“Una specie di solitudine” di John Cheever

Una specie di solitudine, ovvero i diari di John Cheever, scritti dalla fine degli anni ’40 agli inizi degli anni ’80.

Le ansie, le paure, le crisi: tutto sotto una lente d’ingrandimento che l’autore di Bullet Park ci presta e con cui facciamo i conti. Con cui dobbiamo fare i conti. Ma fino a dove possiamo spingerci? Abbiamo le capacità per condividere certi spazi dell’esistenza con lui? Dobbiamo essere istruiti prima di tutto questo?

«Quando il principio dell’autodistruzione si insinua nel cuore non è più grande di un granello di sabbia. È un mal di testa, una lieve indigestione, un dito infetto; ma poi perdi il treno delle 8.20 e arrivi tardi all’appuntamento per chiedere il fido. Il vecchio amico che vedi a pranzo d’un tratto ti dà sui nervi e per sforzarti di essere simpatico bevi tre cocktail, ma a quel punto il giorno ha perduto ogni forma, motivo e significato. Per cercare di ridargli senso e bellezza bevi troppo all’aperitivo parli troppo ci provi con la moglie di uno e finisci per fare qualcosa di stupido e osceno e al mattino vorresti essere morto. Ma quando cerchi di risalire a come sei arrivato a questo abisso trovi soltanto un granello di sabbia».

Riflessioni sparse, che non seguono particolari sequenze logiche, se non cronologiche (il libro è diviso in tre sezioni: “La fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta”, “Gli anni sessanta”, “Gli anni settanta e i primi anni ottanta”).  La possibilità, forse un po’ cinica ed egoistica, avendo gran parte del lavoro già fatto, di godere dei dubbi strazianti dell’esistenza, nella sua accezione più ampia e negli aspetti più insignificanti, attraverso uno dei più grandi scrittori americani, rimanendo parzialmente incolumi; e lui raggiunge altezze vertiginose della realtà, osservando le deformazioni, le mostruosità di cui è permeata, e le fugge tramite la scrittura – la fortuna di possedere un talento del genere per evitare la pazzia – e l’alcol.

Vengono messe sul banco la sua dipendenza dal bere e l’inadeguatezza nel non saper affrontare le giornate da sobrio. La necessità di alzarsi la mattina pensando di buttare giù una bottiglia di gin.  I cocktail party alla Fitzgerald, le piscine simbolo della middle-class vissuta e descritta con maestria dall’autore e attraversate ne Il nuotatore, viaggio verso la disillusione in una società dove i rapporti interpersonali si fanno sempre più oscuri. Cosa pensasse della propria scrittura e il suo bollarsi scrittore di seconda classe, lontano anni luce da quel Saul Bellow che lo stregò portandolo a pensare d’essere un inetto e un incapace. Le passeggiate a Roma con la famiglia e l’eco del suo Il rumore della pioggia a Roma. La sensazione di capire con quale materiale abbia tirato su le mura della sua Falconer e di come in qualche modo abbia deciso di invischiarvisi, pronto a scontare la pena della vita. I treni che partono dalla campagna e arrivano a New York, argomento tanto caro all’autore definito dal New York Times «il Čechov d’America». Ma anche l’amore sconfinato per la moglie in conflitto con le assillanti pulsioni omosessuali difficili da domare, e le complesse dinamiche della famiglia da gestire: «Sabato mi sento bene, mi sento finalmente me stesso. Ma Mary è infelice. Ogni angolo e superficie della vita sembra frustrarla e irritarla. Inveisce contro il tacchino e inveisce contro il purè di patate. Io sono di buon umore e contento dei bambini e meglio mi sento e più sono consapevole della sua infelicità. Dopo la chiesa faccio un commento rozzo e sciocco e lei scoppia in una pioggia di lacrime. E penso che non posso riparare di nuovo le cose, non c’è niente che possa fare o dire. Il punto non è più la mia felicità, il punto è proteggere i bambini».                 

Una voce capace di mitizzare la routine della vita, le angosce della quotidianità e gli eventi piccoli, i brevi attimi di felicità. Un’opera di una potenza devastante, che può essere considerata la mappa geografica dell’anima dell’autore, una sorta di Bibbia da cui attingere in continuazione, senza riserve.


(John Cheever, Una specie di solitudine, trad. di Adelaide Cioni, Feltrinelli, 2012, pp. 504, euro 20)

Libreria Piazza Repubblica a Cagliari: verso il giudizio positivo del lettore

Dopo aver passato anni a lavorare per altre librerie, Patrizio Zurru ha deciso di aprirne una “come la intendeva lui”, una che non sottostesse alle regole del mercato ma si ponesse l’obiettivo di offrire una nuova prospettiva della letteratura ai suoi clienti. Lo abbiamo intervistato proprio a Cagliari, nella sua Piazza Repubblica, che trovate al numero 370 di Corso Vittorio Emanuele.


Tra i vari soprannomi che ti sono stati attribuiti c’è quello di book jockey, ci spieghi cosa significa?

