“Orange Is the New Black” di Jenji Kohan

Il 2013 è stato un anno fortunato per la Netflix, società statunitense che si occupa anche di streaming: grazie a serie come House of Cards e Hemlock Grove si è assicurata un futuro prospero coinvolgendo ampie fasce di pubblico. Quello femminile in particolare, non ha potuto fare a meno di appassionarsi a Orange Is the New Black, una fortunata produzione di Jenji Kohanmessa a disposizione dalla Netflix l’estate scorsa, che tornerà tra qualche mese con la seconda stagione.

La storia è ispirata alle memorie di Piper Kerman, che ha raccontato in un libro la sua esperienza in un carcere femminile; anche la protagonista della serie si chiama Piper ed è una deliziosa biondina con fidanzatino al seguito e un passato un po’ scomodo: oltre ad aver avuto una relazione omosessuale, la sua ex, Alex, era invischiata in un traffico di droga che finisce per coinvolgere anche Piper. Una volta accusata, quest’ultima sceglie di costituirsi per scontare la pena di un anno nel carcere di Lietchfield, dove vivrà la difficile esperienza della convivenza forzata e imparerà a sopravvivere adattandosi alle dure leggi del carcere e le sue gerarchie.

Chi ha avuto il piacere di seguire Oz o Prison Break ritroverà dinamiche simili in Orange Is the New Black, anche se ovviamente la dose di violenza è ridotta al minimo e i toni sono più leggeri: anche qui però ogni personaggio ha una storia personale da raccontare, la motivazione per cui si trova in prigione, lati nascosti che non emergono se non attraverso stralci di vita in cui li vediamo prima di Lietchfield. Ognuno ha il proprio ruolo: c’è chi comanda la cucina, la fidanzatina un po’ ingenua che sogna il matrimonio, la transessuale, la guardia corrotta e quella che si innamora della detenuta.

Qualcuno potrebbe obiettare che si tratti dei soliti cliché da prigione, in questo caso però è il modo in cui la storia viene raccontata a rendere la serie unica nel suo genere: prima di tutto, abbiamo una visione quasi esclusivamente femminile, fatta eccezione per il fidanzato di Piper e le guardie. In secondo luogo, finalmente qualcuno si è sforzato davvero nel caratterizzare i personaggi e dar loro una personalità credibile e soprattutto reale, tanto che ognuno di noi può facilmente identificarsi in ciascuno di loro.

Il perno principale è l’amore omosessuale che vede come protagonista Piper, da una parte desiderosa di una vita tranquilla e normale con il suo ragazzo e dall’altra ancora attratta dalla trasgressione e dall’ avventura, preda di tensioni non del tutto sopite nei confronti di Alex che suo malgrado ritroverà a Lietchfield e con la quale instaura un rapporto di amore/odio.

L’amore viene trattato nelle sue varie forme e diventa l’unica spinta per andare avanti: tutto ciò che esiste al di fuori della prigione è infatti solo un conforto mentale, è all’interno che si creano legami e si cercano contatti pelle contro pelle, per non sentirsi sole o per tenersi vive nell’attesa – per alcune lunga, per altre meno – di poter tornare a una vita normale. Col tempo però la vita fuori dal carcere si trasforma in un miraggio o in una visione straniante al punto che l’unico luogo in cui sentirsi al sicuro e costruirsi gli affetti diventa la comunità, un gruppo di donne che hanno da spartire la solitudine e la mancanza di certezze e prospettive.

Da recuperare assolutamente se ancora non la conoscete e consigliata anche al pubblico maschile (non solo per le grazie delle protagoniste). Se invece l’attesa per la seconda stagione è difficile da affrontare vi suggeriamo il libro della Kerman, sebbene gli eventi narrati nel telefilm abbiano preso una strada differente, intuibile già dal cliffhanger dell’ultimo episodio.
 

Cose che puoi fare con un barattolo di zuppa Campbell di Brock Adams

La strana traduzione del titolo (in inglese è Gulf, Golfo), non lascia intuire molto di Cose che puoi fare con un barattolo di zuppa Campbell (Round Robin, 2009) e non gli rende giustizia, quando invece il suo autore – un giovane laureato in scrittura creativa di nome Brock Adams – ha messo insieme una raccolta di racconti decisamente accattivanti.

I racconti brevi possono risultare una scelta un po’ vintage o demodé –per non dire obsoleta –, ma qui c’è una mescolanza di stili talmente variegati da amalgamarsi in un linguaggio attuale e fresco, sebbene non ci sia una vera e propria coesione tra le storie: storie che sono accomunate da situazioni ricorrenti e concetti chiave (la famiglia, i fratelli, il mare, il fiume, l’acqua) ed evocano immagini vivide e pulsanti, ricche di colori e personaggi ben caratterizzati nonostante le poche pagine di cui diventano protagonisti.

L’originalità sta nell’aver messo insieme tanti pezzi diversi che sembrano poter comporre lo stesso puzzle e incastrarsi senza difficoltà: con una semplicità disarmante l’autore è stato in grado di creare storie complesse che potrebbero tranquillamente essere scambiate per un capitolo autonomo di un romanzo ma anche resoconti di una sola pagina a metà tra un’introduzione e una freddura («La battaglia dei pollici» ne è un esempio perfetto).

La lettura risulta scorrevole e interessante, il pregio di questo libro è che riesce senza troppa difficoltà a essere un contenitore variegato in cui tutte le parti conservano autonomia, senza tradire però l’idea di fondo della raccolta, ovvero quella di riunire tanti piccoli pezzi che nell’insieme restituiscano un quadro preciso.

Il golfo, che la traduzione italiana non ha interpretato come un simbolo chiave, è in realtà il filo conduttore e la cornice della maggior parte dei racconti brevi; Adams, che in un’intervista ha detto di ispirarsi alla scrittura di Raymond Carver, l’ha scelto perché considera le correnti del golfo curative, «in grado di trascinare i personaggi lontano, verso la pace».

E in effetti il retrogusto che lascia la lettura di questo libro, nonostante alcuni racconti siano più cupi o intensi di altri, sa di pace e di estrema libertà, elementi che risultano essere l’essenza dello stile di Adams, per nulla intimorito dalle mille varianti lessicali che la scrittura offre né dalla possibilità di potersi staccare dal genere “classico” e osare un po’ di più, lasciandosi trasportare dalla corrente del golfo verso lidi ancora inesplorati.

(Brock Adams, Cose che puoi fare con un barattolo di zuppa Campbell, trad. di Davide Martirani, Round Robin, 2009, pp. 179, euro 13)

“That’s (im)possible” di Cristò

«Giocavano tutti nonostante tutto, anzi – direi – a causa di quel tutto che era niente. L’unica cosa che sapevamo è che era praticamente impossibile vincere e questo ci bastava. Non è la prima volta che succede nella storia. E poi c’era di mezzo l’infinito, l’universo, il superamento dei limiti, e c’erano soldi, una montagna di soldi, un numero preciso e bello e grande nel conto in banca, un numero che continuava a crescere settimana dopo settimana».

