“Requiem per D. Chisciotte” di Dennis McShade

Peter Maynard è un killer solitario che uccide la gente per soldi. Ma per uccidere, ha bisogno di una motivazione. Una motivazione che giustifichi il suo atto, rendendolo meno odioso per sé, per la sua coscienza. Un killer spietato e preciso, ma con una propria morale. Maynard deve sapere “perché” uccide, chi è l’uomo e quale il suo peccato. Non si accontenta di portare a termine nessun lavoro, seppur ben pagato, senza una valida ragione. E quando quella ragione arriva, senza fretta, allora e solo allora è pronto a elargire la sua, personale, estrema unzione.

Requiem per D. Chisciotte, è il secondo volume di una trilogia del crimine (La mano destra del diavolo, Requiem per D. Chisciotte e Mulher e Arma), scritta da  Dinis Machado negli anni Sessanta in Portogallo, durante la dittatura di Alcazar. A causa dell’inesorabile censura in atto in quegli anni, lo scrittore si vide costretto a pubblicare l’opera con lo pseudonimo di Dennis McShade, e ad ambientare l’intera vicenda negli Stati Uniti, affinché fosse lontano il sospetto che il paese corrotto e spregiudicato di cui si parla potesse essere il Portogallo.

Un paese senza luce, dove le tenebre sembrano ricoprire tutto, e le poche ore del giorno sono intrise da una fitta pioggia carica di vapori densi e ciechi. Loschi figuri in impermeabile e borsalino si aggirano indisturbati, tessendo una guerra sotterranea tra oscure lotte di potere politico ed economico. La legalità, la morale, la comunanza, non appartengono a questo mondo: ciascuno è implacabile carnefice e, allo stesso tempo, vittima di un sistema ignoto, da cui è manovrato come una pedina in una scacchiera. In questa spettrale Gotham City, si muove Peter Maynard, ingaggiato dal Sindacato per far fuori un potente magnate della finanza.

Tuttavia, Maynard non si accontenta di uccidere qualcuno senza “conoscere” prima la sua vittima: quale sia la sua storia, quale la sua coscienza. Vuole sapere il “perché”, la conseguenza dei pensieri e delle azioni che hanno portato quell’uomo a collocarsi in una posizione scomoda rispetto a chi, con apparente liceità, è garante di un ordine: il Sindacato. I diritti di quale categoria, esattamente, il Sindacato, difenda, non viene mai detto, generando un forte senso d’inquietudine e di sinistro in chi legge la storia. Lo stesso Maynard, che è di fatto un killer, non sembra per niente edificato dall’allure del proprio datore di lavoro: al contrario lo repelle, e sebbene sia governato da un animo anarchico e poco incline al comando, non riesce che a essere soggiogato dal fosco potere che il Sindacato esercita. A nulla vale rifugiarsi nell’ascolto dei Dvorak, dei Cajkovskij, o dei Sibelius, o leggere Cervantes e Kafka; a nulla serve ingurgitare litri di latte nel tentativo di placare quel bruciore dato dall’ulcera, che è bruciore più intimo, bruciore dell’anima, di una coscienza che fatica a placarsi. Maynard è un assassino, al soldo di gente senza scrupoli. Questa è la sola verità.

Requiem per D. Chisciotte è un romanzo nero: con precisione chirurgica segue gli stilemi del perfetto noir, dalle atmosfere torbide e dei suoi angeli caduti senza via di ritorno. L’azione si apre in medias res, con un serrato dialogo tra il protagonista e Johnny, amico/mentore che fa da intermediario tra Maynard e il Sindacato. Senza dare il tempo di pensare, di capire il contesto e la materia, McShade catapulta il lettore in una semivuota e fumosa sala cinematografica degli anni Quaranta, ad assistere alle avventure di un Humprey Bogart stanco e un po’ invecchiato, fine pensatore sarcastico e romantico, poco incline al compromesso e al comando, ma che come tutti gli antieroi sa di dover pagare quel briciolo di ribellionea un prezzo ben più caro della sua stessa vita.

(Dennis McShade, Requiem per D. Chisciotte, trad. di Guia Boni, Voland, 2013, pp. 143, euro 13)

“Kill Your Darlings - Giovani ribelli” di John Krokidas

Giovani ribelli – Kill your darlings (Notorius Pictures) è il primo lungometraggio dell’esordiente John Krokidas, vincitore del Premio Internazionale alle Giornate degli autori della 70° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

New York, 1944. La radio diffonde le ultime notizie dal fronte. Lo sbarco ad Anzio è imminente. Quattro giovani e il loro destino verranno a incontrarsi e poi scontrarsi tra le aule della grandiosa Columbia University, a colpi di aforismi e perversioni letterarie. Il fascino di questi incontri, poi l’amore, vengono a delinearsi in maniera quasi violenta, sconvolgente e repentina, per un giovane e promettente Allen Ginsberg, interpretato intensamente da un maturo Daniel Radcliffe. La scoperta della propria sessualità e l’insicurezza della instabilità affettiva segneranno l’animo del futuro grande poeta americano. Il carismatico Lucien Carr (Dane DeHaan) avrà un ruolo preponderante in questa formazione. E poi l’incontro con William Burroughs (Ben Foster) e con il perturbante Jack Kerouac (Jack Huston). La fantasia e la voglia di stupire, tentando di creare una nuova realtà intellettuale saranno, da parte di tutti, il motore per creare l’avvenire culturale che oggi conosciamo bene. Il circolo intellettuale e letterario prende sempre più forma, tra aforismi, citazioni e scardinamento delle regole metriche. Vi è tutta la convinzione, l’innocenza e l’impegno di quattro giovani consci di poter cambiare il mondo, o almeno poter fare qualche cosa di buono e di “giusto”. Il film di Krokidas viene a reinterpretare uno dei momenti più alti della cultura americana contemporanea: l’incontro/scontro tra grandi venuti al mondo per schiaffeggiare il buon costume americano e forgiare una intera generazione futura.