Il book jockey è un gioco, è un libraio che consiglia più libri alla volta. Visto che a noi capita spesso di leggere diversi libri in contemporanea, crediamo sia bello anche per gli altri averne la possibilità. L’umore della persona influenza la lettura: se ti senti triste, forse non è questo il momento di affrontare un certo libro. Per cui noi diamo diversi livelli di lettura.


Il rapporto col cliente risulta fondamentale nella scelta dei libri da proporre.

Cerchiamo di dare un’impronta: il cliente entrando nella nostra libreria non trova esposti in prima posizione i bestseller; li abbiamo perché è giusto che li possa trovare, però orientiamo la scelta con il tipo di libri che proponiamo. Abbiamo invertito lo spazio: più spazio agli indipendenti e meno alle majors. A noi piacciono le case editrici con una propria identità, riconoscibilità.


Com’è la produzione indipendente a livello nazionale in questo momento?

È di qualità: gli editori indipendenti sono portati a produrre meno libri ma con qualità superiore. Pochi titoli che lavorano grazie al passaparola e alla rete creata fra librai con Letti di notte (info qui). Un altro progetto, realizzato con Marco Zapparoli di Marcos y Marcos, è Letteratura rinnovabile (info qui): progetto che per il secondo anno vedrà unite oltre cento librerie italiane, cinque in Svizzera, una a Londra, Parigi, Berlino, Amsterdam, Bruxelles e Madrid.


A livello locale, invece, com’è la situazione delle case editrici sarde?

Ce ne sono di nuove come Palabanda, casa editrice che abbiamo creato all’interno della libreria io e Alberta Zancudi, la direttrice. Palabanda si occuperà principalmente di editoria universitaria e per ragazzi. Poi ci sono diverse realtà in crescita, come la Arcadia editrice, che sta lavorando con autori sardi, nazionali e stranieri. Poi ci sono le solite case editrici sarde che continuano a proporre libri sardi per i sardi che noi teniamo, ma non sosteniamo. Per noi la differenza non è libro sardo o libro non sardo ma libro scritto bene o non scritto bene.


Riuscite, proponendo diverse alternative, a stimolare la lettura verso altre proposte rispetto al solito libro “massa”?

Noi abbiamo una clientela che sa già quello che noi portiamo in libreria. Generalmente amano frugare sugli scaffali e in più suggeriamo i libri che ci hanno entusiasmato. Il risultato migliore è il giudizio positivo del lettore che si trasforma in passaparola: noi abbiamo picchi di vendita su titoli che non compaiono assolutamente in alcuna classifica.


I clienti tornano anche perché avete creato una sorta di “centro sociale” nella libreria. Abbiamo visto moltissimi progetti in cui coinvolgete proprio i lettori.

Un progetto che porto avanti da qualche anno prevede che, il 23 aprile, in occasione della giornata del libro e del diritto d’autore, la libreria venga consegnata in mano ai clienti, cassa compresa. Fanno tutto loro: scelgono i libri da mettere in scaffale e in vetrina, si consigliano l’un l’altro. La libreria è loro. Lo stesso allestimento di questa libreria è stato curato da loro nel tempo e secondo le loro esigenze. Non c’è cosa migliore per una persona che entrare in un posto accogliente. Il 21 giugno, invece, c’è il prossimo appuntamento con Letti di Notte, ci sarà anche il lancio di Palabanda.
 


L’iniziativa Scrittori socialmente utili, invece, come vi è venuta in mente?

Ci eravamo stufati del classico standard della presentazione. Inoltre, avendo un’agenzia letteraria insieme a Daniele Pinna, la Kalama, la libreria si stava trasformando in una continua autoproduzione. Dopo pressioni da parte degli scrittori abbiamo detto: ok, adesso ti metti nei panni del libraio e puoi consigliare tutti i libri che vuoi, tranne quelli scritti da te. Ora il format gira in tutta Italia. Come lo speed-date letterario, la presentazione ad personam inaugurata l’anno scorso che prevede la possibilità di incontrare, singolarmente o in coppia, l’autore, avendo l’opportunità di confrontarsi con lui.


Abbiamo letto, più volte, che sei solito consigliare libri strappando una pagina da essi e consegnandola al cliente, che poi ritorna, chiedendo l’intero libro indietro.

Sì, questo è avvenuto con Il librario di Régis de Sà Moreira (Aìsara), L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender (minimum fax) e con Una banda di idioti di John Kennedy Toole (Marcos y Marcos). È una forma di fiducia nel cliente. Così come la nostra formula «soddisfatti o rimborsati»: se a un cliente non dovesse piacere un libro consigliato da noi, lo cambieremmo con un altro a sua scelta.


Quali pagine strapperesti per i lettori di Flanerí?

Il libro è Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria di Federico di Vita (Tic Edizioni) e in particolare le pagine 48 e 49, in cui c’è un’intervista dell’autore ad Alessandro Alessandroni della libreria Altroquando di Roma; è un libraio che stimo molto perché agisce in completa indipendenza.
La gente sta tornando alla ricerca della novità, della differenza, nel nostro caso della bibliodiversità e del rapporto diretto con la persona. 
 


Come si può vedere dalla foto il libraio ha scelto di applicare a Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria, con spirito provocatorio, fascette prese da altri libri per far riflettere sul fatto che l’attenzione del lettore non deve soffermarsi solo sui lanci pubblicitari.

