“Wild Light” dei 65daysofstatic

«No one knows what is happening».
Così inizia Wild Light dei 65daysofstatic da Sheffield. Lo afferma senza dubbi una robotica voce femminile e io le credo, perché al trentesimo secondo partono i sintetizzatori e davvero non so cosa stia succedendo, né cosa aspettarmi da un gruppo che basa sull’evoluzione musicale il proprio cambiamento, data la natura completamente strumentale di tutte le sue composizioni.

Avevo lasciato i 65daysofstatic (65dos, abbreviato) di We Were Exploding Anyway con l’elettronica pesante dell’ultimo pezzo “Tiger Girl”, che chiudeva paradigmatico una virata più elettronica del quartetto inglese. Invece Wild Light si apre con un tappeto di synth e campionature, un pezzo lento, una vera e propria ouverture che è “Heath Death Infinity Splitter”. Quando parte la seconda traccia, “Prisms”, ci pensi che forse hai capito l’andazzo, forse hanno sintetizzato tutto: chitarre, bassi e batteria sono elettronici, ovattati. Non ci vuole tanto ad essere subito smentito dalle linee aggressive delle successive “The Undertow” e “Blackspots”. Quando la parte melodica non prende il sopravvento in pezzi come “Taipei” che ricorda il post-rock più classico, il disco è molto incentrato sui bassi, ripetuti e quasi subliminali. Nella foresta elettronica che i quattro riescono a creare con le tastiere, i campionatori e i beat di batteria la luce selvaggia del titolo che filtra è questa: il suono inaspettato, la liberazione, lo stridio acuto che spicca tra i suoni familiari, sicuri, ottundenti.

La capacità maggiore dei 65daysofstatic è quella di far sembrare questo processo sempre come qualcosa di naturale; i suoni contrastanti diventano complementari, niente sembra (niente è) creato, incrociato, sovrapposto per caso. Tenere questa capacità quando i ragazzi di Sheffield sono già al sesto disco in poco meno di dieci anni è un dono, uno di quelli sfruttati bene.

È sempre stato difficile definire un genere per i 65dos, per il – semplicisticamente parlando – mashup di post-rock, elettronica e noise della band inglese. A differenza di colleghi (e concittadini) i 65dos cercano di variare la loro ricetta, o composizione chimica nel loro caso, avendo come obbiettivo lo stesso risultato, creando forse non il loro disco migliore a livello prettamente contenutistico o di appetibilità per il grande pubblico; allo stesso tempo l’album è un rumoroso segnale di vitalità artistica e creativa. La luce selvaggia è anche questo.


(65daysofstatic, Wild Light, Hassle Records, 2013)

“Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria” di Federico di Vita

Pagina fan su Facebook, foto di una ragazza che legge seduta sul wc in terza di copertina (e non solo!), dedica a Benedetta Parodi: tutto questo non può che essere il preludio di una lettura esilarante e irriverente. In effetti lo è. Peccato che la seducente ironia di Federico Di Vita non faccia semplicemente parte di un divertente gioco di finzione letteraria che ci lascerà col sorriso sulle labbra, ma sia un modo – forse il meno amaro – di aprire gli occhi di fronte a una triste realtà: il panorama editoriale italiano di oggi. Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria(pubblicato in questa seconda edizione ampliata da Tic Edizioni, 2012) è un saggio che in maniera leggera e dinamica affronta, seriamente, i vari aspetti strutturali della macchina editoriale, ma è anche manifesto critico di una situazione drammatica in cui sono coinvolte migliaia di persone che hanno scelto di lavorare e far parte di questo mondo.

Attraverso l’esperienza diretta di anni di precariato nell’editoria (rievocata nel libro inserendo alcuni brevi capitoli di finzione intitolati Il crudele apprendistato di Vero Almont che si intervallano ai contenuti del saggio), la documentazione e le innumerevoli fonti consultate, oltre che la raccolta e citazione di preziose interviste o conversazioni con varie figure operative nel settore editoriale, l’autore indaga, chiarisce – per molti, svela per la prima volta – «di cosa parliamo quando parliamo di catena della morte». In pratica, i meccanismi, le relazioni, gli equilibri e i disequilibri che accompagnano la vita (o sopravvivenza) di un libro, partendo dalla premessa che il suo autore spesso «interviene solamente in un secondo momento, quando il libro è stato già ideato e progettato», in quanto merce in un mondo mercificato, passando poi al ruolo delle figure che intervengono successivamente: dall’agente letterario, al tipografo, al distributore, al grossista, al promotore, al buyer, per citarne alcune.

Ampio spazio di riflessione e analisi viene dedicato anche alla realtà e al funzionamento attuale delle librerie indipendenti, riportando esempi concreti presenti nelle principali città legate all’editoria in Italia e confrontando la situazione in cui si trovano a operare rispetto al passato e rispetto, soprattutto, alla presenza invasiva e sleale delle librerie di catena. E ancora, grazie all’indagine dell’agente (e, non troppo difficile a dirsi, alter ego dell’autore) Vero Almont, giunto dall’estero per osservare da vicino il funzionamento di una piccola casa editrice italiana, abbiamo la fortuna di goderci il resoconto sulla più importante fiera nazionale della piccola e media editoria, un viaggio tra gli stand di più di quattrocento editori che in quell’occasione provano ad attirare l’attenzione con «poster, hostess che offrono salumi, vino acido versato in bicchieri di plastica, standisti chiusi in gabbia con a terra un tappeto di paglia o alzando stendardi appesi a lunghe canne da pesca».

Ah, gli editori, i piccoli editori! Continuano a moltiplicarsi e rientrano tra quei 10.335 presenti sul mercato nazionale intorno ai quali si affaccendano, sempre meno con la garanzia di svolgere un lavoro retribuito, un esercito di circa 20.000 addetti ai lavori che, in un modo o nell’altro, in maniera più o meno professionale, contribuiscono alla pubblicazione di 60.000 libri ogni anno. Ma che poi, sapranno rendersi visibili tutti questi libri? Sapranno produrre reddito per retribuire i “pazzi scatenati” che hanno contribuito alla loro esistenza? I dati evidenziati da Federico Di Vita che conducono a una risposta sono desolanti e non lasciano molto spazio a illusioni o speranze. Certo, in tutto questo quadro di spietate leggi di mercato, meccanismi di potere e mancanza di una scuola editoriale che formi i collaboratori, anziché sfruttarli a rotazione per breve tempo, la macchina editoriale appare soltanto più come una trappola, un circolo vizioso dal quale è necessario uscire il prima possibile, se vogliamo scampare il pericolo di diventare tutti cuochi bravissimi che non sanno più di avere la necessità di fare quello che l’uomo ha sempre avuto bisogno di fare senza neppure chiederselo, prima su una pergamena, ora su un e-book. Sempre di storie si tratta.


