“La porta sbarrata” di Edith Wharton

Virtuosistico pezzo di bravura, questo La porta sbarrata di Edith Wharton, a cura di Angelica Chondrogiannis, per la prima volta tradotto in italiano a così tanti anni di distanza dalla sua prima uscita, sullo Scribner’s Magazine del marzo 1909. La raffinatissima arte letteraria della scrittrice americana (ma che, proprio come il suo mentore-amico Henry James, finì per cedere al fascino del “vecchio mondo” europeo in cui trascorse la propria maturità, fino alla morte) andrebbe magari additata come esempio a più di un raffazzonato e successoso vendi mila-copie italiano, ma può in ogni caso costituire fonte di sottile, sublime piacere intellettuale per lettori del tipo (se ci è lecito cedere a un’assonanza martellataci in testa dalla pubblicità) «che non si accontenta».

Come non gustare, infatti, la sottile abilità narrativa con cui sono costruite queste 80 pagine che solo nelle più grossolane apparenze risultano un giallo, con tanto di delitto, assassino e finale punizione del medesimo? Intanto, perché l’assassino è sulla scena fin dalla prima riga del racconto, ma, di più e meglio, perché, contro ogni regola codificata del genere (l’assassino verrà identificato con lente, complesse manovre narrative, magari toccando le 300, o 600, pagine fitte e, ça va sans dire!, identificato là dove meno il lettore si aspettava), qui è proprio lui, l’assassino, che narra il suo delitto, ma lo fa, occorre dire, con una calibratissima frantumazione narrativa: a tre diversi, successivi destinatari. Non solo: la ricerca di un destinatario intradiegetico per l’assassino-protagonista finisce per diventare morbosa, ossessiva, fino a condurlo, per il tramite del più ovvio qui pro quo di molestatore sessuale, nell’agognato carcere. Sì, perché, l’altro capovolgimento funambolico delle regole del genere sta poi nel fatto che qui l’assassino vuole essere, anzi fa di tutto, per essere scoperto, arrestato e, sperabilmente, mandato a quel supplizio finale cui la sua viltà umana gli impedisce di accedere con l’uso della sua pistola-gingillo di madreperla.

Ed è qui che s’innesta il colpo di genio: se è vero, com’è stato autorevolmente detto, che ogni opera letteraria è resa possibile da una “sospensione d’incredulità”, ebbene: è appunto questo, che qui non avviene. L’incredulità permane, impera, anzi giganteggia fino a spingere il malcapitato narratore nel limbo punitivo della follia: uno dei suoi ultimi gesti è quello di redigere memoriali di maniacale precisione in merito al proprio delitto, da consegnare, come una manoscritto nella bottiglia, a chi, finalmente, farà ai lettori grazia della canonica soluzione del plot.

Ma non è un giallo, questo, si diceva: è, in realtà, (e non casualmente, il protagonista è uno scrittore-drammaturgo fallito: sarà magari una cifrata, dolente allusione all’immensa bravura narrativa di Henry James, che invece non riuscì a sfondare mai sulla scena, ai suoi tempi?), il narrare stesso che si auto-rappresenta. Nel suo porsi in antitesi alla vita (fu Pirandello, che cadde nella facile ovvietà dell’omoteleuto «la vita o la si vive o la si scrive») qui appunto rifiutata dal protagonista-narratore. Nel suo identificarsi – per esorcizzarla? – con l’estrema inanità, con lo scacco, che qui viene incarnato non solo dai destinatari uno dopo l’altro incapaci di prestar fede alla storia del protagonista, ma perfino nell’ultimo gesto su cui il racconto si chiude: «“Tienila, prendila, mi dà la nausea” disse bruscamente, allungando il foglio al cronista».
Esorcizzarla: perché, che altro è, nella sua perfetta misura, questa narrazione, se non un ulteriore trionfo della vera, grande letteratura?

(Edith Wharton, La porta sbarrata, trad. di Angelica Chondrogiannis, Mattioli 1885, 2011, pp. 80, euro 10,90)

“Two Grains of Sand” di Piers Faccini

Anno nuovo, disco vecchio. Perché? Perché ne vale la pena. Decisamente. Stiamo parlando di Piers Faccini e del suo Two Grains of Sand, terzo album, uscito nel 2009. Cantautore ai più sconosciuto, di nicchia, uno di quegli artisti che negli ultimi anni fa tanto figo definire “indie”. La cosa mi fa rabbrividire, la definizione più adatta è “originale”. Proprio per questo, l’album va riscoperto e gustato come un vino d’annata.

Il musicista (e pittore) in questione nasce a Luton (Inghilterra) nel 1972, da padre italiano e madre inglese, con origini sia polacche che olandesi, crescendo e vivendo nel sud della Francia, prima grandi centri(Parigi e Londra) poi tanta campagna: il suo essere nomade e sentirsi cittadino del mondo influenza molto la sua musica. Da adolescente si avvicina al rock, suonando gli Smiths, per poi abbandonare la chitarra elettrica e passare alla chitarra acustica. I primi passi li muove a Londra con i Charley Marlowe, dopodiché decide di intraprendere la carriera da solista nel 2004.

Nel disco in questione è impressionante la sua abilità nel saper fondere diversi stili e generi musicali: si passa dal folk-rock (Bob Dylan vi dice qualcosa?) al blues americano degli anni d’oro (’60-’70), per poi ritrovarsi immersi in sonorità afroamericane, senza trascurare influenze italiane e irlandesi. I brani trainanti dell’album sono senza dubbio “Your Name No More”, testo semplice e diretto (ottima e calda base) e “A Storm Is Going to Come”, canzone che ci immerge nel blues americano, quello vero e intenso, come del resto avviene in “My Burden Is Light”, molto affascinante e vagamente country. In apertura invece troviamo due brani molto delicati, rilassanti, dove la lieve voce di Piers si sposa perfettamente alla chitarra appena pizzicata, impegnata ad accompagnare i testi profondi e romantici, mai banali: vento, sole e altri elementi naturali la fanno da padroni. Sonorità di tipico folk irlandese le troviamo nel brano “Save a Place for Me”.

