“Come funziona la musica” di David Byrne

V’è chi sostiene che David Byrne te lo ritrovi da troppe parti, che il suo universo musicale sia un po’ troppo esteso per essere tutto di prima qualità – Adorno ne avrebbe forse diffidato; di sicuro Byrne diffida di lui.

Ora, può essere che non tutto gli riesca al meglio (ricordiamo un concerto alcuni anni fa all’Auditorium romano in cui l’ex leader dei grandi Talking Heads riproponendone alcuni pezzi cercava di ballarli alla vecchia maniera nervosa degli esordi e il tutto suonava – è il caso di dire – un po’ forzato). In ogni caso, andrebbe rilevato che, per quanto vasti siano i suoi interessi, l’inventivo scozzese trapiantato negli Usa sa benissimo quanto e come elementi contingenti e per lo più molto materiali finiscano invece per contrassegnare e delimitare forme, modelli, stili del fatto musicale. E che trovare nel pop degli ultimi trent’anni (etichetta a sua volta, va da sé, tanto orientativa quanto limitante in casi come questo) un artista altrettanto capace di tenere insieme talento e intelligenza non è facile.

Bompiani ha appena tradotto un volume a suo nome (uscito dapprima con la benedizione di Dave Eggers, il noto scrittore americano responsabile anche della copertina). Il titolo italiano è Come funziona la musica. Byrnevi ragiona di musica in termini si sarebbe detto una volta antiromantici (ma non è affatto vero che sia un freddo), con concretezza e lucidità ignote alla nostrana cosiddetta critica rock, almeno qui da noi responsabile della prosa più stucchevole e dei contenuti più fumosi che sia dato leggere – per tacere degli italici, macchiettistici guru già improbabili come musici di oracolare ispirazione pop-rock-cantautoriale, ora anche sedicenti romanzieri…

Tutti sappiamo che il vinile suona meglio di un cd e che nell’mp3 va perduta molta della ricchezza timbrica e dinamica di un brano, o che le condizioni economiche non sono una variabile meschina del processo musicale, o ancora chetecnologia, formato, performance live o studi di registrazione, esecuzione e spazi di ricezione incidono sul linguaggio musicale – che una qualunque musica ha da fare insomma con il proprio contesto materiale (e sociale). Byrne non solo mette al bando definitivamente ogni chincaglieria idealistica ma mostra come ciò che più gli sta a cuore sia – assieme a questa consapevolezza – la libertà di aprirsi alla musica come possibilità: sperimentare direzioni, giocare con le differenze sapendo che la migliore libertà si situa «entro confini rigidi e ben definiti». Restrizioni fisiche (gli spazi della musica) e gabbie temporali (durata di un 45 giri), lungi dall’essere frustranti possono schiudere porte all’invenzione. Byrne farebbe propria la convinzione di Primo Levi secondo cui la rigida struttura formale del sonetto costituisce un’ottima via per liberare la creatività.Per parlare di tutto ciò, Byrne pesca dalla propria esperienza, cosa che dà al libro anche i tratti accattivanti di un racconto. Che incontra inizi e ascesa di una mirabile storia musicale, passando attraverso collaborazioni di altissimo livello, da Caetano Veloso a Robert Wilson (la danza, il cinema, le arti visive sono tutt’altro che tangenziali nel suo cammino di artista), da Fripp a David Sylvian a Brian Eno col quale Byrne lanciò quello strepitoso esempio di possible music dal titolo My Life in the Bush of Ghosts di cui qui si raccontano genesi e motivazioni. Dietro, l’ombra del più grande di tutti, Jon Hassell.

(David Byrne, Come funziona la musica, trad. di Andrea Silvestri, Bompiani, 2013, pp. 345, euro 28)

[IlLive] No Age @ Circolo degli Artisti, 21 ottobre 2013

Quale modo migliore per iniziare la settimana se non con un bel live?

Una bella scarica elettrica, magari proveniente da una band indipendente e scatenata. Esatto: il live dei No Age al Circolo degli Artisti ci permette proprio di vivere un’esperienza del genere. Sì, i presenti diranno che visto l’orario eravamo più vicini all’inizio del martedì, ma ci sentiamo di perdonare l’entrata “leggermente” tardiva dei musicisti. Anche perché l’attesa ci ha permesso di ascoltare l’apertura dei Trouble Vs Glue: romani, a loro il compito di scaldare l’ambiente inizialmente tiepido. Un Circolo che visti i nomi chiamati in causa avrebbe sicuramente meritato più afflusso di pubblico: ma si sa, siamo in Italia…

Partiamo però con le presentazione di rito, perché il nome dei No Age molto probabilmente è sconosciuto al grosso dei nostri lettori. Bob Mould – se però non conoscete nemmeno lui lasciate stare – li ha definiti una delle rare indie-punk band in circolazione. Con Randy Randall alla chitarra e Dean Allen Spunt alla voce e batteria, il duo di Los Angeles è una viva e originale garage-band, che dopo l’esordio con Weirdo Rippers, è stato subito messo sotto contratto dalla Sub Pop.