Pensate a un numero, qualsiasi numero da uno a infinito. Le possibilità di riuscire a indovinare quello vincente, il numero perfetto, sono pressappoco inesistenti.

Ma è questo il bello, la sfida con se stessi, con il caso, laddove anche il calcolo delle probabilità fallisce. That’s (im)possible di Cristò (Caratteri mobili, 2013) non è solo una lotteria su una piccola rete locale, è la speranza di sistemarsi, di sistemare intere generazioni, di non doversi più preoccupare del futuro, che importa se è palesemente impossibile vincere, basta solo questo per provare: «Era un infinito che la gente poteva capire, lo definirei pop, sì un infinito pop, non matematico, non filosofico. Non era l’abisso di logica dell’infinito attuale dei punti contenuti in una retta. Era un infinito con cui si poteva persino giocare, scommettere».

Un collage di prospettive, di testimonianze immaginarie e immaginate, raccolte in un racconto corale che esplora al limite del possibile i motivi che spingono una persona a partecipare a una trasmissione di cui ignora i retroscena e a consacrarla fenomeno mediatico mondiale.

Non solo quindi la Cart TV in Italia, ma la Svizzera, la Francia, la Spagna, l’Argentina, l’America, l’asse terrestre si è spostato sulla rete, nelle televisioni di tutto il mondo che simultaneamente ipnotizzano, promettono e non mantengono, provocano, vincono.

Il mondo inginocchiato davanti a un format parabola del postmoderno, dove Bruno Marinetti è il burattinaio silenzioso che muove i fili, il numero primo, l’ombra dietro alle estrazioni impenetrabili.

Cristò in That’s (im)possible esplora, senza denuncia, i meccanismi pandemici della società del consumismo, in cui il non sapere accresce l’audience e lo show arriva a diventare sinonimo di salvezza.

È un susseguirsi di interviste davanti a una telecamera, di voci fuori campo: giocatori accaniti, giornalisti iperattivi che riempiono pagine e pagine di rotocalchi, presentatori gonfi di gratitudine, filosofi diffidenti, astrologi esasperati e poi lui, Bruno Marinetti, immune al successo, agli incassi, alla spettacolarizzazione del suo prodotto. Marinetti ha un piano, e la lotteria è solo un mezzo per realizzarlo.

«Forse quella lotteria che avevo appena battezzato That’s (im)possible poteva essere qualcosa di più. Poteva essere la soluzione, la risposta, il significato».

E voi, qual è il numero più alto che riuscite a immaginare?
 

(Cristò, That’s (im)possible. Un racconto orale, Caratteri Mobili, 2013, pp. 74, euro 8)

“Last Vegas” di Jon Turtletaub

Sei premi Oscar in quattro, nove candidature in totale senza contare gli altri premi internazionali, capolavori infiniti a costellare la carriera. Sono queste le caratteristiche che accomunano Robert De Niro, Michael Douglas, Morgan Freeman e Kevin Kline (l’ordine è rigorosamente alfabetico), i quattro protagonisti di Last Vegas, buddy movie allargato in salsa geriatrica che porta i quattro divi a Las Vegas per un ultimo fine settimana di follie.

Sammy, Billy, Paddy e Archie sono amici da quando poco più che bambini scorrazzavano per Brooklyn e si facevano chiamare i Flatbush Four, dal nome della zona che bazzicavano. Sono passati cinquantotto anni, non vivono più uno accanto all’altro ma sono ancora amici. Sam si è ritirato in un pensionato in Florida con la moglie e le sue protesi in titanio, Archie passa le giornate appresso all’adorata nipotina sopportando il figlio iper-apprensivo, mentre Paddy, chiuso in casa da solo, continua a pensare alla moglie scomparsa da un anno, la donna che ha sempre amato sin da quando era la ragazza del gruppo. Sono tre vecchietti più o meno rassegnati al riposo. Solo Billy è diverso, con la sua villa di Malibu, i suoi capelli e denti ancora perfetti, la sua vita frenetica, la fidanzata trentenne, amata più come amuleto contro la vecchiaia che come persona, che decide di sposare. È per celebrare il matrimonio che convoca i tre amici storici a Las Vegas per l’addio al celibato, un tentativo oltre tempo massimo di essere ancora giovani come quando erano i Flatbush Four. Nella capitale del vizio, i quattro si lasceranno andare a feste, cocktail, tentazioni sessual/sentimentali, mentre Paddy e Billy avranno modo di risolvere, finalmente, il sospeso che si portano dietro dall’infanzia.

Se non fosse per i suoi quattro interpreti, Last Vegas non sarebbe assolutamente capace di esercitare alcun tipo di attrattiva sul pubblico. Non è che si sentisse la necessità dell’ennesimo film variazione sul tema addio al celibato tra gli sballi di Las Vegas. Il regista Jon Turtletaub, abituato a un cinema di azione che non bada troppo a trame stupefacenti (i tre film con Nicolas Cage: i due della serie National Treasure e L’apprendista stregone), assieme agli sceneggiatori Adam Brooks (esperto in commedie romantiche) e Dan Fogelman (autore anche del soggetto, scuola Disney-Pixar) confezionano una storia lineare e prevedibile, serenamente destinata al lieto fine che rapidamente si intuisce essere diverso dal matrimonio preventivato. L’intuizione di trapiantare i quattro anziani tra le nuove frontiere della perdizione esaurisce in fretta il proprio slancio dopo l’iniziale gioco di contrasto con i giovani e le loro abitudini infilandosi nella rassicurante galleria di stereotipi generazionali.

I quattro attori, fortunatamente, danno brio e spontaneità, gareggiando con scambi di battute che tralasciano il politicamente corretto e ridono amaramente della terza età. Si divertono tra di loro, e il divertimento arriva allo spettatore, soprattutto nella prima parte che non si preoccupa di indagare i motivi della rivalità tra Billy (Douglas) e Paddy (De Niro) e di sviluppare la trama sentimentale con la cantante jazz Diana (Mary Steenburgen), che i quattro incontrano appena arrivati a Vegas, lasciandosi andare a momenti di sincera comicità. Sono soprattutto i personaggi di Sammy e Archie ad avere il compito di mantenere il registro sulla commedia. Kevin Kline e Morgan Freeman formano un’inattesa e funzionale coppia comica. De Niro, in un’operazione che ha qualcosa di analogo con quanto visto nel recente Il grande match, propone una variante più dissacrante del suo personaggio tipo di ex bullo di strada dal cuore d’oro, mentre Douglas, elegante, impeccabile e ricco, sembra un Gekko senza ferocia

(Last Vegas, di Jon Turtletaub, 2013, commedia, 105’)

“Zoo a due” di Marino Magliani e Giacomo Sartori

Quattro mani che con la chiave della scrittura aprono le gabbie di uno zoo immaginario e lasciano liberi gli animali di esprimersi in modo insolito. Zoo a due (Perdisa, 2013) è un bestiario fantastico composto da sedici storie, i quattordici racconti di Giacomo Sartori e le due novelle collegate tra loro, di Marino Magliani. Non è un libro per bambini, anche se si parla di animali, o meglio: sono gli animali stessi che parlano, in monologhi semplici, profondi ed esilaranti al tempo stesso, interrogandosi sui temi fondamentali dell’esistenza. Una lettura originale, per il lettore che vuole esercitare la propria empatia confrontandosi con la biodiversità, per conoscere meglio l’umanità essenziale, intesa socialmente in senso più classico humanitas, quell’insieme di qualità positive come la comprensione, la gentilezza, la solidarietà verso il prossimo; oggi ci chiediamo perplessi se sia solo appannaggio dell’essere umano e se alla fine, davvero le altre specie siano inferiori, da questo punto di vista. Far riflettere filosoficamente gli uomini tramite metafore o per bocca di esseri viventi di altra specie non è una novità in letteratura: dalle favole di Esopo alla metamorfosi di Kafka e ancora: Tolstoj,  Singer, Orwell e molti altri.