Patrizio Zurru ha vinto nel 2011 il Premio Montescudaio organizzato dal Pisa Book Festival, un riconoscimento assegnato alla libreria indipendente che si distingue particolarmente nel corso dell’anno (info qui). Lo ringraziamo per la disponibilità.


Per ulteriori informazioni:
Libreria Piazza Repubblica
Corso Vittorio Emanuele, 370
09125 Cagliari
Sito internet
Pagina Facebook

 

Ha contribuito all'intervista anche Sara Cambula.

“Le streghe di Salem” di Rob Zombie

«Nomen omen» asserivano i latini. Tale espressione trova pieno complemento nel regista di Le streghe di Salem, Robert Bartleth Cummings, alias Rob Zombie. Un nome del genere lascia poco spazio all’immaginazione. E come se non bastasse, anche l’aspetto aggiunge ulteriori tinte al personaggio. Zombie inizialmente lega il suo nome al metal: ex leader dei White Zombie e ora solista, ha sfornato dischi di successo. Di recente in Italia ha aperto il live di Marylin Manson. Per capire i riferimenti musicali e il bacino di immagini a cui attinge, basta vedere i famosi videoclip: una sorta di antipasto della produzione cinematografica. Dell’orrore, ovvio. Nel 2003, infatti, Rob Zombie svecchia e rivitalizza l’horror americano con l’ormai epico La Casa dei 1000 Corpi: uno sconcertante e malato accorpamento di violenza e devianza, dove gli insegnamenti dei Maestri (Argento, Hopper, Carpenter, Peckinpah su tutti) e i topoi del genere vengono assunti e reimpostati secondo il suo stile. Questa è la prima cosa da dire: Rob Zombie è un autore dallo stile unico e riconoscibile. Non un mestierante commerciale di generi, e nemmeno uno sfruttatore di mezzi artistici.  E’ un outsider, fuori dai generi e dall’industria, privo di fronzoli e vezzi convenzionali. Ama, si nutre e vive dell’horror e i suoi film sono il personale atto d’amore al genere. Spesso si lascia prendere la mano, ma la genuinità è lampante. Ora, con Le streghe di Salem, la sua ultima opera, s’appresta a divorare l’ennesimo caposaldo dell’orrore: le streghe. E quale luogo migliore per farlo, se non la celeberrima e dannata Salem?

Antefatto storico: Salem, New England, 1692. Si compie la più sanguinaria caccia alle streghe della storia. Processi, torture ed esecuzioni scaturiranno in un massacro capace di lasciare profondi segni nella cultura americana. Qui è ambientata la storia di Heidi, sbandata conduttrice radiofonica di musica death, incarnata dal chiodo fisso del regista: la moglie e musa Sheri Moon. Non passa un bel periodo Heidi, e una sera la segretaria della radio le lascia un misterioso dono: una scatola di legno con all’interno un vinile. Gli autori? I Lords (ovvero i Lords of Salem del titolo originale). Basta mettere la puntina sul disco e una terribile canzone genera allucinanti visioni maligne che sconvolgono sia la dj, sia le ascoltatrici femminili di Salem. Ecco, proprio le visioni sono il punto cruciale. Si, perché la prima parte di Le streghe di Salem è quanto di più lontano ci si possa immaginare dalla mano di Zombie. La atmosfere da Circo dell’Orrore e la fotografia ipercolorata e satura, lasciano spazio a una Salem notturna, fosca e sgranata. Alla penombra, a giochi di chiaroscuro.

Il ritmo è lento, scandito in giornate: nessun vortice gorehardcore a stravolgere. Zombie stavolta non intende calcare la mano su spaventi improvvisi e splatter: vuole infondere un’ansia inquietante e strisciante. E in parte ci riesce. Anche i personaggi sono privi delle caratterizzazioni caricaturali e grottesche delle precedenti pellicole: ricordate Capitan Spaulding dei primi due film e il Jason di Halloween II ? Niente di più lontano. Poi però, senza svelare troppo, il Maligno arriverà su Heidi, e da lì le Streghe inizieranno a scatenarsi. E con loro la visionarietà onirica e abbagliante del regista. Più si procede e più l’autore americano propone delle sequenze iconoclaste, blasfeme e inquietanti, supportate da una devastante colonna sonora in cui si mischiano Mozart e Velvet Underground. Una miscela tra Jodorowsky e il Kubrick di Shining e Eyes Wide Shut. Un viaggio diabolico che spiazza e avvolge. Sono momenti notevoli, ma il regista anche stavolta si fa prendere la mano: Le streghe di Salem poteva essere un capolavoro, e invece non soddisfa pienamente.

L’inizio solido della sceneggiatura fa prospettare il meglio, ma più si va avanti e più ci si accorge che Zombie vuole solo appagare i nostri occhi con scene e immagini difficili da dimenticare: il suo obiettivo è mostrare il lato satanico di ogni icona cristiana e divina, mettendo tutto il resto in secondo piano. Gli va dato comunque atto di aver fatto un horror – nel suo caso, l’ennesimo – fuori dagli schemi, originale e personale, lontano dagli stereotipi commerciali dall’industria americana. Come il finale aperto dimostra. Le streghe di Salem dividerà fan e spettatori, come dimostrano le proiezioni in anteprima. Ma ai giorni nostri un tale viaggio nell’Orrore solo il suo cinema può permetterselo.