Quello che colpisce è sicuramente la già citata fusione di generi diversi, ma anche questa piacevole atmosfera respirabile nelle parole coinvolge molto l’ascoltatore, nonostante testi a tratti cupi e riflessivi. Sicuramente talento ed esperienza ci sono e per capire meglio il percorso creativo e l’evoluzione di questo artista britannico ormai giunto a dieci anni di carriera, segnaliamo anche My Wilderness: ultima creazione del 2011, vede l’importante collaborazione di Ben Harper e altri artisti di calibro internazionale. Cheers.


(Piers Faccini, Two grains of sand, Tôt Ou Tard, 2009) 

“Lo dice Harriet” di Beryl Bainbridge

Il romanzo Lo dice Harriet è uscito nel 1972, ma è stato tradotto e pubblicato in italiano presso le edizioni Astoria nel 2011. Beryl Bainbridge, l’autrice scomparsa nel 2010, è considerata una delle scrittrici inglesi più rappresentative del Ventesimo secolo.

Harriet e la narratrice sono due adolescenti che, tornate a casa per le vacanze, trascorrono l’estate insieme. Proprio in questo clima di relax e sospensione dei doveri scolastici, assaporano la libertà da qualsiasi obbligo e controllo dei genitori. In questo clima di ozio si fa strada l’idea di escogitare dei dispetti ai danni del vicinato.

La letteratura è piena di esempi di Enfants terribles come recita il titolo di un famoso romanzo di Cocteau, ma stavolta si tratta di un’intesa tutta femminile: «Attraversammo il campo mano nella mano come due bambine».

Harriet è bella, abbronzata e incantevole: ammalia tutti gli abitanti della cittadina con i suoi modi falsamente affabili e il suo savoir faire. L’altra è la sua «amichetta cicciottella», una tredicenne complessata e problematica che vive male il rapporto con il proprio corpo: «Pensavo di sembrare vecchia e tonta». Insieme architettano un piano: far innamorare il signor Biggs, un uomo di mezza età, sposato e insoddisfatto, per poi umiliarlo e tirarsi indietro. Le due ragazze vivono un rapporto simbiotico in cui nessun altro riesce a entrare; questa esclusività si stringerà a cerchio intorno a loro fino a togliere il respiro. Come ogni adolescente che si rispetti Harriet ha un diario segreto: «Harriet s’inginocchiò e prese una scatola da sotto il cassettone, l’aprì e mi porse il diario».

L’amicizia tra le due ragazze non procede, però, sullo stesso binario, è squilibrata poiché Harriet è la mente da cui parte ogni disegno malvagio e l’altra è semplicemente il braccio: il suo ruolo è quello di eseguire gli ordini. Persino nella redazione del diario l’una detta e l’altra scrive a matita. Qualche pagina più avanti si scopre addirittura che Harriet nasconde alcune esperienze alla complice: «Quella sera, quando scrivemmo il diario, Harriet mi disse di usare una pagina nuova, perché non vedessi quanto aveva scritto precedentemente».

Il titolo Lo dice Harriet richiama quell’ipse dixit aristotelico che sottolinea l’autorità e l’autorevolezza di colei che parla o meglio comanda senza ammettere rifiuti. La narratrice assume il ruolo di una marionetta nelle mani del burattinaio e si lascia plasmare. Prova un’ammirazione cieca nei confronti dell’amica: «Si chinò su di me prendendomi per le spalle. Mi sentii soggiogata. […] Allora sentii di amarla: era così saggia, così buona, così dolcemente scaltra e capace di fronteggiare la situazione». Non è un caso se nel romanzo non compare mai il nome della narratrice: i vicini di casa, i genitori, nessun personaggio la chiama per nome. Ciò evidenzia il ruolo di subalternità della coprotagonista che diventa un surrogato di Harriet. Si aggiunga a tutto ciò la forte rivalità con la sorella Frances espressa in alcuni passi: «Mi volsi per abbracciare mia madre, ma lei era impegnata a circondare Frances di carezze, e non me la sentii».Il disagio esistenziale si fa sempre più evidente in un personaggio che, privo di esempi nelle figure adulte che lo circondano, segue la propria amica eleggendola a modello indiscusso.

La vicenda mette in luce un mondo di adulti superficiali e negligenti, incapaci o indolenti nei confronti delle ragazze. I genitori non sono figure affidabili, proprio coloro che dovrebbero tutelare sembrano completamente assenti, assorbiti da quotidiane occupazioni insignificanti. La mamma di Harriet viene definita dalla figlia «un donnino»sminuendo il ruolo di moglie e di madre. La mamma della narratrice, invece, è spesso intenta a curare il giardino quasi volesse fuggire dalle responsabilità familiari per chiudersi in un eden domestico.

Purtroppo questi genitori si sono macchiati di una colpa che ricadrà inevitabilmente sulle figlie, hanno fatto promesse non mantenute: «Ormai la guerra era finita da un pezzo, e di pony non si era più parlato. I nostri genitori ci avevano fatto quella promessa perché volevano convincersi che sarebbe finita bene».Da quel momento le ragazze useranno «il leggendario pony»come simbolo di tutte le cose impossibili. Questa perdita di credibilità atavica non potrà essere sanata in alcun modo ai loro occhi.

La vicenda si svolge in una tranquilla cittadina di provincia: «Tutto era così uniforme e silenzioso nel viottolo, tutto invitava alla tranquillità: la schiera di casette tutte uguali di mattoni rossi, la fila da città-giocattolo dei comignoli che sbuffavano nel cielo smorto turaccioli anneriti di fumo. Un decoro domenicale vestiva il viottolo di silenzio e di rispettabilità». L’ambiente sereno – fin troppo immobile – risulta inquietante, come in quei film dell’orrore in cui una placida cittadina viene sconvolta da avvenimenti inspiegabili. Infatti si tratta di una calma apparente: ciò che avviene all’interno delle case è ben custodito: «Dietro le tende le famiglie sedevano in un’atmosfera di caldo affetto, al sicuro nelle loro scatole poste al centro dei rispettivi riquadri di prato». In realtà le due fanciulle cominciano a intuire i segreti più nascosti dei vicini: «Sarebbe stato uno dei ricordi di quella lunga estate, lo spiare interminabile da finestre segrete». Per Harriet e compagna questo diventa quasi un compito quotidiano: «Cominciammo a far lunghe passeggiate sulla spiaggia, alla ricerca di persone che, per aver scelto la solitudine, dovevano avere qualcosa da nascondere».