(Federico di Vita, Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria, Tic Edizioni, 2012, pp. 312, euro 14)

ConAltriMezzi: a tu per tu con Alberto Bullado

Una strana presbiopia vuole che si ci accorga prima di ciò che è lontano. O forse, in questo caso, sarebbe meglio ammettere che malgrado sia padovana, avevo una conoscenza assai vaga di una realtà locale, ma molto viva anche al di fuori dalla provincia. Sto parlando dell’associazione ConAltriMezzi, un gruppo di intelligenze padovane, appunto, con una formazione nella maggior parte dei casi umanistica, che ho avuto la possibilità di conoscere lo scorso 17 agosto, durante la serata di premiazione di InciBricks, un piccolo contest letterario organizzato dalla redazione CAM in collaborazione con Scuola Twain.
 

All’interno della vostra webzine, offrite un ritratto dettagliato delle idee e degli obiettivi che vi proponete come associazione, riportando anche gli eventi ai quali, nei suoi primi tre anni di vita, CAM ha partecipato come promotore o ideatore. Nello specifico, mi hanno colpito positivamente le tue riflessioni sulla felice possibilità dei blog letterari di configurarsi come luoghi, sì virtuali, ma capaci di unire l’indipendenza del progetto alla pluralità di visioni della letteratura, discorsi sui libri e legami con la società che vi confluiscono. In poche parole, espressione eclettica e attiva del creare una cultura comune, favorendo un circolo di idee e narrazioni non come rilascio di informazione di consumo, ma filtrata per valorizzare i tempi vivi dei giovani.

Dopo questa bellissima introduzione, che altro aggiungere Anna? A proposito: grazie mille per queste parole e per l’opportunità che ci offri con questa intervista. Sì, rimango più o meno convinto di quello che dissi un po’ di tempo fa a proposito dei blog come opportunità e nuove creature del panorama culturale, un po’ arrembanti, un po’ brancaleoniche, un po’ inquietanti. Da questo punto di vista le sensazioni sono piuttosto contrastanti. Personalmente sul tema passo dall’euforia alla noia nel giro di qualche mese, tuttavia è innegabile una crescente popolarità di questa nuova e variegata fauna di “cavalieri senza terra” con annessa attenzione dei media, che tendono a guardarci con la pruriginosa curiosità di chi è affamato di contenuti e novità che in realtà non vogliono realmente approfondire e comprendere.
Quanto alla pluralità di visioni: ci sembra il minimo. I lettori sono sempre più polivalenti, la comunicazione sempre più transmediale e un esercito di nativi digitali è lì fuori pronto per assorbire input, informazioni, idee che condizioneranno il futuro. Credi che avrebbe ancora senso parlare di libri spalando la polvere della critica testuale, o incipriandosi il naso con le avvincenti e interessantissime dispute attorno al premio Strega?
Inoltre nel 2013 è difficile parlare di letteratura, magari quella con la L maiuscola, perché è semplicemente difficile capire cosa sia, al giorno d’oggi la letteratura. Figuriamoci quella con la L maiuscola. Invece è più interessante capire la lettura della gente, che vive esistenze sempre più precarie e quindi necessariamente eterogenee, sfuggenti e interdisciplinari. Essendo noi parte della gente non possiamo che condividere il medesimo punto di vista. Più che di eclettismo io parlerei di realismo. È fisiologico e realistico percorrere le tante strade che compie la cultura popolare, l’oggetto che più ci interessa, e le sue narrazioni. Ed è nello stesso tempo fisiologico e realistico farlo attraverso lo spazio sociale e ideativo predominante del nuovo millennio, l’unica piattaforma che potenzialmente ci può consentire tutto: il web 2.0. Detto questo un simile lavoro non potrà mai sbocciare del tutto se ci si limita alla pura esistenza/condivisione virtuale: per questo abbiamo creato l’associazione culturale, perché ci siamo accorti come fosse importante “fare cose” anziché “parlare di cose”.
Da questo punto di vista mi piace pensare a CAM come un progetto dal baricentro basso, culturalmente pop e mentalmente post. Siamo nati sotto la luce crepuscolare del nostro vate-mascotte Sergio Corazzini, poeta di inizio Novecento morto alla veneranda età di 21 anni. Quando abbiamo iniziato, la nostra più grande ambizione era quella non fare la sua stessa fine e di durare più di «Cronache Latine».
Per questo ci consideriamo già “postumi”: non siamo morti sotto i colpi dell’inedia, della malinconia e tisi. Questo per noi è già qualcosa. Ora guardiamo più avanti. Il nostro prossimo obiettivo da eguagliare non sono i TQ, defunti pure loro, o un Paolo Giordano, ma Mick Jagger, Iggy Pop, quella gente là.


Come nasce il desiderio di pensare a una produzione culturale, in un periodo storico nel quale la passione per la lettura è relegata ai margini, o declinata come intrattenimento esente da fini artistici? Quali sono stati i maggiori ostacoli sia di natura intellettuale che di ordine organizzativo nelle prime fasi di progetto?

La mancanza del know how, in primo luogo, e poi il disorientamento, comprendere che strada intraprendere, come farlo e con chi. Poi si tratta di passare del tempo, in questa sorta di palestra-limbo, per farsi le ossa e ingrossare le spalle.
Per quanto mi riguarda il desiderio nasce come amore per la sfida, la volontà di mettersi in gioco senza rimanere a guardare e credo che questo valga anche per gli altri membri della crew. Chiaro che per quanto tu possa sbatterti, e per quante soddisfazioni tu sia stato in grado di toglierti senza l’aiuto di nessuno, ci sarà sempre qualcuno che fatica a comprendere chi sei, cosa fai, cosa vuoi. Ma questo è nell’ordine naturale delle cose in un paese dove la maggior parte della gente che ricopre ruoli chiave è lì per bontà divina, o per il solo fatto di esistere. Mentre il tuo merito – oltre ai risultati che ti sei lasciato alle spalle e che devi lasciare al giudizio dei postumi – è il solo fatto di continuare a esserci. Questo per dire che la questione in realtà non è mai semplicemente anagrafico-generazionale (giovani contro i vecchi, i figli contro i padri), e nemmeno meritocratica – chi sa fare cosa meglio di chi – ma comprendere, una volta che hai cominciato a dare il massimo in quello che intendi fare, dove andare a sbattere la testa, come approdare nel tuo habitat ideale e incontrare persone che in mezzo al circo comprendono i tuoi sforzi, premiano le tue capacità e, insieme a loro, condividere prima delle esperienze e poi delle prospettive. Ecco, il difficile consiste sostanzialmente in questo: resistere mentre si tenta. E continuare a farlo, perché ho come l’impressione che poi, questa prova del fuoco che non so nemmeno chiamare per nome, non finirà mai.


Curare un progetto come CAM, credo significhi accordarsi il lusso di pensare nel lungo periodo; considerare la produzione di cultura né come un trofeo autocelebrativo, né come bisogno estemporaneo, quanto invece una costruzione che, nel restituire a sé stessi e ai lettori il proprio bagaglio di competenze e di sensibilità, arricchisce di contenuti, sfida le capacità personali e di gruppo, asseconda le possibilità della tecnica (internet).