 

(Le streghe di Salem, regia di Rob Zombie, 2012, horror, 101’)

 

Giubbe Rosse

«È assolutamente necessario», aveva biascicato Marco ingoiando l’ultimo boccone, mentre i resti di carbonara seccavano sul fondo della pentola. Faceva schifo, la carbonara. L’aveva cucinata Elena, mettendo la pancetta calda direttamente nell’uovo, mentre aspettavano che arrivasse Cane e che l’acqua bollisse. Sembrava un’omelette, la carbonara. Dopo averla finita Marco aveva detto che era assolutamente necessario, che dovevano percorrere in macchina il perimetro del paese e tornare a casa con mille maglie rosse, provenienti da ogni regione. Elena e Cane lo avevano guardato, in silenzio. «Garibaldi era un brav’uomo, aveva aggiunto lui», spostando lo sguardo dall’uno all’altra. Si era versato altro vino. «E poi?» aveva chiesto Cane. «E poi cosa?» «E poi con tutte quelle maglie rosse cosa ci facciamo?» «Una bandiera». «Una bandiera?» «Una bandiera rossa che sventoleremo giù verso la città dal tetto della Torre Velasca». «E perché mai?» «Perché fa cinema», aveva risposto Marco, le sopracciglia aggrottate per un attimo, poi subito distese. Aveva pronunciato il «fa» calcando la effe, alzando la voce. Come se fosse il «fa», la cosa importante, e non il cinema. Elena era rimasta zitta, disegnando dei cuori con gli spaghetti avanzati. Li allineava uno per uno lungo il bordo del piatto, con la parte panciuta rivolta verso l’esterno. Pensava fosse una pessima idea, andare a chiedere maglie rosse in giro per l’Italia. Pensava fosse una pessima idea anche salire sulla Torre Velasca.
Erano partiti due giorni dopo. Cane aveva una vecchia Polo con il muso quadrato e la vernice scrostata all’altezza dei fanali. L’impianto stereo era l’unica cosa che avesse meno di quindici anni, il display lucido brillava incastonato nel cruscotto. «Sabato la porto dallo sfasciacarrozze», ripeteva ogni settimana suo padre. La osservava dalla finestra della cucina facendo colazione. Poi apriva il giornale che la moglie gli lasciava sul tavolo accanto al caffè e scuoteva la testa, ogni tanto sbuffava, si dimenticava dello sfasciacarrozze. Marco aveva aspettato Cane accanto alla macchina, seduto sul marciapiede. «Ma la sessione?», aveva urlato la madre di Elena dal pianerottolo. «La sessione boh». Uscendo in strada Elena si era fatta due erogazioni di Ventolin e aveva lanciato lo zaino sui sedili posteriori. Erano le quattro di pomeriggio del quindici di maggio.
A Torino si erano persi tre volte perché sembrava tutto quadrato, alla fine Cane aveva chiamato Tancredi. «Qui non si capisce un cazzo di niente», gli aveva detto. Tancredi era di Bologna, studiava filosofia a Torino e scriveva per una rivista letteraria di cui era redattore, direttore e ufficio stampa e che finanziava con lo stipendio del turno pomeridiano in una lavanderia dietro la stazione. Stava con una ragazza bionda, Clara, che faceva dei disegni carini con cui abbellivano il sommario della rivista. Ogni tanto la ragazza bionda si occupava anche della copertina e delle illustrazioni per i racconti. Tancredi, quando gli avevano raccontato la storia delle maglie rosse, aveva cominciato a ridacchiare. Ridacchiava tenendo le mani in tasca e piegando le ginocchia. «Geniale, geniale», continuava a ripetere. Aveva telefonato a un amico che faceva le gare con i fuoristrada, ad alcuni compagni di facoltà e alle amiche di Clara. Tancredi aveva detto a tutti di portare una maglietta rossa che non usavano più. Erano andati a mangiare un kebab dietro la stazione e vicino alla lavanderia. Per l’esattezza dalla stazione si girava a sinistra, poi a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. La donna che li aveva serviti poteva avere quaranta o cinquant’anni, Marco pensava cinquanta, per via delle rughe, che erano molte. «Scusi posso chiederle di regalarmi il suo golf?» le aveva chiesto. La donna gli aveva passato degli involtini fritti ripieni di verdure, senza rispondere. Era la prima sera: Marco, Elena e Cane avevano ricevuto tredici magliette. Elena aveva anche baciato più volte uno studente di lettere che le aveva offerto una birra.