In questo clima rassicurante si affacciano immagini che profanano l’idillio e introducono un disfacimento materiale suggerendo la corruzione morale: «Una volta al centro dello stagno, Harriet e io avevamo visto due rane morte, gonfie d’acqua, che galleggiavano con le pance bianche in aria, come pezzi di pane».

Si incontrano in un posto particolare che prolifera di esseri in decomposizione e oggetti portati a riva dalla marea: «Casse intere di frutta marcia, meloni, arance e pompelmi, che l’acqua salata gonfiava e faceva scoppiare; blocchi di carne […] dove penetravano i vermi e si attaccavano le meduse, esseri violacei osceni e senza cervello. Harriet le trapassava con dei bastoncini di legno, ma erano già morte».

Fin dalla sua prima apparizione Harriet viene descritta «con le trecce che le svolazzavano di lato»; queste «treccine fissate intorno alla testa» le danno l’aria di una “Pippi Calzelunghe combinaguai” e simboleggiano l’infanzia; infatti il taglio dei capelli sancirà una sorta di rito di passaggio verso l’età adulta. Ma il lettore intuisce benissimo che la disillusione e la perdita dell’innocenza sono già sopraggiunte, come confida Harriet all’amica: «Spesso mi viene in mente che abbiamo superato il nostro momento magico. Non saremo mai più buone come siamo state un tempo. Adesso si comincia a retrocedere».

(Beryl Bainbridge, Lo dice Harriet, trad. di Massimo Bocchiola, Astoria Edizioni, 2011, pp. 200, euro 15)

“La Mennulara” di Walter Pagliaro – Intervista a Raffaella Bella

Donne. L’altra metà del cielo. È all’insegna di questo tema conduttore che si è aperta la stagione teatrale 2011/2012 del Teatro Stabile di Catania. Dal 2 al 23 dicembre è andata in scena La Mennulara, adattamento teatrale dell’omonimo romanzo del 2002 ed esordio narrativo di Simonetta Agnello Hornby.
È la storia di una donna, Maria Rosaria Inzerillo, detta Mennù, forte come la terra che l’ha generata. Un archetipo del femminile e della Sicilia. Una donna che come un deus ex machina muove, in un gioco postumo, le pedine senz’anima impalate sulla scacchiera del paese e della famiglia che ha servito per una vita intera.
L’azione infatti ha inizio con la morte di Mennù, serva e criata di casa Alfallipe. Esplode il complesso di verità e apparenze. C’è da organizzare un funerale per una donna che era sempre stata serva ma verso cui tutti, in misura variabile, hanno un debito morale; e ci sono delle istruzioni da seguire per ottenere il misterioso tesoro/eredità della Mennulara, amministratrice dei beni di famiglia.
È una gara d’astuzia che gli avidi e sfiduciati di Casa Alfallipe perdono, ed è anche una lotteria di ipotesi sulla vita e la condotta di una donna impenetrabile nella sua essenza.
La messa in scena, con la regia di Walter Pagliaro, accentua il senso di stasi e di ottundimento di tutti i personaggi che ruotano attorno alla Mennulara. Frequenti i ricorsi a scene corali che sono dei tableau viventi, e che si incorniciano riflessi in un grande specchio obliquo in alto a ridosso della quinta.
Servi e padroni si muovono come pupi manovrati dalla mano invisibile di Mennù, tanto che i gesti sfiorano movenze meccaniche, esasperati e come calamitati dalla terra.
Il carico di azioni e reazioni, dolci come violente, è affidato a Mennù, interpretata dall’intensa Guia Jelo.
La Jelo, energica e appassionata, riesce e trasporre sul palco tutto il dolore e il coraggio di una donna che è arrivata al limite e che ha portato sul suo corpo il peso di una vita strattonata e ingiuriata, e con grande intelligenza ricostruita.
Commuove e trasporta la scena finale, che vede il suo trionfo ricongiungendo circolarmente il suo soprannome al suo destino.
Oltre Guia Jelo, sulla scena ricordiamo Pippo Pattavina, sempre misurato e senza sbavature, nel ruolo di Orazio Alfallipe.
Il merito va riconosciuto altresì al resto della compagnia, che ritorna più volte sul palco anche  in panni diversi e in una maratona di sincronia e intesa.
Lo spettacolo però ha la pecca di risultare in certi tratti prolisso, dilatando oltremodo l’avvicendarsi degli eventi (che comunque non seguono un ordine cronologico ma un alternarsi di flash back in cui appare, appunto la Mennulara) e smarrendo la compattezza temporale. Molti degli inserti descrittivi, pur rientrando in una precisa scelta di regia e volendo costituire un omaggio alla curate descrizioni del romanzo, appesantiscono il dramma e lasciano interdetti, in attesa che l’elemento narrativo e teatrale torni a riguadagnare la scena.


Di seguito vi proponiamo l’intervista a una delle attrici del cast de la Mennulara: Raffaella Bella.

Raffaella Bella è una giovane attrice siciliana, diplomatasi all’Accademia d’Arte Drammatica “Umberto Spadaro” del Teatro Stabile di Catania. Si è formata e ha lavorato con registi di chiara fama. Ha duettato con attori come Ida Carrara in una serie di reading su autori come Oriana Fallaci, Dacia Maraini e Alda Merini; e con Pippo Pattavina cimentandosi nel ruolo di Mommina di Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello nello spettacolo Memorie di un suggeritore prodotto nella scorsa stagione dal Teatro Stabile di Catania. Ha girato l’Italia in tournée con spettacoli come Pipino il breve con Tuccio Musumeci e La lunga vita di Marianna Ucrìa con Mariella Lo Giudice. Ha recitato non solo in teatro ma anche davanti la macchina da presa, tanto che nel 1999 ha vinto il premio come miglior attrice protagonista nella rassegna per cortometraggi “Tracce audiovisive” e nello stesso anno Il Kaliggi D’argento come attrice emergente a Taormina. Ha partecipato come coprotagonista nel pluripremiato mediometraggio Campioni del mondo, regia di Alessandro Marinaro, andato in onda sulla rete televisiva La7 per la trasmissione La 25ma ora.
Raffaella Bella, insomma, vanta un curriculum di tutto rispetto e abbiamo deciso di intervistarla perché è un esempio di giovane artista, che ha studiato e si è preparata per ottenere i suoi risultati e successi; facendo tanta gavetta. E ogni volta che ci riusciamo, ci piace sentire voci nuove e appassionate. Come in questo caso.