La conferma della loro buona nomea arriva dopo pochi secondi di show. Fedeli alla loro reputazione i No Age scaricano tutta la loro furia, e non si risparmiano. Le corde della chitarra si spezzano e le pareti del Circolo degli Artisti trattengono a stento le esecuzioni del loro ultimo lavoro, An Object. L’ultima fatica discografica del duo losangelino è il loro disco più rilassato e sperimentale, ma a sentirlo “sbattuto” dal vivo non si direbbe proprio. Nonostante l’assenza di una folla oceanica urlante, i No Age non risparmiano nemmeno sulla scaletta, rispolverando gli esordi e l’amatissimo Everything in Beetween. Insomma, come diremmo in gergo a Roma risparmiandoci tanti giri di parole: «Hanno spaccato».

Dopo aver sfibrato prima le casse dello stereo e ora i nostri timpani con i loro assoli, noi incalliti amanti del rock non possiamo che augurare ai No Age di ritornare a Roma in presenza di un pubblico più numeroso e agguerrito. Anche perché per non accorgersi del loro talento, bisogna essere proprio sordi.

“Animali domestici” di Bragi Ólafson

Direttamente dalla fredda Islanda, questo romanzo sfida il lettore più prevenuto con una narrazione fenomenale. Tornato da un viaggio a Londra dove ha speso una consistente quota di una vincita alla lotteria, Emil non riesce a godersi l’aria di casa: una serie di eventi si frappongono tra lui e il suo desiderio di ascoltare i cd con cui ha riempito la valigia, di leggere i libri in cui ha intenzione di immergersi e, peggio ancora, di trascorrere del tempo insieme alla passione della sua adolescenza, casualmente incontrata su un volo di ritorno che, in fin dei conti, sarebbe stato meglio se avesse perso. Questo, in estrema sintesi, il riassunto di Animali domestici di Bragi Ólafson (La Linea, 2013).

Leggere questo romanzo è come immergersi in una pièce teatrale, in una rappresentazione della commedia umana nella quale ci troviamo inevitabilmente a parteggiare per il protagonista, il “buono” per eccellenza, che si trova all’improvviso ad avere a che fare con un incubo tornato dal passato, Hávarður, ex collega ed ex amico (anche se “amico” è forse una definizione esagerata) che incarna quanto più di abietto c’è nell’uomo. Hávarður fa irruzione in casa di Emil che, pur di evitarlo, e senza nemmeno voler sapere che cosa lo abbia spinto a Reykjavík (ma non era in carcere?), si nasconde sotto il letto, un’azione a prima vista ben poco matura e che, proseguendo nella lettura, si dimostrerà in effetti la peggiore possibile. Da questo momento in poi si procede verso l’assurdo: poco dopo l’arrivo di Hávarður, ecco Ármann, linguista islandese cui Emil aveva per errore preso gli occhiali sull’aereo. E poi Gréta, la donna da cui Emil si sente perdutamente attratto. E altri ancora, i colleghi Jaime e Sæbjörn, il vicino Tómas, e un’intera band di musicisti. Ognuno si comporta come se fosse a casa propria, dimenticandosi presto di interrogarsi sulla misteriosa scomparsa di Emil e lasciandosi persino andare ad atti osceni.

A pochi passi dalla realtà che non riesce a cambiare, protetto dalla falsa sensazione di immunità donatagli dall’ombra del materasso, Emil sembra una rappresentazione dell’umanità che non sa risolvere un’impasse, che ha aspettato troppo a farsi coraggio e che si rende conto che, per qualsiasi soluzione possa propendere, ormai è giunta a un punto di non ritorno. Tra una situazione grottesca e un’altra palesemente ridicola, riusciamo a scoprire che il titolo del libro richiama gli animali domestici che Emil e Hávarður anni prima avrebbero dovuto custodire per un conoscente di Emil e che hanno fatto una fine miserrima. Allo stesso tempo, ci rendiamo conto che tutti i personaggi chiusi tra quelle quattro mura sono a loro volta degli autentici “animali domestici” messi in gabbia dalle loro stesse esistenze, e che il protagonista è il loro migliore rappresentante.

Ólafson ci sa sorprendere con un libro leggero e spiritoso ma al contempo ricco di spunti, quasi una piccola scenografia teatrale che si può leggere in appena un paio di giorni, con un finale a sorpresa, del tutto inatteso, che ci lascia senza parole.


(Bragi Ólafson, Animali domestici, trad. di Silvia Cosimini, La Linea, 2013, pp. 205, euro 15)

“L’erba canta” di Doris Lessing

L’erba canta è il titolo del romanzo d’esordio di Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007.

La narrazione della vicenda, ambientata in Rodesia negli anni Quaranta, si apre con un articolo di giornale che annuncia la morte di Mary Turner, una donna bianca, ritrovata assassinata nella veranda di casa. Sulla scena del crimine arrivano i poliziotti, il marito Dick e Moses, il presunto assassino nonchè “boy” della fattoria Turner. Questi si lascia ammanettare senza opporsi e il caso sembra risolto. Moses non mostra alcun segno di preoccupazione per la forca che lo attende; il suo volto impassibile ricorda il personaggio di Iago, che nell’ultimo atto dell’Otello afferma: «Demand me nothing; what you know, you know: from this time forth I never will speak word». [1]

Da questo silenzio prende avvio la vicenda personale di Mary con un lungo flash-back sulla sua vita che conduce il lettore alla ricerca delle ragioni profonde della tragedia. Reduce da un’infanzia infelice a causa di un padre alcolizzato e una madre isterica e astiosa, che riversa su di lei le frustrazioni, Mary lascia la campagna che le ha riservato solo umiliazioni e parte per la città. Qui si sente felice, eppure il tema della diversità comincia a delinearsi: Mary fatica a uniformarsi a una società che la vorrebbe moglie e madre. Si sposa senza convinzione per «per essere come le altre». Il matrimonio con Dick Turner, un piccolo agricoltore, la riporta gradualmente al punto di partenza:in campagna, in una casa squallida,con un uomo che disprezza. Proprio lei che aveva tentato, in ogni modo, di affrancarsi dal passato, si ritrova invischiata in una relazione senza futuro.