La mattina seguente erano andati in Liguria. «La facciamo tutta in un giorno», si erano ripetuti salendo in macchina. Lo avevano detto almeno una volta ciascuno, sembrava fosse della massima importanza, non restare in Liguria più di ventiquattro ore. Avevano percorso l’Aurelia fermandosi a ogni paese, scendevano dalla macchina e spiegavano ai passanti quello che stavano facendo. Lo spiegavano confusamente. Ripetevano «governo», «azione», «coscienza», «opposizione», spesso nella stessa frase. Faticavano a dare un senso alle loro parole. La maggior parte delle donne si allontanava prima che aprissero bocca, nascondendo la testa tra le spalle e camminando veloce, come facevano quando incontravano un venditore ambulante. I liceali invece si fermavano qualche minuto. «Buona fortuna», dicevano, magari con una pacca sulla spalla, sempre con molti sorrisi, senza dar segno di voler dire addio a un qualunque capo di vestiario. Solo alcuni uomini avevano contribuito alla causa. «Gente che ha fatto il ’77», sosteneva Marco arricciando le labbra e annuendo vistosamente. Li avevano ascoltati senza prenderli troppo sul serio, con più riso che interesse, ma si erano fatti accompagnare a casa a prendere una vecchia maglietta sformata da sventolare dalla cima della Torre Velasca.
A Noli, quinta Repubblica marinara d’Italia, erano successe due cose degne di nota. La prima: Cane aveva scommesso che sarebbe riuscito a mangiare una coppetta di gelato al cioccolato in meno di sessanta secondi. Ci era riuscito. Poi il contenuto della coppetta era stato riversato pochi passi dopo dal suo stomaco, al centro della rosa dei venti, davanti all’arco di ingresso al paese. La seconda: Elena aveva sedotto il proprietario di una bancarella di libri sul viale a mare. Si chiamava Marco, e indossava una maglietta rossa sotto una felpa nera con due strisce bianche sulle braccia. A Marco il libraio non era piaciuto, sia perché portava il suo stesso nome, sia perché non riusciva a capire che età avesse. Quando si erano allontanati aveva detto che non ci si può fidare di uno con i capelli brizzolati e la pelle di un bambino. Elena comunque aveva ottenuto la maglietta, una novella di Henry James e una copia con la copertina rigida di Frankenstein. La maglietta del libraio Marco era stato l’unico indumento che avevano portato via da Noli.
Avevano cenato a Bonassola, in un ristorante tra la scogliera e il paese. Elena aveva ordinato della focaccia al formaggio, Cane e Marco tortelli al ragù. Il loro tavolo guardava verso il mare. La sedia di Marco poggiava contro un oleandro dai fiori color rosa carico e bianco. Forse erano due oleandri vicini vicini. «Sono troppo poche», avevano detto Elena e Cane, riferendosi alle maglie rosse, «tredici in Piemonte e solo otto in Liguria». Marco non era d’accordo, pensava che fosse normale, all’inizio. Dovevano ancora rodare l’approccio con le persone, stavano sperimentando, sosteneva. E poi a Roma si sarebbero fermati quattro giorni. «Avete idea di cosa si può fare a Roma in quattro giorni?», aveva chiesto, aprendo le braccia come un sacerdote che benedice i suoi fedeli. Poi una foglia di oleandro gli era caduta nel piatto. Marco lo aveva allontanato, spingendolo con l’indice verso il centro del tavolo. «Io basta», aveva detto, e si era allontanato. Cane aveva pagato il conto per tutti.
Nessuno era riuscito a dormire quella notte. Erano rimasti in un parcheggio la cui funzione originaria doveva essere quella di campo da calcio. C’erano altre due macchine, oltre alla loro. Una Lancia Y nera e un Suv verde militare, con un adesivo giallo incollato sulla portiera di sinistra: Mad for mud. Elena si era stesa lungo il sedile posteriore, le gambe ripiegate contro il petto in posizione fetale. Ogni volta che chiudeva gli occhi sentiva Marco russare. Russava forte, come se ogni respiro fosse l’ultimo disperato sforzo del suo naso. Allora Elena si sollevava e lo strattonava prendendolo per una spalla. Marco si svegliava, poi richiudeva gli occhi e cominciava di nuovo, Elena lo risvegliava. Il sedile di Cane, al posto del guidatore, era bloccato. Avevano provato a reclinarlo in tre. Alla fine Cane era rimasto con il volante tra le ginocchia, a guardare la rete metallica che separava il campo da calcio dalla strada. Non passava nessuno.
All’alba Cane si era stufato di guardare la rete metallica e aveva messo in moto. Erano arrivati a Pietrasanta durante il più grande black-out del paese. Le campane del Duomo non avevano suonato alle otto, non avevano suonato alle nove, e neanche alle dieci, alle undici e alle dodici. La metà dei negozi era chiusa, con le nuove, innovative, saracinesche elettriche irrimediabilmente abbassate. Mentre facevano colazione in un bar nella piazza centrale, Cavallo li aveva osservati dall’esterno del perimetro dei tavoli. Guardava la cioccolata calda di Elena con degli occhi che sembravano lì lì per schizzare fuori dalle orbite e fare plof dentro la tazza. La cioccolata non era fatta in casa. Era della marca Ciobar, Elena l’aveva riconosciuta perché era la stessa che le preparava sua