CAM fa parte di un investimento esistenziale. Per me è stata e continua a essere un’esperienza di quotidiano esercizio fisico, psichico, intellettuale e creativo. Oltre che un divertimento, chiaro. Come gruppo abbiamo abbandonato da qualche tempo l’idea di “vivere alla giornata”, e ora ogni iniziativa si inserisce in un progetto di media-lunga gittata. Ho persino cominciato a parlare come un marketer e a usare a caso termini anglofili: il segno tangibile del non ritorno o del passaggio della linea d’ombra di Conrad.
Scherzi a parte, internet è un po’ come una giostra e fintanto che ci stai dentro sei costretto ad assimilare il suo linguaggio, le sue dinamiche, percorrendo quel binario come in un ottovolante. Percepisci la realtà alla velocità della luce, tra giri della morte e avvitamenti e alla fine devi avere lo stomaco di voler fare un altro giro, perché quello che hai colto da quello precedente non ti basta. E perché quello che hai colto dai libri che ti hanno fatto studiare, anche quello non ti può bastare. Questo significa che le opportunità si moltiplicano di giorno in giorno. Magari sono tanto interessanti quanto evanescenti ma tant’è. Comprendere e sfruttare cosa c’è di buono da questa escalation un po’ bulimica è l’aspetto più interessante delle nostre attività. Del resto la realtà si fa più fluida della società di Baumann, di conseguenza il tuo spirito si deve mantenere igneo e magmatico. E ora che nella stessa risposta ho citato due pesi massimi e pennellato due metafore evocative da un tanto al chilo, posso ritenermi soddisfatto.


Avete particolari punti di riferimento culturali, valori e modi di concepire la letteratura attinti da vostre esperienze o da realtà editoriali già esistenti? Quanto ha inciso l’esperienza universitaria come studenti di Lettere?

Per i riferimenti culturali non posso far altro che parlare a titolo personale, poiché la redazione di CAM è composta da teste pensanti di varia natura e fedina penale culturale. Personalmente credo che non potrei essere lo stesso senza Cioran, Palahniuk, Lolita, la musica punk e Twin Peaks. La fiera delle vanità dei blog e dei social network mi condiziona quotidianamente tanto quanto i film, i libri, i classici del passato e le serie tv. Invece, per quanto riguarda l’esperienza universitaria, beh, senza di quella non ci sarebbe CAM. L’università sia come entità fisica, che ci ha fatto incontrare, sia come trauma, che ci ha fatto cambiare. La Facoltà di Lettere di Padova è stata la scintilla che ha acceso la miccia. L’iter formativo di stampo umanista, i suoi vuoti, le sue lacune, il senso di voler riempire quei vuoti e quelle lacune, così come la volontà di creare qualcosa attraverso il quale prenderci quello che desideravamo. Un ruolo, una funzione, una compagine. Durante quel periodo ci siamo interfacciati con personaggi come Cesare De Michelis, presidente della Marsilio, Guido Baldassarri, che ha firmato la prefazione della nostra prima raccolta di narrativa emergente (Write not die), Andrea Molesini, prof istrionico, dal 30 facile, poi premio Campiello. Infine Emanuele Zinato, il prof con il quale abbiamo condiviso più visioni ed esperienze, nonché critico letterario attento al dibattito culturale in rete e redattore del blog Le Parole e le Cose. Questo per quanto riguarda le figure di riferimento del nostro ateneo. Poi so di membri di CAM che hanno avuto rivelazioni mistiche dopo aver seguito il corso di scrittura creativa tenuto da Roberto Ferrucci, che fortunatamente non ho frequentato. Forse da lì sono nati certi nostri “sentimenti sovversivi”. Ognuno ha il padre che si merita, prima o poi sfonderemo anche noi a Parigi.
E poi c’è Sergio Corazzini, di cui sopra, la cui rinfrancante presenza ha accompagnato i nostri primi passi. Isacco di CAM, un giorno, per rendergli omaggio, si è persino recato a Roma, al cimitero del Verano, alla ricerca della sua tomba, ma nemmeno il custode aveva mai sentito parlare dell’ex giovane poeta (true story). Ci piace pensare che le sue ossa non siano mai state tumulate nelle fosse comuni, e che lui sia ancora vivo, da qualche parte, proprio come è morto il vero Paul McCartney.


Quanta fatica si nasconde dietro la realtà della provincia? Si tratta, secondo voi, di un limite faticoso da sostenere o di una possibilità in più per sperimentare la dimensione dell’indipendenza? Trovate che sia semplice dialogare con altri progetti culturali limitrofi sia a livello di territori che di proposte?

Il brutto della provincia e che sei in provincia. Tutto il resto è da prendere e portare a casa. Perché se continui a dare il meglio delle tue possibilità, “con altri mezzi”, prima o poi chi di dovere deve fare i conti con te. Non ho nessun imbarazzo nell’ammettere che se CAM fosse nato a Roma, o a Milano, sarebbe finito per rappresentare l’ennesimo organismo pluricellulare pronto ad affollare un ecosistema autosufficiente, che di per sé è in grado di sostenere le proprie magiche isterie e ambiziose velleità. Padova da questo punto di vista è funzionale alla crescita di creature indipendenti come la nostra, malgrado il diserbante politico-culturale della classe dirigente e della collettività distratta e materialista. Hai praticamente la fortuna di avere uno spazio più o meno sgombro nel quale operare e intercettare possibili evoluzioni. In passato si sono spese molte parole sulla marginalità del Veneto e del Triveneto come «periferia culturale» d’Italia, attraversata da singole e sfavillanti firme o esperienze in realtà disinteressate o demotivate dal “fare rete”. Qualche mese fa abbiamo persino organizzato una tavola rotonda sul tema a Infrascritture – con il sociologo Stefano Allievi, lo scrittore Romolo Bugaro e Francesco Maino, fresco di premio Calvino – ma alla fine credo che il “bisogno di fare rete” sia diventato un luogo retorico stra-abusato e stantio, il sintomo di una patologia che scambia il fine con i mezzi. Alla volontà ecumenica del “stare e crescere assieme” personalmente preferisco l’evoluzione autonoma che porta necessariamente al dialogo con entità estranee, o più o meno collaterali, che possono in un secondo momento fiorire in relazioni positive. Da qui quello che dicevo prima, trovare degli interlocutori con i quali condividere delle esperienze e poi delle prospettive. La volontà di “fare rete”, sempre e comunque, mi suona come l’esigenza desaturata di chi, invece, vuole supplire la mancanza di prospettive attraverso un progetto privo di esperienze. È una questione di chimica. Non possiamo imporci delle affiliazioni in nome di chissà quale rivendicazione territoriale o sindacale. A maggior ragione noi che raggiungiamo le persone e concludiamo partnership e collaborazioni attraverso il web, a costo di doverci misurare con realtà molto lontane e diverse dalla nostra. Più che di semplici amici, nella vita, così come nelle nostre attività – sinceramente mi pesa doverlo definire “lavoro culturale”: dimostrerei automaticamente una volontà di sindacalizzare una “categoria” – abbiamo bisogno di “complici”. Rapporti umani più simili a relazioni alla Bonnie e Clyde che alla We Are the World, non so se ho reso l’idea.
Nella nostra esperienza abbiamo incrociato il cammino di molte entità e talvolta la scintilla è scattata nei contesti più improbabili, creando rapporti più fertili e duraturi di esperienze che al contrario si richiamavano ad appartenenze più stringenti ma evidentemente più di facciata.