In queste dinamiche personali si inserisce il tema del conflitto razziale che trasuda da ogni pagina di scrittura. Lo spazio e il tempo scelti ci portano inevitabilmente ad affrontare temi scottanti e ancora molto attuali: il rapporto tra bianchi e neri in un contesto di disparità giuridica e ingiustizie in cui emerge il ruolo dell’uomo bianco sfruttatore. Mary, così cittadina, stenta ad accettareil contatto stretto con la natura, il veld africano, la vegetazione lussureggiante, il calore del sole rosso. In questo scenario incontaminato, paradossalmente,si sente soffocare e, oppressa, si rintana nel piccolo, squallido tugurio che si ostina ad abitare: «La boscaglia stava conquistando la fattoria, adesso che lei non era ancora morta […] sarebbe stata uccisa dalla boscaglia che l’aveva sempre odiata».

Il frinire ossessivo delle cicale, “rivoltanti” agli occhi di Mary, fa da colonna sonora al presentimento che aleggia in tutto il testo: «Era fatale che i Turner finissero male».
 

(Doris Lessing, Lerba canta, La tartaruga edizioni, 1950)

 

[1] Othello, atto V, sc. II [Non chiedete nulla, quel che sapete sapete. D’ora in avanti non dirò parola].

“Sottovuoto” di Alice Banfi

In Sottovuoto, Alice Banfi torna a dar voce, con il suo romanzo autobiografico, al dibattito sulla salute mentale, iniziato nel 2008 con il suo primo libro Tanto scappo lo stesso.

Nel 1978, la Legge n°180, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, meglio conosciuta come Legge Basaglia, dal nome dello psichiatra promotore della riforma psichiatrica in Italia, ha imposto la chiusura dei manicomi, ritenuti fino a quel momento luoghi di contenimento sociale dove l’intervento terapeutico e riabilitativo sulla persona veniva fortemente influenzato e limitato dall’approccio clinico: «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c'è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione», affermò Basaglia in un’intervista.

Eppure, Alice Banfi nel suo “romanzo psichiatrico” racconta di esperienze attuali in cui ha subito, in prima persona, contenzioni fisiche, psicologiche e farmacologiche, percepite come cure per i medici e vissute come torture da lei e dagli altri pazienti.

Nei reparti di alcuni SPDC, Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, Alice ha sperimentato la violenza, sia da parte del personale sanitario, che da parte degli altri ospiti presenti in struttura, scegliendo anche lei l’aggressività come modalità relazionale utile per sopravvivere in quei luoghi non-luoghi, in cui la vita si consuma senza rendersene conto, fra una sigaretta e un’altra e cocktail di psicofarmaci e alcool: «Ogni volta che entravo a Villa Crispina mi sembrava di andare in guerra, dovevo schiacciare gli altri per non essere schiacciata… se non volevi che ti derubassero dovevi rubare, se non volevi che ti insultassero dovevi urlare più forte, se non volevi che ti picchiassero dovevi saper picchiare, darne dimostrazione e aggregarti al gruppo delle più forti».

Alice è stata ricoverata in strutture con sbarre e finestrine messe in alto, posti in cui non era possibile tenere neppure i lacci alle scarpe, dove la libertà personale veniva umiliata con i legacci ai polsi e alle caviglie, dove i pazienti venivano costretti nel letto, immobili e in silenzio.

Da questo senso di claustrofobia, di ovattato, nasce la sensazione di essere, appunto, sottovuoto: «Non sognavamo la guarigione, aspettavamo passare il tempo, aspettavamo fumando».

Alice Banfi, con naturalezza, propria solo di chi ha vissuto questi luoghi in prima persona, mostra al lettore la crudeltà di un sistema che, a distanza di oltre trent’anni dalla riforma Basaglia, fatica a cambiare.

In una logica istituzionale caratterizzata da influenze di dominio e potere, sembra non esserci spazio per la costruzione di una relazione empatica nel rapporto medico-paziente e, anche l’alleanza terapeutica non trova modo di svilupparsi. L’effetto è devastante. La “riabilitazione” sociale, lontana.

«All’inizio di questo percorso mi sentivo sorella di chi soffriva come me e come me viveva ricoverato. A metà strada ero diventata carnefice e contribuivo all’orrore, distruggendo e odiando tutto ciò che incontravo, soffocando il più possibile i sensi di colpa, giustificandomi con la malattia […] Ho incrociato per pura casualità anche luoghi buoni, in cui le porte e le finestre erano aperte e a fermare le mie fughe disperate e la mia rabbia erano le parole delle persone, le parole di infermieri, operatori e medici […] Ho ritrovato quello che avevo perso di me, per la strada, nei vari reparti […] pezzettino per pezzettino.Questo mi ha permesso di riappropriarmi della mia coscienza e della mia responsabilità sparite in conseguenza della privazione di libertà e dignità. Ho scelto che parte volevo nella vita, che ruolo rispetto agli altri […] Alla fine mi sono trovata».