Diplomata all’Accademia del Teatro Stabile di Catania, cosa prova ogni volta che torna a recitare sullo stesso palco in cui ha studiato e si è formata professionalmente?
In realtà non l’ho mai vissuto come un ritorno, è un po’ come con quell’amico con cui sei cresciuta e hai condiviso momenti intensi, magari non lo vedi per un po’ ma quando lo incontri ti senti a casa ed è come se non te ne fossi mai andata.

La Mennulara è il dramma di una donna ma anche un’opera corale. Come è stato recitare in quest’opera in cui entra in scena con ruoli diversi?
Sì, in effetti il personaggio de La Mennulara è quasi un’eroina tragica, che però viene supportata dal coro che per un verso ne subisce la sua forza e per l’altro illumina la via verso la comprensione dell’anima di questo personaggio. Detto ciò non è inusuale per un attore interpretare più ruoli all’interno di uno stesso spettacolo, è un po’ la magia di quel luogo deputato che è il palcoscenico, dove tutto o quasi è possibile. Questa magia è per me la forza attrattiva, la magia dell’atto creativo, come su una tela può starci il mare o il cielo e noi lo vediamo, ci crediamo e lo riconosciamo.

Il teatro in Sicilia e il suo pubblico. Quale scenario intravede in questo momento e cosa spera per il futuro?
Non ha una domanda di riserva? Va bene, a parte lo scherzo non amo i catastrofismi. È vero che a livello nazionale sappiamo benissimo che non stiamo passando un bel momento in generale. Ma è vero anche che l’artista quando soffre è più ispirato e allora questa ferita aperta che hanno inferto al teatro, al cinema e alla cultura in generale potrebbe produrre qualità maggiore, per un pubblico sempre più esigente, per fortuna, come quello siciliano. Pubblico che comunque aspetto numeroso e caloroso, come sempre, per la ripresa de L’Avaro di Molière, con protagonista Pippo Pattavina e me, nel ruolo di Mariana. Saremo a breve ad Acireale, in provincia di Catania e in provincia di Siracusa.

“Hotel Locarno” di Alain Elkann

Definirei Hotel Locarno “un romanzo in diretta”. Perché «il romanzo e la vita talvolta possono sovrapporsi».
Uno scrittore confessa al suo analista Vittorio Olmi una particolare stasi inventiva. Ha idee vaghe su ciò che nel nuovo romanzo intende scrivere, ha bisogno di qualcuno che lo sproni, che crei insieme a lui. Ed è da questo connubio che si sviluppa la storia di un uomo, Michael Dufay, famoso critico d’arte, settantenne, «consapevole di essersi sempre abbandonato a una vita liquida, irresponsabile, guidata soltanto dalle sue pulsioni e dai capricci. Aveva amato, odiato, sofferto, letto, bevuto, aveva fatto a pugni, era stato solo, aveva speso molti soldi, e ora non sapeva più nemmeno giudicare se Gabriela era davvero stata il suo grande amore, o se aveva commesso un errore sposando Daisy. E poi l’incontro con Gloria, a cui non era stato capace di resistere. Adesso, come in un film, era scappato salendo sulla prima barca che aveva trovato ed era approdato su un’isola. Non aveva nessuna voglia di assumersi delle responsabilità, voleva solo cancellare i suoi pensieri ondivaghi».



 «Gabriela era una donna affascinante, alta, slanciata, con i capelli rosso scuro e le labbra carnose. […] Michael l’aveva conosciuta a Ibiza, una notte d’estate». Una storia nata sull’onda di un’immediata passione, per strada, appoggiati a un parapetto, che portò a una convivenza di cinque anni sfumata nel tempo.



A una mostra incontrò Daisy: si contraddistingueva per «la sua ingenuità, i suoi colori pallidi, la sua carne soffice». Donna molto diversa dalla precedente: «Gabriela era una donna golosa, Daisy invece era pudica e schiva». Si sposarono a Madrid e «nei primi tempi Michael si era dimostrato innamorato di Daisy, paterno nei confronti di suo figlio, ma presto avevano cominciato ad affiorare lievi tensioni, piccoli screzi, leggere delusioni».


Il senso di fallimento indusse Michael ad abbandonarsi fin troppo spesso alla sua amata “bottiglia”, devastandosi di continuo, frustrato, alla ricerca di quella felicità che lui per primo non era in grado di riconoscere e accudire con dedizione.


 Durante lo snocciolarsi di fatti e vite, spesso raccontati tramite i botta e risposta tra la voce narrante e il suo analista, è l’analista stesso a raccontare di sé, quasi inserendo un suo spicchio di romanzo nel romanzo. È Emma a turbarlo: «Una storia clandestina, che viviamo nei momenti di libertà. […] Emma è per me la mia anima gemella, ma allo stesso tempo un sogno irraggiungibile». E un excursus lo dedica anche alla memoria di suo padre: «Da bambino mi piaceva uscire con lui, lo guardavo come un eroe con il suo trench color crema, i capelli impomatati, il cappello di feltro grigio, le scarpe lucidissime, i baffi curati, il profumo di colonia, la camicia bianca, la cravatta nera». Un padre che però aveva reso la sua vita «un romanzo neorealista», tipo «un film di Mario Soldati».