Infine la domanda di rito: progetti futuri?

È da qualche giorno online il nuovo sito, con nuove rubriche, nuovi contenuti e nuove iniziative editoriali. In poche parole cominciamo a fare un po’ più sul serio per quanto riguarda l’area web, allo scopo di ritagliarci una nicchia come rivista online creativa, ironica e interdisciplinare. Da una parte la webzine, riveduta e riaggiornata, dall’altra le pubblicazioni digitali, vedi le raccolte di narrativa under 30 – Write not die –, di saggi e probabilmente anche di poesia.
Attraverso l’associazione continueremo a creare eventi e occasioni come Infrascritture e InciBricks, appuntamenti letterari e contest di scrittura creativa. Poi continueranno le nostre collaborazioni e partecipazioni con festival letterari più grossi. Inoltre, per il prossimo anno, abbiamo in cantiere una rassegna abbastanza particolare e ambiziosa che vorrebbe conciliare letteratura, arte digitale e il Grande Fratello. Quello di Orwell, naturalmente. Ma è ancora troppo presto per parlarne. Infine il progetto con il carcere di Padova: un’iniziativa molto appassionante e complessa. Quest’estate abbiamo inaugurato una serie di incontri e laboratori di scrittura con i detenuti del ramo protetti. L’intenzione è quella di creare una pubblicazione atipica, che si avvale delle tecnologie digitali ma non solo. Dopodiché ogni mese riceviamo richieste di collaborazione e inviti a partecipare a questo o a quel festival e la cosa ci fa estremamente piacere. Con CAM non c’è mai il rischio di annoiarsi.

 

 

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“L’estate degli inganni” di Adelchi Battista

Non so quanto avesse ragione Cicerone nel De Oratore a definire la storia «magistra vitae»; ma certamente aveva ragione quando la definiva «testis temporum», testimone dei tempi, quelli andati, e in qualche modo,anche dei tempi attuali.

La storia raccontata da Adelchi Battista in L’estate degli inganni (Guanda, 2013), per esempio, può fornirci una chiave di lettura del presente. In 430 pagine l’autore ricostruisce i giorni che vanno dal 26 luglio al 12 settembre 1943, dalla caduta di Mussolini alla sua liberazione sul Gran Sasso, giorni decisivi per le sorti dell’Italia. A Roma re Vittorio Emanuele III e Badoglio fanno un doppio gioco con la Germania nazista e con gli Alleati, tra corrispondenze concitate, oscure macchinazioni, generali che vanno e vengono. Spie. Intanto Hitler discute dell’invasione della Penisola.

Dal quadro tracciato emerge tutta la miseria della classe dirigente italiana, con Badoglio che fugge mentre soldati poco più che ventenni combattono per difendere Roma. In alcuni momenti, l’autore sembra ricordare manzonianamente l’incidenza degli umili nella storia, di quegli eroi inconsapevoli e silenziosi che, con le loro braccia gonfie di coraggio e di speranza, l’hanno disegnata, la storia. Non a caso nel romanzo fanno la loro comparsa nomi poco noti: non solo il maresciallo Badoglio e re Vittorio Emanuele III, ma anche il commissario del SIM Giacomo Carboni, Giuseppe Castellano, artefice della firma dell’Armistizio, Giacomo Zanussi e altri. Anche loro, incagliati nella fitta trama di giochi di potere, incidono sul corso degli eventi. E poi c’è lui, Mussolini, sfregiato dagli eventi, abulico, un uomo colto nel pieno della sua decadenza.

Già con Io sono la guerra (Rizzoli, 2012) Adelchi Battista aveva trattato quel periodo storico, raccontando le vicende del giugno 1943, un attimo prima della caduta di Mussolini. L’estate degli inganni si pone ora come continuazione di Io sono la guerra, per cui l’autore ha vinto il Premio Hemingway per la Narrativa 2012.

Entrambi i titoli sono frutto di un grande lavoro di ricerca: l'autore ha attinto alle risultanze dei processi, ai diari dei protagonisti e a una serie di documenti che fino a poco tempo fa non erano consultabili, grazie alla digitalizzazione degli archivi anglosassoni. Insomma, l’opera non è uno dei tanti romanzi storici di intrattenimento, ma ha delle solide fondamenta storiografiche. Quello di Adelchi Battista è un modo diverso di fare storiografia e di trasmettere la conoscenza storica al lettore. Non è un caso se il libro è stato adottato da alcune scuole superiori da affiancare al manuale tradizionale. Battista mischia storia e sentimenti, il crudo resoconto e la passione.

Probabilmente L’estate degli inganni non è nemmeno un romanzo storico, è un romanzo. Perché attraverso la storia parlano le persone con le loro illusioni, meschinità, paure, gioie. È un occhio lanciato in mezzo al campo di battaglia che, attraverso le gesta, canta le persone che le hanno compiute: Mussolini, Badoglio, figure che ci sono sempre state presentate come delle sagome. Adelchi Battista, invece, scava nelle sagome della storia, per capire, per carpire, ciò che c’è al fondo.


(Adelchi Battista, L’estate degli inganni, Guanda, 2013, pp. 430, euro 19)

“Viene a trovarmi Simone Signoret” di Bijan Zarmandili

Tre. Due. Uno. Ciak. Azione. 

Attraverso le inferriate di un’angusta finestra di una cella penetrano i raggi del sole facendo danzare insieme i granelli del pulviscolo con gli insetti, uniche presenze vive, oltre al prigioniero. In questa scena di insopportabile solitudine coatta, la cinepresa stacca sul primo piano di Ciangis Salami, protagonista e voce narrante di Viene a trovarmi Simone Signoret (Nottetempo, 2013) dello scrittore iraniano Bijan Zarmandili.

Ciangis è un onesto e mediocre regista la cui unica colpa è quella di non poter liberamente esercitare la propria fantasia nell’Iran dell’ayatollah Khomeini senza cadere vittima della censura o essere accusato di «ammiccamenti al sionismo»: «Del mestiere di cineasta mi rimane l’ossessione per la luce: la facevo cambiare decine di volte prima di trovare quella giusta per girare la scena. E alla fine quella giusta era sempre opaca, spenta».