Con il suo romanzo, Alice mette a disposizione la sua esperienza, spogliandosi della vergogna, delle umiliazioni subite, giudicando anche i propri comportamenti devianti, per fornire al “mondo” una realtà quanto più dettagliata e veritiera possibile, nel bene e nel male.

La storia di Alice racconta di un viaggio nel tunnel e la fuoriuscita, possibile solo quando l’istituzione si incarica di tutelare la persona prima di tutelare se stessa e dove gli interventi ruotano attorno alla persona ricoverata ponendola al centro dell’attenzione all’interno delle strategie di intervento.

Per il lettore che non ha conoscenza, neppure teorica, dell’esistenza di questi posti, Sottovuoto è un viaggio crudo in caduta libera. Per chi ha dimestichezza con queste tematiche, questo “romanzo psichiatrico” rappresenta un ottimo strumento di riflessione nell’ambito delle politiche socio-sanitarie.


(Alice Banfi, Sottovuoto, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2012, pp. 127, euro 13)

“L’esame” di Julio Cortázar

Per il secondo romanzo di Julio Cortázar, composto nel 1950, la pubblicazione è stata impossibile fino al 1987. Una delle cause principali di questo eccezionale ritardo è la possibilità di vedere tra le pagine del libro una premonizione degli avvenimenti che scossero l’Argentina a partire dagli anni Cinquanta. L’esame (Voland, 2013) è infatti immerso in un’atmosfera funerea, caotica e misteriosa, che ricorda i violenti passaggi del Paese dalle mani di diversi regimi dittatoriali, dal peronismo ai diversi oppressivi governi che lo deposero e succedettero.

I posti di blocco, le manifestazioni, gli scontri sono solo la cornice della storia che l’autore ci racconta, una cornice che però prende vita e si anima sino a influenzare i personaggi, ad allucinarli, a stancarli, a muoverli o a fermarne il cammino. I protagonisti, Juan e Clara, trascorrono la vigilia del loro ultimo esame girovagando per Buenos Aires con gli amici, sciogliendo la tensione con discussioni tra il filosofico e l’intellettuale e allentando la morsa del caldo insopportabile con frequenti bevute. La città è surreale, intrisa, offuscata da una nebbia che ha l’aggressività di una piaga biblica; le strade iniziano a creparsi e i palazzi a mostrare cedimenti strutturali; e mentre i ragazzi si spostano in cerca di angoli tranquilli in cui trovare ristoro dal clima soffocante, non smette di seguirli e di apparire l’inquietante fantasma di un vecchio amico.

Nonostante le circostanze, il gruppetto di amici continua a confrontarsi, a dibattere di letteratura, di musica, di questioni metafisiche. Non senza accorgersi della situazione, troppo incalzante da poter negare, bensì nuotandoci dentro, percorrendo le vie e le strade di una Buenos Aires simbolo dell’oppressione, con la costante affermazione di una cultura come base per architettare la fuga da una realtà troppo opprimente e desolante.

Così come la città inizia a sfaldarsi ma rimane l’imponente dimora degli accadimenti, anche i dialoghi, nucleo centrale della prospettiva di speranza per i protagonisti, si disgregano in parentesi che si aprono dentro altre parentesi, in frasi che iniziano a metà pagina, in maiuscoli pesanti come epigrafi, in ritornelli di canzoni popolari che si intromettono nei discorsi, infine nei pensieri dei giovani dibattenti, che l’autore ci presenta contemporaneamente alle loro parole pronunciate.

L’esame è un romanzo subliminale, che non pretende di raccontare i fatti di una storia che in effetti deve ancora accadere e che poi davvero accadrà, ma che immerge il lettore in un’atmosfera tanto surreale quanto realistica, tanto caliginosa eppur così limpida agli occhi di una gioventù vera, da disorientarlo profondamente. L’esame è un romanzo complicato, denso di rimandi colti, di linee spezzate da ricongiungere, di immagini sfocate da ricostruire; ed è violento, non di una violenza aggressiva, ma silente, che prende alla gola e spezza il fiato. Un romanzo che poteva essere composto solo da un grande scrittore, da uno sguardo attento e disinvolto, da una tecnica multiforme eppur organica.

(Julio Cortázar, L’esame, trad. di Paola Tomasinelli, Voland, 2013, pp. 269, euro 15)

“Rectify” di Ray McKinnon

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie ancora inedita in Italia]


Esistono – per il sottoscritto –  due tipi di serie, con corrispettiva  modalità di visione. La prima è il “rullo compressore”: Lost, Homeland, il miglior Dexter, 24. Prodotti televisivi nati per dominare la tua routine, i cui episodi vengono fagocitati avidamente. Poi c’è una seconda specie, più particolare. Difficile da classificare. Unica, originale, fuori dagli schemi. Un format inizialmente difficile a cui devi dedicarti e concederti, ma che alla fine porterai per tutta la vita. Leggi alla voce Breaking Bad. Leggi alla voce Les Revenants. Solo per fare qualche nome. Tra questi, si è inserito – e posto tra i vertici – quello di Rectify.