Tra uno sfogo e l’altro, il lettore si ritrova avviluppato in un’incredibile maglia di eventi in fieri in cui capita di perdere il filo per poi ritrovarlo solo alla fine, dopo il curioso ingresso di Gloria nella vita di Michael che, «ormai separato da Daisy, mentre sfogliava svogliatamente il “Financial Times” in un coffee shop di New York aveva letto l’annuncio di Gloria, la quale si descriveva come una vedova di bell’aspetto, appassionata di opera lirica. […] Lo avevano colpito […] una spontaneità e un’ingenuità che gli apparivano desuete, e per questo attraenti. Doveva trattarsi di una creatura romantica, una sognatrice dall’indole avventurosa».
Dopo una piccola corrispondenza l’appuntamento viene fissato in Italia, a Roma, ma, per una serie di vicissitudini e paure, è su un treno per Napoli che alla fine si incontrano. Stavolta per caso.
«Avevano fatto l’amore con lentezza, per capire in che modo far combaciare i loro corpi». Ma neanche questo riesce a distogliere Michael dal suo individualismo, preferendo sparire in silenzio imbarcandosi alla volta di Capri. Solo e perennemente ubriaco. 


Se è vero che «è solo dopo aver scritto le prime cento pagine che si può cominciare a capire se c’è una storia o meno», queste centonove pagine sono per certi versi uno spaccato di come oggi si abbia poca voglia di volerne una, di storia. Si è fin troppo presi da se stessi, dalle proprie abitudini, dal dio Ego che regna sovrano, quasi come se un amore possa rovinare un “certo” equilibrio piuttosto che crearlo.
Sì, perché chi nella vita ha amato davvero almeno una volta, sa che la vera libertà è in due che si raggiunge, non da soli. E chi ottiene questa consapevolezza in tempo, questa ricchezza interiore, non ha certo bisogno di evadere con l’alcol, di andare dall’analista o di scappare isolandosi, schiavo di sé.
È realmente libero solo colui che ha appreso l’arte del donarsi.
 


(Alain Elkann, Hotel Locarno, Bompiani, 2011, pp. 112, euro 14,90)

“Nineteen Mantras” di Giorgio Barberio Corsetti

Mantra-pubblicità, canzoni radiofoniche mantra, termini-mantra imposti dal mercato. Nella società dei consumi, tutto quel che bisogna vendere diventa un mantra, affinché il consumatore possa averlo bene in testa. Il mantra, in realtà, è una ripetizione di suoni, una pratica religiosa per avvicinarsi al divino. Forse per repulsione dei mantra imposti dalla società, Giorgio Barberio Corsetti ci mostra «un riflesso del mondo degli uomini e degli dei catturato dalla scena», come specifica nelle note di regia. Nineteen Mantras, creato con il compositore Riccardo Nova e la coreografa-ballerina Shantala Shivalingappa. È un incontro tra la cultura europea e quella indiana e, attraverso la danza, il teatro, la musica e i video, si vuole evocare la storia dell’Uomo, la sua origine e il suo quotidiano. Gli inni proposti raccontano di dei e demoni e le storie, raccontate in nove quadri, sono tratte dalla letteratura vedica (da “veda”, scienza). Nelle storie che si susseguono nel corso della performance troviamo Prajapati, il signore delle creature, che crea Agni, il fuoco, con cui, però, comincia una lotta serrata. O lo stesso Agni che tenta di sedurre le donne dei sapienti ma resta sedotto dal sé o ancora, arrivando ai giorni nostri, uomini in giacca e cravatta, con cellulare in mano, sempre di fretta, nervosi e scostanti. La messa in scena è straordinaria e ambiziosa, una fusione di arti per far incontrare l’Oriente e l’Occidente, le divinità con l’Uomo. Quattro musicisti indiani, l’ensemble di contemporanea del Parco della Musica e un corpo di ballerini-attori per rappresentare l’irrappresentabile, il processo di creazione della Vita e la lotta dell’Uomo per conservarla. Ogni tassello è fondamentale – le visioni di Barberio Corsetti, le composizioni di Riccardo Nova, la coreografia di Shantala Shivalingappa – per creare un caleidoscopio di immagini e di colori suggestivi, una creatura imponente che attanaglia lo spettatore e lo seduce. Non c’è un filo logico nelle storie proposte ma la drammaturgia viene costruita in maniera ciclica, ossessiva come la struttura dei diciannove mantra. Un viaggio emozionante e mitico.

 

Nineteen Mantras
regia: Giorgio Barberio Corsetti
musiche: Riccardo Nova
drammaturgia: Giorgio Barberio Corsetti e Riccardo Nova
coreografia: Shantala Shivalingappa
danzatori: Hema Sundari Vellaluru e Paride Biasuzzi, Luigi Corrado, Filippo Del Sal, Jacopo Giarda, Sho Kamiko, Vincenzo Turiano, Gianmarco Romano

Andato in scena nei giorni 10 e 11 gennaio 2012 all’Auditorium Parco della Musica, Roma

A morte la noia

Anche lei è stata a Parigi. Io non sono andato a Parigi. Tutto il mondo è andato a Parigi. Anzi, il mondo passa per Parigi, pensò a un certo punto Mattia, alzandosi di scatto dalla panchina del parco, quasi avesse avuto un’illuminazione. La sua espressione era chiaramente lontana dai peggiori momenti di Baudelaire, ma a un certo punto decise che il francese sarebbe diventato la sua seconda lingua. Se non forse la prima.
«Sì, sto studiando francese», rispose alla sua amica immaginaria. Ritornò a casa di fretta, corse nella sua cameretta e iniziò a scrivere in maniera forsennata, leggendo ad alta voce: «Sono sugli Champs Élysée, ma mi sto annoiando a morte». Ma lei rispose: «Com’è possibile che la Francia non ti abbia accolto?»
«Forse perché non sono mai divenuto francese», disse. «Forse perché il mio cuore è in altri luoghi sulla terra».
«Eppure», continuava parlando alla sua amica, «si dice che prima o poi si debba andare a Parigi. Come è possibile che il mio cuore ancora non sia lì?»
Lei davvero non sapeva cosa rispondere, seguì infatti un lungo silenzio. A un tempo, entrambi pensarono che le cose non stavano davvero così. L’Arco di Trionfo era stato costruito da loro, ma non se lo ricordavano. Pecche della memoria. I libri di storia erano stati scritti da loro, così come insieme avevano fatto la Rivoluzione francese.

