“L’infinito nel palmo della mano” di Gioconda Belli

Il racconto relativo ad Adamo ed Eva, la loro cacciata dal giardino di Eden e l’inizio della vita sulla Terra, è considerato, senza ombra di dubbio, uno dei miti fondanti dell’umanità. Sebbene la narrazione originale sia sviluppata nel libro di Genesi in poco più di cinquanta versetti, fin dall’antichità troviamo traccia di rielaborazioni e ampliamenti del nucleo iniziale con cui scrittori d’ogni epoca hanno cercato di ridare ai nostri progenitori un senso maggiore di universalità e di umanità. “L’infinito nel palmo della mano” (Feltrinelli, 2009), di Gioconda Belli è una ricostruzione moderna della storia di quella giovane coppia, così sola ma anche così profondamente coraggiosa. La scrittrice nicaraguense racconta, nella breve nota iniziale, come una lettura casuale di alcuni libri apocrifi dell’Antico Testamento, qualil’“Apocalisse di Mosè” e la “Vita di Adamo ed Eva”, abbiano generato in lei la voglia di riscrivere la storia dei nostri due antenati comuni. Ciò che ne vien fuori è una narrazione poetica, rapida ma commovente, capace di trasmettere le emozioni primordiali della prima coppia dell’umanità, in un costante intreccio di angoscia e meraviglia, di paura e di stupore.

Leggendo queste pagine così coinvolgenti scopriamo allora che Dio non è altri che un demiurgo invisibile e annoiato, intento a creare universi e mondi di cui poi si dimentica all’improvviso. E ancora che il Serpente, riflesso contrario di Elohim, è, in realtà, l’unico essere sovrannaturale che ha la volontà di interagire con i poveri umani e che aiuta Eva a capire come, in fondo, non vi sia colpa nel peccato originale perché tutto è già deciso, nei piani del Creatore, sin dall’inizio.

Dalla beatitudine incosciente vissuta in Paradiso, Adamo ed Eva passano, improvvisamente, all’insicurezza e alla precarietà esistenziale della Terra, gettati al mondo senza dettami né certezze, liberi di scoprire sulla propria pelle ciò che è bene e ciò che è male. Passo per passo, rivelazione per rivelazione, i due esseri umani prenderanno atto della loro nuova condizione, arrivando quasi a preferire una libertà cosciente alla cecità banale del Giardino: “Se non avessi mangiato quel frutto, disse lei fissandolo negli occhi, non avrei mai assaggiato un fico o un’ostrica, non avrei visto l’Araba Fenice risorgere dalle sue ceneri, non avrei conosciuto la notte, nè avrei saputo cosa significa sentirmi sola quando tu non ci sei; non avrei sentito il mio corpo, gelato anche in mezzo alle fiamme, che si scaldava appena pronunciavi il mio nome e avrei continuato a vederti nudo senza sussultare e non avrei mai saputo come è bello quando scivoli dentro di me come un pesce che inventa il mare”.

È così che ha inizio la Storia dell’umanità: la scoperta dell’agricoltura e della caccia, l’addestramento degli animali, la sofferenza del parto e la meraviglia di mettere al mondo delle creature a propria immagine e somiglianza. Fino all’incomprensibile rivelazione della morte, vista, per la prima volta, negli occhi lucidi di un coniglio catturato da Adamo, poi nello sguardo fisso e gelido di Abele, ucciso dal fratello Caino per amore e per gelosia. È con magistrale bravura che Gioconda Belli ci racconta tutto questo, arrivando a toccare le corde più profonde del cuore del lettore perché, come sostiene lei stessa nella chiusa finale della Nota dell’autrice: “Con tutta la meraviglia e il suo stupore, questa è la storia di ciascuno di noi”.

“Fare scene. Una storia di cinema”. Intervista a Domenico Starnone

Nell'aprile del 1995 usciva nei cinema il film, amatissimo, La Scuola. Io avevo 15 anni e sono andato a vederlo, come tutti, con alcuni compagni di scuola: il film parlava proprio di noi, dei nostri professori, della nostra scuola sebbene non fossimo nella periferia di Roma; eravamo nella provincia marchigiana. L’abbiamo visto più volte, devo dire, e ci divertivamo a citare le battute del film: “Oddio, è caduto Vasco!”, “Eh, c’è chi è nato per zappare!”, oppure facevamo ‘l’urlo della notte’ e l’imitazione della mosca. Solo tempo dopo abbiamo letto i libri da cui era tratto il film, Ex cattedra, Fuori registro e Sottobanco. Così, io e i miei compagni di classe abbiamo conosciuto e cominciato ad amare lo scrittore Domenico Starnone.

Fare scene. Una storia di cinema (ed. minimum fax 2010) è un libro bellissimo sul cinema, sulla passione per il cinema. Il libro è diviso in 3 parti: Primo tempo, Intervallo e Secondo tempo. È il racconto di come la passione si è impadronita dell’autore bambino, di come poi lo ha spinto a non poter far più a meno di immaginare storie, e di come da grande quel bambino sia diventato uno sceneggiatore.

Chiedo a Domenico Starnone del suo rapporto con i personaggi. Come si arriva a costruire dei personaggi così reali, così pieni e profondi?

