scommetto di no

siamo nel 2012 oggi lo so ma tanto tempo fa ma non mi chiedete quanto perché mica lo ricordo ero dentro un treno e non avevo voglia di dormire anzi stavo leggendo chissà quante volte l’avevo letto tante volte il mio racconto preferito un treno in cima al mondo di uno scrittore del sudamerica che non so dove si trova non ricordo bene non ho tanta memoria e poi che c’entra sapere chi è che ha scritto l’importante è leggere e che ti piaccia il racconto e quello mi piace e lo stavo leggendo anche quella volta lì perché come ho detto lo leggo spesso e leggendolo pensavo che avevo dormito anche troppo in quegli anni non dormito nel senso di chiudere gli occhi sognare e quelle cose lì no quello no anzi dormivo poco io c’erano volte che non riuscivo proprio a chiudere gli occhi che poi mi frizzavano e diventavano rossi insomma non dormito in quel senso ma dormito come dorme chi non si accorge che il mondo è cattivo e crede che invece sia buono e pensa che le persone siano tutte buone e invece nono no no è brutto e cattivo il mondo e allora avevo deciso via via via di lì via dalle persone che ce l’avevano con me ma non riuscivano a prendermi e a uccidermi pensavo dentro a quel vagone che dondolava e che saliva saliva saliva e io ero dentro a quel treno e non mi avevano preso eh no sono sempre vivo pensavo e se non fossi vivo come potrei scrivere questo che scrivo e raccontarvi quello che vi sto raccontando io grande scrittore anche se nessuno dice quando mi vede quello è un grande scrittore o compra i miei libri perché nessuno vuole pubblicarli perché sono tutti cattivi ma un giorno vedranno quelli cattivi che non si accorgono che sono un grande scrittore io ma per tornare al racconto se no poi mi perdo in cose inutili e a volte è quello che mi frega perdermi in cose inutili come mi diceva sempre il babbo non perderti in cose inutili combina qualcosa nella vita benedetto figliolo ma forse era maledetto figliolo perché poi partiva sempre qualche ceffone anche quando non ero più piccolo ma grande ormai poi il babbo è morto e sono rimasto in casa da solo e cercavo di non perdermi in cose inutili ma non c’era neanche più il babbo a dirmelo e non era facile fare cose utili che poi non ho mai capito cosa volesse dire se devo essere sincero ma insomma ora sto scrivendo questo racconto e non devo raccontarvi la mia vita che magari neanche ve ne frega qualcosa devo raccontarvi cosa mi è successo e perché sono qui ma dove sono non ve lo dico perché ve lo dico alla fine come fanno i grandi scrittori che il segreto lo svelano solo alla fine e anch’io lo farò con voi insomma ero su quel treno e leggevo quel racconto che parlava proprio di un treno ed era il mio racconto preferito come forse vi ho già detto e il treno dondolava perché era un trenino di campagna anzi di montagna perché saliva saliva saliva fra i boschi dove andava non lo so e neanche so da dove era partito perché io ho poca memoria e mi scordo sempre di tutto e non è una bella cosa lo so ma non è colpa mia e poi non è sempre così male non aver memoria perché quando fai una brutta cosa e a tutti capita di farla perché se dite che a voi non capita mai non ci credo e allora quando capita di fare una brutta cosa la si dimentica e va bene che l’hai fatta però non ci stai male perché non te lo ricordi e allora va meglio anche se hai sbagliato ma non lo sai e allora non dico che è giusto ma è meglio così anche se però senza memoria ti scordi anche le cose belle che però a me non capitano mai però non lo so di preciso perché non me le ricordo comunque devo raccontarvi cosa facevo su quel treno e allora ero su quel treno che dondolava e due ragazzetti mocciosetti mi guardavano e ridevano ma che ridete pensavo che avete da ridere non avete mai visto una persona che ridete pensavo non lo dicevo a voce alta lo pensavo e basta perché non sono poi abituato a parlare molto con le persone due ragazzetti mocciosetti poi figuratevi se parlo con loro i ragazzetti mocciosetti non mi sono mai piaciuti e anche quando ero giovane anch’io non mi piacevano e ai giardinetti a giocare non ci andavo mica e neanche a pallone o al bar a sentire la musica stavo a casa con mio padre e da piccolo piccolo anche con la mamma che poi è morta giovane povera donna ma non ha patito è morta all’improvviso e non ho mai capito perché e il babbo non me lo ha mai detto insomma ero su quel treno e quei due ragazzetti mocciosetti ridevano di me e allora ho preso dalla mia busta d i plastica il mio vecchio astuccio delle elementari che portavo sempre con me anche se un ragazzetto mocciosetto della mia scuola un giorno me lo aveva sciupato per dispetto facendomi un graffio con un temperino su quei bellissimi pesci azzurri e rossi che ci stavano sopra e io avevo pianto quando ero tornato a casa e avevo anche paura a dirlo al babbo perché me lo aveva comprato lui e ci teneva alle cose che mi regalava infatti quando lo vide rotto mi dette tanti ceffoni e io piansi tutta la notte e avevo paura insomma dentro il mio astuccio la mia piccola pistola e gli sparai pum pum come si faceva da piccoli che si giocava alla guerra e si faceva finta di morire ma non si moriva mica perché i ragazzetti mocciosetti non muoiono mica i vecchi muoiono e poi le pistole non sparavano mica sul serio e anche quei ragazzetti mocciosetti sembravano morti ma facevano apposta ed erano bravi perché sembravano morti davvero poi venne il capotreno e mi prese la pistola e mi buttò in terra e mi fece battere il capo e mi fece male e non capivo perché e poi vennero i carabinieri che erano più buoni del capotreno e non mi fecero male loro e mi portarono qui dove scrivo su questo bel tavolino con la carta che mi hanno dato degli uomini vestiti di bianco il tavolino è di legno marrone e io sto chiuso in una stanzetta da solo e ogni tanto mi portano qualcosa da mangiare anche se non sono persone gentili per niente quei signori vestiti di bianco e hanno gli occhi cattivi e io scrivo questo racconto anche per loro per vedere se li faccio sorridere un po’ perché mi piacerebbe che fossero gentili con me e venissero a farmi compagnia e lo faranno se capiscono che sono un grande scrittore in questa mia nuova cameretta dove sto bene tanto casa mia è vuota il babbo non c’è più e la mamma anche lei non c’è più e poi non mi ricorderei neanche più dove si trova casa mia insomma qui sto bene anche se non posso fare più i viaggi ma tanto sono anche un po’ stanco e mi piace stare a riposarmi qui e solo ora avete capito il mio segreto che come i grandi scrittori ho messo alla fine del racconto e ci siete cascati eh non l’avevate mica capito dov’ero scommetto di no