madre quando era piccola. Comunque era buona. Anche Cavallo aveva una madre, chiamata Tosca perché urlava tutto il giorno. A volte cantava. Cavallo prevedeva il tempo, riusciva a captare l’arrivo di un temporale con mezza giornata di anticipo. In quei casi si metteva a correre per le strade nitrendo e sbattendo le mani sulle cosce. Le mani contro le cosce facevano il rumore degli zoccoli di un cavallo al galoppo. Queste cose le aveva raccontate un vecchio signore seduto al tavolo accanto. Beveva un caffè macchiato e mangiava una brioche alla crema, era sporco di zucchero a velo sul mento e agli angoli della bocca. Aveva raccontato anche che lì ci andava a fare la colazione Botero. Elena e Cane non avevano idea di chi fosse, Botero. Marco sì. «Uau!», aveva esclamato Marco, ma non sembrava particolarmente interessato.
A Pietrasanta erano riusciti a prendere diciotto magliette e due felpe. Avevano girato tutto il paese e le località limitrofe, dall’Africa al Pollino. Marco teneva banco in ogni bar. Ripeteva le stesse cose che aveva detto in Liguria. Ripeteva «governo», «azione», «coscienza», «opposizione». Questa volta lo faceva a voce alta, guardando un punto vuoto, fisso davanti a sé, quasi consapevole di ciò che sosteneva. Il ristorante dove avevano deciso di mangiare, alle tredici e trenta, era occupato da un pranzo di laurea. «Quarantuno», aveva detto affranto Marco alla laureata. Si sentiva molto solo, quell’uno, e lei era vestita tutta di rosso perché portava fortuna. Avrebbe dovuto lasciare il suo golfino a loro. Doveva aiutarli a raggiungere il quarantadue. «A nessuno piacciono i numeri dispari», le aveva spiegato Marco. La laureata non aveva voluto cedere il golf. Il gestore del ristorante, un ometto basso e per niente simpatico, li aveva fatti uscire. Uno dopo l’altro, che la porta era stretta. Dopo le diciotto magliette e due felpe erano andati al mare. Faceva freddo ed Elena aveva disegnato con l’alluce la sagoma dell’Italia sulla sabbia. Poi aveva cercato di tracciare all’interno i confini delle regioni. Come una cartina politica. Si era dimenticata il Molise e la Basilicata. Marco e Cane avevano parlato di una ragazza dell’università che aveva il naso alla francese e un seno enorme. Aveva anche le lentiggini, la ragazza dell’università, e questo le faceva acquistare molti punti.
La sera le campane del Duomo continuavano a essere mute. I negozi erano tutti chiusi, e anche i ristoranti erano tutti chiusi. La rocca non aveva fari ad illuminarla, sprofondava nella collina. Le uniche luci visibili erano i puntini luminosi dei paesi sparsi sulle Apuane. Cane aveva spiegato a Elena che l’alone che vedeva attorno a ogni punto luminoso era effetto dell’astigmatismo. Altrimenti li avrebbe visti perfettamente definiti. «È la stessa cosa che succede con le stelle», le aveva detto, «con i lampioni no, perché sono troppo vicini». In piazza, la stessa piazza del Duomo e del bar di Botero, un gruppo di artisti di strada stava allestendo uno spettacolo. Erano illuminati da cinque candele di quelle con il fondo di terracotta, grandi e gialle, alla citronella. A guardarli non c’era nessuno a parte una famiglia di turisti biondi e nordici, forse tedeschi. Elena, Marco e Cane avevano assistito agli ultimi minuti dello spettacolo, una storia complicatissima che, infatti, non avevano capito. In ogni caso la storia finiva bene, i due con i trampoli si abbracciavano e quello con il cappello da giullare faceva delle smorfie incrociando le braccia. Cane era andato a parlarci. Dopo poco gli aveva dato cinque euro, e loro in cambio una tunica senza maniche ricoperta di paillettes rosse. Era la ventunesima maglia di Pietrasanta.
Elena, Marco e Cane si erano messi a passeggiare, malgrado fosse tutto molto buio. Cane teneva la tunica di paillettes appoggiata alla spalla destra. Sotto a un centauro di bronzo con la testa tagliata all’altezza della fronte Marco aveva preso la tunica. Ci aveva giocherellato per un po’. La passava da una mano all’altra, palleggiando con se stesso. «Forse non ha molto senso», aveva detto. Elena e Cane lo avevano guardato, in silenzio. «Poi a nessuno frega un cazzo, di Garibaldi». Elena e Cane questa volta si erano guardati tra di loro. Si erano guardati come due persone incredibilmente tristi. Avrebbero voluto guardarsi come due persone incredibilmente esasperate, però gli occhi si erano sbagliati. «Torniamo a casa», Marco si era allontanato dal centauro, camminando verso la piazza con la tunica stretta in mano che ogni tanto strisciava per terra. Elena pensava che fosse una pessima idea, tornare a Milano.