Un racconto ha bisogno di due cose: la prima è che il lettore creda alla vicenda di cui sta leggendo (e non ha importanza che si tratti della storia di Anna Karenina o di quella di Frankenstein: il principio è lo stesso); la seconda, che è cosa forse ancora più importante della prima, è che lo scrittore creda a ciò che sta scrivendo. I narratori, da sempre, le hanno inventate tutte per sospendere l’incredulità dei lettori e la propria. Io tendo a utilizzare gli effetti di verità che derivano dall’impressione di attingere alle esperienze della mia vita. Ma è un’impressione, appunto, puntigliosamente costruita. Le storie che racconto sono storie di invenzione che attingono a situazioni e a sentimenti che conosco bene: la scuola, Napoli, il mondo letterario e quello del cinema, un ospedale, la gelosia, la passione per la politica, certi lavori, etc. Lo stesso ragionamento va fatto per i personaggi: un personaggio si costruisce modellandolo su persone che si conoscono a fondo, con i sentimenti e le emozioni che abbiamo sperimentato in profondità, con parole e gesti e movimenti interni che abbiamo osservato negli altri e in noi stessi. Ma tutto questo non dà alcun risultato di rilievo se non si trova una tonalità della scrittura, una ‘voce’ capace di raccontare con naturalezza, un nostro stile senza il quale né le storie né i personaggi starebbero in piedi.     

Natalia Ginzburg nella prefazione a La strada che va in città, dice che lei scrive non per caso, e intende con questo, il dire di quello che si ama attraverso la memoria che è amorosa e non è mai casuale. Lo condivide?

I libri nascono quasi sempre da occasioni ( un incontro, un malessere, un sogno, un gesto, una memoria, o una proposta editoriale). Ma le occasioni acquistano forza e producono buoni libri solo se smuovono una qualche area nascosta di noi che forse, senza quella opportunità, non ci saremmo mai accorti di avere. Succede a volte che un’occasione tiri qualcosa dal fondo del pozzo, e tutto si avvii subito, in poche settimane nasce un testo. Ma più spesso succede che ciò che è venuto fuori frutti poco o niente e abbia bisogno di tempo, a volte di molto tempo, per articolarsi, trovare senso, lasciarsi raccontare.

Domenico Starnone ha scritto numerosi romanzi – tra gli altri Via Gemito del 2000 con cui ha vinto numerosi premi incluso lo “Strega”, Labilità del 2005, ­Prima esecuzione e Spavento gli ultimi – e numerosi film – tra gli altri, la Scuola del 1995, Del perduto amore del 1998, l’Uomo nero del 2009. Vive e lavora a Roma.

“Acciaio” di Silvia Avallone

Bentornata, Letteratura.

Non so quasi nulla di Silvia Avallone, praticamente le note di copertina che parlano di Biella, Bologna, Filosofia.

So che si è già accesa una polemica (ridicola) tra piombinesi soddisfatti di come la loro città esce dalle pagine del romanzo e piombinesi scontenti per opposti motivi (naturalmente la maggioranza).

So che la candidatura della Avallone al Premio Strega ha fatto storcere la bocca a molti.

So che al massimo il 50% di quelli che esprimono pareri hanno letto il libro.

So che “Acciaio” è un romanzo come in Italia non se ne vedevano da tempo.

Il riverbero accecante del sole, la puzza di umanità stagnante tra i palazzoni popolari, le giornate  scandite dal ritmo pigro e ossessivo della fabbrica Lucchini, leviatano dispensatore di vita e di morte, il mare quasi pasoliniano della Maremma proletaria sono immagini che ti restano inchiodate nella mente come le scene di “Una giornata particolare” di Scola , a volte addirittura come i piccoli, immortali  personaggi de “La storia” di Elsa Morante.

L’amore non amore senza via d’uscita tra le adolescenti Anna e Francesca, i goffi tentativi di riscatto fatalmente votati al fallimento di una generazione strangolata dalla provincia italiana del terzo millennio, dove le cose succedono solo in televisione e l’11 settembre si confonde con Striscia la notizia, le piccole e grandi violenze quotidiane sono il filo conduttore di una storia a un tempo  italiana, per come rappresenta la faccia più vera di questa nazione in crisi di identità permanente, e universale.

La maledetta provincia globale, che fa della Maremma un piccolo west senza regole e di Anna e Francesca  due Thelma e Louise in miniatura, senza bussola e senza bandiera, in balia di personaggi maschili stupidi e/o cinici senza eccezione alcuna.

Sullo sfondo , come due giganti mitici e spietati, la fabbrica dell’acciaio e l’Elba, l’isola che non c’è per i dannati di via Stalingrado, assistono beffardi al compimento degli umani destini.

“Tutta mio padre” di Rosa Matteucci

Si apre nell’ombra apatica di un casa in disuso l’ultima fatica di Rosa Matteucci, tra mucchi di bollette scadute e soffitti infestati da voli molesti di passeri. Il prologo apocalittico di Tutta mio padre (Bompiani, 2010) accoglie le peripezie mentali dell’unica persona ancora in vita tra le pareti domestiche, cantastorie al capolinea che non spreca certo il  fiato in inutili giri di parole: « Qui non c’è più nessuno. Sono tutti morti».