Una sceneggiatura intensa e di non facile interpretazione che rispecchia fedelmente lo sconvolgimento di un’epoca con la guerra mondiale come sottofondo generazionale. La telecamera è quasi libera, filma i protagonisti come se fosse un quinto personaggio, reagisce alle loro emozioni, alla loro disperazione, sottolinea la coerenza di un pensiero che verrà a scuotere una intera società. Ecco la “Beat Generation”! Quattro illuminati, un po’ dandy, profondamente altezzosi rispetto alla mediocrità circostante, con un segreto al limite dell’inconfessabile. Krokidas ci dipinge bene il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta di chi ha reso in prosa lo stravolgimento e la tragicità, nonché le incoerenze, di una vita che spesso risulta essere alquanto contraddittoria. La voglia continua e perpetua di mettersi in gioco, di provare e sperimentare.

Con una scrittura altamente poetica e carica di pathos, Giovani ribelli sfrutta la forza delle parole per andare a scardinare quei tabù ancora oggi non del tutto assimilati: l’omosessualità, l’omertà, l’ottusità e la paura di una società sempre più fagocitante, oggi, nel nuovo Millennio, così come all’epoca. Giovani ribelli è il tentativo di riscrivere l’ingresso pungente di una nuova libertà giovanile (artistica, emozionale e sessuale) tentando di unirla ad una trama relazionale un po’ forzata e confusa, con una sovrapposizione di generi che finisce per banalizzarla, in parte. L’interpretazione dei giovani attori è libera e ben riuscita. Finalmente Harry Potter è cresciuto e maturato, con una forte capacità espressiva. Lo sforzo che compie nel tentativo di liberarsi da una maschera fantastica come quella del maghetto è ormai completo. Illuminanti e obbiettivamente consoni ai loro ruoli sono le interpretazioni di Huston e DeHaan, di cui continueremo a sentire parlare prossimamente. Curiosa e irriverente la colonna sonora proposta da Krokidas che si affida a una selezione fuori dal tempo con Tv on the Radio e The Libertines. Kill your darlings – Giovani ribelli è un film che ha un obbiettivo alto ed alquanto impegnativo, voluto e assai sofferto, che merita un buon applauso per l’intenzione, ma che non riesce a coinvolgere più di un pubblico ristretto di appassionati.

 

(Kill your darlings – Giovani ribelli, di John Krokidas, 2013, drammatico, 143’)

 

“Alzheimer mon amour” di Cécile Huguenin

Alcuni credono che la letteratura, non dovendosi riferire principalmente al parametro delle cose attuali e reali, abbia come scopo principale la generazione dei sogni; altri ammettono invece che essa debba e possa anche rispecchiare la realtà, raccontare insomma ciò che bene o male succede nel mondo e nel presente. Di questi ultimi, alcuni sostengono che affinché l’autore di un racconto appiattito sulla nostra stessa realtà possa essere considerato creatore di un testo letterario propriamente inteso, egli debba seguire i criteri sostanziali dell’estetica e i criteri formali della piacevolezza, per dirla brutalmente senza troppe complicazioni d’ordine accademico; altri, invece, si accontentano che l’autore in questione sia mosso dal sentimento genuino (preferibilmente buono, va da sé), trasportato dall’afflato intimo del proprio animo e disposto ad aprire il proprio cuore, per dirla in termini da pomeriggio televisivo. Ed è esattamente in quest’ultima categoria, è molto probabile, che si possono trovare coloro che apprezzeranno più di altri Alzheimer mon amour (Clichy, 2003), della psicologia francese Cécile Huguenin.

In questo libro, attraverso una ricostruzione posteriore, si parla con dolcezza di una donna ed è una donna che parla dolcemente (l’autrice, appunto): una donna alle prese con la degenerazione cerebrale del suo compagno di una vita, preludio di una morte che naturalmente non si farà troppo attendere. Ventura drammatica, certo, ma piuttosto comune nella nostra contemporaneità e, si dice, ancora non molto discussa, anzi taciuta, aggirata, scarsamente affrontata dal pubblico dibattito.

Sicché Cécile Huguenin ripercorre dal suo punto di vista le tappe di quel lento declino che, alla lontana da ospedali e case di cura, ha portato suo marito al definitivo spegnimento e la coppia, come si legge anche in quarta, a vivere un lutto prima ancora dell’arrivo della morte, con la puzza di zolfo, l’umbrifora falce minacciosa e tutto il resto. Alzheimer mon amour risponde in tal modo a una domanda assai presente ai nostri tempi, di ordine sociale si potrebbe anche dire, in cui l’emergere e il continuo consolidarsi del fenomeno collettivo (oltreché individuale) delle malattie degenerative, a cui assistiamo in maniera sempre più serrata, è lo scotto da pagare all’allungamento delle nostre biografie; almeno qui a Occidente, questo è ovvio. Il libro della Huguenin affronta dunque siffatta questione ponendosi sulla scia, più o meno consapevolmente, questo non possiamo saperlo, di molti altri libri più o meno riusciti, tra cui il memorabile Una morte dolcissima, struggente diario di una Simone de Beauvoir spettatrice inerte della morte estesa e medicalizzata della sua povera madre.