È nella realtà penosa e asfissiante del carcere di Evin, non molto diversa dalla realtà della capitale Teheran, «ormai una città senz’anima, avendo perso quel poco di fascino orientale che possedeva quando ha cullato l’illusione di potersi trasformare in una metropoli moderna», che l’ormai vecchio regista tenta di sopravvivere affidandosi all’immaginazione, montando nella sua testa le scene di un film destinato a dare gloria, nella sua aspirazione, al cinema iraniano.

È il pretesto e l’espediente di cui si serve lo scrittore per ripercorrere gli anni della monarchia autoritaria dello Scià di Persia Reza Khan, fondatore della dinastia Pahlavi. È in quella atmosfera altrettanto liberticida che Ciangis e il suo amico Elias vissero la loro infanzia e adolescenza.

Il film dovrà soffermarsi in particolare sul finire degli anni Settanta quando, mentre a Teheran si susseguivano manifestazioni di protesta e scioperi, a Parigi un gruppo di opposizione preparava la rivoluzione dell’Imam Khomeini. È in questo clima che saranno girate le scene di una storia d’amore impossibile che, come le più classiche storie d’amore impossibili, si nutre degli inevitabili ostacoli creati dalle differenze di religione, la storia fra una ragazza mussulmana, Simin, figlia del colonnello Mehrabi, e di un ragazzo ebreo, Elias, figlio di un facoltoso imprenditore. Una storia che non potrà che finire in tragedia.

Un soggetto drammatico in cui si insinuano digressioni e ricordi richiamati non in modo sistemico ma per via scorciata, analogica, attraverso quadri o scene, non tanto e non solo per intrattenere con una storia ma per dare un senso alla complessità circostante, alla vita, alla fedeltà di una donna, la moglie Ozra, scelta più per la sua normalità e affidabilità che per la bellezza.

Sarà ancora e sempre Ozra ad attenderlo all’uscita da Evin, dopo due anni di carcere, con la sua immancabile sigaretta in bocca, proprio come Simone Signoret nel film con Jean Gabin, Una giornata amara. E solo allora, dopo i titoli di coda, si potrà scrivere la parola Fine.


(Bijan Zarmandili, Viene a trovarmi Simone Signoret, Nottetempo, 2013, pp. 208, euro 14)

“Una piccola impresa meridionale” di Rocco Papaleo

A quasi quattro anni da Basilicata coast to coast Rocco Papaleo torna dietro la macchina da presa con Una piccola impresa meridionale, nuova commedia scandita dalla musica e dai paesaggi del Sud.

Don Costantino (Papaleo) è un prete, o meglio lo era. Un giorno si è innamorato di una donna che amava più la tonaca che chi la indossava, per cui dopo la rinuncia ai voti lo ha abbandonato. Ora, quindi, Costantino è solo, senza un lavoro, senza una donna, senza una vita. Decide di tornare al paese, a casa della madre (Giuliana Lojodice), confessarle tutto e ripartire da lì, ma quando arriva trova altri drammi ad attenderlo. La sorella Rosa Maria (Claudia Potenza) ha abbandonato il marito Arturo (Riccardo Scamarcio) ed è sparita senza dire nulla. Per evitare ulteriori scandali, Costantino accetta di trasferirsi in un vecchio faro di proprietà della madre dove presto la raggiungono Arturo e Magnolia (Barbora Bobulova), avvenente e spigliata sorella della domestica polacca di famiglia, Valbona (Sarah Felberbaum), che in un passato non troppo lontano esercitava il mestiere di prostituta. Creduto da tutti ancora un sacerdote, Costantino si trova a diventare, o tornare, confessore di ogni segreto, mentre una ditta sgangherata si occupa della manutenzione del faro.

C’è un po’ di Ozpetek e di Mine vaganti nelle premesse di Una piccola impresa meridionale. L’ambientazione nel Mezzogiorno, i segreti che si accavallano e accumulano in una famiglia non necessariamente bigotta, ma condizionata dall’aria rarefatta di un piccolo paese. Costantino torna a casa per rivelare il proprio segreto e viverne le conseguenze, ma, proprio come il protagonista del film di Ozpetek, viene anticipato da altre rivelazioni che lo obbligano ad assumersi le responsabilità degli altri. Come una specie di Michele Apicella di La messa è finita virato in commedia, Don Costantino torna a casa per sé e si trova suo malgrado a dover essere guida di tutti, punto di raccolta di segreti e paure.

Papaleo gioca con la propria meridionalità e il classico bagaglio di pregiudizi e luoghi comuni che accompagnano la rappresentazione del Sud Italia. Ambientando Una piccola impresa meridionale in un generico paese del meridione (la provincia di Oristano in realtà), ha allargato il campo regionale di Basilicata coast to coast a tutta la parte bassa della Penisola. Del suo film d’esordio ha mantenuto l’impostazione musicale, prendendo addirittura lo spunto della sceneggiatura da una canzone da lui scritta, "La tua parte imperfetta", coinvolgendo gli interpreti come cantanti e musicisti. Per il resto ha avuto il meritevole coraggio di cambiare stile, passando dall’on the road a un film con (quasi) la sola ambientazione del faro.

Proprio il faro è il centro in cui le varie vite e storie si incrociano e arrivano a soluzione, trovando nel fascio di luce, che lentamente torna a illuminare il mare, una guida e un punto di riferimento, un simbolo di comprensione e unione per un nuovo futuro capace di superare i problemi del passato e i pregiudizi della gente.

Non mancano momenti di (in)evitabile banalità. Il tema stesso della diffidenza della gente di fronte a tutto ciò che è anomico o deviante non rappresenta certo un grido di novità. La collettività resa aggressiva dal pregiudizio non viene neanche mostrata allo spettatore, rimanendo come idea generale, come nemico invisibile, se non nel trascurabile matrimonio che anticipa il finale, celebrato all’insegna dell’amore puro, finché il sentimento avrà forza, tra «persona e persona», senza distinzione di sesso. Il tentativo di affrontare l’omosessualità scivola in una retorica facilmente influenzata da un eccesso di correttezza che per tutto il film Papaleo e il suo sceneggiatore Valter Lupo erano stati bravi a tenere a distanza. Proprio il confronto con l’altro al di fuori del nucleo familiare (allargato) indebolisce il film, privandolo di ritmo e caricandolo di un sentimentalismo facile basato su colpa e riconciliazione.

Papaleo si conferma ottimo nel dirigere gli attori, tutti perfettamente a proprio agio e convincenti. Bobulova canta Caterina Caselli al karaoke, Scamarcio, al pianoforte, due canzoni scritte dal regista.

 

(Una piccola impresa meridionale, di Rocco Papaleo, 2013, commedia, 103’)

 

“La città degli uomini d’oggi” di Edoardo Persico

È questa la prima cosa che colpisce della nuova edizione Hacca di La città degli uomini d’oggi di Edoardo Persico: la bellissima copertina di Maurizio Ceccato. Un colpo d’arte questa foglia leggiadra che sulla carta bianca si dirama suggerendo alla nostra mente una grande metropoli di oggi o di ieri, la stessa che Persico racconta.