È la Rosa protagonista di questo romanzo dal sapore picaresco a parlare: una volta avvisato il lettore, il sipario si apre in una rutilante successione di eventi au rebour , tutti dedicati ai capitomboli della sua famiglia sgangherata che, caduta in rovina, si ritrova ad affrontare la miseria ricorrendo alle soluzioni più inusuali. Così come ricorda la stessa scrittrice: «La mia vita è stata una partita di Monopoli, giocata ai dadi col padreterno durante una perenne Settimana Santa che invariabilmente si concludeva di venerdì: si arrembava il Calvario, ci si accomodava alla meno peggio e via, la Resurrezione era sempre rinviata a data da destinarsi».

Prende il via in questo modo,  grazie alla penna ambiziosa della scrittrice, la costruzione di un “bestiario” d’alto livello che non delude fino all’ultima pagina.

Un’umanità ingombrante ed eccentrica che brulica dapprima negli spazi fastosi dell’antica villa patrizia dei nonni e poi nell’angustia del cachot, rifugio d’emergenza infestato dalla precarietà e dalla sporcizia, unico molo d’approdo dopo la rovina economica. Si procede dunque nella storia per sagaci antinomie, attraverso rivalità caratteriali calcolate che esplodono nel segno dell’eccesso: dai personaggi secondari delle servette, popolane ignoranti e sensuali dal vago gusto felliniano, all’alterigia abulica della madre che, ossessionata da ininterrotte letture impegnative, rappresenta il modello, a ben vedere venuto male, di una nobiltà estranea alle storture e ai difetti del volgo. Nel bel mezzo transitano, per dare colore alla narrazione, altre figure – a  volte semplici macchiette – che completano il bizzarro albero genealogico attraverso minuziosissimi flashback da manuale, unico baluardo della vita aristocratica prima della decadenza.

Ma il vero protagonista della storia è lui, il padre, ingegnere, cultore delle arti esoteriche, scansafatiche impenitente e giocatore d’azzardo di professione. È lui che dà il la ad ogni battuta che apre la scena di una nuova  – e disperata – frazione di vita. Che sia la fine dei giorni felici o la speranza di un “bissness” che risolleverà le sorti della famiglia, la figura paterna tara gli umori del resto della trama, portandosi addosso tutte le responsabilità del successo del libro. L’occhio della figlia, prima bambina poi adulta, che osserva l’evolversi degli eventi non può che dare conferma di questa dichiarazione d’amore tra le righe. Anche quando la vita può andare solo peggio di quello che si possa immaginare, Rosa, travolta da un crescendo di disavventure al limite del grottesco, resta impassibile, senza mai abbandonarlo, non rinuncia di stare al fianco di un uomo inaffidabile che fa la spola tra Roma e Orvieto con le tasche piene di inutili giocate al lotto, tutte stipate con cura nella giacca da dandy impomatato.

Lo stile si affida al comico con punte esilaranti di satira e puro divertimento, spesso seguite da contraccolpi di lunghe e faticose descrizioni di interni bui, desolati, al limite dell’umana sopportazione.

La cronaca della Seconda Vita dei protagonisti – che è anche cronaca dell’Italietta provinciale che mal si adegua agli antichi retaggi nobiliari – è un susseguirsi di “sfighe da manuale”, tutte superate con stoica sopportazione o soffocate nel vortice surreale della più totale incoscienza.  Il resto, come la consapevolezza, sopraggiunge solo nel finale, con l’incombere della morte e la caduta di quelle fragili certezze a cui Rosa si è aggrappata per resistere agli urti della vita. Qui a prendere la parola è il padre, in una lettera scritta alla figlia nel letto di morte: «Figlia mia, ora ti racconto come è vissuto tuo padre» e in  questo addio che si fa un po’ resoconto di una storia, il monito proposto accontenta il lettore, in toni pacati e nostalgici che tanto si adeguano al finale attraente:« Ogni tanto nella vita bisogna pur sognare, lasciarsi andare alla fantasia, che male c’era? Se non si sogna almeno un po’, come si fa ad andare avanti? Noi abbiamo sognato insieme… Ricordati, Rosa, che la vita è strana e sublime, perché si può sempre e di nuovo inventare e amare».

“Accanto alla tigre” di Lorenzo Pavolini

Ricevuta la notizia della vittoria allo Strega di Pennacchi, ho subito pensato che “beh, avrei preferito vincesse Pavolini”. Sempre così, d’altronde. Quelli che vincono non vanno mai bene. Accanto alla tigre (Fandango 2010) non poteva vincere, è un libro troppo difficile, intenso, duro. Un libro sofferto. L’autore ha messo tutto se stesso e forse anche qualcosa in più. Storia e letteratura. O viceversa. Poco importa. Scavare nel dolore non è mai facile, soprattutto se il proprio dolore coincide con quello di un popolo. L’Italia, si è vero l’Italia. Un paese che non riesce a cambiare pagina. Il fascismo esiste o non esiste. Ancora. Il sogno di qualcuno, l’incubo di altri. Portare un cognome come Pavolini presuppone una scelta: o si scappa da se stessi o si cerca di capire le proprie origini, tornando indietro a cercare la radice di tutto.  

Stare dalla parte sbagliata, ma portare avanti fino alla fine le proprie convinzioni. L’antieroe per eccellenza che si perde nel mito, nel racconto.

L’orrore di quell’immagine (simbolo di un paese immaturo) – i cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e alcuni gerarchi in Piazzale Loreto appesi a testa in giù tra cui lo “scomodo” avo, quell’Alessandro Pavolini, mente fertile del fascismo – fa scattare in lui una sete di conoscenza, una arsura difficilmente quietabile.