Questa la domanda, o meglio la serie di domande: come si vive, e come si reagisce, quando un caro sta morendo a poco a poco? come si fanno i conti con la morte? come si accetta l’incipiente evento postremo nella continuità del suo palesarsi giorno per giorno? come si affrontano la medicalizzazione e l’ospedalizzazione in questi casi? è possibile rendere docile la morte e la malattia per farle ridiventare eventi familiari e domestici?

Ognuno dovrà trovare la soluzione a tutto questo a modo suo, certo, e anche in base alle possibilità che economicamente e contestualmente gli sono date, e anche questo è certo. Tuttavia, qualsiasi risposta a questa serie di domande, anche quella pur sempre edulcorata, borghese e benestante di Cécile Huguenin, potrà di sicuro aiutare e confortare tutti quegli altri che queste terribili questioni, loro malgrado, si troveranno purtroppo a doversi porre. Forse in tutto questo la letteratura c’entra poco, è vero, ma probabilmente non è questo il punto.

(Cécile Huguenin, Alzheimer mon amour, trad. di Michele Peretti, Clichy, 2013, pp. 160, euro 10)

“La fortuna dei Wise” di Stuart Nadler

Conosciuto dal pubblico italiano per la raccolta di racconti Nel libro della vita (Bollati Boringhieri, 2011), Stuart Nadler torna in libreria con La fortuna dei Wise (Bollati Boringhieri, 2013), un romanzo godibile e avvincente che racconta la storia della famiglia Wise a cavallo tra gli anni Cinquanta e Duemila.

Hilton Wise, detto Hilly, vive con i suoi genitori a New Heaven, in una casa in affitto. Un giorno, in seguito a un incidente aereo con molte vittime, il signor Arthur Wise, di professione avvocato, intenta una causa alla Boston Airways: dopo aver ottenuto una schiacciante vittoria, iniziano ad arrivare i soldi e la famiglia Wise diventa a pieno titolo una famiglia ricca.

Esageratamente ricca, al punto che il nome Wise acquista popolarità anche tra i media oltre che nel campo delle class action, restando però un nome che appartiene a un uomo ebreo, ricco e razzista, la cui idea di giustizia non collima neppure lontanamente con quella del figlio.

La vita di Hilly cambia radicalmente dal momento in cui si trasferiscono a Cape Cod, in una lussuosa casa sull’oceano, dove il giovane incontra Lem Dawson, domestico di colore al servizio di suo padre e responsabile degli scambi di documenti privati col collega Robert, che vive lì vicino.
Lem ha una nipote che un giorno si presenta nella tenuta di Cape Cod; il suo nome è Savannah. La giovane Savannah non è solo una bella ragazza povera rimasta orfana di madre ma è anche il primo amore di Hilly; tutto il romanzo, diviso in tre parti, ha come filo conduttore l’ossessione del protagonista per la giovane e il suo ricordo, e la sua continua ricerca di lei negli anni.
L’America sullo sfondo della storia intanto cresce e le comunità di colore lottano per garantirsi il loro spazio nelle città, mentre i soldi diventano motivo di conflitto tra Wise figlio e Wise padre: Hilly sceglie di diventare giornalista – principalmente per mettersi alla ricerca di Savannah – e rifiuta l’eredità del padre.
Nella terza e ultima parte Hilly e Arthur riallacceranno i rapporti e Hilly incontrerà Savannah un’ultima volta: i due adolescenti sono ormai entrambi adulti e genitori, sebbene nessuno dei due abbia mai dimenticato la permanenza a Cape Cod.

Il finale, con un effetto sorpresa, scioglie l’unico dubbio rimasto al lettore durante la storia, trasformandola in una sorta di cerchio perfetto, in cui tutti gli eventi accaduti trovano la loro risoluzione svelando segreti rimasti nascosti per oltre trent’anni.

Nadler critica duramente il denaro e la sua capacità di trasformare chi ne entra in possesso, ma usa anche toni delicati per raccontare l’amore, i ricordi, l’importanza delle persone che attraversano la nostra vita. La lettura risulta scorrevole, appassionante, e la storia riesce a coinvolgere il lettore anche grazie alla narrazione in prima persona, in cui a narrare le vicende è un Hilly sedicenne all’inizio, trentenne poi e marito e padre di famiglia nel finale.

Colpisce l’umanità dei personaggi, molto realistici nelle loro tante sfaccettature, in uno stile fresco e giovane che racconta tematiche e ambientazioni del secolo scorso in maniera nonostante tutto attuale.
Sebbene sia il suo romanzo d’esordio, Nadler è stato segnalato dalla National Book Foundation tra i migliori cinque autori sotto i trentacinque anni: sentiremo sicuramente parlare ancora di lui.

(Stuart Nadler, La fortuna dei Wise, trad. di Costanza Prinetti, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 359,euro 18)

“Loud Like Love” dei Placebo

Sicuramente con Loud Like Love non parliamo di un capolavoro, ma francamente, sarebbe difficile ripetere un signor album come Meds. Senza scomodare classici del passato come Without You I’m Nothing. D’altronde l’ultimo lavoro dei Placebo, Battle For The Sun, è sembrato quasi un contentino: un risultato deludente per le orecchie di fedelissimi e critica, insomma un mezzo flop.

Oggi i Placebo, sotto Universal e con la sapiente mano del produttore Adam Noble, tornano alla ribalta con l’attesissimo Loud Like Love, settimo lavoro del trio inglese, registrato durante il 2012 e inizio 2013 nei RAK Studios di Londra. Il disco rispolvera quelle radici neo-glam che ai tempi identificavano la band, seguendo però una nuova linea più commerciale e pop-rock.