 

Questo racconto si è classificato terzo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (seconda edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

“Lo stupro di Lucrezia” di William Shakespeare, per la regia di Valter Malosti

Microfoni a circondare la scena, un frigorifero, uno specchio, un piccolo armadio, un trono, una sedia al centro del palco e la scrivania del narratore in fondo. Eccola qui tutta la scenografia, minimale ma perfetta, dentro la quale Valter Malosti, Alice Spisa e Jacopo Squizzato danno corpo e fiato a Lo stupro di Lucrezia.

Poema narrativo scritto da Shakespeare nel 1594, questo testo si ispira al personaggio di Lucrezia, moglie di Collatino, figura mitica dell’antica Roma la cui storia, legata alla cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, è tramandata da Tito Livio.

Lucrezia, simulacro di bellezza e virtù, accoglie nella sua casa Tarquinio, invaso da una smania sessuale incontenibile. A nulla vale la paura delle conseguenze del gesto infame per redimere il re dei romani e ricondurlo alla ragione. Complici Notte, Occasione e Tempo il delitto si compie, preludio al suicidio della donna e alla vendetta di Roma sul suo indegno sovrano.

L’adattamento teatrale di Malosti è di quelli che lasciano senza fiato. Il testo shakespeariano prende letteralmente vita nei corpi di Spisa e Squizzato che si scontrano con una violenza tale da spingere lo spettatore a distogliere lo sguardo. L’inedita traduzione di Gilberto Sacerdoti attualizza la vicenda al punto da renderla fatto di cronaca. Il ritmo di luci, musica e suoni inchioda la parola a terra, impedendo che l’attenzione si perda.

Assistere a uno spettacolo tanto coinvolgente e bello pone chi scrive in una condizione di imbarazzo: bandito l’uso dei superlativi ci si accontenta di rivolgere un appello al lettore perché approfitti dell’occasione offerta dalla rappresentazione per incamminarsi dentro se stesso alla ricerca di una riflessione autentica sul lato oscuro dell’essere umano, sulla colpa, sulla bestialità, sul suicidio: l’opera ci pone delle domande che si incuneano direttamente nella sfera emotiva più intima che affiora sulla pelle per merito della potenza della resa scenica.

Assolutamente da vedere, se pure la violenza e l’impegno della fisicità degli attori ne consiglino la visione a un pubblico adulto, magari approfittando dell’incontro moderato da Concita De Gregorio e introdotto da Manuela Kustermann che si terrà dopo lo spettacolo in data odierna – 5 dicembre – tra il regista e gli interpreti e il pubblico e i rappresentanti del comitato Senonoraquando, di Factory e della Casa Internazionale delle Donne sul tema della violenza contro le donne.
 


Lo stupro di Lucrezia
di William Shakespeare
versione italiana e adattamento teatrale di Valter Malosti
regia di Valter Malosti
assistente alla regia Elena Serra
traduzione di Gilberto Sacerdoti
con Valter Malosti, Alice Spisa, Jacopo Squizzato


Prossime date
Roma – Teatro Vascello dal 3 all’8 dicembre

“Stella stellina” di Ekuni Kaori

Si prendano un uomo e una donna sposati tra loro, dunque un marito e una moglie, nel Giappone dei primissimi anni Novanta, dunque in una società che grosso modo va smarrendo i riferimenti della propria tradizione (cosa che bene o male, a dire il vero, capita sempre a qualsiasi società). Lei si chiama Shoko, di professione traduce testi di vario genere dall’italiano, ha l’anima delicata e un po’ bizzarra e frequenta da paziente depressa, a fasi alterne, il complesso dei saperi psy. Lui invece si chiama Mutsuki, lavora come medico, è una persona decisamente buona ed è omosessuale. Shoko, cioè la moglie di Mutsuki, conosce la sessualità del marito fin da prima del matrimonio, e non le importa più di tanto che essa non sia conforme alle regole implicite dell’alcova borghese, anzi. Come capita a molte donne delicate dei romanzi, non è il commercio della carne il suo scopo nella vita. Le importa piuttosto avere vicino a sé, nel quotidiano, un uomo bravo, qualcuno che l’accompagni nelle faccende minime e soffici di tutti i giorni; del sesso e dell’amore dei corpi, come detto, le importa davvero poco. Mutsuki, dal canto suo, ha convolato a nozze (in questo caso forse non tanto “giuste”) con Shoko per convincere i propri genitori, evidentemente legittimi rappresentanti di una società ancora testardamente patriarcale, omofoba, maschilista e retrograda, che in lui non c’è niente che non va, che insomma è un maschio tutto d’un pezzo come ogni altro, e non una deprecabile mammoletta effeminata buona soltanto per l’insulto o per l’avanspettacolo. È questo, in poche parole, il tracciato su cui si sviluppa il romanzo breve Stella stellina (Atmosphere, 2013), scritto nel 1991 dalla pluripremiata Ekuni Kaori, una delle narratrici giapponesi contemporanee, si dice, più amate dal pubblico dei lettori nipponici.