Mattia, nel tempo che invece gli umani chiamano oggettivo o reale, non uscì dalla cameretta. La porta era chiusa a chiave. Non uscì per almeno un giorno. La sua famiglia era concitata, la madre, la zia, il padre che ora era quasi muto per la rabbia, i cugini, tutti vennero. Tutti. Allora, due giorni dopo il discorso con la sua amica segreta, uscì dalla sua finestra, vide il suo popolo, vide Marat, il suo nemico, La Fayette, e tanti altri che alla fine sarebbero stati ghigliottinati. Erano lì sotto con gli occhi sbarrati.
«Miei compagni, figli e nemici».
«Ma cosa dici, scendi Mattia!»
«Sono qui per dirvi che la rivoluzione è fallita».
Qualcuno si sentì preso in giro: «Ma cosa dici», ripeterono, «non fare follie!»
«L’unica follia è l’aver preso parte all’umanità, al suo sciocco sogno di far trionfare la ragione. L’Arco di Trionfo sicuramente crollerà e non sarà merito della pioggia o del terremoto. Crollerà con voi e con me. Nessun uomo è al di sopra delle parti. Per questo ho deciso che ritornerò in mezzo a voi, accetterò le vostre leggi e le vostre gerarchie».
«Ah, meno male! Allora vieni giù che andiamo dal medico!»
«Ritrovo solamente dell’amaro in bocca, cioè ho appurato che Parigi non esiste, se non nei libri di storia. Che la gerarchia stessa nasce dalla rivoluzione. Accetto la vostra mediocrità, la vostra vergogna del sacro che vi portate addosso rifiutando la vostra missione».

Detto questo, ritornò dentro. Non disse altro, andò a mangiare, andò dal medico. Ritornò nel parco. Non trovò la sua amica immaginaria. Si annoiava a morte.

Marco De Cave  fa parte degli autori del blog di scrittura Vongole & Merluzzi.

“Il codice Atlantide” di Charles Brokaw

Misteri che affondano nel passato remoto della nostra Storia, mescolando religione e paranormale, azione e sentimenti: da Il Codice Da Vinci di Dan Brown questo filone a metà strada tra il thriller, il paranormale e l’esoterico continua a sfornare ogni anno titoli, che per fortuna non sono sempre cloni del suo capostipite, anzi dimostrano comunque una certa qual freschezza e originalità, pur mantenendo inalterata la componente di azione, misteri, personaggi rispondenti a certi requisiti, finali che lasciano sempre aperta una porta, un po’ come avveniva nel serial cult degli anni Novanta The X-Files.

Charles Brokaw, professore universitario del Midwest, appassionato di archeologia, decide di scomodare il mito di Atlantide, partendo dal ritrovamento di una campana di ceramica con sopra alcune iscrizioni misteriose, che potrebbe far parte di una serie di manufatti appartenenti a una civiltà avvolta nel mito, proprio quella del continente perduto che ha ispirato filosofi come Platone e in tempi più recenti fumettisti, registi e romanzieri.

Vari personaggi si scatenano in una caccia che si snoda lungo tutto il romanzo, tra cui spiccano l’eroe della vicenda, l’archeologo Thomas Lourds, uno dei tanti figli, anzi, ormai nipoti, di Indiana Jones, e l’antagonista, il cardinale Stefano Murani, ossessionato dalla decadenza della Chiesa e dal voler darle un nuovo inizio, forse grazie al misterioso “Libro della Conoscenza” che potrebbe svelare i misteri di Atlantide.

Stavolta niente Templari e Santo Graal, ma un’avventura all’origine, con personaggi forse già visti, situazioni già sentite, ma che funzionano. Certo, Il codice Atlantide non è un capolavoro, né vuole esserlo. È la classica lettura d’evasione che riesce a inserirsi con dignità in un filone che piace ma che corre il rischio di essere ripetitivo. E senza svelare il finale occorre dire che la frase conclusiva del libro è un inno all’amore per la ricerca, per la cultura e per la conoscenza.

Come in molti altri casi, anche questo libro sembra una sceneggiatura cinematografica già costruita per essere messa in scena. Certamente il lettore si chiederà per quale motivo poi questo tipo di narrazione spesso al cinema non funziona (Il codice Da Vinci cinematografico è rispetto al libro di una noia mortale) mentre sulla pagina scritta tutto vola. Potenza forse del più antico e più moderno strumento di intrattenimento, cioè il libro, capace di darti tutto partendo da un foglio di carta con sopra stampate delle lettere?

Sarà. Quel che è certo è che Il codice Atlantide potrà essere sicuramente un ottimo compagno di ferie più o meno lunghe e di gite fuoriporta, magari seduti su un prato di montagna o sdraiati su una spiaggia, in attesa dei primi caldi raggi di sole.


(Charles Brokaw, Il codice Atlantide, trad. di Velia Februari, Nord, 2011, pp. 425, euro 18,60)

“Il cavallo di Torino” di Béla Tarr

Prende l’avvio dall’aneddoto di una pazzia, A Tórinói ló, il film del regista ungherese Béla Tarr che ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria alla Berlinale 2011. Non si tratta tuttavia di una pazzia qualunque, poiché quella alla quale s’ispira Béla Tarr è la pazzia di Nietzsche: lo “stato di alterazione mentale” nel quale il filosofo tedesco sprofonda durante gli ultimi dieci anni della sua vita dopo aver assistito, si dice, al pestaggio di un cavallo da parte di un cocchiere, per le vie di Torino.

Così come nelle pellicole precedenti, anche ne Il Cavallo di Torino dominano il bianco e il nero che – con l’annichilirsi dei colori – mettono in rilievo il contrasto della luce e dell’ombra, essendo l’oscurità uno dei tratti intrinseci, oserei dire intimi, del fare e del sentire del regista ungherese. Il film si avvale di poche presenze: un padre, una figlia e un cavallo. Il loro è un universo di dipendenza reciproca che rischierebbe di disintegrarsi in mancanza di uno di questi tre elementi.