La fatica discografica di Molko e soci (definito dal bassista Stefan Olsdal: «L’album più vulnerabile e colorato che abbiamo mai fatto») è composta per lo più da racconti d’amore, accompagnati da un sound profondo e ricercato. La prima traccia “Loud Like Love” è il cavallo di battaglia: un inno all’amore per giovani sognatori. Continuiamo sulla stessa falsa riga con la coinvolgente melodia di “Too Many Friends”, una ballata dalla tematica inequivocabile – basta ascoltare il primo verso – e singolo apripista uscito in estate.

Loud Like Love prende poi una piega più dura e distorta con l’inizio di “Rob the Bank”: ma ecco subito la quiete dopo la tempesta, con l’inaspettata leggerezza di “A Million Little Pieces” vera e propria gemma del disco. “Exit Wounds” è quasi un riadattamento attuale di “English Summer Rain”, psichedelica ballata di Sleeping With Ghosts. Da qui in poi ricomincia quel nuovo sound melodico che accompagna l’intero album e che lo fa concludere alla grande con “Bosco”.

Loud Like Love è l’album più riuscito dopo Meds: una miscela ben calibrata di alternative rock e sentite ballate. 


(Placebo, Lound Like Love, Virgin EMI, 2013)

 

“Cantica” di Emiliano Pellisari

La stagione 2013/2014 del teatro Olimpico di Roma comincia all’insegna della fantasia, dell’estro, della leggerezza con il lavoro di Emiliano Pellisari, l’uomo che nei suoi spettacoli sfida la legge di gravità e lascia il pubblico senza fiato. Cantica si ispira all’opera di Dante e, in particolare, al Purgatorio, dopo che l’anno scorso, sempre all’Olimpico, abbiamo visto l'Inferno, atto primo di questo ciclo (ottobre 2012).

Le creazioni artistiche di Pellisari affondano le radici nel Black Light Theatre, e cioè il teatro che Jiří Srnec fondò a Praga nel 1961. Da allora i suoi ballerini divennero famosi in tutto il mondo e, ancora oggi, nel teatro della capitale ceca che prende il suo nome, si registra il tutto esaurito. Gli acrobati danzano creando forme e colori su uno sfondo completamente nero che permette di mimetizzare marchingegni e altri attori che aiutano i danzatori a fluttuare nel cosiddetto Black Cabinet. Per perfezionare la messa in scena, si alternano oggetti di colori luminescenti, raggi UV proiettati sul palco, tessuti che svolazzano, e altri ingegnosi segreti che lo spettatore non deve conoscere, a ritmo di una musica sempre più incalzante. L’artista romagnolo personalizza le sue performance fabbricando tutto da sé. Nella vita, infatti, ha fatto diversi mestieri “manuali”: il muratore, il falegname, l’elettricista, l’idraulico… oltre che regista e coreografo, Emiliano progetta i costumi e le scenografie, rielabora (e mixa) la musica dello spettacolo. Con l’allestimento dello Studio Emiliano Pellisari non poteva mancare la No Gravity Dance Company (Mariana Porceddu, Patrizio Di Diodato, Chiara Verdecchia, Valeria Carrassa, Maria Chiara Di Niccola, Carim Di Castro).

Se si vuole seguire un filo logico e capire le scelte della regia per ognuno dei 14 quadri presentati, basta seguire le didascalie della brochure che troverete in teatro. Ma ci si può anche mettere comodi e cominciare il viaggio che, abbandonando qualsiasi schema razionale, porterà in un universo surreale animato da acrobatici voli di figure sinuose.

Tutto comincia con una bolla sospesa all’interno della quale un corpo si muove delicatamente. In tal modo il regista rappresenta l’anima incontaminata e dotata di libero arbitrio. La facoltà di scegliere tra bene e male è rappresentata nei movimenti della ballerina, assolutamente liberi, in ogni direzione dello spazio. In un unico atto, le scene si susseguono intervallate da brevi pause di buio e iniziano, spesso, con una voce fuori campo che recita le terzine del sommo poeta.

Attualissima l’allegoria dell’Italia impersonata da una ballerina in tutù bianco che viene aggredita e violata da strani individui con maschere grottesche, sulle note de “La gazza ladra” di Rossini.

Nella versione di Pellisari, i gironi danteschi diventano labirintici come le interminabili scale di Escher. E su scale incrociate passano i ballerini confondendo il sopra col sotto, formando una perfetta simmetria, stavolta sul rigore di Bach.

In Cantica i colori cambiano, lo sfondo è spesso di un blu intenso che si trasforma in verde e varia nuovamente a seconda degli argomenti rappresentati. I danzatori diventano morbidi fiori che sbocciano, piramidi umane e altre forme flessibili che si delineano e si trasformano. Tutto accompagnato dai classici della musica, da Bach a Mozart, da Vivaldi a Stravinskij, da Satie fino a Xenakis.

Ma qual è il segreto che permette ai ballerini di volteggiare senza (quasi) mai toccare terra? Il regista confessa di usare, nei suoi allestimenti, corde elastiche, cavi, funi, specchi, pulegge di generi molto diversi. Eppure allo spettatore non interessa conoscere i trucchi, quanto piuttosto continuare a rimanere immerso nell’atmosfera che si crea durante simili performance. A questo proposito Pellisari ammette che il suo obiettivo è proprio l’estetica, l’utilizzo della bellezza per creare stupore. Coinvolgere il pubblico con uno spettacolo catartico dal quale possa uscire alleggerito, risollevato.

Le acrobazie continuano fino al 20 ottobre. Se invece volete assistere a simili performance associate a temi più frivoli, l’appuntamento è per le date di maggio, sempre al teatro Olimpico (29 aprile/21 maggio) dove in Comics Emiliano Pellisari Studio e No Gravity LTD si ispirano al meraviglioso mondo dei cartoon.
 