Nell’eteroclito e bizzarro zoo di Sartori scopriamo quanto siano complesse le relazioni sociali, le preoccupazioni ed i piccoli piaceri nella vita di esserini insignificanti tra protozoi e microrganismi, come l’ameba e l’ halobacterium. Un unicorno parla fiero delle imprese epiche ed eroiche della sua specie, per poi accorgersi di essere scrutato da due grandi occhi umani; in realtà vive soltanto nelle pagine di un vecchio libro di biblioteca, in un mondo favoloso che probabilmente non è mai esistito. Dove sta quindi il confine tra i mondi e tra uomo ed animale? Il polipo che riesce a tornare libero in mare dopo aver rischiato di bollire in pentola, diventa un mito per i suoi nipoti con la storia della sua avventura, proprio come il cane Cobre per suo figlio, che ripercorre le orme delle zampe del padre e ricostruisce la sua figura in modo indiretto.

Ci sembra quasi di riconoscere quelle storie di vita e di altri tempi, raccontate tante volte dagli anziani, un’oralità preziosa, troppo spesso inascoltata e a volte derisa: cosa importa alla fine se è tutto vero o il confine tra ricordo e leggenda è sottile? Punti di vista con i quali possiamo dissentire o ritrovarci, proprio come nel confronto continuo con le persone che conosciamo.

Il canarino che è nato e cresciuto in cattività non conosce altra realtà che la sua gabbia, nonostante i tanti disagi, in tutti i modi cerca di farsela piacere: non contempla alternative e si dichiara felice. Dopotutto la gabbia è rassicurante: non molto diversamente da tanti matrimoni di facciata e frustranti luoghi di lavoro dallo stipendio certo. La vedova nera spietata nel suo rapporto di coppia, crede invece che i maschi servano soltanto alla riproduzione e si disfa del compagno dopo l’accoppiamento, la formica anarchica si ribella al sistema. Un piccolo insetto non chiaramente identificato e chiamato eposilla, affronta i cambiamenti repentini di vita, quelli che non dipendono dalle nostre scelte e che colgono a volte impreparati e così, rimanendo aggrappata allo stelo sul quale vive, si ritrova in modo traumatico dalla campagna alla vetrina del negozio di un fioraio in città, stretta in un mazzo di fiori recisi insieme ad altri sfortunati insetti, ripensando ai tanti sogni infranti della sua spensierata gioventù e al senso dell’amore, se poi arriva la morte.

La frenesia moderna e le asettiche “catene di montaggio”, intese anche in senso lato, che portano alla perdita del senso dei rapporti più naturali e gratificanti, al valore del tempo sacrosanto da dedicare anche al silenzio e alle proprie riflessioni, al lavoro di una volta, che pur se più faticoso, altrettanto più dignitoso, sono nelle riflessioni degli animali a servizio dell’uomo e nelle loro dure giornate. Il dromedario che dalle lunghe carovane passate si ritrova a trasportare in monotoni e continui giri i turisti nel deserto, non perde però in onore e senso critico. La scrofa di un allevamento industriale, ancora inconsapevole della sua fine, elogia con nostalgia la promiscuità della fattoria, che pure se meno organizzata e più sporca, consentiva rapporti di amicizia e d’amore più sani ed una vita meno noiosa e prevedibile.

L’animale chiave del libro è il cane, non a caso quello più addomesticato dall’uomo. Nella storia di apertura la vita del cane non è poi così diversa da quella del suo padrone, un barbone. La novella centrale e quella finale sono tra loro collegate: tra le suggestioni emotive e le splendide descrizioni di un villaggio marittimo visto con occhi canini, seguiamo le orme di Cobre che è «portato a perdere», un eufemismo per dire che è stato abbandonato. Un cane randagio, «trasperso», negletto;  in vita un essere ombra per tutti e del quale la vera ombra, tracciata dal sole sul terreno, rimane impressa in una vecchia fotografia vicino a un bambino ben pettinato e con la maglia a righe.

Il diverso da noi, l’altro, in questo caso l’animale, dal più comune al più insolito, ci fa comprendere che alla fine non siamo poi tanto differenti gli uni dagli altri, di fronte alla vita e alla morte. Le perle di saggezza in questo libro arrivano da svariati microcosmi, perché tutto sommato l’esperienza di ogni individuo fa caso a sé e al contempo si rifà a un tutto.

(Marino Magliani, Giacomo Sartori, Zoo a due, Perdisa, 2013, pp. 177, euro 14)

“Black Neon” di Tony O’Neill

Tony O’Neill è tornato, e con lui il suo universo popolato da antieroi, tossici, criminali e anime dannate. Sì, lo so, detto così sembra un quadro abbastanza brutto e ripugnante, ma come diceva il buon De Andrè ne “La città vecchia”: «Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, / se non sono gigli, son pur sempre figli, / vittime di questo mondo».

Black Neon (Playground, 2013) è il seguito del fortunato Sick City e delle annesse avventure dei due irrimediabili drogati, Jeffrey e Randal: il primo è un ragazzo di vita che fin da subito ha assaggiato il sapore della strada, il secondo è un ricco figlio di produttori cinematografici sempre a rischio di diseredazione qualora non riesca a rimanere “pulito”. Oltre ai due, il filo che unisce Sick City a Black Neon è il cinema. Quello più estremo.