“Il ruggito del Leone” di Gian Piero Brunetta

Totalitarismo imperfetto, si è detto spesso a proposito del fascismo, non solo per evidenziarne crepe o faglie interne all’ideologia in sé (nella sua elementare rozzezza, una visione del mondo con i suoi paradigmi sistematici non più contraddittori di altri), ma per registrarne empiricamente le zone di controllo più lasche, quelle che fino alla prima metà degli anni Trenta aprirono temporanee vie di fuga probabilmente sconosciute al nazismo e allo stalinismo. Il caso del cinema, per esempio: del cinema americano. Prima della classica “fabbrica del consenso” mussoliniana, agisce l’industria hollywoodiana. Miti e sogni che sono l’oggetto di indagine del libro di Gian Piero Brunetta (l’editore è Marsilio), Il ruggito del Leone. Hollywood alla conquista dell’impero dei sogni nell’Italia di Mussolini; che si sofferma soprattutto sulle strategie pubblicitarie che permisero alle majors (non solo la Metro Goldwyn Mayer) di invadere il mercato italiano dagli anni Venti.

Esse seppero approfittare delle condizioni provocate dalla Grande Guerra e delle difficoltà socio-economiche dell’Italia coeva. Dunque, dell’assenza di un’industria cinematografica. E di una ricettività evidentemente ben disposta verso le tipologie di racconto proposte con l’ausilio di una molto accorta e poderosa strumentazione commerciale. La macchina era ovviamente molto ben organizzata – non senza tratti coercitivi, peraltro: si pensi al sistema del block-booking attraverso il quale l’esercente era obbligato ad accollarsi pacchetti di film di dubbia riuscita (e qualità) assieme al titolo di sicuro successo. 

La questione più interessante a nostro avviso (seppure non fosse questa l’intenzione dello studioso) è il tema della conciliabilità fra un immaginario d’importazione e uno autoctono, imposto – non sarebbe il caso di dimenticarlo – con la forza da Mussolini. Se qui non funziona la classica contraddizione fra gli ovvi privilegi del potere che si concede in privato quello che vieta in pubblico (il duce si godeva i suoi film americani nella sala privata di villa Torlonia), sarebbe da approfondire il tema della frizione interna al regime fra l’american way of life e un certo antiamericanismo che al fascismo non ha mai fatto difetto. Vero che, non casualmente, nel momento in cui esso si accentuava sul piano politico-culturale (di pari passo all’antisemitismo che non può ridursi a una mera contingenza politica obbligata dai rapporti col nazismo e confluita nelle Leggi razziali del ’38), le maglie del mercato cinematografico statunitense in Italia si strinsero drammaticamente.

Vero altresì che se il regime per più di un decennio aveva abbondantemente lasciato fare, ossia permesso che il pubblico si crogiolasse dentro onirici pomeriggi hollywoodiani, ciò accadde in virtù degli specifici tratti “poetici” di quella cinematografia: il cui scopo fondamentale – perciò stesso apprezzato da gerarchi come Bottai – era l’intrattenimento. Per lo più, la proiezione di un film americano costituiva una piacevole sospensione dalla militarizzazione ideologica quotidiana, possibile perché percepita dai più come innocua, evasiva ma non certo critica rispetto al tentativo politico di costruire una propria mitologia: quella della Tradizione. Un immaginario non particolarmente pericoloso, dunque, strutturalmente “popolare” come ricordava Alberto Savinio contrapponendolo a quello degli intellettuali.

Brunetta ha buon gioco nel sottolineare come la sala cinematografica cullasse lo spettatore dell’epoca in una bolla di piacere grazie a un racconto filmico fatto di ricerca del benessere, di individualismo edonistico (contrastante assai con la retorica del regime, occorre dire, non con una inclinazione storica dell’homo italicus che nei fatti il regime stesso non seppe né volle osteggiare davvero), abbastanza innocente, di gioia di vivere e passioni amorose a lieto fine. Una via di fuga, anche, dalle pressioni politiche.

Non casualmente l’autore ricorda come il cinema europeo più avantgarde fosse viceversa temutissimo e ostracizzato dal regime. Dal canto suo, in un libro recente (Il volo del cinema) di Raffaele De Berti si individuava nelle sperimentazioni futuriste il côté modernista del fascismo. Esso poteva convivere con la propaganda dei cinegiornali e lo sbarco di divi e storie d’amore e di libertà che venivano da Los Angeles, col loro corredo pubblicitario di riviste illustrate e rotocalchi che rafforzavano l’interesse e la partecipazione del pubblico (l’analisi di Brunetta al riguardo è molto documentata e il testo si avvale di belle fotografie d’epoca, brochures, locandine, francobolli coi volti dei divi). Se pizzicagnoli e parrucchieri sognavano di assomigliare a Robert Montgomery, ancor più numerosi erano coloro che speravano prima o poi di incrociare sulla loro strada Greta Garbo. Che americana non era, ma il dettaglio ai loro occhi doveva risultare davvero trascurabile. L’aura funzionava a meraviglia.


(Gian Piero Brunetta, Il ruggito del Leone. Hollywood alla conquista dell’impero dei sogni nell’Italia di Mussolini, Marsilio, 2013, pp. 336, euro 25)

“Mi riconosci” di Andrea Bajani

Tutto comincia dalla fine. Come l’esordio di un manga. Un capitolo di scrittura araba.