Cantica
Regia di Emiliano Pellisari
Con la compagnia No Gravity LTD
Roma – Teatro Olimpico, dall’8 ottobre al 20 ottobre 2013

“Cuore di tenebra” di Joseph Conrad

Diventa sempre più difficile convincere mia moglie che, quando guardo fuori dalla finestra, sto lavorando.
Joseph Conrad

 

Il fascino di Roma, Praga, Budapest, Parigi. La ricchezza commerciale di Anversa. E andando più indietro nel tempo: i popoli mesopotamici, gli Egizi, agli antichi romani. Ancora, Le avventure di Huckleberry Finn, la morte di Ofelia nell’Amleto e quella di Marinella nella canzone di Faber. Per finire Jim Morrison e i Doors: “Yes, the River Knows”, penultima traccia di Waiting for the Sun. Città, popoli, opere letterarie, canzoni che devono tutto, o quasi, al fiume che le attraversa.

Ma c’è uno scrittore che ha percorso mari e corsi d’acqua non solo grazie a penna, inchiostro, spartiti e immaginazione. Joseph Conrad sulle navi ci è salito davvero. Da Sumatra a Costantinopoli, al servizio della marina di sua maestà Vittoria. Sedici anni sulle navi mercantili. Un periodo che ha permesso all’autore nato in Polonia di raggiungere il grado di capitano, padroneggiare la lingua inglese e soprattutto di entrare in contatto con le opere dei giganti della letteratura albionica.

Non è un caso quindi se in gran parte della poetica di Conrad l’elemento acqua ha un ruolo centrale. Paesaggio fluviali, ambienti marini sono una presenza quasi costante nella produzione dell’autore polacco. Dove diventa impossibile separare l’invenzione e l’autobiografismo. Certo, l’acqua è la superficie sulla quale viaggiare. Un movimento fisico, da un punto di partenza a uno d’arrivo. E ritorno. Ma l’acqua accompagna anche e soprattutto le traversate all’interno della psicologia e del linguaggio umano. Un’esplorazione interiore, complessa, tormentata e per questo più affascinante.

Paradigmatico diventa quindi Cuore di tenebra. Il percorso di Marlowe su un battello a vapore mercantile che ripercorre un viaggio reale fatto da Conrad in Congo. Con lo stesso tipo di imbarcazione. La trama, l’eternità di Kurtz, la riflessione sul colonialismo. Certo, ma questo romanzo breve non è solo un viaggio lungo un fiume unto e viscoso. È un’immersione in un linguaggio complesso, non immediato, che impone una riflessione quasi a ogni pagina. Joseph Conrad obbliga il lettore a fermarsi, tenere il segno con l’indice e riflettere su quello che ha appena letto. Magari guardando fuori dalla finestra. Un’opera che a dispetto della sua brevità si fa dunque complessa, finanche oscura. Ed è questa la grandezza dell’autore anglo-polacco: uno stile letterario che finisce col fondersi all’ambiente, ai personaggi, alle riflessioni di Marlowe-Conrad. Lingua intricata, ombrosa ma fortemente visiva come dimostrano le diverse trasposizioni cinematografiche. Stile mai scontato. Proprio come un viaggio nella foresta tropicale a bordo di una nave rattoppata alla bell’e meglio. O come il contatto con un personaggio dai contorni indefinibili come Kurtz. Portatore di un’ars oratoria –a proposito di linguaggio – che gli ha permesso di elevarsi dallo stato di uomo a quello di semi-dio presso la tribù africana. Poi c’è quell’ultima parola. Quell’orrore pronunciato da Kurtz, un palpito prima di lasciare questo mondo. Poche lettere, su cui si potrebbe parlare per ore. Per potenza e suggestione quasi un verso poetico.

Da The Nigger of Narcissus a Lord Jim, da Youth, fino agli ultimi Typhoon e Nostromo, Conrad utilizza l’acqua come metafora di un costante lavorio introspettivo. Questo elemento diventa emblema di solitudine interiore – l’autore era facile preda di depressione e arrivò a tentare il suicidio. Una nave in mezzo al mare è un Io isolato da tutto tranne che dalla propria coscienza, spesso piena di ansie e rimorsi. L’acqua è poi irrazionale, incontrollabile, sembra una volontà proprio, imperscrutabile: calma un attimo prima, agitata e ingestibile poco dopo.

In Conrad non sempre vi è un finale positivo, un approdo sereno e rassicurante in un qualche porto straniero. Fulcro dei romanzi diventa così l’indagine incessante dell’uomo di fronte a se stesso. Un novello Narciso, che invece di arrivare a morire nella fissità di uno specchio d’acqua, a volte preferisce fare un passo indietro, navigare controcorrente nella propria anima per riapprodare al punto di partenza. Consapevole però dei mutamenti subentrati per il solo fatto di esser partito. Proprio come succede in Cuore di tenebra. Si parte dalla City, si guarda in faccia l’orrore, si ritorna a Londra. 


(Joseph Conrad, Cuore di tenebra, prima ed. it. Sonzogno, 1924)

“Cose nostre - Malavita” di Luc Besson

La famiglia Blake si è appena trasferita in un paesino della Normandia dal Sud della Francia. Prima aveva vissuto a Parigi, prima ancora, in un’altra vita quasi, a Brooklyn. A quei tempi non si chiamavano Blake, ma Manzoni. Il padre, Giovanni, negli Stati Uniti era un rispettato e temuto boss della mafia. Un giorno ha deciso di smetterla con la vita criminale e ha iniziato a collaborare con la giustizia. Da allora l’FBI lo manda con la moglie e due figli adolescenti il più lontano possibile dalla vendetta degli ex colleghi mafiosi, cambiandoli di destinazione ogni pochi mesi. I Blake non sono abituati a una vita normale e finiscono sempre, a scuola, con i pescivendoli disonesti, per creare problemi con la gente del posto. In Normandia si stanno dando da fare tra supermercati e acqua inquinata, quando, per caso, nel carcere di Attica uno dei boss traditi riesce a individuarli e invia dei killer in Europa per eliminarli.