La storia matrimoniale tra Shoko e Mutsuki, spesso interrotta nella sua pittoresca linearità dall’intervento di amici e familiari, serve all’autrice per descrivere quello stato piuttosto comune di spaesamento delle umane sensazioni, quella zona d’ombra che alberga nell’animo privato di ognuno, che in molti si sono affannati a descrivere dipingendo il profilo di personaggi fuori dalle cose, inadeguati a ciò che sta loro attorno. Gente spesso innocente e intimamente morbida, cioè incapace di pensar male e causare danno a chicchessia. Gente che proprio per questa sua inclinazione amorevole e docile, in un modo o nell’altro, sarà costretta a soffrire per quanto la società, comunque intollerante e tiranna, impone giocoforza nella strutturazione degli stili di vita e dei modi di pensare. Ma anche gente che a fatica, combattendo contro tutto e tutti, riesce a ritagliarsi un angolo di vita prossimo alla felicità, o quantomeno al sollievo, e difficilmente adattabile al normale sentire di chi s’adegua a stili di vita posticci e imposti dall’alto (nella fattispecie matrimoniale dei nostri personaggi, lo sviluppo di un lieve e sofferto triangolo amoroso che coinvolge Shoko, Mutsuki e l’amante di quest’ultimo ne sia testimonianza).

È di questo che, grosso modo, racconta Stella stellina; sono queste le corde che tocca, nelle sue agili 154 pagine, attraverso un’alternanza di voci narranti funzionale alla presentazione dei punti di vista di entrambi i protagonisti. Un libro che probabilmente non aspira al plauso della critica militante, come si direbbe. Un libro che di certo, però, ben s’adegua al gusto delle signore urbanizzate, più o meno giovani, un po’ sognatrici e un po’ romantiche (anche se purtroppo vagamente tristi e disilluse avendo fatto i conti col reale), costrette il mercoledì sera alla lettura solitaria mentre il marito, di là, in salone, guarda bestemmiando l’ennesima partita di coppa dei campioni.

(Ekuni Kaori, Stella stellina, trad. di Paola Scrolavezza, Atmosphere, 2013, pp. 154, euro 15)

Nutrimenti: a tu per tu con Luigi Scaffidi

Come ogni mese, Flanerí ha presentato ai suoi lettori una casa editrice indipendente. Questa volta DietroLeQuarte ha raccontato il progetto editoriale di Nutrimenti, la nascita e lo sviluppo del catalogo, approfondendo la collana Tusitala. Dal 2001 a oggi, il marchio editoriale ha tratteggiato la propria identità, impegnandosi sul fronte letterario italiano e internazionale. Il profilo che ne deriva è di una casa editrice solida e raffinata che nasce dalla volontà di rendere la cultura alta sempre più accessibile perché considerata un nutrimento indispensabile. Per concludere il percorso, Flanerí rivolge alcune domande a Luigi Scaffidi, responsabile dell’ufficio stampa e comunicazione.


Luigi, come sei arrivato a Nutrimenti e in che cosa consiste il tuo lavoro?

Il mio arrivo a Nutrimenti ha coinciso con la fine di un’esperienza formativa presso la Fazi editore. Sono arrivato nel gennaio del 2009 e da allora sono il responsabile dell’ufficio stampa e comunicazione. La mia sfida principale, quotidianamente, è far arrivare al pubblico dei lettori italiani (ahinoi, sempre più ristretto) una certa idea di editoria: di qualità, indipendente e artigianale. Questo si realizza soprattutto attraverso la promozione dei nostri libri sui media tradizionali e in rete, ma anche con mirate campagne con le librerie indipendenti, che come noi accusano la grave crisi in cui versa l’intero comparto editoriale.


Il catalogo di Nutrimenti pubblica narrativa e saggistica, ma ha anche una sezione dedicata al mare e alla vela che si rivolge soprattutto a un pubblico di nicchia. Perché nel panorama editoriale di oggi, una scelta settoriale può essere vincente?

Da quest’anno la sezione dedicata al mare si è ampliata e articolata in diversi settori; per questo, abbiamo deciso di operare una netta separazione creando due marchi editoriali distinti: Nutrimenti, per come la conosciamo, si occupa principalmente di narrativa italiana e straniera e saggistica; mentre il catalogo mare ricade sotto il marchio Nutrimenti Mare, con un suo logo e peculiarità specifici. Questa scelta si giustifica con la convinzione che una maggiore chiarezza di immagine, e dunque anche d’identità, può risultare vincente con uno zoccolo duro, per quanto di nicchia, che da sempre è interessato a tematiche e storie che hanno a che fare con il viaggio, l’avventura, e con la cultura del mare.


Qual è l’atteggiamento dei giornalisti culturali delle grandi testate nazionali verso una casa editrice indipendente? Curiosità o diffidenza?

All’inizio c’era un po’ di diffidenza e snobismo. E non nascondo che ancora oggi, a volte, bisogna vincere delle resistenze per far “passare” un certo titolo. Tuttavia, nel corso del tempo, giornalisti e critici hanno avuto modo di apprezzare con i propri occhi la qualità dei nostri titoli e di toccare con mano la cura artigianale e la passione che impieghiamo per realizzarli. Nel tempo, le soddisfazioni e i riconoscimenti sono arrivati. E sono convinto che continueranno ad arrivare.


Qual è invece l’atteggiamento di un ufficio stampa come te verso i blog e le riviste culturali online? Il fiorire di questi spazi sul web ha comportato dei cambiamenti nel tuo lavoro?

Il web ha certamente cambiato il modo di lavorare di ogni ufficio stampa. Il digitale offre spazio che i media tradizionali spesso non sono in grado di darti. E tuttavia questo fiorire di riviste, e-zine, blog e quant’altro spesso sono trascurati e fatti col “copia-incolla”; si limitano cioè a riprodurre il comunicato o la quarta del libro, senza operare una vera riflessione o analisi critica. Sono quelli che io chiamo “i furbetti delle copie omaggio”. In realtà, sono davvero pochi i blog e le riviste culturali degni di tale nome. Si contano su due mani. Il resto è paccottiglia digitale.


Ci consigli tre titoli del vostro catalogo?

Per motivi diversi: Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria di Michael Dahlie, La Caduta di Giovanni Cocco e Io ho visto di Pier Vittorio Buffa.