Attenti: se avete un’anima sensibile e un cuore, pensateci un attimo prima di iniziare a vederla. Ve lo dico prima perché la mole di meraviglia e commozione tocca in Rectify vertici notevoli. Lo si capisce fin da subito, dalle istantanee poetiche proposte dalla sigla intessuta su quelle note folk-country che fanno tanto America Sudista. La vicenda sembrerebbe già raccontata: da Dead Man Walking e American History X per il cinema, a OZ per la tv. Ma state tranquilli: le vostre certezze crolleranno presto. Per fortuna.

Daniel Holden è un ragazzo condannato a morte per lo stupro e l’omicidio di Hanna, la sua fidanzata di sedici anni. Due testimoni giurano d’aver visto Daniel mettere dei fiori sul cadavere della vittima. Dopo diciannove anni nel braccio della morte, grazie a un cavillo forense Daniel Holden viene rimesso in libertà. Ad attenderlo fuori c’è la sua famiglia. Soprattutto la sorella e il suo compagno, l’avvocato difensore di Daniel. Ma c’è anche un paese ancora avvelenato dal lutto, affamato di giustizia a tutti i costi. Ci sono i due testimoni, i quali, appena Holden esce, iniziano a preoccuparsi. Da qui partono le domande e le trame che caratterizzeranno i sei episodi della prima stagione: è lui il vero colpevole? Cosa gli è successo in galera? Se non è stato lui, chi sono i veri colpevoli? Come hanno vissuto tutto ciò i suoi familiari? Cosa gli capiterà una volta uscito?

Seconda produzione televisiva originale – dopo Top Of The Lake – del Sundance Channel (sì, lo stesso Sundance del festival di Robert Redford), Rectify si presenta come uno dei pochissimi format televisivi davvero indipendente e libero da ogni consono meccanismo: i ritmi sono lenti, i dialoghi non stereotipati, in sottofondo si sente Bon Iver e lo sguardo della macchina da presa scandaglia con cura i paesaggi della Georgia dove è ambientata la vicenda e non si pone scrupoli a mostrare scene brutali e d’impatto.

In Rectify convivono due anime: una dolce e struggente, l’altra violenta e implacabile. Un po’ come in Daniel Holden. Dietro lo sguardo di ghiaccio e l’espressione d’acciaio coabitano sia i ricordi dolorosi dell’asfissiante reclusione, sia l’amicizia con il compagno di cella accanto. Ora che è fuori, l’animo è diviso tra volontà di redenzione e la rabbia sgorgante dai drammi del passato.

L’emblema di Rectify sono i momenti in cui Holden – interpretato da uno straordinario quanto sconosciuto  Aden Young – si ferma a fissare dei piccoli particolari: una paesaggio silente, uno scorcio di luce, l’espressione di un vicino, un particolare dell’arredamento casalingo. Ci sono tutto lo smarrimento, la curiosità e il dramma di una persona che per anni è stata in un altro mondo. Un mondo senza Internet e cellulari, tutto walkman e vecchie console.

Rectify segue la “correzione” di Holden anche tramite chi gli sta attorno. Davvero notevole la scelta del cast e la costruzione dei comprimari: dall’agguerrita ma fragile sorella Amantha, alla fervente credente moglie del fratellastro, alla melanconica madre che ancora non ha ben realizzato di poter riabbracciare il suo bambino creduto morto. Bastano poche inquadrature sui loro sguardi per capire la mole d’intensità in gioco. Rectify, dopo aver appassionato e scosso lo spettatore, si conclude con “un colpo di grazia” davvero indelebile, che se avete i requisiti citati all’inizio dell’articolo, vi farà vacillare parecchio.

Dopo il plauso unanime della critica mondiale intenta a lodarne l’originalità, la profondità e lo stile, Rectify è stata rinnovata per una seconda stagione di dieci episodi. Troppi i misteri su Daniel Holden e l’omicidio della ragazza. Troppi i lati oscuri della sua anima da portare alla luce. Troppa la bellezza di questa serie per poterne fare a meno: tanto che spesso vi accorgerete di guardare nella stessa direzione di Daniel. 

 

“Dora. Un caso clinico” di Lidia Yuknavitch

Se a prima vista Dora. Un caso clinico (Indiana, 2013) appare una semplice riscrittura con ambientazione contemporanea di uno dei più celebri casi di Sigmund Freud, pubblicato nel 1905, il romanzo di Lidia Yuknavitch è in realtà un’interessante rivisitazione della psicanalisi vista dal punto di vista di una ragazza, un’adolescente che affronta una terapia volutamente paradossale. Pur pescando a piene mani dal report di Freud, da cui “copia” i sintomi più evidenti e le interpretazioni psicanalitiche (fortunatamente oggi ampiamente superate!) del dottor Sig, come l’ha rinominato la protagonista, l’autrice riesce ad attualizzare la vicenda facendo emergere importanti problematiche del mondo contemporaneo.

Per farlo sposta il punto di vista, non più la narrazione scientifica di un medico che descrive l’evolversi della terapia, ma una sorta di diario, racconto in prima persona dalla protagonista, una Ida Bauer che descrive la sua difficile situazione famigliare, tra il padre fedifrago e la madre clinicamente depressa e costantemente impasticcata, che l’hanno portata a crearsi un’identità che può controllare, in risposta a una vita di cui non può decidere nulla. Perché troppo sensibile, in un mondo ipocrita e bugiardo, per accettare la “facciata” che le viene proposta, esposta in una continua lotta con il suo psicoterapeuta e la strenua opposizione alla mercificazione della sua storia, vicenda che caratterizza la seconda parte del romanzo, fino ai limiti dell’assurdo.