Luc Besson continua il suo percorso cinematografico attraverso ogni tipo di genere con una commedia nera sulla mafia italo-americana che dissacra i gangster movie statunitensi. In principio c’è il romanzo omonimo di Tonino Benacquista (Ponte alle Grazie, 2013), ma c’è soprattutto qualcosa di Martin Scorsese in Cose nostre – Malavita. Non solo perché il regista di Casinò compare in veste di produttore esecutivo, ma principalmente per il modo con cui Besson ha scelto di affrontare la materia malavitosa: avvicinandosi ai mafiosi nella loro quotidianità, seguendo il modello che I Soprano televisivi hanno imposto, ma che prima ancora Scorsese aveva proposto con Quei bravi ragazzi. È proprio quest’ultimo il modello di film più vicino a Cose nostre, e non solo per la citazione ai limiti del cortocircuito metacinematografico con cui Besson e Scorsese, con la complicità di De Niro, si sono divertiti, ma perché il personaggio di Giovanni Manzoni assomiglia all’Henry Hill interpretato da Ray Liotta che lascia New York protetto dai federali dopo aver deposto contro la banda. Certo, qui l’ironia prevale sul dramma, ma il riferimento si percepisce. Come il leggero eco di FBI – Protezione testimoni che si sente di tanto in tanto

Robert De Niro si diverte a giocare con il suo passato, e si vede. Mescola tutti i boss della sua filmografia passandoli per il filtro dell’ironia già usato in Terapia e pallottole e si cimenta con un personaggio fragile e terribile, che non sa come comportarsi in una vita senza violenza, con delle regole diverse da quelle dell’onore mafioso. Gli fa compagnia Michelle Pfeiffer, casalinga spietata e splendidamente ordinaria, che torna la Vedova allegra ma non troppo di Demme nei flashback newyorkesi.

A Besson non importa rimarcare le differenze tra Stati Uniti e Francia. Il gioco degli stereotipi si limita a qualche battuta sul cibo, poco più. La dimensione del criminale esiliato in un paese straniero, che ricorda il fortunato In Bruges, viene affrontata solo di sfuggita. L’attenzione della sceneggiatura, curata dallo stesso regista con Michael Caleo, si concentra esclusivamente sullo spaesamento dei Blake in una vita basata su regole nuove che non prevedono violenza e vendetta. L’umorismo nero emerge proprio dal contrasto tra l’ordinarietà della situazione scatenante (idraulici negligenti, corteggiatori troppo pressanti) e la sproporzione della reazione del Blake di turno.

Michelle Pfeiffer e Robert De Niro si muovono tra momenti di vita di coppia, minacce, ricordi e sparatorie sotto la guida briosa e decisa di Luc Besson. I dialoghi con i loro agenti di custodia, guidati da Tommy Lee Jones, offrono un buffo spaccato di quotidiana intimità tra guardie e ladri. Le cose peggiorano quando si seguono i due figli, soprattutto la stellina di GleeDianna Agron alle prese con delusioni amorose che ben poco hanno di coinvolgente. Un peccato perché, pur non offrendo molto di originale, Cose nostre – Malavita sa divertire molto bene.

(Cose nostre – Malavita, di Luc Besson, 2013, commedia, 111’)

 

“Poesie e prose” di Vittorio Sereni

Da pochi mesi in libreria troviamo un volumone degli Oscar che raccoglie Poesie e prose di Vittorio Sereni a cura di Giulia Raboni con un ricordo di Pier Vincenzo Mengaldo (Mondadori, 2013). Nell’anno del centenario della nascita, Mondadori omaggia l’ex direttore editoriale raccogliendo tutte le poesie, compresi i versi tradotti da altri (Il musicante di Saint-Merry) e aggiungendo una cospicua parte delle sue prose, tra cui troviamo le bellissime pagine diaristiche de Gli immediati dintorni, le sperimentazioni narrative riunite ne La traversata di Milano e le prose critiche di Letture preliminari e Poesie come persone.

Il carattere discontinuo e in costante rielaborazione del lavoro sereniano rende difficile il compito di un curatore, ma possiamo essere grati alla logica di rendere accessibile l’opera in versi e in prosa di un poeta su cui si sentono ancora aperti i lavori in corso. Tutto ciò che confluisce in questo volume infatti era già disponibile in edizioni non sempre facilmente raggiungibili.

Riprendere in mano le poesie e le prose di Vittorio Sereni ora, significa trovarsi di fronte un capolavoro del dubbio, un trattato sull’enigma esistenziale e artistico imposto da una figura obliqua, sottile come la pagina. L’uomo, il poeta e il personaggio concorrono in questo romanzo allucinante condotto sulle vie della memoria e del presente, fra il deserto della prigionia e le catene della vita borghese, in guerra e in pace sempre con un sospetto superfluo nella coscienza, con il distacco di chi si era immaginato una storia da poeta e si era trovato a vivere in un mondo più morboso di ogni fantasia.