 

Grazie per la disponibilità Luigi, a presto.

“Dracula” di Cole Haddon e Daniel Knauf

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie ancora inedita in Italia]

Dracula è uno di quei personaggi che ha subìto una continua evoluzione nel corso degli anni; la sua figura ha affascinato tanti registi che hanno trasposto il romanzo di Bram Stoker in pellicole più o meno riuscite, inserendo il personaggio in contesti a lui più o meno congeniali.

In questa serie che ha debuttato il mese scorso sulla NBC a vestire i panni del vampiro è Jonathan Rhys-Meyers, noto attore e modello, che impersona Vlad Tepes, guerriero bulgaro che venne condannato al sonno eterno dall’Ordine del Drago. Nel 1846, dopo quattrocento anni trascorsi in una tomba, con un sacrificio di sangue e l’aiuto di Van Helsing (che in questo caso è un suo alleato di convenienza), Vlad-Dracula si risveglia e torna in forze per vendicarsi dei suoi nemici: la sua strategia, dal momento che l’Ordine è formato da ricchi magnati del petrolio, è quella di colpirli sul versante economico per far crollare il loro impero. Con la nuova identità di Alexander Grayson, Dracula è impersonato da un giovane americano appena arrivato a Londra che si introduce in società osservandone le dinamiche e tenendo sotto controllo e sotto scacco i suoi avversari.

Seguiamo dunque la sua idea di vendetta che prende forma, mentre Alexander sperimenta con Van Helsing un vaccino solare che gli permetta di vivere alla luce del giorno e conosce Mina, giovane studentessa di medicina reincarnazione di sua moglie, bruciata sul rogo dall’Ordine secoli prima.

L’idea di creare l’ennesimo prodotto sul re dei vampiri, diciamo la verità, non ha scatenato molto la curiosità del pubblico dal momento che a un personaggio così inflazionato è rimasto ben poco di nuovo da offrire, ma non si può negare che sia ben realizzato e che la trama potrebbe evolversi da spunti interessanti. Primo tra tutti quello di rendere Alexander Greyson un uomo intelligente, che non cerca vendetta immediata sui suoi nemici con la morte ma costruisce un piano ben studiato, grazie al quale può ottenere la tanto agognata resa dei conti distruggendo l’Ordine dalle fondamenta. Si immette infatti in un gioco di potere, in cui perdere denaro, visibilità e importanza è molto più efficace del dolore provocato dalla morte fisica.

Meyers incarna con naturalezza lo stereotipo del “bello e dannato” risultando piuttosto a suo agio, sebbene questo Dracula non abbia nulla a che vedere con i suoi predecessori, in primis quello di Coppola del 1992. In realtà non ha molto a che vedere neppure con l’eroe vittoriano romantico o l’eroe tormentato dalla bestia che cova dentro di sé, potremmo quasi dire che Greyson è un vampiro politically correct, che ragiona col cervello ma non disdegna mordere qualche collo nel tempo libero.

Il ritmo della narrazione è scorrevole, i dialoghi buoni e la messa in scena molto curata, specie nell’introduzione del protagonista che debutta in società scendendo da una scalinata sontuosa come nei migliori cliché di Hollywood. Qualche pecca è riscontrabile nei personaggi, particolarmente noiosi all’inizio (i personaggi femminili in particolare) e nei costumi, che a tratti sembrano provenire dal nostro secolo provocando un lieve senso di smarrimento nello spettatore.

Per quanto riguarda il risultato finale, è chiaro che a questo nuovo Dracula manca l’aura terrificante dei suoi predecessori ma di certo alla serie tv non mancano il sangue e il sesso, elementi ormai abusati per risollevare il tono dei prodotti televisivi mediocri di cui siamo sommersi.

In sintesi si può dire che Dracula merita la sufficienza, anche se probabilmente attirerà tra le file degli estimatori soltanto i fanatici dei vampiri e dei teen drama.

 

“Capitomboli” di Luca Ragagnin

Siete stanchi di libri dalla trama troppo prevedibile? Le abbazie piene di delitti e di monaci impiccioni con la barba finta da Sherlock Holmes vi hanno stufato? Meglio ancora: è il concetto stesso, di trama, che ormai vi disgusta? Bene, ho il libro che fa per voi: Capitomboli. Divagazione in Dissolvenza su Tutto di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni, 2013). Ecco: se per trama intendete una successione di “fatti”, di azioni che i personaggi compiono o parole che si scambiano e, bene o male, conducono a un finale, ecco, il libro che vi sto raccomandando una trama così non ce l’ha.

Se trama c’è (e c’è, datemi il tempo di provarvelo…), non è di sicuro quella connessione tra vicende, temporalmente intese, cui siete abituati: no, qui l’intreccio della narratologia è invece fra nomi, i 165 nomi che s’intruppano a fine volume sotto l’estrosa titolatura «Rubrica degli Smarriti». Nomi, in prevalenza, di autori di libri: c’è anche una spolverata di pittori e altri creatori non certacei, ma sono una sparuta minoranza. Nomi, con ancora più netta prevalenza, di autori di libri del secolo scorso, il tremendo, inconcludente Novecento.

È fra questi scrittori, fra un lacerto e l’altro di una loro opera, o un frame della loro vita o  (sì, è come pensavate) della loro morte, che si tendono i fili di questa particolarissima narrazione – da non virgolettare come amano ora in politica –, e la motivazione intima di queste connessioni è, probabilmente, la parte più stimolante di questo libro. Essa infatti non è, quasi mai, del tipo «Dato A, ne consegue necessariamente B»: il più delle volte al lettore tocca la sfida (il gusto?) di lasciarsi assorbire nella pagina al punto da intuirla, e non sempre si è sicuri fino in fondo di esserci riusciti. Si è però certamente catturati entro la sapiente tessitura ragnesca dell’autore.

Anche a causa di una prosa che sa essere, a un tempo, svelta, colloquialmente viva e coinvolgente, e anche, quando occorre, distesa su più ampie membrature narrative, piegata a finezze di lessico di cui si assapora la risonanza poetica. 