Se nel precedente romanzo i ragazzi si erano conosciuti per rubare un tape in cui si mostrava un porno amatoriale di Sharon Tate, qui c’è di mezzo una pellicola leggendaria, talmente famosa da essere attesa da tutti da quindici anni nonostante non sia stata ancora girata. Merito di uno dei protagonisti del romanzo, Jacques Seltzer, memorabile quanto folle e deviato artista diventato famoso con il film Dead Flowers. Un’opera così rivoluzionaria e repellente allo stesso tempo da creare un’attesa spasmodica per il seguito, bramato avidamente da una schiera lunghissima di produttori. Qui entra in gioco Randal. Sobrio da un po’ grazie agli Alcolisti Anonimi, la famiglia lo ha rilegato a servizio di Kenny Azura, nuovo Re Mida di Hollywood. Indovinate quale opera vuole produrre a tutti i costi? Esatto. Senza svelarvi troppo, vi basti sapere che il folle Seltzer – somma incarnazione di vizi e perversioni – per girare Black Neon vuole obbligatoriamente una guida che lo accompagni nei luoghi oscuri e torvi di Hollywood. La scelta non potrà che ricadere su Randal… E Jeffrey nel frattempo? Se la passa meno bene. Ha sperperato ogni spicciolo del “colpo Sharon Tate” e fa tutti i giorni la fila per il metadone. Il corpo in disfacimento, arriva a fine giornata grazie alla marchette del suo compagno transessuale. Ma il ciclone Black Neon investirà anche lui.

Ora, da queste poche righe, anche questo romanzo sembra incentrato sulle vicende dei nostri due tossici preferiti: sbagliato. In Black Neon sono le donne a farla da padrone, merito delle Thelma e Louise dei nostri giorni, mescolate in salsa Natural Born Killers: Ginger e Lupita.

Ginger è una prostituta ed è il primo incontro che facciamo aprendo il libro. Si sta preparando per andare da un cliente: finirà per essere stuprata e picchiata. Per riprendersi, niente di meglio che qualche tiro di anfetamina dal suo spacciatore di fiducia, il quale però, ha alcuni problemi con Lupita. Problemi che verranno risolti immediatamente. Lupita è un personaggio dalla caratterizzazione indimenticabile: una bellissima killer mezza haitiana mezza ispanica, priva di un braccio, lesbica, dal passato terribile e con qualche legame con i culti della Santa Muerte. Unendosi a Ginger formerà l’altra colonna portante del romanzo.

Più pulp e avvincente rispetto a Sick City, Black Neon mantiene comunque intatta e perentoria la scrittura iperrealistica e violenta di O’Neill. Alcune descrizioni e scene sono di un impatto che ha davvero pochi procedenti, portando all’estrema dilatazione moderna la linea narrativa tracciata da Fante e Bukowski, passando per Ellis e Welsh. Anche le influenze cinematografiche rifluiscono nella scrittura: in certi momenti sembra di trovarsi in un film del primo Tarantino o negli angoli delle strada frequentati dal Cattivo tenente di Ferrara. Come per miracolo, il romanzo risulta essere avvincente e intrigante, ma non per questo meno profondo o privo di spunti di riflessione, tutt’altro.

Non resta quindi che calarvi in quell’enorme e oscuro abisso che è Black Neon e capire davvero quale sia il vostro ruolo in quel breve film chiamato vita.


(Tony O’Neill, Black Neon, trad. di Gaja Cenciarelli, Playground, 2013, pp. 331, euro 18) 

[RockNotes] Le uscite di gennaio

TOY, Join the Dots
(Heavenly Recordings)

Nel 2012 i cinque inglesi figliocci degli Horrors avevano esordito col botto: vedi l’articolo su l’omonimo TOY. Join the Dots è l’emblema del secondo disco di un giovane gruppo sbocciato con fragore: musicalmente più variegato e ampio, ma alla fine meno gradevole rispetto al precedente. Comunque il livello è alto: l’impatto sonoro è rimasto inscalfibile.


Bachi da Pietra, Festivalbug
(Corpoc)

Scaricabile gratuitamente dal loro sito internet, Festivalbug (Corpoc, 2013) dei Bachi da Pietra ha tre dense tracce, tra le quali spicca la prima, “Tito Balestra”, dedicata all’omonimo poeta romagnolo. L’EP cantato per intero in italiano è una piccola perla, nera e opaca, di blues cupo e minimale.


Matana Roberts, Coin Coin Chapter One: Gens De Coulour LibreCoin Coin Chapter Two: Mississippi Moonchile
(Constellation)

La musica, come la storia, non può essere spiegata come un insieme lineare di fatti. Questi due lavori della sassofonista di Chicago – i primi di una serie di dodici – innalzano lo stendardo dello spazio discontinuo e del sapere disperso, elaborando un’archeologia musicale che non si limita a pulire antichi fossili, ma li canta ad alta voce, declamando in versi free-jazz la potenza atavica di una musica del mondo per il mondo. Sono nuovi canti di liberazione umana, con le radici nel Mississippi e la testa tra le nuvole. Imperdibili.


Jessie Evans, Glittermine
(Nuun Records)

Piantate filari di palme davanti al Bundestag, sostituite la birra del nord Europa con un buon mojito e avrete la matrice prima dei lavori musicali di Jessie Evans. Una colorata new wave dal sapore tropicale, un po’ punk e un po’ burlesque, viene riprodotta in serigrafie alla Andy Warhol, creando dischi che rappresentano sempre la stessa immagine, solo leggermente diversa nelle tonalità cromatiche. Stavolta non c’è nulla di nuovo sotto il cielo di Berlino, del Messico o della natia San Francisco.


Mogwai, Rave Tapes
(Rock Action)

I Mogwai hanno trovato la formula aurea. Dopo aver plasmato il post-rock con dischi epici, i musicisti di Glasgow negli ultimi anni hanno rinvigorito e dato nuova linfa alla loro musica: lo dimostrano i grandissimi lavori piazzati negli ultimi anni, comprese le loro colonne sonore, non ultima quel piccolo gioiello chiamato Rave Tapes, ottavo disco degli scozzesi, segue la scia degli “ultimi” Mogwai impreziositi dall’elettronica. Applausi.

“Splendore” di Margaret Mazzantini

Una regola aurea del “grande romanzo d’amore” prevede che l’amore stesso sia, per prima cosa, contrastato: che la coppia d’innamorati debba fronteggiare ostacoli alti come maree, i Capuleti e i Montecchi, Don Rodrigo e la peste, la rivoluzione d’ottobre, il legittimo consorte signor Karenin… cose così. Venuti meno, nella disadorna realtà attuale, molti di questi epici ostacoli alla soddisfazione del Liebestraum, in soccorso di Margaret Mazzantini, fresca autrice di Splendore (Mondadori, 2013), deve essere venuta la grande idea: gli innamorati, stavolta, saranno dello stesso sesso, maschile.

Ma poi – per non urtare troppo le più che probabili acquirenti del romanzo? per differenziarsi da tanti Anonimi lombardi e Scuole di nudo già in circolazione? – l’autrice ha pensato bene di dotare sia l’uno che l’altro Romeo di altrettanto legittime mogliere. Giapponese (un omaggio al Mishima di Confessioni di una maschera?) l’estrosa Izumi che, chiesta in moglie precipitosamente dall’io-narrante, Guido, entro una sola mezza paginetta, gli porterà in dote una figlia di primo letto, a sua volta grondante di assonanze con adolescenti nabokoviane; romana invece, e blandamente coatta, quella del prestante deuteragonista Costantino, che ne avrà una figlia subito scomparsa dal plot, e un ragazzino subnormale fecondo di bave gocciolanti, e altrettanto commoventi stupori da innocente.

