano, che potrebbe sovrastare la potenza delle immagini, ma la tragicità di quel momento storico viene analizzata con sguardo fisso, asettico, non ci sono personalismi. Una storia lineare che vede come protagonisti un prete antifascista – un immenso Aldo Fabrizi – e una popolana – straordinaria Anna Magnani –; attorno a queste due figure ruotano situazioni e personaggi la cui sorte verrà irrimediabilmente segnata. Non ci sono spiragli di luce né letture ottimistiche, nonostante alcuni dialoghi di speranza, ma viene semplicemente consegnato un documento indispensabile, unico, che ispirerà seminalmente i francesi della Nouvelle Vague. Da possedere e custodire gelosamente nella propria videoteca.