Infine, last but not least, l’impaginazione stessa, coi rimandi bibliografici in margine, invece che a piè di pagina, la gradevole alternanza di oasi fotografiche, gli spiritosi capolettera a inizio di capitolo… pardon, “capitombolo” (secondo la loro paronomastica titolatura), dopo essere comparsi tutti, in buon ordine alfabetico, sulla copertina. E qui, il coup de théatre:la copertina bisogna cercarsela sotto una sovraccoperta, non meno elegante e graficamente inventiva, ma stampata in una curiosa carta da pacchi, con però, più o meno al centro, un foro da cui occhieggia invitante la baigneuse in costume anni Venti che si avvinghia a ciascuna delle sottostanti maiuscole.

Libro, in conclusione, tutt’altro che usuale: e perciò stesso (non fosse poi, la meditata riflessività del discorso che, a lettura conclusa, ci si accorge di aver seguito, da uno all’altro dei nove “capitomboli”) caldamente consigliato, a chi legge.

 

(Luca Ragagnin, Capitomboli. Divagazione in Dissolvenza su Tutto, Miraggi Edizioni, 2013, pp. 128, euro 14)

I risultati della seconda edizione di Memoracconti – Storie da ricordare

Cari lettori quest’anno il concorso di narrativa breve Memoracconti – Storie da ricordare ha riscosso grande successo tra gli autori, tanto che abbiamo ricevuto quasi il triplo di racconti rispetto alla scorsa edizione. Dopo aver valutato tutto il materiale arrivato in redazione, la giuria ha decretato i finalisti della seconda edizione.

Il primo premio va a Carmine Bussone con “Dimmi solo di sì”, il resoconto di una rocambolesca rapina finita male per un motivo che non vi sveliamo. Carmine Bussone ha convinto la giuria sin dall’incipit fulminante, per la commistione di ironia e cinismo, per l’armonica concordanza tra registro colloquiale e ritmo scorrevole.

La seconda classificata è l’autrice Ippolita Cassisa con il racconto “Elle”: una narrazione chirurgica sulla perdita degli affetti, che man mano penetra tra le pieghe emotive cedendo il passo a un’introspezione lirica.

Al terzo posto, Bruno Confortini con “scommetto di no”: senza punteggiatura, né distinzione tra maiuscole e minuscole, l’autore ingaggia un dialogo con il lettore, coinvolgendolo in un gioco che sfida le forme della grammatica per proporre una scrittura sperimentale e divertente .

Temi e stili diversi che rispecchiano il panorama eterogeneo della narrativa emergente.

Le tre storie finaliste saranno pubblicate su Flanerí giovedì 5 dicembre (“scommetto di no”), venerdì 6 dicembre (“Elle”) e sabato 7 dicembre (“Dimmi solo di sì”), all’interno della sezione “Altre narratività”.

Edizioni Memori ha deciso di replicare l’esperienza dello scorso anno, raccogliendo in un’antologia i testi migliori, a cui si andranno ad aggiungere due racconti di autori ospiti, Luigi Ippoliti e Mario Massimo.

L’antologia sarà disponibile in anteprima, a partire da giovedì 5 dicembre, alla Fiera nazionale della piccola e media editoria – Più libri più liberi, presso lo stand M03 di edizioni Memori.

Infine venerdì 13 dicembre, a partire dalle 19, si svolgerà la premiazione del vincitore unico alla libreria N’importe Quoi – via Beatrice Cenci 10 – Roma.


Vi aspettiamo.


Per ulteriori informazioni:
memoracconti@memori.it

“Dietro i candelabri” di Steven Soderbergh

La vera vita del musicista e showman Wlodiaz “Walter” Valentino “Lee” Liberace (da pronunciare Liberaci, non Libereis, in quanto pronuncia corrotta del cognome italiano del padre originario di Formia) e il suo rapporto con Scott Thorson, conosciuto giovanissimo e rimasto al suo fianco per sei anni, sono al centro dell’esordio televisivo sul network HBO di Steven Soderbergh Dietro i candelabri.

Liberace è stato un uomo di spettacolo di enorme successo negli Stati Uniti. Conduttore televisivo, attore, showman sui palchi di Las Vegas, Liberace fu soprattutto un pianista di elevatissimo livello, padrone del repertorio classico che è stato in grado di coniugare con il puro intrattenimento. «Quando mi sono esibito per la prima volta ho pensato: sala buia, pianoforte nero, smoking nero. Nessuno si accorgerà di me», raccontava dal palco durante i suoi spettacoli. I canoni tradizionali della musica da concerto non si addicevano alla sua personalità egotista e si reinventò quindi lontano dagli auditorium e dai conservatori sugli schermi televisivi, connotandosi per i suoi vestiti sgargianti e il candelabro che sempre posizionava sulla coda del piano. Arrivò ad essere l’artista più pagato di tutto il Nord America tra gli anni Cinquanta e Settanta, celebrato sulle riviste patinate e venerato dai media che si dedicavano alla sua vita privata quotidianamente, raccontando la poetica storia d’amore che lo legava a una pattinatrice.

Tutto falso, tutte invenzioni per la stampa. Liberace era gay, con una passione per i giovanissimi. Quando conobbe Scott Thorson aveva quasi sessant’anni, il ragazzo solo sedici. È sull’aspetto privato che si concentra Soderbergh in Dietro i candelabri, come il titolo stesso suggerisce – cioè dietro all’immagine sul palcoscenico –, sull’ambigua fragilità della persona Liberace che emerge dal rapporto con Scott. Il culto di se stesso a cui il pianista aveva consacrato ogni suo giorno si proietta sul giovane, assorbito nella sua vita e costretto, con le armi della generosità e dell’amore autentico, a farne parte totalmente, condividendo la casa, il lavoro, ogni minuto del suo tempo.

Scott è l’amore fisico, ma anche quel figlio che Liberace non aveva mai avuto e che aveva smesso di sognare. Lo manipola, anche fisicamente con interventi di chirurgia plastica, per renderlo simile a lui, e quando qualcuno lo confonde per suo figlio sulle labbra gli appare il sorriso più sincero.