Naturalmente non è il fatto che la scintilla possa scoccare fra due persone bisessuali, che si vuol qui porre in discussione: nonostante l’autrice dimostri, con oculati riferimenti ai locali gay di Londra e agli album di Tom of Finland, di essersi diligentemente documentata, quella che si avverte è la mancanza di consapevolezza interna, se così si può dire, del personaggio. Guido non ci dice, fin dal principio, come si sente, dentro, un uomo che si accorge di provare attrazione per un altro uomo; di punto in bianco, dopo essere stato oggetto, durante una gita fra liceali, di una masturbazione da parte di Costantino, e aver giaciuto con lui (scena che brilla per la sua scrupolosa attenzione a non sbilanciarsi mai in sgradevoli dettagli) sotto una tenda in riva al mare, il giorno stesso della morte di sua madre, lo vediamo «diventare quello che è», ed entrare, per così dire, nella parte.

Raggiunge, senza altre motivazioni, il suo amico ora soldato, e consuma con lui il primo degli amplessi che, sempre badando a non scendere troppo nei particolari (al simpatico personaggio secondario di Geena, che gli chiede «chi è la donna?», Guido risponderà, lapidario: «A turno»), costelleranno via via le successive due-trecento pagine del libro, intrecciandosi a canoniche vicissitudini di decadenze fisiche, malattie infamanti, degenze ospedaliere a seguito di pestaggi omofobi, decessi per cancro e urne cinerarie affidate al Tamigi: tutto quanto, insomma, possa raccogliere la commossa partecipazione di lettrici con alle spalle esperienze di congiunti accuditi.

Ed è sempre a beneficio del suo affezionato pubblico, che l’autrice affermerà, convinta, che i maschietti di quel tipo là sono tormentati altamente dal rodìo di sapere «che il loro orgasmo non potrà mai fecondare la creatura che amano». Non è sfiorata, la Mazzantini, dal dubbio che possa essere appunto questa la molla principale di un’attrazione fra persone dello stesso sesso: il rifiuto, più o meno consapevole, più o meno conclamato, del fatto che attraverso il proprio seme si ripeta l’immotivata violenza di cui a sua volta (quale che sia, del resto, il suo orientamento sessuale) uno è stato vittima?

Di sicuro più convincenti risultano, invece, gli altri aspetti del romanzo: soprattutto la caratterizzazione delle figure femminili, la madre del protagonista chiusa nella sua svagata inaffettività, o la dolce Izumi, disegnata per abili sfumature d’ombra e di silenzio, la vulcanica Leni, con il breve idillio per il subnormale Giovanni e poi gli altri suoi strambi fidanzati, sui quali però emerge, intrepida, la sua tenerezza per l’adottivo dad, o ancora Geena, con la sua elegiaca uscita di scena, preannunciata da un sogno come nei poemi epici (o nelle confidenze delle signore al mercato), e presagio di quella scelta per sé dal protagonista dopo lo scioglimento del plot. Nettamente virato, quest’ultimo – anche per le tonalità liriche dello stile –, verso il melodramma: vero ricatto sentimentale («e se non piangi, di che pianger suoli?») che il lettore ha meritato trascinandosi fedelmente fin lì per oltre trecento pagine.

Due parole, infine, proprio sullo stile del romanzo; a parte il tornare di uno stesso aggettivo, «liquoroso», in rapporto con almeno quattro diversi referenti, le frasi sono, di preferenza, brevi, brevissime anzi, smozzicate, quasi affannose; la tensione metaforica è costante, con esiti a volte felici, altre volte meno persuasivi: frasi come «la vita era esattamente così, una lampadina sporca appesa a una fune elettrica il cui unico generatore di corrente è l’amore» sembrano capaci di far rabbrividire perfino un bigliettino dei Baci Perugina.


(Margaret Mazzantini, Splendore, Mondadori, 2013, pp. 309, euro 20)

Tesseramenti


Della mia età sono tipiche le tessere. Tessera Arci, Mondadori Card, CartaPiù Feltrinelli, tessera Einaudi, tutte le tessere delle biblioteche di Lettere e Filosofia di Bologna (per le fotocopie), la fidelity card della profumeria La Gardenia, la tessera socio Coop e socio Conad, la tessera per entrare al Covo, per entrare al Casale, per entrare al Locomotiv, la tessera della biblioteca del mio paese (naturalmente), la tessera zero-ventisette dei teatri dell’Emilia Romagna, la tessera sanitaria, la tessera di Media World e quella della Comet. Più tutte le tessere dei negozi, che ti fanno un timbro ogni dieci euro di spesa e che se arrivi a mille timbri in un anno ti scontano dal prossimo acquisto, appunto, i dieci famosi euro. Che ci sono arrivata solo una volta a completarne una, di queste tessere, e manco ho ancora sfruttato lo sconto. E penso che la promozione sia scaduta. Ma in genere tendo a buttare le raccolte-timbri, buone solo ad aumentare il volume del portafoglio. Le butto; come devo poi ricordarmi di buttare anche la tessera del Casale, che è un pessimo locale che ci ho sfatto il davanti della macchina finendo in una specie di fosso non illuminato nel parcheggio e che l’altro venerdì c’era un’auto col vetro rotto e delle ragazze piuttosto isteriche e incazzate intorno. È un pessimo locale anche per la musica che mettono, ovviamente. Sicché ci si va solo perché, fatta la tessera, cinque euro validità un anno, dopo non si paga più per entrare. Poi è vicino casa, il Casale. Comunque il bilancio resta negativo, perciò devo ricordarmi di buttare la tessera e fare largo nel portafoglio. Che con tutti ’sti cartoncini più o meno plastificati, a tenerci anche quelli che non si usano, aumenta il traffico e relativi ingorghi e casini e disfunzioni di tessere. Che per quanto cerchi di riordinarle e separare almeno quelle culturali, da quelle dello svago, da quelle dei servizi, eccetera, insomma… Dicevo: che per quanto cerchi di sistemarle, queste poi inevitabilmente si mischiano sempre. Che quando prendi le sigarette al distributore, per dire, fai in fretta e la tessera sanitaria la metti a caso, dentro uno scomparto comodo, che non è mai il suo. Idem col Bancomat, La Tessera (quella deve stare sempre davanti a tutte, inutile dilungarsi sui motivi).

Ecco, tutto questo preambolo che apparentemente non c’entra e invece sì (che l’apparenza inganna lo sappiamo tutti). Allora tutto questo preambolo per dire che oggi, di un appuntamento, mi è rimasta una tessera. I soliti cinque euro per entrare a tutte le manifestazioni di tale Associazione X. Una tessera che molto probabilmente non userò più che l’Associazione è di Milano. Una tessera inutile allora. Da buttare per fare largo nel portafoglio. Ma andiamo per ordine.