Tutto è ricostruibile, come un puzzle, ma ci vuole tempo e voglia. L’autore ci prova e ci riesce anche perché conosce il solco che ci passa in mezzo. Lo spazio, il tempo, la vita quotidiana. Il presente. Il futuro. I paradossi del nostro paese e di questo primo decennio del nuovo secolo. I paradossi di un quartiere come quello intorno a piazza Vittorio, a Roma. I paradossi di una città multietnica ma non metropolitana, “europea”. Una città che accetta generazioni di neofascisti – quelli che hanno la loro “caserma” a Casa Pound – e non accetta un futuro troppo pieno di incognite.

“La fuga di Tolstoj” di Alberto Cavallari

Mi sono avvicinato agli scrittori russi in ritardo. Non so perché. Mi restavano difficili i nomi, forse. Ho cercato di colmare questo gap leggendo furiosamente Tolstoj. Pagine su pagine e mi sembra di conoscere ancora pochissimo quel mondo. Allo scrittore di Anna Karenina, l’intellettuale indù Kumara un giorno scrisse “voi siete nato russo, ma appartenete al mondo intero”. Più passano gli anni e più credo che la realtà è rinchiusa in queste parole.

Ho provato ad immaginarmelo, Tolstoj. L’ho sempre pensato avanti con l’età, qualche chilo di troppo, un bastone nella mano. Pigro. Un cappotto scuro, magari nero. Intorno tanta neve. Un professore all’università, mi parlò della sua partenza, del suo “congedo”, della sua morte. Del clamore. Io continuavo ad immaginarmelo come un omaccione sul divano, magari con un foglio in mano e gli occhiali, piccoli, sugli occhi. Non riuscivo a “vederlo” questo viaggio.

Poi ho avuto tra le mani La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari, non quello pubblicato anni fa da Einaudi, ma un delizioso volumetto della casa editrice Skira. Un libricino esile, con una bella copertina rigida. Cosa assai rara, oggi. Lo sfoglio. Prima di iniziare a leggere osservo le fotografie inserite in mezzo. Fotografie in bianco e nero. Fantastiche. Eccolo, Tolstoj. Diverso da quello che mi immaginavo. Non avevo mai visto una sua immagine neanche su internet, se non quelle piccole sotto le biografie, in quarta. Poi mi perdo nel racconto e con un autore che, da sapiente giornalista qual era, sa giocare benissimo tra la forma-romanzo e la cronaca. Voglio sapere della morte. Ma l’autore no, non me ne vuole parlare. Torna indietro. Vuole ripercorrere, con viva intensità, i giorni tra la scelta dello scrittore russo di scappare via dalla propria casa e la fuga. La morte c’è ma è solo un corollario.

Sullo sfondo di questa fuga c’è la “Santa Russia”, quella raccontata dal mio professore. Quella di cui sentivo parlare, da bambino, negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Sono i paesaggi raccontati da Tolstoj. La tenuta di Jàsnaja Poljana è davanti ai miei occhi. Sento persino il freddo. Quello dell’autore russo non è solo l’abbandono di un luogo fisico ma una scelta consapevole di separare il proprio “io” da una realtà soffocante.Si sentono i cavalli, il vento, l’erba e la terra calpestate.   

I continui litigi con la moglie Sof’ja Andréevna Bers – quella, per intenderci, che ricopiò per ben sette volte il voluminoso Guerra e pace – rappresentano soltanto la scintilla di un vaso che trabocca da troppo tempo. Sof’ja, in un certo senso, cerca di mettere in piedi una struttura razionalista, di trovare le “ragioni” della realtà: si compiace degli onori ricevuti dal marito ma si preoccupa di non far concretizzare quell’ideale di povertà che rovinerebbe non solo gli equilibri ma una famiglia composta di sette figli e ben venticinque nipoti. Io però sto dalla parte di Tolstoj. Devo stare dalla sua parte. Poco importa che l’autore russo, come affermò Sklovski, vagheggia una società contadina di stampo patriarcale, che tuttavia non poteva che appartenere al passato.

Il viaggio ha un non so che di evangelico. Siamo attratti, sono attratto. Tolstoj vuole uscire da se stesso, si libera del peccato, della terra che lo circonda, del sangue che gli scorre nelle vene. E infine decide morire, o rinascere, nella stazione di Astàpovo. Come se niente fosse.

Antonio Pennacchi vince il Premio Strega 2010

È Antonio Pennacchi il vincitore del Premio Strega 2010. Con Canale Mussolini (Mondadori, 2010) lo scrittore di Latina si è aggiudicato il celebre premio dopo un serrato testa a testa con Silvia Avallone, autrice di Acciaio (Rizzoli, 2010). I voti che hanno portato Pennacchi alla vittoria sono stati 133, contro i 129 della giovane rivale.

Malgrado le polemiche circa l’ennesima vittoria del gruppo Mondadori, che ormai da quattro anni si aggiudica il premio, e senza nulla togliere agli altri finalisti, appare evidente come la maestria e l’esperienza di scrittore di lungo corso quale è Pennacchi, abbiano prevalso sulla bravura di autori per lo più esordienti, o quasi, come Matteo Nucci, Lorenzo Pavolini, Paolo Sorrentino e la stessa Silvia Avallone.