A contraltare di questo partito così ostile si situa la famiglia che Ida si crea in alternativa a quella di nascita: un gruppo di amici fidati, dal carattere eccentrico e paradossale tanto da diventare delle vere e proprie macchiette, che incarnano, pur nell’estremizzazione dei tratti, alcuni tipi umani che escono dall’omologazione nel tentativo di esprimere se stessi. Strumento imprescindibile, poi, diventa la tecnologia, resa accessibile a chiunque, anche a un gruppo semplici, seppur svegli, adolescenti come quello di Dora, che improvvisano operazioni ai limiti dell’inverosimile.

Leitmotiv del racconto è, infatti, l’eccesso: eccessivo è il comportamento di Ida, che si spinge fino all’afonia indotta e all’autolesionismo; eccessiva è la terapia del dottor Sig, così morbosamente concentrata sulla sfera sessuale; eccessivo è il tentativo di svendita del suo caso sotto forma di reality show; eccessivo è, talvolta, il linguaggio. Con questo paradosso e questo gusto per l’esasperazione emergono l’inconsistenza e la vanità dei mezzi offerti per la risoluzione dei disagi della nuova generazione, a cui viene proposta una via di salvezza del tutto inefficace e a cui non rimane altro che salvarsi da sola, lasciata alla deriva in un mondo che continua ad adottare vecchie categorie e vecchi schemi non più applicabili alla società che si è evoluta così velocemente.

(Lidia Yuknavitch, Dora. Un caso clinico, trad. di Costanza Prinetti, Indiana, 2013, pp. 244, euro 17,50)

“Miss Violence” di Alexandros Avranas

Angeliki compie 11 anni. Li festeggia in famiglia, con i cappellini, la torta, e tutto il repertorio di felicità dei compleanni. Si fa fotografare con i parenti, poi, mentre tutti si mettono in posa per una foto di gruppo, in silenzio si sposta in balcone, scavalca la ringhiera e si lancia di sotto.

È l’incipit feroce di Miss Violence, opera prima del greco Alexandros Avranas vincitore del Leone d’argento per la regia all’ultima edizione della Mostra di Venezia.

Perché Angeliki si è buttata di sotto si capisce poco alla volta. La vita nella famiglia della bambina è molto diversa da quella immagine di normalità borghese che i primi minuti mostrano.

Gruppo di famiglia in un inferno, si potrebbe dire. Perché sotto la patina di comprensione e solidarietà che raccoglie la famiglia nel dolore si anima molto altro. L’apparente normalità di una famiglia attraversata dal lutto vibra sulla corda di una nota orribile. Il nonno comanda, in assenza del padre – apparentemente – scappato via, la nonna mette ordine, la madre esegue con silenziosi sorrisi mentre Angeliki cresceva con i suoi due fratelli più piccoli e Mirtò, la figlia quattordicenne dei nonni. È organizzazione familiare. Il nonno segue la scuola dei nipoti, impone punizioni, torna a lavorare per portare soldi a casa. Si carica il peso di tutta la famiglia sulle spalle, la trascina fuori, solo e titanico, dall’incubo della morte illogica e prematura. Così sembra, quanto meno.

La piramide di autorità rivela tutta la propria perversa e cogente autorità mentre si salgono e riscendono le sue varie facce. Le punizioni diventano umilianti, i sacrifici richiesti per la famiglia inumani. Il patriarca interpretato da Themis Panou (meritatissima Coppa Volpi) smette lentamente il sorriso rassicurante del nonno per mostrare tutti i denti del mostro.

Come il Crono della Teogonia, il padre divora i propri figli per mantenere il controllo e l’ordine. Ne divora le coscienze, annegandole prima nella negazione del loro stesso senso. Non c’è salvezza dall’orrore se non nell’obbedienza o nel salto nel vuoto di un cortile residenziale. E quando anche sembra che tutto stia per cambiare, quando Crono fa la stessa fine di Urano, per rimanere in ambito esiodeo, si scopre che la violenza, la costrizione, cambia pelle, come i serpenti, ma non cambia il cuore.

Miss Violence è un coltello che si pianta tra la rabbia e l’indignazione, che impegna lo spettatore, obbligandolo a non rimanere indifferente, chiamandolo in causa in prima persona quando gli attori guardano direttamente in camera.

La famiglia è da sempre nucleo della società nel pensiero greco. La repressione della libertà del figlio, la sua sostituzione con una normalità di violenza, psicologica, fisica, costante, è repressione dell’uomo nella sua espressione primordiale.

Il momento di profonda difficoltà delle istituzioni politiche ed economiche che sta investendo la Grecia negli ultimi anni porta a riflettere sul concetto stesso di società, sul suo embrione fondativo, come a cercare le cause del degrado esteriore in una cellula originaria infetta. Il nuovo cinema greco si confronta spesso con la realtà della famiglia. Nel 2009 la famiglia isolata e portata all’estremo parossistico da Yorgos Lanthimos in Kynodontas aveva sconvolto Cannes. Ora Avranas spalanca una nuova finestra sull’orrore domestico. Un orrore più comune di quanto si voglia ammettere. Il modello del controllo patriarcale, immagine della concezione classica del potere, si rivela inadeguato, arbitrario, impregnato di una violenza primitiva e amorale. Il potere non ha freni, non ha controllo, non c’è garanzia, né terrena né trascendentale. La violenza è nome stesso del controllo.