Presente quando fai un weekend al mare? Niente di estremo. Vai in Riviera con un paio di vecchie amiche, a zonzo per le vie e poi in spiaggia nei localini – presente? – quelli con la musica tunz e i cocktails a 8 € perché l’ingresso è free. Niente di estremo, un paio di birre che noi mica beviamo tanto, c’abbiamo pure una certa età. In tutta questa calma piatta ti capita pure che incontri dei tizi. E tra tutti magari ce n’è uno mezzo decente, no? Bene, stavolta c’era. Ma poi – siamo onesti – era decente intero, mica tanto mezzo. E questo è il motivo per cui dopo, più in là, mi si è ingrassato il portafoglio di una nuova tesserina. Però continuiamo a andare per ordine. Niente: con ’sto ragazzo all’apparenza (vedi sopra, apparenza inganna eccetera) un po’ timido poi ci siamo scambiati i contatti e ci siamo sentiti. E da cosa nasce cosa e il sole sorge la mattina a Est e tramonta la sera a Ovest e panta rei. Dunque questo ragazzo, che chiameremo Marco perché è un nome abbastanza diffuso e non è il suo (che a differenza di quel che dice un noto cantautore italiano, di cui non farò il nome – ma posso anche farlo: Manuel Agnelli –, a me piace invece cambiare le robe, mescolare le carte e inventare di sana pianta quando scrivo). Dicevo: con questo Marco ci sentiamo e ci vediamo un paio di volte. Ma lui sta a Milano, quindi arriva presto il giorno che ha un’idea all’apparenza (e non mi ripeterò più sulla sostanza dell’apparenza) dolce e carina. L’idea di invitarmi su da lui che poi si va insieme alla manifestazione della tale Associazione X di cui ho già detto. Ah sì, dunque, l’evento in questione si potrebbe chiamare lettura in musica, tipo. Allora io mi gaso moltissimo – capite? – perché dico che cazzo, questo mi invita a una roba culturale, dove tra l’altro c’è quello scrittore che legge e quell’altro cantautore che un po’ mi piace… dai, che carino, che dolce, che bello che bello che bello eccetera. Ovvio che accetto. Che prendo la mia macchina e vado. La domenica. A Milano.

Sappiate che il benvenuto, a Milano, ve lo dà la barriera in cui abortisce brutalmente l’A1. E se siete sprovvisti di Telepass, ve lo dico a mo’ di informazione gratuita, i minuti di coda sono direttamente proporzionali alla prossimità oraria della partita allo stadio (ricordo che è domenica) e del flusso di pendolari in rientro.

Io approdo nella city di primissimo pomeriggio, ho praticamente saltato il pranzo, per cui a Marco gli dico che si può andare a prendere un gelato, intanto. Non siamo proprio in centro, Lambrate credo, o qualcosa di vicino. Me mi sembra di girare in tondo, penso che in macchina sarei del tutto incapace di gestire la situazione viabilità-parcheggi. Progetto che andrò a vivere in città (no Milano, oppure anche Milano, comunque una città prima o poi sì) abbandonando l’auto in paese e portandomi solo una bicicletta. E un lucchetto. Di quelli massicci, in metallo. Mentre io penso tutto questo, Marco mi fa camminare fin davanti al portone di casa (il gelato lo abbiamo già mangiato seduti sulla panchina davanti alla gelateria siciliana e lui era ridicolo coi baffi e la barba impiastricciati di gelato; comunque sempre bello). «Ci beviamo un caffè intanto che aspettiamo le sei». «Ok!» (ma non sono molto tranquilla… Mi deve essere sfuggito qualcosa nel tragitto gelateria-appartamento). Casa vuota. Divano. Acqua. Nessun caffè in arrivo. L’avevo anche pensato che poteva succedere. Che uno mica ti invita a Milano, dove vive, solo per andare insieme il pomeriggio a una roba intellettuale. Dopo poi mi ero anche detta ma uno perché si deve sbattere così per farsi una scopata, che a Milano mica ci sarà penuria di sgallettate? (Ad ogni modo adesso, che di tempo ne è passato un po’ da quella domenica pomeriggio metropolitana, posso dire che le vie per arrivare alla scopata percorse dagli ometti sono infinite. Ce n’è alcuni che proprio ti adorano per settimane solo per farti aprire le gambe. Non è che sia un avvertimento, amiche. Vi faccio solo l’occhiolino, che tanto sapete già tutto). E niente, mentre mi do dell’idiota e da cosa nasce cosa, il bellimbusto è pronto a portarmi di là. Blocco tutto in una maniera bilanciata tra il tenero, il goffo e l’imbarazzato. Ed è a questo punto che il marco di turno vorrebbe rispedirmi a casa tipo col teletrasporto. Invece deve tenermi lì che il teletrasporto mica l’hanno ancora inventato. Mi offre altra acqua poi dice che forse si può uscire e «magari si va a bere qualcosa».

Come quando cerchi i biscotti spezzettati in fondo al pacco maxi (gran risparmio), presente? Che smisti e smazzi e scuoti ecc. e non li trovi che sono proprio in fondo in fondo e tu hai appena aperto la confezione però sono le 19 e tu mica puoi mangiarti biscotti interi che poi si cena e ti senti in colpa e allora meglio sarebbero solo pochi pezzetti (che poi alla fine se te ne mangiavi uno intero era più economico, parlando in termini di chilocalorie; comunque). Come quando agiti la busta dei biscotti e non trovi i pezzetti, dicevo, qui nessuno dei presenti, che poi siamo Marco e io, trova qualcosa da dire. E la macchina procede. Poi fortuna vuole che si arrivi al posto dell’evento per cui mi feci cotanta strada, che è un ex edificio industriale un tempo sede di un’azienda grafica, per cui dentro c’è pure una paleografica macchina tipografica uau! Si entra, lui incontra facce note che lo salutano, io mi metto in fila per la benedetta tessera. Pluf, nel portafoglio anche lei, assieme alle altre; fatto. Che poi mi dico che tra tutta quella gente e nessun controllo se anche non l’avessi fatta, la tessera… ma va bene, certe Associazioni che organizzano robe decenti vanno anche sostenute.

Allora entriamo, procediamo tra la folla. C’è pure un bancone adibito a bar che vende birre alla spina e prosecco&Crodino già versati nel bicchiere per fare presto che c’è gente. C’è pure un bambino steso per terra che gioca con un vecchio trenino di legno e che io mi stupisco che a Milano ci sia ancora un bambino che i genitori lo lasciano spalmarsi sul cemento col vestito della domenica. E sorvoliamo pure sul trenino di legno che era molto dolce e mi faceva pensare neanche alla mia infanzia, che io al massimo c’avevo un trenino elettrico che andava sulle rotaie, ma forse a quella di mio padre.