Persico è un intellettuale inquieto, ribelle, ein questi suoi scritti adolescenziali insorge lo spirito rivoluzionario di un uomo degli anni Trenta. Ragazzo formatosi nell’ambiente antifascista della rivista liberale di  Pietro Gobetti Il Baretti, nella Torino degli scontri sociali tra operai e fascisti. Torino e poi Milano, due città europee stimolanti e innovative in cui Persico seppe imporsi come figura di rilievo. A soli trent’anni, dopo aver lavorato per un breve periodo come operaio in Fiat, si avvicina alla cerchia di Pietro Gobetti e in poco tempo diviene scrittore, polemista, curatore e direttore di diverse mostre d’arte e d’architettura contemporanea, ma principalmente pioniere del pensiero. Edoardo Persico riuscì a far incontrare la più classica architettura fascista italiana con la stimolante architettura d’avanguardia europea, ponendo all’attenzione del grande pubblico i più sorprendenti architetti dell’epoca tra cui Le Courbusier, Gropius e Wright.

Persico è un giovane enigmatico, convinto antifascista e cattolico devoto, pubblica giovanissimo a sue spese un piccolo pamphlet filosofico apocalittico;che dopo quasi novant’anni la casa editrice Hacca ci ripropone provando a recuperare la memoria di un grande pensatore, ancora oggi sconosciuto.

Quella di Persico è una denunciasociale,un’invettiva contro gli uomini d’oggi, di cui racconta le favole, narra l’ipocrisia e il fango in cui sono caduti, la loro attitudine a deformare le parole, a sfruttare un linguaggio che  diviene complice delle loro nefandezze. Gli uomini d’oggi hanno alterato il senso, hanno voluto vedere il bello nel male, ma quando l’errore si svela il paradosso si compie: il bello si spoglia della sua maschera e si mostra per ciò che è: brutto.

Persico narra la realtà di una città arida, una città svuotata, «una città potente come il traboccare d’un letamaio, senza la tragedia della coscienza» dove, ormai, l’ombra ha oscurato il sole. Fango, letame, rumore, disprezzo e orrore. Questa città terrena, sorda, la cui unica speranza è implodere in se stessa per poi rinascere dalle ceneri della propria distruzione.

Persico annuncia la sua verità come un Cristo salvatore, acclamando l’avvento «di una città dei vivi che si innalzerà sulle rovine della città dei morti». Una città celeste, dove non esiste dissonanza, dove l’unità è armonia. A immagine e somiglianza di quella città ultraterrena che Giovanni narra nell’Apocalisse. Lo scrittore fonde il suo forte cattolicesimo alla visione socialista dell’architettura razionalista di Gropius e innalza la sua utopia: la città cubica.

Ecco, Persico è lì, alla ricerca «dell’aroma che impedisce alla vita di putrefarsi» e ne ritrova un’impronta nella bellezza della verità, nel naturale processo di distruzione e rinascita: «e perciò oggi tento l’arte». L’Arte, quella pura, non contaminata, è l’unico modo per ritrovare la bellezza perduta.

Ma il vero insegnamento che un uomo della statura morale di Edoardo Persico, con i suoi scritti, i suoi atti e i suoi ideali può consegnarci, è quello di non rinunciare mai alla nostra libertà di pensiero. Il pensiero è l’azione pura ancor prima dell’azione stessa. Il pensiero è libertà: «È tempo che dica la mia parola. La parola è un atto».

 

(Edoardo Persico, La città degli uomini d’oggi, Hacca, 2013, pp. 96, euro 12)

“Hamletelia” di Caroline Pagani

Una notte di luna piena, un cimitero dimenticato, l’aria densa di nebbia. Ophelia si sveglia sulla terra nuda della sua tomba e inizia a chiacchierare. È Hamletelia, scritto, diretto e interpretato da Caroline Pagani, e andato in scena al Teatro dei Conciatori di Roma dall’8 al 13 ottobre.

 Ci sono due modi di mettere in scena Shakespeare: tromboneggiare e far starnutire il pubblico a causa della polvere che si solleva da pagine vecchie di quattrocento anni, oppure indagare ogni parola, ogni carattere e ogni respiro dei personaggi immortali dell’autore di Stratford-upon-Avon fino a ridare vita, luce e anima a ogni maschera.

Caroline Pagani riesce nell’impresa di scegliere un personaggio minore – «Mi hai dato un ruolo da comparsa!»  – di una delle più famose tragedie del mondo, Amleto, e renderlo il protagonista di uno studio linguistico e scenico interessante, oltre che divertente. Grazie al sapiente utilizzo della lingua originale dell’opera, resa comprensibile al di là del senso letterale di ciascun termine, grazie alla caratterizzazione fisica di ciascun comprimario – esilarante il suo Amleto durante la scena del convento – e grazie a una presenza scenica e un’energia coinvolgenti, la Pagani ci presenta un’Ofelia inedita. Un po’ ingenua, un po’ saggia, un po’ sensuale, un po’ casta. Spessa, densa.

Ofelia si racconta. Approfitta della calma del cimitero e dell’aiuto che un po’ di rosmarino le dà per la memoria, per raccontarci di nuovo, da dietro le quinte della tragedia, il principe di Danimarca, il castello di Elsinor e le ingiustizie che le sono toccate. Sì perché in vita Ofelia è stata abusata, è stata costretta al silenzio, è stata schiacciata prima dal padre, poi dal fratello e infine da Amleto, è morta troppo presto ed è stata marchiata, in morte, con la “lettera sbiadita” della debolezza e della frigidità, senza riuscire nemmeno a esprimersi come una vera e propria eroina tragica. Che almeno fosse valsa la pena di tanto soffrire per trasformarsi in un’icona al pari di Cleopatra, Desdemona e Giulietta!

Tanto è brava la Pagani ad approfondire il tragico che, insieme ai costumi e agli oggetti di scena, sapientemente nascosti sotto la terra bruna che compone la scenografia, riesce a tirare fuori una irresistibile comicità che spezza la tensione di un’ora e mezza filata di monologo. Consigliatissimo da chi scrive, Hamletilia si fa inseguire lungo lo stivale tornando in scena a Milano e Napoli.


Hamletelia
scritto, diretto e interpretato da
Caroline Pagani
Regia di Caroline Pagani

Prossime date:
Milano – Teatro Tertulliano dal 16 al 20 ottobre
Napoli – Teatro Elicantropo dal 28 novembre al 1° dicembre

“Allucinazioni” di Oliver Sacks

Senza voler azzardare nessun serio paragone fra uno scrittore e uno scienziato, per quanto eccentrico, Oliver Sacks questo è, un neurologo per la precisione, e come tale lavora: organizza e ridefinisce stati mentali e casi individuali in tipologie, circoscrive categorie cliniche, sottopone a verifica intuizioni ecc. Eppure, qualcosa nel suo approccio rimanda un po’ al Proust non della memoria ma della scienza involontaria così come ce lo ha a suo tempo descritto Deleuze in un vecchio fondamentale libretto di molti anni fa.