Canale Mussolini, oltre a mettere in mostra la cura per i particolari e l’attenzione per gli avvenimenti storici del Novecento, che da sempre contraddistinguono i romanzi di Pennacchi, riesce a far emozionare il lettore con una storia che a buon diritto è stata definita epica, una sorta di epopea italica, testimonianza di un tempo e di un paese nel mezzo di un mutamento epocale.

Il romanzo di Silvia Avallone, già vincitrice del Premio Campiello Opera Prima, è, invece, ambientato a Piombino, all’ombra delle terribili acciaierie, dove il destino di due ragazzine si incontra e si scontra con le varie età della vita, con la dura realtà della provincia italiana, con la decadenza dell’immagine dell’operaio, ormai privata di quel fascino quasi mitico che un tempo le era proprio.

Terzo classificato, con 59 voti, è arrivato Paolo Sorrentino con Hanno tutti ragione (Feltrinelli, 2010), un romanzo che si propone come una sorta di summa dei film del giovane regista italiano, il cui degno rappresentante è Tony Pagoda, cantante napoletano che ricorda molto, forse troppo, il protagonista del film Un uomo in più.

Al quarto posto Matteo Nucci con il bellissimo romanzo d’esordio Sono comuni le cose degli amici (Ponte alle Grazie, 2010) ha totalizzato 38 preferenze. Un libro, quello dello scrittore romano, che farà sicuramente parlare di sé vista la qualità e la freschezza scrittoria che lo contraddistinguono.

 

Infine, con 32 voti, è giunto quinto Lorenzo Pavolini con Accanto alla tigre (Fandango, 2010), romanzo particolare e sui generis, duro e toccante al tempo stesso, assolutamente degno di essere arrivato fra i cinque finalisti.

Intervista doppia: Nicola Lagioia e Antonella Lattanzi

 

Nicola Lagioia, nato nel 1973, già autore di vari libri tra cui Occidente per principianti, lavora per Minimum Fax dove si occupa della collana sulla narrativa italiana. Da poco è uscito per Einaudi il suo romanzo Riportando tutto a casa.

Antonella Lattanzi, nata nel 1979, ha pubblicato quest’anno, sempre con Einaudi, il suo primo romanzo, Devozione, la storia di un’eroinomane, Nikita, e del suo fidanzato Pablo.

Entrambi sono di Bari e descrivono i problemi della società attuale, in particolare dei giovani.

Quali sono i vostri riferimenti letterari?

NICOLALAGIOIA Ho amato molto Beppe Fenoglio e i primi libri di Aldo Busi. Rileggo volentieri William Faulkner e la scoperta degli ultimi anni è stata Roberto Bolaño, cileno: ha rivoluzionato il genere romanzo degli scrittori americani di fine ’900.

ANTONELLA LATTANZI Il mio libro preferito è Il maestro e Margherita, l’ho letto varie volte. Mi piace molto anche Philip Roth, invece tra gli italiani adoro Fenoglio, soprattutto La questione privata, poi Vittorini, Calvino e anche Walter Siti e Domenico Starnone.

Quali sono le vostre dipendenze, nel bene e nel male?

NICOLA LAGIOIA Qualsiasi scrittore ha una dipendenza per la scrittura. Un libro può tenerti occupato per due, tre anni in cui ti occupi sempre della stessa cosa. Se questa dipendenza non c’è, se la scrittura non ti chiama a sé non scrivi un libro. È una forma di urgenza, e anche un’esperienza conoscitiva. È qualcosa che sta a metà tra l’esorcista e lo scienziato, hai a che fare con i tuoi demoni e come uno scienziato vuoi scoprire le leggi che governano la vita dell’uomo. Come il mito di Faust, che alla conoscenza sacrificherebbe tutto.

ANTONELLA LATTANZI La scrittura è una dipendenza: quando va bene, va tutto bene, quando invece va male, va tutto male. E deriva da un’altra dipendenza: quella per la lettura. All’inizio, quando arrivai a Roma mi sentivo sola e lessi “Amabili resti”: mi sentii subito felice. Sono anche dipendente dalle sigarette, dal computer e dai miei genitori.

Quali sono i vostri rapporti con la terra d’origine?

NICOLA LAGIOIA Ho un rapporto non riconciliato con Bari, quando ci torno la mia vita affettiva è altrove. A Bari però si è popolata la mia prima vita affettiva, la prima fidanzata…Sono contento invece di questa primavera pugliese, del fermento della Puglia in questi anni, ma è da prendere con le molle, vediamo cosa succede…Certo sarebbe bello un rinnovamento del sud.

ANTONELLA LATTANZI Con la mia terra ho un rapporto di odio e amore. Ho imparato ad amarla solo quando me ne sono andata perché da lontano ho capito il valore di certe cose. Mi manca per esempio l’odore del mare. A Bari si sente l’odore del mare ovunque stai. Non ci torno spesso perché il distacco è sempre doloroso, però ci penso, mi sento barese.

Quando è nata la voglia di diventare scrittori?

NICOLA LAGIOIA Non so, penso quando ho cominciato il primo anno dell’università. L’importante è non prenderla come una carriera, perché è una continua scommessa con il fallimento. Per arrivare a una scoperta, uno scienziato fa tanti passi falsi prima di trovare la soluzione. Così quando stai scrivendo qualcosa capita che scrivi diverse pagine e poi le butti, succede.