Dunque entriamo, ok. Prendiamo posto. Ci sono delle sedie, delle panche, dei gradoni a lato. Dei giornalisti pure. Gente che fotografa. Cominciano quasi subito. Uno legge dei suoi racconti, l’altro suona qualche pezzo tra una lettura e l’altra. «È la mia canzone preferita… la sua mia canzone preferita…» faccio a un certo punto. Marco si alza «Vado un attimo in bagno». Ahahahah (rido di me). Ma io ti dico che mi piace una canzone e tu ne approfitti per andare a pisciare? Ma vaffanculo. Comunque bene, ricomponiamoci, facciamo finire in fretta la giornata. Eccolo là di ritorno, alto e bello come il sole. Intanto lo spettacolo (se lo vogliamo chiamare così) è pure finito. Mi avvicino. «Hai fame?» (lui). «Un po’» (io). «Dai, ci prendiamo una pizza poi ti riaccompagno alla macchina!» Ma voglio morire, ma portami diretta al mio mezzo che piuttosto mi mangio una Rustichella in solitudo all’Autogrill. «OK!» (troppa enfasi ci metto; comunque: procediamo spediti). Il “ci mangiamo una pizza” di Marco significa pizza al taglio mangiata all’impiedi e alla svelta. Tanta gente e puzza di formaggio. E puzza di sudore. Ok, facciamola finita. Mi riporta (finalmente) alla macchina. Ciao-ciao ci sentiamo e solite robe. Non credo però sia giunta la tenera raccomandazione di guidare piano e con prudenza. Ma neanche tipo di avvisare una volta arrivata. E c’avevo ben più di cento chilometri da fare sotto pioggia torrenziale (sì, poi ha pure cominciato a piovere, quando si dice le disgrazie non vengono mai eccetera). Va be’ che l’educazione vagola raminga oramai da tempo. Niente, allora ci siamo. Questo mi fa pat-pat sulla testa (nel senso che mi dà due buffetti sulla zucca proprio pronunciando tale onomatopea, pat-pat, a me ignota; ora ditemi voi che significa se potete… pat-pat cooosaaa?) e si può salire in macchina, ciascuno sulla propria, e ripartire.

L’indomani al solito bar sei pronta a pagare il tuo solito caffè. Sei di fronte al solito barista e apri il tuo solito portafoglio. La vedi. La tesserina di cartoncino dell’Associazione di Milano. Cazzo, la butto. Prendo lo scontrino, esco e butto tutto assieme. E poi esci e butti solo lo scontrino. Decidi che la tesserina nuova la lasci nel portafoglio. Non la butto che la tengo come promemoria. Che uno pensa che da un appuntamento magari ci si possa ricavare delle parole, o delle idee, o un caffè, un bacio, forse un arrivederci. E invece ti ritrovi con una tessera. Che in sintesi ti dice che sei un po’ ingenuo ma ancora te stesso. Tu che vai fino a Milano per vedere una persona e andarci insieme a sentire una lettura musicata. Tu che finisci nell’appartamento di questa persona ma non ci scopi perché in fondo «pare brutto», «affrettato?» «eeh, sì». Tu che vai alla lettura, mangi al volo una pizza al taglio, sei riaccompagnata alla macchina, in fretta salutata, bacio a stampo e buffetto in testa. L’indomani ti ritrovi con una tessera in più nel portafoglio.

“Chiamatemi Ismaele” di Marisa Bulgheroni

Una storia d’altri tempi, quella raccontata da Marisa Bulgheroni in Chiamatemi Ismaele (Il Saggiatore, 2013): la storia di una giovane studiosa italiana che approda a New York nel 1959, e dopo aver trovato inizialmente rifugio nelle accoglienti sale della Public Library decide di uscirne, e di andare non a studiare, ma a incontrare i protagonisti di quella che sarebbe diventata una delle epoche più produttive ed eccentriche della letteratura americana.

Meglio detto, non una bensì tante storie che, quando sono state per la prima volta catturate sulla pagina e diffuse – per lo più su quotidiani e riviste, su tutte Il Mondo di Pannunzio –, non erano per nulla d’altri tempi, anzi, avevano la freschezza di ogni avanguardia. Dalla volontà di scoprire e raccontare le voci più innovative dell’immenso calderone creativo che erano gli Stati Uniti degli Sessanta (e ben oltre, poiché gli articoli sono stati scritti tra il 1959 e il 1991) nascono infatti questi brevi reportage, a volte semplici bozzetti, altre volte interviste romanzate, delicati ritratti di scrittori spesso diversissimi tra loro: da Normal Mailer a Carson McCullers, da Allen Ginsberg e Jack Kerouac ad Harold Brodkey, ma anche Nabokov, E.L. Doctorow, Saul Bellow e altri ancora.

Il titolo stesso del volume, citazione ormai universale e cara a chiunque si sia accostato almeno una volta a quelle latitudini letterarie, è una dichiarazione programmatica: Melville si erge a emblema dell’anomalia che allora la letteratura americana rappresentava. Una letteratura nella quale, come scrive la Bulgheroni nel saggio introduttivo al volume, «il rapporto tra parola scritta e dato reale si presentava, come mai in altre, immediato, fisico: il mito oceanico di Melville sapeva di sale». Ed è lo stesso approccio che sembra voler seguire l’autrice, camminando per le strade, uscendo da alberghi e biblioteche per andare fisicamente a incontrare figure ancora grezze e immuni dal successo letterario, e restituendoci oggi scene raffinate – nel contenuto e nello stile – che a posteriori, con il trascorrere del tempo e dei libri, hanno acquisito ulteriore valore e significato.

Chiamatemi Ismaele è per il lettore contemporaneo una sorta di viaggio nel tempo, alla scoperta delle letture più amate da Donald Barthelme, per esempio, della lucida concretezza di Edmund Wilson, o della promessa romanzesca che già si celava nel ventiseienne Philip Roth.

Da sempre studiosa attenta e costante dell’America e di tutte le sue espressioni letterarie, instancabile divulgatrice di autori del calibro di H.D. Thoreau ed Emily Dickinson, Marisa Bulgheroni – dal profilo più accademico e sobrio della collega Pivano – ha il grande pregio di fare della critica letteraria anche un’esperienza sensoriale e personalissima, oltre che un esercizio di narrazione. I suoi scritti assumono così la forza delle cose immediate, dirette, in cui l’assenza di tecnicismi non è mancanza di approfondimento ma un atto di condivisione con il lettore di qualcosa che va al di là di un saggio ben confezionato, e si avvicina piuttosto a un frammento di vita, di storia. Da qui il sottotitolo, Racconto della mia America: una visione soggettiva, dunque, la cui lettura è quasi assimilabile a quella di un carteggio privato, ma resa universale dalla scrittura.