È che l’occasione, la circostanza fortuita, l’apertura al caso fuori dal laboratorio sono parte integrante del lavoro di Sacks. E così i tratti soggettivi dell’approccio.

In quest’ultimo libro tradotto al solito da Adelphi, il noto neurologo prosegue nella sua «forma di arte empatica» (come la chiama Roberto Calasso nel risvolto di copertina) raccontando da par suo il mondo delle Allucinazioni: termine in realtà  aperto a suggestioni molteplici e per questo necessitante una definizione che non lo faccia vagare in un mare troppo vasto di significati. Quella che egli dice di preferire la si deve a William James che la formulò nel 1890: «Un’allucinazione è una forma di coscienza strettamente vincolata alla sensazione, una sensazione piena e autentica come in presenza di un oggetto reale. Il punto è che l’oggetto non c’è». 

La “storia naturale” delle allucinazioni dimostra innanzitutto che il fenomeno in causa riguarda molte più persone di quelle che una convenzionale abitudine ci fa ritenere. Non siamo necessariamente (solo e sempre) in un ambito patologico. A questa conclusione Sacks arriva anche da esperienze personali legate alla giovinezza californiana degli anni Sessanta. Richiamare l’uso coevo e freak di un certo tipo di droghe è fin troppo facile: notoriamente «offrono una scorciatoia, permettono la trascendenza a richiesta». Negli anni di Abbie Hoffmann, Sacks comincia con la cannabis, passa attraverso l’LSD e i semi di ipomea. La “visione” per lo scienziato come per i suoi pazienti, è colore innanzitutto (l’indaco riuscirà a vederlo solo così), ma anche suono, sinestesia, autonoma fabbricazione filmica (come nel “cinema del prigioniero” indotto dalla deprivazione sensoriale di certe camere di tortura). Con la depressione e l’insonnia sopravvenute nel ’65 e il ricorso al cloralio idrato, le allucinazioni del celebre neurologo (e scrittore, va detto, non accidentale se è vero che – parole sue – per capire ciò che fa ha bisogno di scrivere) si fanno più acute (e non hanno bisogno di facilitazioni chimiche esterne).

Il rimando a tutto un mondo letterario e artistico sorge altrettanto spontaneamente nella ricerca di Sacks, che si smarca da una lettura meramente patologica del fenomeno al punto di affermare che «dovremmo chiederci in quale misura l’arte, il folclore e perfino la religione abbiano avuto origine da esperienze allucinatorie». Basti pensare al tema del Doppelgänger da Allan Poe a Maupassant. E a quanto psicosi organiche o narcolessi o epilessie (il «male sacro» di Dostoevskij) abbiano contribuito letteralmente a scrivere la nostra civiltà, sebbene a tutti noi faccia comodo pensare a un mondo bianco o nero di salute o malattia. Non è che invece «i motivi geometrici che si vedono nelle emicranie e in altre particolari condizioni prefigurano i motivi dell’arte aborigena»? Per esempio.

(Oliver Sacks, Allucinazioni, trad. di Isabella C. Blum, Adelphi, 2013, pp. 323, euro 19)

La collana Compagnia Extra di Quodlibet

Compagnia Extra è «una banda di pensiero». Così Ermanno Cavazzoni e Jeran Talon descrivono la collana nata nel 2008. Da Gianni Celati a Paolo Nori, da Kafka a Perec e Puskin: un immaginario condiviso, ma difficile da individuare tra le foschie della narrativa contemporanea. Davanti al sentiero che si fa scosceso nel territorio opulento della Letteratura, la compagnia di autori così riunita può percorre un’altra strada, comune e surreale, rinvigorendo la potenza delle opere con nuove traduzioni, apparati critici di alto valore che evidenziano eredità letterarie a volte dimenticate.

Nella galleria di personaggi sghembi e grotteschi c’è posto anche per Fellini. Curato da Cavazzoni, Il viaggio di G. Mastorna si presenta come una narrazione continua di un soggetto che il regista non riuscì a mettere in scena (un film sull’aldilà immaginato come il viaggio di Dante nella Divina Commedia). In linea con la volontà di arricchire i testi di informazioni e approfondimenti, nella prefazione di Vincenzo Mollica il lettore scopre aneddoti e peripezie che riguardano la pellicola mai girata.

La produzione artistica di questa collana lega letteratura straniera e italiana con l’obiettivo di costituire una compagine caratterizzata dallo spirito ariostesco, fantasioso, di apertura al mondo. Questa visione si rispecchia anche nella scelta di trasformare lo spazio bianco delle copertine in un luogo dedicato alle illustrazioni e predisposto quindi alla creatività. 

Nei cinque anni di attività, la collana ha già all’attivo 35 titoli che testimoniano un flusso ininterrotto di contributi artistici differenti ripescati nel continuum storico e accesi di nuova luce. Come già notato da Cristiana Saporito nella precedente presentazione della casa editrice, la parola Quodlibet ha diversi significati, ma il progetto editoriale sembra suggerire soprattutto l’idea di «una tessitura di melodie eterogenee».

E la presenza di Cavazzoni nella collana è molto viva, non solo perché è egli stesso parte della Compagnia, ma perché il filo conduttore tra le varie opere è il riflesso del suo gusto raffinato e di quel retroterra culturale che affonda le radici nei lontani poemi cavallereschi, nella scrittura in versi, una passeggiata «in carrozza sulle parole, in modo che ti portino loro».

Per conoscere o approfondire il progetto che anima questa collana, vi suggeriamo alcuni titoli:

–       Comiche di Gianni Celati (2012): esordio dell’autore, è la storia dell’insegnante Otero Aloysio, alla prese con la pesantezza dell’ambiente scolastico popolato da una galleria di personaggi che tenta di organizzare la cosiddetta dittatura dei maestri;

–       Operette ipotetiche di Ugo Cornia (2011): che sarebbe forse un libro di filosofia, se non fosse composto da storie ipotetiche e alternative inventate e campate per aria;

–       Album fotografico di Giorgio Manganelli (2010): un percorso per immagini presentato dalla figlia Lietta che ripercorre cronologicamente la vita dello scrittore. A cura di Ermanno Cavazzoni;

–       Morti favolose degli antichi di Dino Baldi (2010): morire in modo significativo perché la fine abbia la stessa maestosità dell’inizio. Una raccolta delle morti più esemplari, ambiziose ed elaborate dei personaggi della storia antica. 

“Ray Donovan” di Ann Biderman

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie ancora inedita in Italia]

Benvenuti nella vita di un fixer, benvenuti nella vita di Ray Donovan.

Vi starete giustamente chiedendo cosa sia un fixer: è un “risolutore di guai”. Ti svegli la mattina e ritrovi la prostituta con cui hai passato la notte in overdose? Nessun problema. Chiami il fixer: lui penserà a come risolvere il caso nella maniera più riservata e silenziosa. Hai messo sotto una persona con la macchina mentre il tuo tasso alcolico era sopra la media? Tranquillo, vale la risposta precedente. Ora, Ray Donovan è un fixer. Ma a questo punto, vi starete anche chiedendo chi diavolo sia questo Ray.