In tutto questo il poeta Sereni non smise di tormentarsi nel rovello della propria incapacità di essere adatto all’espressione lunga e costante, stillando in tutto quattro raccolte, mentre dirigeva i lavori della “letteratura d’oggi” nel completo impeccabile del funzionario di poeti (come lo definì Gian Carlo Ferretti). La parte più corposa dell’opera sereniana vista nell’insieme è una riflessione a partire ciò che lo fa inorridire in alcuni versi di “Un posto di vacanza”:   

 

Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna:
un osservante sé mentre si scrive
e poi scrivente di questo suo osservarsi.
Sempre l’ho detto e qualche volta scritto:
segno, mi domandavo, che la riserva è quasi a secco,
che non resta, o non c’era, proprio altro?
Che fosse e sia un passaggio obbligato? Mi darebbe coraggio.

 

La sensazione che sperimenta Sereni in anni di reiterato lavoro, con inevitabile sconfitta/rimorso, è la vertigine di fronte a un panorama inafferrabile e tremendo, la visione dalle altissime vette di un’esigenza artistica intransigente di quella waste land che è il nostro concluso Novecento.

Una lettura non facile insomma, un viaggio di attrazione verso il nulla e il vuoto privo della struttura coerente che caratterizza i capolavori di fine Ottocento, un ritratto di io e mondo ridotto in frantumi e riassemblato attraversando stili, velleità e amarezze private, agli albori della scrittura massificata e industriale.

Il Virgilio che accompagnerà il lettore di queste Poesie e prose sarà un personaggio curioso e infastidito, trattenuto da un ritegno aristocratico tutto milanese e cordiale nel calore dei suoi slanci di amicizia, come si tratteggia in “Autoritratto”: «Sono senza dubbio un metereopatico. Tanto più che mi sento in disaccordo con tre delle quattro stagioni che formano l’anno: vorrei che fosse sempre estate e che nessuna anomalia atmosferica venisse a turbarla. Essere in disaccordo con le stagioni significa essere in disaccordo con l’esistenza a cominciare da se stessi. Scrivere fa parte dell’esistenza sebbene io abbia qualche dubbio in proprosito. Il dubbio deriva, a seconda dei casi, dall’ipotesi di un di più di vitalità che lo scrivere rappresenta oppure, all’opposto, dal sintomo di incompletezza, di non adeguata attitudine a vivere pienamente».

(Vittorio Sereni, Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, Mondadori, 2013, pp. 1214, euro 24)

[RockNotes] Le uscite di ottobre

Pixies, EP1 (Autoprodotto)

Pitchfork non è andato per il sottile: voto 1. E gli altri pesi massimi della critica non è che si siano discostati tanto da quella valutazione, massacrando istantaneamente l’ep che segna il ritorno di una delle band più influenti e importanti degli ultimi tre decenni. Dopo anni di silenzio e la dipartita di Kim Deal (come se dai Beatles fosse andato via McCartney), i Pixies hanno annunciato una serie di ep pronti a uscire a breve distanza tra di loro. L’inizio non è dei migliori, ma sicuramente nemmeno tale massacro sembra legittimo. Visti i rocker chiamati in causa, una seconda opportunità è d’obbligo.

Anna Calvi, One Breath (Domino, 2013)

Anna Calvi è tornata. Serve aggiungere altro?

Mark Lanegan, Imitations (Vagrant Records, 2013)

Qualcuno fermi Mark Lanegan. In senso buono, ovvio. Tornato ad altissimi livelli con il capolavoro Blues Funeral, Mr. Lanegan ha pubblicato nel 2012 l’ep Dark Mark Does Christmas, e poco tempo fa un album semi-acustico in coppia con il talentuoso chitarrista Duke Garwood, Black Pudding. Ora tocca a Imitations, ovvero una spiazzante serie di cover di Sinatra – padre e figlia –, Cale, Cave e Chelsea Wolfe. Gradevole ma forse non proprio necessario.

Bill Callahan, Dream River (Drag City, 2013)

Dopo il celebre progetto Smog terminato nel 2005, Callahan si dà al suo progetto solista, arrivato con Dream River al quinto lp. Dal lo-fi degli anni Novanta si arriva a un cantautorato fumoso, la voce di Callahan accompagna una produzione perfetta dagli arrangiamenti folk e jazz in un viaggio quasi pastorale. Tra i brani l'apice è la penultima “Seagull”, che sfuma nella lamentosa “Winter Road” per chiudere l'album. Un disco onesto e piacevole, al di fuori dell'onnipresente (ahinoi) meccanismo dell'hype dell'industria musicale.

Travis, Where You Stand (Red Telephone Box, 2013)

Prima dei Coldplay c’erano loro. Prima che più o meno dichiarate – e ignobili – cover pop band dei primi Radiohead invadessero il mercato e le radio mondiali, c’erano loro: i Travis. Molti se li ricorderanno nel loro periodo d’oro, quando anche in Italia pezzi come “Sing” erano un tormentone. Dopo un lungo periodo di scelte poco fortunate, i Travis tornano con When You Stand: ritornelli e melodie che non faranno la storia, ma almeno ci fanno canticchiare con gusto.

“Melancolia della resistenza” di László Krasznahorkai

«Sembrava che perfino l’aria fosse cambiata, nelle su eterne composizioni […], come se il principio sconosciuto che manda avanti il mondo all’improvviso fosse rimasto senza forze».

La catastrofe non è mai un evento singolo. Si preannuncia subdola in piccoli episodi isolati, nell’atmosfera che diventa sempre più densa e cupa anche se le cause rimangono oscure. Melanconia della resistenza (Zandonai, 2013) di László Krasznahorkai – uno degli autori ungheresi più tradotti e premiati nel mondo –sin dai primi paragrafi preannuncia un qualcosa di sinistro, di inarrestabile, che si sviluppa anche sul piano della scrittura: in paragrafi senza fine (che nulla tolgono alla bellezza delle complesse frasi) con scarsa punteggiatura, e nell’atmosfera che il racconto crea: un lento ma inevitabile progresso verso la tragedia con tanto di accenni surreali e apocalittici.