ANTONELLA LATTANZI Andavo a scuola dalle suore, in terza elementare, una volta, il titolo del tema era: “Vi parlo di me”. Io scrissi che da grande volevo fare la scrittrice, che volevo scrivere storie per far ridere e far piangere. Avevo anche disegnato la copertina di un libro, era gialla e sopra c’era scritto: “Il mio primo libro”. Ho iniziato scrivendo racconti. Poi cominciavo romanzi che non finivo, perché ci vuole maturità stilistica per portarli avanti. Questa è la prima volta che ho padronanza della tecnica della scrittura. E questo romanzo parte da un racconto sull’eroina. Avevo scritto tanti racconti su prostituzione, sesso, pedofilia. Il lettore sente la sincerità dell’autore e l’importante è parlare di ciò che si sente dentro. Ci è voluto molto coraggio per scrivere questa storia. 

“Follia? Vita di Vincent van Gogh” di Giordano Bruno Guerri

Follia? Vita di Vincent van Gogh” (Bompiani, 2009), di Giordano Bruno Guerri non è solo una biografia del celebre pittore olandese. È anche e soprattutto un viaggio empatico nell’umanità e nella sofferenza di un genio. Partendo dalle lettere che Vincent scriveva al fratello Theo, Guerri sviluppa ed espone la tesi secondo cui van Gogh non fosse affatto pazzo, come, per anni, intellettuali e psicologi hanno affermato, ma bensì che soffrisse in realtà “di una sensibilità esasperata” che lo renderà “un uomo solo e sfinito, che non ce la fa più a sopportare quella sua oscena intimità con l’universo”.

Vincent van Gogh, morto suicida all’età di trentasette anni in condizioni di povertà e miseria, è considerato oggi uno dei pittori più importanti, colui che, una volta apprese le regole dell’Impressionismo, se ne fece innovatore, ponendo le basi dell’Espressionismo, grazie alla sua continua volontà di esasperare la propria interpretazione emotiva della realtà. Ma van Gogh è stato anche un uomo profondamente solo e incompreso, che fino agli ultimi istanti di vita fu ritenuto un reietto, un pazzo, un inetto. Ed è proprio mostrandoci il doppio volto del genio, che, come l’albatros di baudelairiana memoria, “esiliato in terra, fra gli scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo”, Guerri riesce a ridare voce, prima di tutto, all’uomo van Gogh, così sofferente e inadatto alla vita comune, da dedicarsi anima e corpo all’arte fino a farsi consumare il midollo.

Così scriverà il pittore olandese, due anni prima di uccidersi: “Noi artisti paghiamo un prezzo incredibilmente alto di salute, di giovinezza, di libertà, delle quali non dobbiamo godere nulla, proprio come il ronzino che tira una carrozza di gente che godrà, loro sì, la primavera”. Con la lucidità propria di una mente sublime, van Gogh, più volte, testimoniò al fratello questa sua predestinazione, tanto esaltata quanto pagata a caro prezzo. È in questa ambivalenza dell’essere artista che Guerri ritrova una delle cause principali del tormento di Vincent: “Il suo irrisolvibile problema umano fu non riuscire a conciliare il furore del genio con un briciolo di normalità. E quando il genio finirà per prevalere, com’era naturale che avvenisse, la sua vita più semplice e quotidiana ne verrà schiacciata”. Van Gogh cercherà di porre fine alla sua sofferenza con un colpo di pistola. Morirà dopo due giorni di agonia.

In definitiva, “Follia? Vita di Vincent van Gogh” è un libro decisamente interessante, a metà tra il genere biografico e lo scritto agiografico, in grado, attraverso una fitta rete aneddotica, di attirare l’attenzione del lettore senza mai annoiarlo ma, anzi, riuscendolo a coinvolgere nel misticismo esasperato di una tra le figure più affascinanti dell’Ottocento. Colui che legge non potrà, allora, non sviluppare una intima empatia per l’uomo van Gogh, tanto solo e disperato quanto così inesorabilmente geniale.

“Guardali, si credono noi”. Intervista a Paola Maffioletti

 

Guardali, si credono noi” è uno spettacolo teatrale dedicato a Ennio Flaiano e Federico Fellini, diretto e coreografato da Paola Maffioletti. Già ospite il 28 e il 29 maggio al Teatro Palladium di Roma, a chiusura del ‘Romatre Filmteatrofest 010’, il 2 luglio tornerà in scena a Pescara, in concomitanza della manifestazione per la consegna dei Premi Flaiano per il Teatro, il Cinema e la Televisione. Sul palco convivonoprosa, danza, proiezioni e canzoni dal vivo: un’opera completa che ci riporta all’Italia degli anni ’60.

Qualche domanda alla regista, che, con professionalità e pazienza, ci racconta il suo impeccabile lavoro, assolutamente da non perdere.

 

È la prima volta che va in scena “Guardali, si credono noi”?

Sì, ha debuttato in prima nazionale a Roma al Teatro Palladium, ospite del ROMATREFILMTEATROFEST 010, in occasione del centenario della nascita di Ennio Flaiano e del 50esimo de “La Dolce Vita”, date significative per la cultura italiana celebrate quest’anno non solo nella capitale, ma anche nel resto dell’Italia con eventi, convegni e spettacoli. Il nostro è stato un debutto promosso dal Dipartimento Comunicazione e Spettacolo DAMS di RomaTRE, che ha accolto il mio progetto proprio perché finalizzato alla celebrazione di Flaiano e Fellini, amici e collaboratori, artisti straordinari e innovatori.