Ray Donovan è il protagonista dell’omonima serie targata Showtime, ormai orfana del suo caro Dexter e pronta a colmare il vuoto proprio con questa fiction. La mole del personaggio permette di pensare in grande, perché anche Mr. Donovan ha una doppia vita. Una bella moglie, due figli, una sontuosa villa a Hollywood e tanti clienti che non possono fare a meno di lui. Questa è la vita di facciata, già di per sé losca e controversa: un mondo frenetico e violento, da tenere lontano il più possibile dalle mura domestiche. Anche perché ci sono tanti demoni a tormentare Ray e poco a poco li conoscerà anche lo spettatore, che dopo le primissime puntate non potrà fare a meno del nuovo eroe dal lato oscuro.

Ci sono una sorella morta in circostanze misteriose, un padre appena uscito di galera pronto a giurare vendetta ai soci di Ray, gli altri fratelli e le loro burrascose vite, un prete ammazzato quasi subito perché qualche anno prima ha allungato le mani su dei poveri innocenti. Questo e tanto altro nella vita del protagonista. Eventi che a un primo impatto non sembrano nemmeno scalfire il volto di Liev Schreiber.

In una serie in cui le drammatiche parabole interiori dei personaggi la fanno da padrone, il cast assume un’importanza stratosferica. E fortunatamente il cast di Ray Donovan è al 90% cinematografico. Il già citato Liev Schreiber – considerato l’attore shakespeariano più bravo della sua generazione, nonché regista della trasposizione cinematografica di Ogni cosa è illuminata – finalmente ha l’opportunità di imporsi alla grande. Come altri grandi attori di cinema spesso sottovalutati o snobbati, anche lui può avere la sua vendetta grazie a un ruolo in una serie tv. Lui, che qualche anno fa si era permesso di sostituire Grissom in C.S.I. per poche – ma intese – puntate. Dicevamo del suo volto, che nulla può scalfire: una maschera spietata con cui destreggiarsi trai tanti clienti bisognosi di salvezza. Una maschera che però, dopo l’uscita del padre di galera e lo sviluppo di alcune delicate trame, mostrerà il suo lato più umano e sensibile. John Voight nei panni di Mickey Donovan ci regala un’interpretazione indimenticabile: è uno spettacolo vederlo gigioneggiare in ogni scena. E altrettanto fanno i bravissimo comprimari: Steven Bauer (il Manny di Scarface), Elliot Gould (Ocean’s Eleven), Peter Jacobson (il Taub di House). Per non citare la comparsa di James Wood e Rosanna Arquette a metà stagione.

Tecnicamente impeccabile, scritto magistralmente e interpretato all’ennesima potenza, Ray Donovan è pronto a imporsi come nuova serie cult della tv. In America già lo è. In Italia?

 

“Si può fare” di Birgit Vanderbeke

In un mondo in cui si preferisce buttare ogni oggetto al primo accenno di deterioramento piuttosto che aggiustarlo, Si può fare (Del Vecchio, 2013) ci fa scoprire la bellezza e la semplicità di condurre una vita con la voglia e la gioia di rimboccarsi le maniche e pensare positivamente.

Si può fare è la storia di due ragazzi che semplicemente non sono fatti l’uno per l’altra. Da una parte lei, logopedista proveniente da una famiglia borghese, e dall’altra Adam Czupek, artigiano tuttofare con le mani sporche di grasso fin da quando era bambino. Eppure forse sono proprio le differenze a portare questi due mondi ad avvicinarsi, innamorarsi e diventare una famiglia, contrastando i pareri di genitori ed amici.

Seppure la voce narrante sia Birgit Vanderbeke in prima persona, appare chiaro fin dal principio che il vero protagonista è Adam, che tutto ruota intorno alla sua figura ed alle sue convinzioni.

«Si può fare» è proprio la risposta che Adam ha per qualunque tipo di domanda, che sia aggiustare un tubo che perde, risistemare una bicicletta arrugginita trovata accanto alla spazzatura, improvvisarsi muratore per piccole ristrutturazioni, o impegnarsi a rimettere in piedi una fattoria. Secondo Adam semplicemente si può fare tutto, anche ciò che ci sembra impossibile, se solo riusciamo a immaginare di poterlo fare. Questa positività lo porta non solo a riempire la casa di qualunque tipo di oggetto trovi abbandonato e rovinato, da un aquilone a una panchina da giardino, ma anche a guardare al futuro con una speranza che il mondo consumistico in cui viviamo spesso ci fa dimenticare.

È proprio in risposta a queste speranze che la famiglia di Adam si rafforza, mette al mondo due bambini, e decide di lasciare Berlino per farli crescere in campagna, precisamente a Illmenstett, «mammamialaggiù». Così il maggiore Anatol e la piccola Magali hanno l’opportunità di crescere accanto a una fattoria, giocando con pulcini e cavalli e imparando che coltivare la terra è il modo più divertente di passare i pomeriggi.

Sullo sfondo di questa nuova vita bucolica si affaccia anche il tema degli immigrati, quando inizia la frequentazione di una famiglia turca, gli Ozylmaz, che portano un intreccio di tradizioni e credenze differenti. Bora, il figlio degli Ozylmaz, diventa un ottimo compagno di giochi di Anatol, confuso e incredulo del fatto che quel ragazzo sia continuamente preso in giro nel cortile della loro scuola solo perché ha la pelle un po’ più scura degli altri.

Si può fare è anche e soprattutto il racconto di oltre vent’anni di storia tedesca ed europea in generale, passando attraverso la caduta del Muro, la nascita di nuove speranze per un futuro migliore e l’avvento della globalizzazione.

La voglia di Adam di mettersi in gioco, di buttarsi a capofitto in ogni situazione e, più in generale, di fare, ha fra le motivazioni anche la convinzione che altrimenti arriveremo a scordarci qualunque azione, anche la più semplice: «Adam trovava sempre qualcosa di decente da strappare alla caducità, da portarsi dietro in un futuro, consacrato, secondo la sua ferma convinzione, alla più tremenda follia e al disastro perché quelli ci avrebbero portato a un punto tale da ritrovarci talmente stupidi da non poter più pelare le patate, e saremmo stati del tutto incapaci anche di riattaccarci un bottone».

Per quanto i ritmi delle nostre vite si stiano facendo sempre più frenetici, sarebbe bello pensare di poter mantenere tutte le conoscenze che i nostri nonni e genitori ci hanno tramandato con tanto impegno. Eppure al giorno d’oggi molti ragazzi non sarebbero capaci di riattaccarsi un bottone o di cucinare, figuriamoci di effettuare piccole riparazioni. Come possiamo quindi stare tranquilli ed essere certi che le previsioni di Adam non si stiano già avverando?

(Birgit Vanderbeke, Si può fare, trad. di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, 2013, pp. 149, euro 13)