Varrebbe la pena guardare Dietro i candelabri anche solo per l’interpretazione di Michael Douglas, memorabile negli sfarzosi panni di Liberace, alla sua migliore prova d’attore dai tempi di Wall Street, capace di tratteggiare un uomo complesso e irresistibile, magnetico e inavvicinabile. Lo aiuta la sceneggiatura di Richard LaGravenese (candidato all’Oscar per La leggenda del re pescatore) che, partendo dai libri autobiografici dello stesso Liberace e di Thorson, rende al meglio i dettagli psicologici dei due protagonisti e dei personaggi secondari che ruotano loro intorno.

Soderbergh dimostra la consueta padronanza della telecamera e dell’inquadratura. C’è da capire se davvero dopo questo film si ritirerà dalle scene, o si prenderà un anno sabbatico, per dedicarsi alla pittura come più volte annunciato.

Convince meno, per evidenti incompatibilità anagrafiche più che per la qualità della recitazione, la scelta del quarantatreenne Matt Damon per la parte di Scott Thorson. Senza dubbio un ruolo complesso che richiedeva un attore esperto, ma il divario d’età tra personaggio e interprete dà al tutto sfumature grottesche.

Dietro i candelabri ha avuto una gestazione non semplice. L’idea era venuta a Soderbergh già nel 2000 durante la lavorazione di Traffic. Michael Douglas si era lasciato subito coinvolgere nel progetto. Ci sono voluti anni per trovare il modo migliore per inquadrare la materia al di fuori degli stilemi del biopic e quando nel 2010 tutto sembrava pronto, Douglas era impegnato a combattere il cancro che lo aveva colpito. Nel frattempo Soderbergh non riusciva a trovare finanziatori per il progetto, accusando le case di produzione hollywoodiane di non credere nel film perché «troppo gay».

La decisione del network televisivo HBO di produrre il film apre nuove porte al linguaggio del cinema d’autore. In Nord America il film è passato direttamente per la tv via cavo, nonostante la partecipazione in concorso all’ultima edizione del Festival de Cannes (prima volta per un film tv). In Europa i distributori hanno scelto comunque il passaggio nelle sale cinematografiche.

 

(Dietro i candelabri, di Steven Soderbergh, 2013, drammatico, 118’)

 

“Expo 58” di Jonathan Coe

Expo 58 di Jonathan Coe (Feltrinelli, 2013) è la storia, singolare ma non troppo, di Thomas Foley, a cui fanno da sfondo l’immagine dell’Inghilterra, del Belgio, di un’Europa ancora giovane e di una guerra fredda che serpeggia fra i meandri dell’Esposizione Universale di Bruxelles, nel 1958.

Protagonista del romanzo anche se indeciso protagonista della sua vita, Thomas è un impiegato del COI (Central Office of Information) di Londra, ha trentadue anni ed è sposato con Sylvia, donna tipicamente british di cui avvertirà l’ingombrante presenza anche a chilometri di distanza. È infatti l’appiattimento di una vita matrimoniale mai stata realmente serena a innescare gli intrecci e le vicende di cui Foley diventa protagonista nel romanzo.

In occasione dell’Esposizione Universale del 1958 il COI decide di trasferirlo in Belgio affinché si occupi della gestione del pub Britannia, punto di riferimento della nazione inglese all’interno del Salone. Qui la commistione di culture, tradizioni, lingue e vicende storico politiche diverse si colora di humor, tradimenti, sotterfugi, intercettazioni, strategie segrete e preziosa umanità: «Viviamo in un mondo in cui vengono costantemente erette barriere politiche tra i popoli di nazioni diverse. Molte di queste barriere, a mio avviso, sono inutili. Il fatto che noi possiamo sederci insieme in questo modo – sei persone, di cinque paesi diversi – dimostra che sono inutili. L’Expo 58 dimostra che sono inutili. Pertanto facciamo un brindisi ai nostri ospiti generosi e progressisti – al popolo del Belgio, e all’Expo 58!».

Ben presto emerge la concretezza dell’evento in quanto opportunità di crescita e sviluppo per il futuro dell’uomo, ma si insinua anche la costante e reciproca diffidenza che alimenta il clima internazionale, e in particolare quello europeo.

Niente è lasciato al caso e gli eventi chiave di quegli anni (dalla tensione fra Nato e Russia, fino al lancio dello Sputnik) si sfogliano pagina dopo pagina mentre in superficie scalpitano i modi in cui la naturale inclinazione dell’essere umano lo porta a cedere di fronte alle tentazioni.

L’incontro di Thomas con i protagonisti secondari del romanzo, nel mettere in evidenza le comprovate capacità descrittive di Jonathan Coe, agita il lettore e lo incuriosisce giocando sul mistero dell’amore.

Anneke e Emily, infatti, degne rappresentanti di una sensualità che sempre più si fa strada ed entra con prepotenza nel nuovo millennio, mettono in discussione la vita di Foley più di quanto non lo faccia l’intero contesto dell’Esposizione Universale del 1958, di cui comunque è testimone diretto.

Non il “semplice” rendiconto di un momento storico determinante, quindi, ma il fascino accattivante di un racconto che conferma quanto il caso sia l’unica e indeterminabile modalità in grado di toglierci il respiro, ribaltare la quotidianità e alienarci dalla consuetudine, pur rendendo il nostro domani presumibilmente più difficile e spesso più doloroso.

Avvolti dal calore della passione e della storia, i lettori di Jonathan Coe precipitano così nel mondo dell’imprevidibilità e della speranza che il passato nutriva in un futuro che solo in parte è diventato presente.