Il film non narra: mostra, piuttosto. È una pellicola fisica, brutale nella maniera di filmare e di mettere in scena una natura ostile, un tempo ciclico, un ripetersi di eventi che nel loro sovraccarico di significato finiscono col perdere di significato. Lo stesso vale per il tempo. Michael Bachtin, nel suo Estetica e romanzo, definiva il cronotopo messo in scena da Flaubert in Madame Bovary una relazione spazio-temporale statica poiché il tempo era privato, a causa dell’ambientazione in un piccolo borgo di paese, del suo discorso storico progressivo. Credo che lo stesso si possa dire de Il Cavallo di Torino. Anzi, quest’affermazione è ancor più vera nel film di Béla Tarr non soltanto per la coincidenza delle epoche che vuole le due opere situate nel XIX secolo: anche, perché il microcosmo da lui rappresentato è ancora più piccolo e il tempo ancora più tautologico.

Il progredire degli eventi è allora “spesso”, “vischioso”. Nell’esasperare l’attesa, la si vanifica. Nel figurare l’essenza realistica dei diversi piani-sequenza, il film sfiora l’astratto proprio nel suo eccesso di realismo. La poesia dell’immagine si dipana così tra il fisico e il metafisico, in una realtà che è solamente un divenire, un pro-forma mentis che chiede allo spettatore uno sguardo non di fruizione intellettuale e intellettualistica, ma di sentimento immediato, sia nei confronti del film che della realtà messa in scena dal film.

Sconosciuto al grande pubblico, l’ultimo Béla Tarr conquista la critica con il suo distacco dai canoni cinematografici odierni, con i suoi tempi lunghi (il film dura circa tre ore), con la sua capacità di cogliere – tramite i silenzi – una mistica della natura, del corpo, della terra. Chiudiamo con queste battute che lambiscono e diventano poesia, nel loro essere cinema fuori da ogni luogo e ogni tempo:«Perché il cielo è loro, e tutti i nostri sogni sono loro. A loro appartiene il momento, la natura, l’infinito silenzio. Anche l’immortalità è loro, capisci? Tutto, tutto è perso per sempre».

“Morte di un biografo” di Santiago Gamboa

In un libro cerchiamo molte cose. Un rifugio, spesso. Insegnamento o ispirazione, a volte. Una storia, nel senso più limpido del termine, sempre. Cosa accade quindi se una storia, come luce in un prisma, si moltiplica e si tinge di mille diverse sfumature? E se a raccontarla non è un’unica voce, magari straordinaria, ma un folto campionario di umanità terribilmente comune?

È variegata ed esilarante la commedia umana che Santiago Gamboa inscena nel suo ultimo libro, Morte di un biografo (Edizioni e/o, 2011). Come sulle pagine di un Decameron contemporaneo, si ritrovano nei corridoi di un grande albergo tipi umani di ogni genere, ad animare una collezione di storie, singole perle che danno vita alla caotica collana del romanzo. La cornice non è la Firenze del Trecento, ma una Gerusalemme metaforica, immagine di una città sofferente, di tutte le città sul punto di essere annientate, massacrate, distrutte. Non è la peste a creare il pretesto che riunisce i personaggi, eccentrici e a tratti surreali, ma la guerra che affligge Gerusalemme, città che ospita il Congresso Internazionale di Biografi e della Memoria, intorno al quale gravitano i soggetti più strampalati.

Uno scrittore in crisi, bloccato da due anni a causa di una malattia, riceve un inaspettato invito a partecipare al congresso e accetta con entusiasmo, convinto che la distrazione e il viaggio possano favorire la sua ripresa. Questo è il piano narrativo dal quale si sviluppano tutti gli altri, in un intricato caleidoscopio di storie: un antiquario, un bibliofilo saccente, un editore esigentissimo, una pornostar italiana con velleità sinistroidi, un filatelico, una giornalista culturale in amore e un «ex pastore evangelico, ex delinquente, ex drogato». A tali narratori corrisponderà una serie di personaggi narrati, in una molteplicità di registri linguistici e spazi narrativi: dalla Svezia alla Colombia, passando per Parigi, Miami e Johannesburg, per terminare sull’isola di Tristan da Cunha, «l’espressione geografica della solitudine». Un mosaico, dunque, quello creato da Gamboa, che però semina qua e là alcuni elementi di raccordo, a formare un amalgama coerente ed esilarante, dal quale difficilmente il lettore riesce a distrarsi, tanto che le quasi cinquecento pagine del tomo scorrono via senza fatica.

Le relazioni dei congressisti che, capitolo dopo capitolo, prendono la parola sono, curiosamente, biografie straordinarie di gente comune: due scacchisti che si accontentano della mediocrità, una sorta di Edmond Dantès colombiano alla ricerca di vendetta, un aviatore in fin di vita… Racconti spesso interrotti da esplosioni e black out: parola, linguaggio e narrazione vengono bloccati dalla guerra, che invade fisicamente lo spazio narrativo, costringendo i personaggi a non lasciare l’albergo e generando, paradossalmente, nuove narrazioni.

Bastano poi un sandwich di pollo, una coca-cola light e ammiccamenti letterari più o meno velati, che ritroviamo in ogni episodio, a domare il vortice della polifonia, maneggiato sapientemente dall’autore. Le storie si intrecciano seguendo un fil rouge che tende a far virare il romanzo sul poliziesco: José Maturana, ex pastore evangelico, seguace di un dio ventenne, tatuato e palestrato, viene trovato morto nella sua stanza d’albergo poche ore dopo il suo intervento al convegno, un’apologia del cosiddetto Ministero della Misericordia. Tutto lascia pensare che si tratti di un suicidio, ma lo scrittore, alter ego di Gamboa, non si lascia convincere e inizia una personalissima indagine sul nebuloso passato dell’evangelico. Ognuno darà la sua opinione sull’accaduto, che per lo scrittore si trasformerà inevitabilmente in materia narrativa: è così che Gamboa sviluppa in parallelo alla narrazione anche un brillante discorso metaletterario. Poco a poco, infatti, l’autore ci racconta la genesi del romanzo che abbiamo tra le mani, frutto di quello sguardo sul mondo comune a molti scrittori latino-americani: assolutamente ironico e, allo stesso tempo, irrimediabilmente malinconico.