Un rimando politico e sociale all’Italia degli anni ’60: parole, musiche, balli e addirittura immagini de “La dolce vita” proiettate dietro agli attori. È stato emozionante tornare indietro nel tempo?

Il testo che ho elaborato dalle opere di Flaiano ci ha proiettato in un passato recente che fa ancora parte della nostra cultura. Abbiamo constatato dell’autore il suo essere in qualche modo ‘profetico’ rispetto all’analisi della società italiana. Il progetto è stato ideato però per rivivere tutti gli aspetti più significativi di quel periodo, la satira sociale e di costume, la moda, la musica, il cinema, la televisione. Ne è nato uno spettacolo insolito, colorato e irriverente, una partitura per voci, immagini, danza e canto dal vivo costruita sottolineando anche le contraddizioni di quegli anni, in bilico fra la ‘dolce vita’ e la malinconia e il disincanto, fra l’euforia del boom economico e la crisi individuale e di coscienza. Certamente emozionante e coinvolgente, è stato come sfogliare sul palco, con il pubblico, un album di famiglia che ci accomuna tutti.

Nel cast 4 ballerine e 10 attori. È difficile coordinare 13 persone sul palco?

Il montaggio dello spettacolo è stato laborioso proprio perché non si tratta di uno spettacolo di prosa in senso tradizionale. Il coordinamento di più linguaggi è certamente complesso, ma è anche lo stile di racconto che più mi corrisponde, avendo io una formazione attoriale e di regia legata alla danza e al teatro corporeo.

Sono previste altre date a Roma o in giro per l’Italia?

Il 2 luglio saremo a Pescara, proprio a chiusura dei festeggiamenti per il centenario della nascita di Flaiano, pescarese di nascita e romano di adozione. Cercheremo inoltre di riprendere lo spettacolo a Roma, durante la stagione invernale.

In questo spettacolo lei è regista, autrice e coreografa. Quale ruolo le appartiene di più?

Il teatro che mi piace praticare è un teatro visionario, in cui realtà e simboli si mescolano, i linguaggi convivono e si rafforzano reciprocamente, e la regia ne è l’aspetto fondamentale, perché è sintesi e visione, è il mio punto di vista e il mio modo di raccontare. Per quanto riguarda i testi non credo di potermi definire autrice perché i miei spettacoli sono tutti basati su opere di autori che io amo e a cui in qualche modo rendo omaggio in modo, credo e spero, originale. Sono invece certamente autrice per le coreografie, perché la danza fa parte del mio bagaglio professionale da sempre.

Cosa ha pensato quando le è arrivata la proposta di far parte del “Roma3Filmteatrofest 010”? Ne aveva mai sentito parlare prima?

Il ROMATREFILMFEST aveva già ospitato un mio spettacolo, nato da un lungo laboratorio riservato agli studenti DAMS. Ne coordinavo 45, fra autori, attori, costumisti e collaboratori musicali. Era un progetto che partiva dalla scrittura scenica per arrivare alla rappresentazione. L’autore di riferimento era Shakespeare e il racconto si basava sui personaggi femminili. Per diversi anni proprio al DAMS ho tenuto stages e laboratori di formazione professionale. Credo quindi che questo nuovo progetto sia stato accolto anche in base ai risultati precedenti, sempre legati all’idea di un teatro dinamico, incontro di idee e di linguaggi diversi.

Altri progetti in cantiere?

Sto già lavorando ad un nuovo spettacolo, stavolta in qualità di coreografa, che debutterà il 6 luglio al GLOBE THEATRE di Roma: ‘I 2 gentiluomini di Verona’ con Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia. Sarà un allestimento più classico, ma sempre affidato al movimento e alla musica, eseguita dal vivo e composta da Nicola Piovani. Poi a settembre ancora studio e ricerca per un nuovo progetto da realizzare nel 2011. Nel frattempo, come dicevo prima, la ripresa invernale di “Guardali, si credono noi”…speriamo non solo a Roma!

 

‘Guardali, si credono noi’– Regia di Paola Maffioletti

Con Ludovica Avetrani, Manuela Boni, Valentina D’Angelo, Alessandro De Feo, Claudia Ferrini, Emanuele Lucas, Alberto Lo Porto, Serena Lupo, Daniela Martani.

E con la partecipazione amichevole di Luca Biagini.

Danzano: Maria Luisa Esposito, Viviana Filippello, Francesca Formisano, Chiara Graziano.

“Angeli caduti” di Harold Bloom

È innegabile che l’argomento trattato in Angeli Caduti (Bollati Boringhieri, 2010), di Harold Bloom, eserciti un particolare fascino sulla società di oggi, e non solo su quella americana, a cui l’autore fa specificamente riferimento. Sta qui infatti un primo motivo di attrazione alla lettura, accanto agli altri che sono: la brevità del testo e la scorrevolezza del discorso.

Non bisogna però farsi ingannare dalle apparenze, perché il contenuto è costellato di abbondanti riferimenti letterari, storico-filosofici e religiosi, riportati  in chiave chiaramente diacronica e tutti attinenti alle credenze gnostiche dell’autore.