Il disagio della signora Plumf, che a causa di un inspiegabile (come si riveleranno poi anche gli altri avvenimenti che accadono nel piccolo villaggio ungherese) arresto e collasso della rete ferroviaria si trova costretta di viaggiare in mezzo a gentaglia la cui sola presenza offende le sue buone maniere e educazione, è solo la prima delle situazioni – esposte in una narrazione quasi paranoica – apparentemente innocue che però provocano nel lettore presagi negativi. Pagina dopo pagina, Krasznahorkai accumula descrizioni dense di questo stato di degrado universale, della decomposizione e della natura corrotta senza la promessa che le cause verranno chiarite.

Il romanzo (che Béla Tarr, grande regista ungherese nel 2000 ha portato sul grande schermo ne Le armonie di Werckmeister) racconta la storia di una cittadina ungherese che riceve un’insolita visita: uno strano e inquietante circo itinerante la cui attrazione principale sono i resti di una balena gigantesca. È il pieno inverno nel piccolo paese ai piedi dei Carpazi e intorno al circo iniziano a crearsi delle aspettative: si spera che segni la fine di una lunga serie di tragedie che continuano a colpire il vilaggio – «misteriose tragedie familiari, l’aumento dei disastri ferroviari, lo strano comportamento degli animali». In realtà, accadrà proprio il contrario.

Oltre alla signora Plumf, anche altri personaggi rimangono ognuno a modo suo sconcertati dall’insolita visita che scatenerà una serie di ulteriori eventi inspiegabili. Ci sono Valuska – personaggio semplice e di buon cuore, che suscita un’immediata simpatia –, e il suo amico Estzer, vecchio intellettuale e pessimista, «personaggio molto stimato dalla collettività» e ossessionato dal desiderio di trovare un accordo perfetto e naturale al pianoforte. Il signor Estzer più di tutti si impegnerà a scavare nel significato dei sinistri cambiamenti che avvengono nella cittadina dopo l’arrivo del grottesco circo. C’è poi la signora Estzer, che si trova in opposizione sia al marito sia a Valuska: energica, pratica, ma allo stesso tempo brutale e arbitraria. Non di minore importanza, la figura del Principe, che semina nichilismo e violenza tra gli abitanti del paese in una frenesia di disordini e uccisioni, e un assurdo Movimento per la Pulizia e l’Ordine che rischia di sottomettere la città.

Il testo, denso di allusione e metafore, potrebbe essere percepito anche come un discorso politico che mira a condannare tutte le forme di totalitarismo e un sudbolo ma ben mirato meccanismo di imporre paura e obbedienza.


(László Krasznahorkai, Melancolia della resistenza, trad. di Dora Mészàros e Bruno Ventavoli, Zandonai, 2013, pp. 368, euro 18)

“…C’è qualcosa in te…” di Enrico Montesano

C’è un teatro, sul palcoscenico del Teatro Brancaccio a Roma dal 3 ottobre. Meglio, c’è il sottopalco del Sistina di Garinei e Giovannini dove sono custoditi centinaia di magici costumi e, parimenti, c’è custodito il loro custode, Nando.

Il geloso e fedele guardiano dorme ignaro sul divano quando fa irruzione in casa sua una ragazza, simpatica ma «impunita», la prima di un esercito di invasori composto di operai, avvocati, ragazzi curiosi e ricordi viventi capace di terremotare in pochi giorni la vita del pacifico inquilino sul cui capo pende la minaccia dello sfratto e della trasformazione del celebre teatro in centro commerciale.

Quella che Enrico Montesano porta in scena con …C’è qualcosa in te…  è una luccicante commedia musicale in due atti di cui è autore in collaborazione con Giancarlo Borrelli e Nicola Fano. Sul palcoscenico con lui anche i due figli Marco Valerio e Michele Enrico, Ylenia Oliviero, nella parte di Delia, e Pamela De Santi, rappresentata egregiamente dai suoi cento costumi che svolgono contemporaneamente il ruolo di scenografia e di comprimari.

Un po’ teatro di rivista, grazie ai numeri dei venti cantanti e ballerini che chiosano ogni segmento, un po’ favola, con l’agnizione di una figlia da tempo perduta, un po’ satira, con improvvisazioni che sembrano attingere quasi direttamente all’Ansa, questa commedia è soprattutto un omaggio ai grandi autori e interpreti della tradizione quali Trovajoli e Rascel, Delia Scala e Don Lurio, Carlo Dapporto e Aldo Fabrizi.

Sembra una metafora del mondo culturale italiano: nella contemplazione pacifica di un passato splendido fa irruzione un presente fatto di ignoranza e noncuranza. Fino all’ultimo secondo si dorme sugli allori mentre interessi molto più pragmatici sottraggono tempo, modo e spazio al consumo del cibo della mente. Che, «per carità, niente contro i centri commerciali», come dice lo stesso Montesano sulla scena, ma sarebbe il caso di alzare la voce contro chi scrive teatro con la lettera minuscola e centro commerciale con la maiuscola molto più spesso e con maggiore tempismo.


…C’è qualcosa in te…
di Enrico Montesano con la collaborazione di Giancarlo Borrelli e la consulenza artistica di Nicola Fano
regia di Enrico Montesano
con Ylenia Oliviero, Goffredo Maria Bruno, Michele Enrico Montesano e Marco Valerio Montesano
costumi di Pamela De Santi

Roma – Teatro Brancaccio dal 3 al 27 ottobre