(Jonathan Coe, Expo 58, trad. di Delfina Vezzoli, Feltrinelli, 2013, pp. 288, euro 17)

“1913. L’anno prima della tempesta” di Florian Illies

Inizia con Louis Armstrong il 1913, almeno secondo Florian Illies, al quale dobbiamo anche l’idea portante del suo libro, 1913, L’anno prima della tempesta (Marsilio, 2013), secondo cui quello sarebbe l’anno decisivo del secolo scorso. Inizia con il grande jazzista che al momento è solo un dodicenne di New Orleans che vuole «dare il benvenuto al nuovo anno con una pistola rubata» e che per questo finisce in cella: piccola grande sventura provvida se mai ve n’è stata una se è vero che per tenersi buono il pischello scapestrato provano a mettergli in mano una cornetta – il seguito è noto.

A migliaia di chilometri di distanza, Picasso viene interrogato dalla polizia che lo sospetta di aver rubato la “Gioconda” al Louvre e il buon Kafka nella sua Praga sta scrivendo una delle sue lettere inquiete e inquietanti a Felice Bauer. Ma una luce più fosca arriva spostando appena un po’ le coordinate geografiche, a Vienna: mentre «imperversa una tempesta di neve» arriva alla stazione Nord un uomo malmesso che al Novecento lascerà una testimonianza poco discreta della sua presenza. Dice di chiamarsi Iosif Stalin. In quella stessa città, capitale del grande impero destinato a crollare di lì a poco, una delle donne più fascinose d’Europa, Lou Andreas-Salomé, sta per saggiare la resistenza di un certo Sigmund Freud, impegnato a insegnarle il metodo psicoanalitico.

Lo storico dell’arte e giornalista Florian Illies si muove a piacimento – deve essere un modo di scrivere divertente – nell’anno che a lui pare capitale, mese per mese e a zonzo per il mondo (più che altro Europa), poco prima della catastrofe di cui molti avvertono i sentori e altri allegramente ignorano. Un altro viennese doc, Arnold Schönberg, pare del 13 avesse una fobia paralizzante (aveva qualche ragione considerando che dai salons parigini in avanti fare avanguardia artistica significava mettere in conto l’eventualità di venire alle mani, e se qualcuno stava al gioco, Schönberg no, ché in quell’anno ce le prese).

Un anno presago di apocalissi, dunque? Inconsapevole, piuttosto; e mentre Oskar Kokoschka dà di matto per la vedova di Mahler e nessuno si insospettisce abbastanza per le insoddisfazioni del pittore frustratoAdolf Hitler (chi poteva farci caso quando da quelle parti si concentrava un numero impressionante di talenti? per dire, Schiele, Wittgenstein, Schnitzler, Musil, Kraus etc.), a novembre, su un fronte presto avverso, esce il primo volume della Recherche (che a suo modo una splendida apocalisse lo è: se solo ne leggessero qualche frammento, molti – purché svegli – smetterebbero di scrivere). E Malevic presenta il suo “Quadrato nero”, fine e nuovo inizio di tutta la storia dell’arte (che non intende più essere mera “arte”). Si potrebbe continuare a lungo. Ecco, sta per esplodere la Grande Guerra e decine di talenti sparsi per l’Europa non lo sanno. Essi sono giustamente impegnati a tracciare il segno di cesura che taglia in due la trama e l’orizzonte dell’immaginazione e della creatività (anche quella scientifica). Per molti non è facile mantenere una salute (piscologica) all’altezza del loro genio: la malattia anzi ne è spesso lo stigma. Il racconto di Illies attraversa una mappa di storie, di piccoli e grandi eventi datati 1913, di biografie assai speciali con bel ritmo e accattivante perizia di montaggio. Una lettura rizomatica.

(Florian Illies, 1913. L’anno prima della tempesta, trad. di M. Pugliano e V. Tortelli, Marsilio, 2013, pp. 304, euro 19,30)

“Città d’ombra” di André Aciman

Aciman è uno di quegli scrittori che vivono di ricordi e per i ricordi, dal momento che sono questi ultimi a plasmarne le opere: Città d’ombra (Guanda, 2013) è infatti un romanzo di memorie e riflessioni, scritto dalla penna di un uomo che ancor prima di essere scrittore è un esule, indeciso e al contempo incapace di scegliere a quale angolo del mondo appartenere.

In un romanzo in cui a farla da padrone è il resoconto – sempre minuzioso e sviluppato con grande proprietà di linguaggio – di ricordi appartenenti a un passato che continua a scontrarsi con il presente, Aciman rievoca la sua Alessandria d’Egitto, alla quale ha dedicato il suo libro di memorie più famoso dal titolo Ultima notte ad Alessandria e i sentimenti provati nei confronti di quelle città in cui ha vissuto: l’amore-odio per le strade di Roma che esplorava da solo scoprendo scorci sconosciuti persino ai turisti, l’interesse per la raffinatezza della Parigi di Baudelaire, Monet e le opere d’arte nascoste nelle strade, la decisione finale di stabilirsi nella movimentata New York.

Ognuna di queste città si trasforma in un quadro dotato di un’anima, in cui le strade respirano e si vestono di colori, frequentate da personaggi comuni come una commessa di supermercato o una zingara all’angolo, che nonostante il tempo passato vivono ancora tra i ricordi con le stesse identiche tinte e fragranze.

Il filo conduttore che pervade l’intero il romanzo è la nostalgia, sentimento sviscerato da Aciman in tutte le sue sfaccettature: da quella che suscita un senso di impotenza a quella che congela volti, nomi e facciate di palazzi da riscoprire durante un viaggio di piacere in quelle stesse strade che una volta hanno visto la tua infanzia sbocciare in adolescenza.

L’autore è uno straniero in terra altrui e questa sua caratteristica che al contempo potremmo definire una croce lo accompagna ovunque, segnandolo a vita con l’impossibilità di trovare un posto da chiamare casa. Ogni luogo che il giovane Aciman ha visitato o nel quale ha vissuto altro non è stato che un angolo di mondo minuscolo in cui sapeva di non voler mettere radici: nonostante si sia costruito una famiglia e abbia scelto l’America come fissa dimora, l’unica conclusione possibile per trovare il proprio posto nel mondo è abituarsi all’idea che nessun posto ti appartiene, e al contempo ogni posto può appartenerti.