Al di là, tuttavia, delle questioni filologiche, degli accostamenti letterari e delle esegesi bibliche, interessanti sono le suggestioni personali che l’autore intende comunicare, quasi subliminalmente, al lettore-destinatario: esse travalicano, a mio parere, la stessa tesi centrale del libro e diventano il vero messaggio dell’autore. Infatti, una volta stabilito che tutti noi possiamo considerarci “angeli caduti” e che, per Bloom, le due espressioni “angelo caduto” ed  “essere umano” sono in pratica due sinonimi per indicare la stessa entità o condizione, vi è tutta una serie  di messaggi che rivelano altrettante prese di posizione  dell’autore sulla società contemporanea e sulla sua weltanschauung o visione del mondo.

È pur vero che tali messaggi Bloom  sembra mutuarli da altri (Shakespeare soprattutto e da Ibn Arabi, in particolare la teoria della “lotta per l’angelo”), tuttavia la visione da lui proposta  non è priva di suggestioni e di riflessioni. Si rivedano ad esempio le pagine sulla lettura profonda e le cultura visiva: «Il nostro unico peccato è l’impazienza: per questo stiamo dimenticando l’arte di leggere. L’impazienza è sempre più spesso un’ossessione visiva; vogliamo vedere una cosa subito e poi dimenticarla. La lettura profonda è tutt’altro, richiede pazienza e memoria. Una cultura  visiva non può distinguere tra angeli caduti e non caduti, dal momento che non siamo in grado di vedere né gli uni né gli altri altri. Stiamo disimparando a leggere noi stessi: possiamo vedere immagini di altri, ma non riusciamo a vederci realmente, o a vedere gli altri».E altrove: «La lettura profonda viceversa è in declino, e se dimentichiamo come leggere e perché, finiremo per annegare nei media visivi».

Assai forte è, come si è detto, il legame con Shakespeare: «In Amleto – come in chiunque di noi, anche il migliore – la dimensione della caduta è dominante, eppure sussiste ancora l’intelligenza angelica. Questo ci riporta al perpetuo fascino degli angeli; siamo forse una loro parodia, oppure essi ci suggeriscono, come fecero ad Amleto, un elemento divino nell’immaginazione umana, con la sua intelligenza di ciò che sarà».

Non a caso questi riferimenti riportano a due altre opere di Bloom: Come si legge un libro, e perché (Rizzoli, 2000) e Shakespeare: l’invenzione dell’uomo (Rizzoli, 2001). 

Si può concludere quindi come Angeli Caduti possa considerarsi una logica ripresa di idee, già espresse da Bloom, ma in chiave di un angelicismo assai di moda, soprattutto negli Stati Uniti.  

“Sogni e pietre” di Magdalena Tulli

Un romanzo singolare è Sogni e pietre (Voland, 2010) della scrittrice polacca Magdalena Tulli; ma per essere più precisi e meno generici non si può neppure considerare un vero e proprio romanzo per la mancanza di elementi tipici del genere: trama, personaggi, dialoghi. Sogni e pietre non è un romanzo né un saggio, forse potrebbe essere considerato una sorta di opera filosofica o una storia surreale, di quelle che lasciano a bocca aperta una brillante fantasia, o, meglio ancora, la parafrasi dell’esistenza dalla nascita dei sogni e dei progetti umani fino alla morte dei desideri e all’oscurità senza fine.

La storia è quella della fondazione, della costruzione, della crescita di una città, metaforicamente paragonata ai frutti dell’albero universale, e descritta dalla Tulli, fin dall’inizio, come una qualunque città del pianeta Terra. Nelle prime pagine si ha l’idea della creazione e della fantasia creatrice degli uomini che popolano la città e sono sempre alla ricerca della perfezione, dell’ordine e della giusta forma da affidare alla struttura della città. I cittadini sono ligi ai doveri e trascorrono le loro giornate lavorando ore e ore per tenere nel massimo splendore la loro città che hanno creato dal nulla. Tutto quello che viene fatto possiede una logica e persegue la ricerca della bellezza. Il libro prosegue con la descrizione minuziosa di tutti gli sforzi dei costruttori, figure basilari dell’opera, per la crescita della città fino all’ossessione per lo sviluppo e alla corruzione che segue man mano e al periodo di rovina al quale è destinata. Infatti all’apice della vita inizia il declino che porta alla morte e all’implosione della “macchina” umana.

Nei passaggi che raccontano passo passo l’evoluzione della metropoli ci sono i sogni e le pietre: sogni umani, sogni di gioia e grandezza; e ci sono pietre, le pietre che hanno fondato la città. Sentimenti e razionalità. Sogni. Sonno e veglia, dritto e rovescio. Cambiamenti. Veglia perenne. Perdizione e caos. Rottura. Fine.

Tormentata dalla nostalgia e dal dubbio, ogni notte l’inquieta città dei ricordi espelle alcuni sogni – incantati germogli rampicanti che cercano un sostegno in silenzio e al buio. Ma non trovando nulla tranne altri sogni, creano nodi e cappi, si avviluppano gli uni sugli altri, si uniscono e si biforcano. Ci sono sogni scuri e chiari, ce ne sono di belli e di orribili. Ma la loro chiarezza deriva sempre dall’oscurità, la loro bellezza dall’orrore. Il turbinio di sogni mai recisi dalle cesoie riempie tutto il mondo e si può perfino dire che proprio questo turbinio sia il mondo, e che gli abitanti della città- insieme alle case, ai letti, le coperte, i ricordi, le domande senza risposta- servano solo a che i sogni vengano sognati.

Difficile da raccontare ma tutto da leggere, Sogni e pietre, è un libro sui generis scritto con grande stile e magico, imperdibile.