(Marisa Bulgheroni, Chiamatemi Ismaele. Racconto della mia America, Il Saggiatore, 2013, pp. 216, euro 17,50)

“The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese

Un buon film. Non un capolavoro, a tratti discutibile, ma pur sempre un film di Martin Scorsese. Di The Wolf of Wall Street si parla da quando era ancora in lavorazione e ora sono arrivate cinque nomination, di quelle pesanti (miglior film, regia, attore protagonista per Di Caprio, non protagonista per Jonah Hill, sceneggiatura per Terence Winter), per i prossimi Academy Awards, gli Oscar che tante volte hanno snobbato Scorsese e il suo protagonista Leonardo Di Caprio. Il regista di capolavori indiscussi come Taxi Driver, Toro Scatenato e i recenti Shutter Island e Hugo Cabret torna con un film nudo e crudo, quasi un’opera di denuncia velata da un leggero senso di colpa e di impotenza che avvolge in primo luogo il semplice spettatore, ma rimane, poi, ancora di più sul cittadino comune che osserva inerte, dal molo, la nave andare sempre più alla deriva. È un film violento, eccessivo, e certo, perché parla di lusso, glamour e superficialità, tutto quello che ormai abbiamo costantemente sotto gli occhi. Il film si ispira alla autobiografia di Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio), golden boy di Wall Street degli anni Ottanta e Novanta, che ha acquisito la propria fortuna facendo buon viso a cattivo gioco con la speculazione finanziaria, con l’utilizzo smodato e illegale del glorificato denaro come pane quotidiano. Sesso, droga e menefreghismo per un cocktail esplosivo, vera e unica apologia della deriva capitalistica.

La borsa di New York è solo il pretesto per dipingere il quadro desolante e disarmante di una società opulenta ormai ridotta alle macerie. Un mondo, quello finanziario – ma non solo, perché si parla anche anche di usi, costumi, credo e speranze – lasciato cadere a pezzi dinnanzi agli effetti devastanti della mondializzazione. E così c’è chi rimane intossicato dai soldi e dal potere che ne deriva, chi dal sesso e dalla droga che sono la cornice di una quotidianità che non ha punto di arrivo.

The Wolf of Wall Street è uno specchio realistico del tunnel sociale che la nostra epoca sta attraversando. Piccante e frizzante, vivace e sprezzante, il nuovo film di Martin Scorsese emerge come una commedia amara che trova nel comico la sua vera essenza tragica.

Scorsese e Di Caprio, dopo Gangs of New York, The Aviator, The Departed e Shutter Island, si confermano, qualora fosse stato necessario, grande coppia del cinema contemporaneo. Una certezza dall’aria forte e coraggiosa sul set, sempre al passo con i tempi e con le idee che cambiano con troppa facilità.

Il Belfort del sempre ottimo Di Caprio è l’emblema della perdizione e dello smarrimento sociale. Le truffe e la sua decadenza sono i pilastri di una vita all’insegna dell’edonismo più sfrenato che al di fuori di Wall Street non vale la pena essere vissuta. La disillusione del denaro che tutto può e che dal 1929 continua a riprodurre i suoi effetti devastanti e deleteri. Un mondo fittizio e marcio con cui l’essere umano in quanto tale niente ha a che fare.

The Wolf of Wall Street esalta gli eccessi infilando quasi tre ore di scene orgiastiche, di sesso e di droga, turpiloquio senza freni, vero linguaggio portante che accompagna lo scorrere irrefrenabile del denaro. Wall Street sembra un parco giochi, ludico e perverso, accessibile a pochi, devastante per i molti. Per Martin Scorsese il paese dei balocchi esiste. E fa male.

(The Wolf of Wall Street, di Martin Scorsese, 2013, drammatico, 179’)

“La ricchezza” di Marco Montemarano

A volte uno passa tutta la vita a rammaricarsi per come sono andati certi fatti, determinanti per la propria e altrui esistenza, e poi un bel giorno basta una parola – magari detta sottovoce da un conoscente, testimone del nostro passato – per scompaginare tutto.

Allora si scopre che la nostra vita non è andata come ce la siamo raccontata finora. E mentre il tempo ci passa accanto, vediamo il pavimento, sul quale fino a poco prima pensavamo di camminare agevolmente ben saldi a terra, vacillare paurosamente, presi da vertigini violente quanto le scosse di un catastrofico terremoto che sconquassa persino le fondamenta.

Quindi chi siamo veramente? Come ricomporre quei frammenti di sé andati in mille pezzi? Come combinarli se non combaciano più come prima?

Con la maestria dei più navigati scrittori, Marco Montemarano, musicista, giornalista e traduttore oltre che scrittore, costruisce un romanzo da cui è difficile separarsi una volta fatta la conoscenza dei protagonisti di questa storia generazionale: La ricchezza (Neri Pozza, 2013).

Si avverte innanzitutto la voglia di tornare a un’epoca – metà/fine anni Settanta, con tutte le sue contraddizioni politiche e sociali – per la quale l’autore nutre una specie di nostalgia e coltiva il desiderio di rivivere.

I personaggi sono tutti segnati dalle stimmate dell’inadeguatezza e dalla mancanza di una vera proiezione verso il futuro: Fabrizio Pedrotti, ammirato e temuto dai coetanei, «che a quattordici anni era alto un metro e ottantacinque, stava in piedi in mezzo alla cameretta come se il suo corpo fosse un fantoccio ingiustificabile e non sapesse come disfarsene»; Mario, fragile e disadattato, schiacciato dal carisma e letteralmente dalla mole del fratello maggiore; Maddalena Pedrotti, «quella ragazza quasi adulta, coi ricci dai colori di certe alghe scure», inquieta e in fuga dai suoi sentimenti; e infine Giovanni, voce narrante e miglior amico dei fratelli Pedrotti, che Fabrizio soprannominerà Hitchcock, a cui alla fine non sembrerà di appartenere alla vita fino ad allora vissuta.

È Giovanni che quindi ci introduce nella lussuosa casa dei figli dell’onorevole Pedrotti ed è sempre lui a volersi immischiare nella relazione di amore/odio fra i due fratelli.

C’è poi Maddalena, amore adolescenziale che finirà per condizionare anche le relazioni sentimentali future di Giovanni Hitchcock, per la sua cronica tendenza a rimandare di chiarire alcuni nodi irrisolti.

A volte basterebbe parlarsi, ma la reazione dell’altro al disvelamento del proprio profondo sentire fa troppa paura e grande è il timore di un rifiuto. Così passa il tempo che ingarbuglia tutto rendendo inestricabili quei nodi di cui sopra.

Sono il tempo e l'inesorabile allontanarsi dagli anni della giovinezza il vero nemico, insieme alla memoria a volte ingannevole e piena di vuoti che occorre in qualche modo riempire. Giovanni allora comincia a riempire dei quadernetti «per tentare di riavvicinarmi all’altro io che ero stato da ragazzo, per provare a tappare i buchi».

Vincitore del primo Premio nazionale di Letteratura Neri Pozza, Montemarano è tutt’altro che uno scrittore alle prime armi (in realtà è al suo secondo romanzo, il primo, Acqua passata, è uscito solo in ebook). Lo si intuisce dalla maturità della scrittura e dall’abilità nel plasmare la materia narrativa.

È con quella stessa «nostalgia priva di ricordi» che i lettori di questo coinvolgente romanzo dovrebbero tuffarsi in questa storia inventata quanto plausibile per provare quanto sia difficile costruire e tenere in piedi per tutta la vita una propria coerente identità.

(Marco Montemarano, La ricchezza, Neri Pozza, 2013, pp. 272, euro 16,50)