Il discorso vale per Roma così come Parigi, vale per tenere vivi i ricordi più malinconici, come quelli – i più sofferti – dell’infanzia trascorsa ad Alessandria. In ognuno di questi luoghi, quando non si riesce a stabilirsi, ci si può comunque illudere di essere altrove e perdere la propria identità, ricostruendone un’altra nuova di zecca. Alessandria rimane sempre e comunque il centro di quel mondo che Aciman ha dovuto abbandonare, a causa delle sue origini semite, e tutte le città che vengono dopo di essa non sono altro che un luogo di costrizione, in cui l’autore si è sentito prima rigettato e ancora più esule e solo in seguito ha accettato che strade a lui sconosciute lo guidassero attraverso quelle meraviglie sempre nuove che ogni luogo del mondo possiede.

Il messaggio di Aciman è semplice, anche se incastrato in una scrittura che per molti potrebbe risultare difficile perché minuziosa e descrittiva: non amiamo mai le cose in sé, ma il modo in cui si mostrano ai nostri occhi. Lo stesso meccanismo per cui le città vissute da emigrato diventano ricordi nostalgici di luoghi amati lentamente e solo dopo tanto tempo, perché quando li incontri non sono che luoghi stranieri e ostili odiati anche solo perché, osservando il cielo, capisci di essere lontano da una patria in cui non farai mai più ritorno.

(André Aciman, Città d’ombra, trad. di Valeria Bastia, Guanda, pp. 270, 18 euro)

[BioSong] “The Way” dei Fastball

Correva l’anno 1998. Forse per molti di noi sembra quasi ieri, ma ormai sono passati ben quindici anni. I singoli più ascoltati di quell’anno si dividono tra il dimenticatoio e i canali tv tematici sulla musica del passato, trasmessi insieme a Queen o Led Zeppelin per dire. Ci si sente un po’ vecchi a sapere che in quel periodo faceva il suo esordio nel mondo del pop la giovanissima Britney Spears, o che Ricky Martin ci accompagnava ai mondiali di calcio del 1998 con “La copa de la vida”. Per chi come me viveva a malapena la sua adolescenza senza farsi coprire le spalle da alcuno spirito critico, tutti i ricordi sono legati al pop da classifica sparato a tutto volume e in ogni dove da MTV. I primi successi delle Spice Girls, “Vento d’estate” della coppia Gazzè-Fabi, “Pretty Fly” degli Offspring, o l’indimenticata “Narcotic” dei Liquido che ancora oggi fa saltare in pista chiunque. Una fetta di cuore l’ho dovuta riservare a loro, magari pochi capolavori, ma tanta allegria. A quei tempi non c’era neanche bisogno di sapere di cosa parlasse una canzone, nella maggior parte delle volte il testo era un optional. In alcuni casi però il rischio di aver lasciato indietro qualcosa di più importante c’è.

Forse non tutti ricorderanno uno dei successi di quell’anno, quella “The Way” dei Fastball magari non in grado di creare un sussulto nell’animo di molti ascoltatori, ma capace di dare alla band americana il suo successo internazionale. Un ritornello orecchiabile per una hit un po’ pop un po’ rock schizzata ai vertici alti delle classifiche oltreoceano. Un inaspettato tuffo nel cassetto dei ricordi musicali ha suggerito che forse molti, come me, non sono mai riusciti a cogliere completamente la splendida storia raccontataci dal gruppo texano.

In 4 minuti di video prende corpo uno struggente romanzo tratto da una storia vera iniziata (o meglio finita) nel 1997, in Texas. Le pagine di cronaca raccontano la tragica fine di Lela e Raymond Howard, trovati morti nella loro auto dopo una fuga da casa loro e dai loro familiari. I due anziani, rimasti vedovi dei rispettivi coniugi, avevano ritrovato l’amore dopo essersi conosciuti in chiesa. Nonostante l’Alzheimer di Lela e l’intervento chirurgico al cervello subito proprio in quelle settimane da Raymond, i due si erano decisi: niente avrebbe potuto fermarli dal partire alla volta del Pioneer Day Festival a Temple, non lontano da casa loro. Inutilmente figli e nipoti avevano provato a venirgli incontro offrendogli almeno un passaggio. Proprio questo ultimo viaggio è risultato fatale ai due, ritrovati solo qualche settimana dopo la loro “fuga” e a centinaia di miglia di distanza dalla loro meta.

Qui entra in gioco Tony Scalzo, bassista dei Fastball rimasto colpito dopo aver letto questa romantica storia d’amore terminata fin troppo male. E allora “The Way”, con i dovuti ricami alla vicenda originale, diventa il tributo di circa quattro minuti alla splendida storia d’amore di Lela e Raymond e al loro saluto a un mondo che hanno deciso di lasciare insieme. Chi ha detto che avranno sofferto fino al loro ultimo respiro?

Tutta la canzone è una celebrazione di una vera coppia di altri tempi e di un amore vero e vissuto intensamente. Dalla loro fermezza nel partire a tutti i costi alla sorpresa dei parenti nell’apprendere la loro scomparsa, tutti i versi riportano al magnifico ritornello scritto dallo stesso Scalzo che dipinge un viaggio verso la felicità eterna. «Qualcuno può vedere che la strada che percorrono è lastricata d’oro, è sempre estate e loro non hanno mai freddo. Non hanno mai fame, non diventeranno mai vecchi e grigi. Puoi vedere le loro ombre vagare da qualche parte, non torneranno a casa ma a loro non interessa. Volevano l’autostrada e oggi sono più felici lì».

Certo, difficile immaginare un finale simile anche nella realtà, ma in mancanza di prove preferisco sposare la versione dei Fastball. “The Way” valse ai texani il picco di popolarità più alto della loro carriera ed il disco di platino per l’album All the Pain Money Can’t Buy. Un picco purtroppo mai più replicato nonostante un impegno costante della band, ancora attiva nel 2013. “The Way” rimarrà probabilmente il vero capolinea del loro viaggio.

(Fastball, “The Way”, 4’ 24”)