All’esordio, Alexandros Avranas colpisce subito nel segno. Accompagna la brutalità del copione scritto con Kostas Peroulis con uno stile registico potente fatto di simmetrie, prospettive centrali e camere fisse che deve molto a certi momenti (Funny games, Niente da nascondere) del cinema di Michael Haneke. Il piano sequenza con cui confeziona la visita degli assistenti sociali è un manifesto di consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie idee.

 

(Miss Violence, di Alexandros Avranas, 2013, drammatico, 98’)

 

“Due pinte di birra” di Roddy Doyle

«Quella è la Sydney Opera House. Si chiama così, per esteso».
«Sì».
«Quindi… siamo a Sydney».
«Sì».
«Ah. E come ci siamo capitati?».
«Cazzo ne so».
«Qualcosa nelle pinte, forse».
«Mi sa anche a me».

Il contesto di Due pinte di birra (Guanda, 2013) possiamo dedurlo dal titolo del libro e dalla storia di Roddy Doyle: siamo in Irlanda, al tavolino di un pub. Parlare di quest’ultima opera dell’autore di Paddy Clarke ah ah ah! come di un romanzo, potrebbe risultare difficile e probabilmente fuorviante. Meno forzata potrebbe essere la decisione di parlarne in termini di versificazione: i due protagonisti hanno regole stilistiche da rispettare, il loro ritmo da assecondare e una certa loro metrica interiore. Una sorta di poesia per ubriaconi.

Il tavolo di legno, la luce soffusa, le guance rosse e il chiacchiericcio generale: è tutto pronto ancor prima di girare la prima pagina; assistiamo infatti unicamente ai dialoghi tra due amici di cui non sappiamo i nomi (aspetto influente: in fondo potremmo trovarci in un bar italiano o in un bistrot francese, è forte benché sottocutanea la percezione di una visione e dell’insofferenza dal basso, locale, del concetto di Europa in senso politico). Una serie di sketch in cui una specie di scorbutica e a suo modo sofisticata coppia alla Laurel e Hardyè trasportata in un pub irlandese degli anni ’10.

Nell’arco di un anno e mezzo, dal 24 maggio 2011 al 31 dicembre 2012, i due parlano di politica, di società, di crisi, di sport: da Silvio Berlusconi a Francesco Schettino (suggeriscono di mettere lui a gestire l’Euro: saprebbe quando mollare la barca che affonda), dal norvegese Andres Breivik a Gheddafi, che uno dei due dice di aver visto al terminal di un aeroporto travestito da uomo delle pulizie; dalla morte di Donna Summer a quella di Whitney Houston, passando per Fernando Torres e il topless di Kate Middleton; fino al nipote di uno dei due narratori, che adotta prima una iena e poi un orso polare.

Probabilmente non siamo di fronte all’opera migliore di Doyle; abbiamo tra le mani un suo divertissement, con alcuni picchi notevi, da portare appresso e da usare a piccole dosi come diversivo.

(Roddy Doyle, Due pinte di birra, trad. di Silvia Piraccini, Guanda, 2013, pp. 154, euro 14)

“Antonia” di Mirella Ioly

«L’unico tempo che possiamo dire nostro è il tempo delle nostre storie». Esordisce così Antonia, romanzo d’esordio della scrittrice italiana d’origine e canadese d’adozione Mirella Ioly (Hacca, 2013); un testo che rimanda alle saghe familiari di cui sono maestri indiscussi molti scrittori sudamericani (c’è molto di Isabella Allende ma anche rimandi al realismo magico di García Marquez), oltre a possedere aspetti peculiari del romanzo storico e psicologico.

Antonia Luco è un’affermata scrittrice cilena nata a Coquimbo che gli eventi tragici della vita indurranno a emigrare in Canada. Nel romanzo scritto completamente in prima persona, la protagonista ci narra la sua travagliata esistenza in continuo movimento dal 1954 al 2012, con salti temporali e flashback che stuzzicano la curiosità, invogliando alla lettura. Un romanzo oceanico, come si legge a ragione nella sinossi, ricco di personaggi – parenti, amici, amanti e persino uno psicologo che l’ha in cura – tutti ben definiti, concreti e completi, ognuno con la sua storia che vive di vita propria, sebbene sia inevitabilmente intrecciata a quella della protagonista. Vi è poi un ulteriore grande personaggio: la Storia, determinata dai grandi fatti avvenuti in Cile, in primis il golpe di Pinochet accaduto l’11 settembre 1973 (data meno nota ai libri di scuola rispetto all’11 settembre statunitense, come accuserà ironicamente Antonia), il caso Allende, le cause e conseguenze socio-politiche che apportarono questi tragici eventi.