(Santiago Gamboa, Morte di un biografo, trad. di Raul Schenardi, Edizioni e/o, 2011, pp. 464, euro 19,50)

“Sette note musicali” di Zoran Živković

Che sia diabolica oppure divinamente perfetta tanto da raggiungere i livelli delle armonie celesti, la musica rivela, nell’antologia di racconti dello scrittore serbo Zoran Živković intitolata Sette note musicali (Tea 2011, pp. 160, Euro 10), una potenza davvero straordinaria. I personaggi che si aggirano in queste sette “storie impossibili”, sette come le note musicali, varcano soglie, visitano dimensioni in cui le cose appaiono diverse non tanto perché davvero mutate quanto perché le vedono con altri occhi. Affiorano ricordi, sogni, premonizioni da un “oltre” parallelo.

La musica smuove. Abbatte barriere di incomunicabilità come nel caso del piccolo Philip, il bambino autistico protagonista nel primo racconto “Il sussurro”. Suscita inquietudine. Se in Tolstoj la sonata a Kreutzer di Beethoven, eseguita da un giovane violinista, scatenava la gelosia del ricco possidente russo Pozdnišev, nell’episodio de “Il violinista” un vecchio professore malato e moribondo ritorna con la mente a quando, all’età di quindici anni, in una cittadina del Nord Italia, al suono delle note di un violino cadde in un’estasi che lo portò a conoscere il mistero dell’universo: «Il violino cominciò a creare forme sonore che si inserivano alla perfezione negli spazi vuoti. Ogni pezzo rappresentava una rivelazione singolare: meravigliosamente elementare, magnificamente complesse, magicamente incredibile, follemente inaccettabile». La musica porta dunque a un livello di conoscenza superiore. Oppure è in grado di dare all’animo umano un nuovo impulso di creativa vitalità come nel caso del signor Adam, neo pensionato de “Il puzzle”.

I protagonisti delle storie di Živković sono personaggi ordinari, un medico, una bibliotecaria, un vedovo, una zitella, un pensionato, un vecchio professore, un liutaio suicida, che si trasformano al suono di una melodia, di un antico organetto o di un carrillion e vengono trasportati in situazioni surreali in cui la realtà spazio-temporale viene deformata.

Sette note musicali è il terzo libro tradotto in italiano dell’autore serbo, insegnante di scrittura creativa a Belgrado dal 2007, dopo L’ultimo libro e l’altra raccolta di racconti Sei biblioteche. Fa parte di una serie di dieci romanzi a mosaico nel quale il collante è la letteratura. Questo è il primo dedicato a un’altra arte, ossia la musica.

Considerato il “nuovo Borges”, Živković, con una scrittura eminentemente evocativa, regala ai suoi lettori “storie impossibili” dai risvolti filosofici ed esistenziali, non di puro intrattenimento bensì di dolorosa riflessione. Hemingway ripeteva spesso che si possono scrivere ottimi romanzi con parole da cento dollari, ma che la cosa davvero meritevole è scriverli con parole da venti centesimi. Ci sono scrittori che danno il meglio di loro ricorrendo al breve respiro del racconto, economizzando negli espedienti narrativi senza rinunciare a ritmo e densità. Senza scomodare paragoni importanti che farebbero arrossire al solo sentirli pronunciare, possiamo dire che Živković è uno di questi.

(Zoran Živković, Sette note musicali, trad. di J. Mirkovic e E. Boscolo Gnolo, Tea, 2011, pp. 160, euro 10)

“Tutto Mozart” per Lonquich

Il mese di gennaio del Santa Cecilia è dedicato a Mozart e, tra le serate incentrate sul compositore austriaco, spicca quella che ha visto come protagonista Alexander Lonquich, nella doppia veste di direttore e pianista. Scelta di spessore dato che Lonquich è uno dei maggiori studiosi del repertorio mozartiano. Si comincia con le Sei danze tedesche, scritte a Praga nel 1787, che riprendono temi popolari e che spopolarono durante il carnevale di quell’anno. A seguire il Concerto per pianoforte K456, probabilmente – come si evince da una lettera indirizzata alla figlia del 1785 – scritto per l’amica Maria Theresia Paradis, pianista cieca che, in quegli anni, aveva conquistato i favori del pubblico salisburghese. L’andatura marziale del primo movimento tradisce la vera natura della composizione, che demanda al pianoforte un motivo cantabile e ai fiati il ritmo marziale. Nell’“andante”, si possono rintracciare echi melodrammatici dell’aria di Barbarina da Le nozze di Figaro fino alla chiosa malinconica, tipica mozartiana. Solo il finale, allegro vivace, presenta la forma di un rondò, già in nuce nell’“andante”, conservando quel dialogo incessante tra pianoforte e orchestra, colloquiale e non giocato sui contrasti. Lonquich, da buon filologo, propone, poi, al pubblico del Santa Cecilia la Musica funebre massonica in Do minore K 477. Siamo nel 1785 ed è un’opera per commemorare due fratelli massoni. In un solo movimento, Mozart riesce a innervare la tipica struttura della marcia funebre con la melodia gregoriana consegnando un’opera dai forti contenuti spirituali, meditabonda, che assume compattezza man mano che si avventura verso un finale doloroso e sublime. Infine, la Sinfonia n.36, composta nel 1783 a Linz quando, con la moglie, fu ospite del Conte Thun. Composta di getto, è una sinfonia minore e preparatoria alle tre più famose. L’apertura è quasi un omaggio ad Haydn, lenta e rigorosa, ma, in tutta la composizione, che dà risalto soprattutto a fiati e timpani, si rilevano una serie di opposti tipici della scrittura manicheista haydniana.

Una serata speciale, sotto questo punto di vista, Lonquich è un ottimo pianista che dà fondo a tutta la sua fantasia pur di restituire un Mozart appetibile. Ha preferito non strizzare l’occhio al pubblico per dar voce, per contro, a un repertorio poco famoso. Non è un direttore né un pianista convenzionale – questo può far storcere il naso ai “puristi” – ma il suo è piuttosto uno studio sul repertorio, sul fraseggio e l’estetica mozartiana. Un musicologo con pregi e difetti, eccentrico, coraggioso e dinamico che ha diretto l’Orchestra del Santa Cecilia con piglio deciso e romantico.


Sala Santa Cecilia, 09.01.12, Roma.
Per info : http://www.santacecilia.it