Sin dagli esordi si capisce che la numerosa e complessa famiglia di Antonia (di valido aiuto l’albero genealogico configurato nelle prime pagine) è di tipo matriarcale, dove le figure femminili, su tutte la madre Enriqua e la zia Inocenta, prendono spesso il ruolo del marito, reggendo egregiamente tutto il peso della casa. I maschi, dunque, sono quasi tutti personaggi deboli, privi di spina dorsale, fatta eccezione del fratello Carlos, attivista convinto che si schiera contro la politica del paese, e pertanto costretto a lasciare il Cile. José Antonio, il padre di Antonia, non è in grado di assumersi responsabilità ed è, per intenderci, il classico uomo che invece di pensare a come mantenere la famiglia in modo concreto si perde in fantasticherie e illusioni (su tutte, la ricerca continua del famigerato tesoro del capitano Francis Drake); poi c’è il fratello emigrato in Australia, José Manuel, un ipocrita che si è totalmente distaccato dalle sue radici e che aiuta a fatica gli altri fratelli. E che dire del primo marito di Antonia, Ricardo, artista pieno di sé, capriccioso e coinvolto nel movimento politico ma che dopo il golpe si rinchiuderà in un’amara disillusione fino a morire dentro, divenendo una figura completamente passiva, mantenuto fino alla morte dalla moglie stessa.

Il momento di rottura che simboleggia il passaggio dalla giovinezza entusiasta di Antonia alla disillusione e al distacco con la propria terra natia sarà proprio il golpe stesso: nonostante il trauma e l’emigrazione forzata, a Ottawa Antonia riesce a ricostruirsi una vita più che dignitosa come docente di spagnolo e come scrittrice.

Nel gelido paesaggio canadese, diametralmente opposto a quello cileno, la donna cresce la sua bambina Manuela e trova, inaspettato, l’amore per l’uomo (forse l’unico in grado di reggere a pieno questo appellativo) che diventerà il compagno della sua vita matura. E nelle ultime fasi della sua esistenza travagliata, quando soffrirà di ansie e paranoie che sfoceranno in un grave problema con l’alcol, Antonia ritroverà un po’ di pace grazie alle preziose sedute con il dottor Ray, psicologo in auge che cercherà di condurla al cuore del problema, facendole ripercorrere tutti gli episodi salienti della sua esistenza.

Il finale, poi, lascia spiazzati, tutto da leggere.

Una lettura, dunque, consigliatissima, in cui la Ioly riesce a coniugare mirabilmente la scorrevolezza di un testo piacevole e fruibile con il piglio più impegnativo del romanzo storico-politico.

Ultima nota positiva, la copertina creata per Hacca da Maurizio Ceccato: vedere per credere.

(Mirella Ioly, Antonia, Hacca, 2013, pp. 352, euro 14)

“Il luogo senza confini” di José Donoso

Il luogo senza confini (Sur, 2013), secondo romanzo del cileno José Donoso, è un libro che, nella sua semplicità, nasconde significati molteplici, a partire proprio dal titolo: il luogo in questione è sia El Olivo, il minuscolo paesino del Cile in cui si svolgono i fatti narrati, sia, tenendo presente la citazione del Dottor Faust di Marlowe posta in esergo, una delle possibili rappresentazioni dell’inferno – «L’inferno non ha confini».

Ad abitare questo luogo “infernale”, c’è Manuela, un travestito sessantenne che ormai da anni movimenta le serate del bordello gestito insieme alla figlia, la Giapponesina. È arrivata un giorno, Manuela, dalla lontana Talca e non è più riuscita a ripartire, anche per via di una scommessa fatta tra la madre di sua figlia, la Giapponese Grande, e Don Alejandro Cruz, il signore indiscusso dell’intera El Olivo.

Uomo nel corpo e in quanto padre, ma donna nell’animo, Manuela vive il suo inferno personale tra i rimorsi di un passato ormai distante e il desiderio di riscossa lontana da quel luogo, una riscossa che significherebbe per lei essere ammirata e amata da tutti, lei che, con il suo vestito rosso, ormai logoro, quando balla non ha eguali – è così che Manuela fiorisce e si rivela in tutta la sua vitalità e sensualità ambigua.

Intorno a Manuela ruotano, oltre alle prostitute del bordello, tutta una serie di personaggi attraverso cui Donoso mette in mostra la realtà cilena con i suoi mutamenti in corso, tra i quali lo scontro fra la tradizionale società rurale, basata sul feudalesimo, e la nascente borghesia – i continui contrasti tra Don Alejandro e Pancho Vega, camionista rozzo e primitivo che cerca nel denaro il suo riscatto sociale, ne sono una prova.

Scritto durante uno dei momenti di stallo che Donoso ha avuto nella stesura del suo romanzo più celebre, L’osceno uccello della notte, Il luogo senza confini è una rappresentazione lirica ma mai liricizzata di un microcosmo triste e meschino, e per questo autentico e pulsante. È superba la bravura dell’autore nel passare dalla terza persona narrante alla prima persona dei monologhi interiori di Manuela, dai dialoghi vivi dei personaggi alle descrizioni silenziose di un luogo in cui tutto è fango e indifferenza di un dio che delega i suoi poteri a Don Alejo e ai suoi cani. Donoso sembra accarezzare le sue e le altrui ferite con le parole: attraverso un linguaggio per lunghi tratti poetico, quasi riesce infatti a rendere accettabile la sofferenza esistenziale propria della condizione umana.


(José Donoso, Il luogo senza confini, trad. di Francesca Lazzarato, Sur, 2013, pp. 149, euro 14)