Comincia dalla vita che se ne va di schiena, da un numero da circo che si chiude a riccio, nel suo silenzio ermetico. È un funerale a debuttare sulla scena, una macchina scura seguita dagli occhi come una scia, una cometa di fari e metallo. Parenti e amici sono lì per l’ultimo incontro, insieme ai fiori incoronati, i vetri neri, il corteo degli sguardi avvizziti malgrado le lacrime. Chi muore, almeno il giorno della sua cerimonia, non è mai uno qualunque. È quel mattone di cuore che viene a mancare, per chi dovrà farne a meno.

Ma in questo caso, il protagonista al centro esatto dell’addio, è padrone di un’assenza scomoda. Chiassosa.

Quella scatolina di legno chiaro, più adatta a «mettere via gli scacchi a fine partita», abbraccia il corpo di Antonio Tabucchi. Ed è lui il burrone, il vuoto radioattivo attorno a cui gravita il nuovo romanzo di Andrea Bajani Mi riconosci (Feltrinelli, 2013). L’autore si confronta con un suo stesso frammento, il declino e la partenza del suo amico verso una finestra cieca, senza scorci né saluti dal cortile.

La morte che inizia a serpeggiare, tra le solite cose, tra le piaghe di una smorfia, la corteccia che si arrotola e fatica a stare in piedi e poi quel fantasma canceroso conquista vertebre e minuti, scampoli di muscoli e pensieri fino a farsi parola. Tabucchi scrive a Bajani che si è ammalato, in una mail frettolosa, quasi stizzita, irritata da quella curva a gomito verso l’ignoto. Da lì in poi gli appuntamenti tra loro si complicano.

Si liquefanno al telefono, quando la notte avvicina le voci dietro lo stesso angolo, quando il racconto di un romanzo non scritto diventa un ponte allungato tra le gole. Oppure sono messaggi di posta infilati nel computer, «dolore sterilizzato» e poi «spedito dall’altra parte dell’Europa»; angosce depressurizzate, resoconti di chemio, degenze e letti d’ospedale. Frasi ricoverate su uno schermo, respiro evaporato, fatto orizzontale, perché anche per lui tenersi eretto è ormai quasi impossibile.

Le pagine del libro sono il diario di un rapporto, foto sparse di una grande amicizia, la trama di ricordi che lo irrorano ancora, a dispetto dei distacchi.

Le città vissute insieme: Vecchiano, Parigi e poi Lisbona, quella eletta dall’anima di Tabucchi sulle orme di Pessoa; i personaggi sfuocati che non vengono a galla e grattano la stanza; le storie incompiute agitate nella pancia prima di arrampicarsi sulla mano, la materia incandescente e magica di una conversazione tra due narratori. Ma poi anche le piccole ossute paure di ogni essere umano; le fissazioni, le premure legate agli oggetti da non abbandonare. Tabucchi che prega Bajani di abitare le sue case solitarie, perché «se non ci sta nessuno, quella casa non c’è»; Tabucchi che porta sempre con sé una borsa immancabile, senza introdurvi niente se non le sigarette; Tabucchi che muore al posto di Tristano, che si isola per ore dietro una porta socchiusa, per poi ricomparire stornellando un fado, mentre la moglie fuma il rancore di quel tempo incompreso.

Come si spegne un artista? Qual è il rito del congedo davanti alla soglia? C’è un buio più nobile per lui? Una morte meno morte? Un trapasso di velluto, foderato del cordoglio di chi condivide la sua stessa fame, il suo specchio rifratto per scomporre il mondo?

Di sicuro, qui c’è il passaggio di chi va e quello di chi resta. Di chi filtra la distanza attraverso la memoria e l’urgenza di arredarla, di popolare uno spazio lasciato scoperto. Con il proprio mobilio. Con l’ingombro dell’affetto e l’arsenale dei suoi tarli.

Bajani è l’inquilino di un palazzo immenso, fatto di strade, volumi, atmosfere. Le stesse dimensioni che non hanno seguito Tabucchi dopo il fiato finale, pur rimanendo aggrappate al suo nome. Le stesse che dimorano sempre più forte tra i paesaggi dei suoi testi. Le stesse che bussano a ogni riga per chiederci di leggerla, di “riconoscerla” come l’aria di luoghi posseduti. E che l’autore ci lascia intravedere, tra le persiane della sua scrittura densa. Pastosa, febbrile, poetica. Viva, straziante, un linguaggio di carne che soffre. Pronta a regalarci l’eternità di un omaggio, l’applauso insolubile che non si stanca di piovere intorno a un uomo libero.

Al suo teatro di sogni, riflessi, finzioni che non possiamo definire, se non il sangue stesso della letteratura. Di chi vive scrivendo. E muore lasciandoci vivere.


(Andrea Bajani, Mi riconosci, Feltrinelli, 2013, pp. 143, euro 12)

“Aldo morto” di Daniele Timpano

«Desolato, io non c’ero quando è morto Moro. Aldo è morto senza il mio conforto. Era il 9 maggio 1978. Non avevo ancora quattro anni. Quando Moro è morto, non me ne sono accorto. Ma dov’ero io quel 9 maggio? E cosa facevo? A che pensavo? E soprattutto a voi che ve ne importa? È una cosa importante cosa facevo e che pensavo io a tre anni e mezzo? Aldo è morto, poveraccio».

È in scena in questi giorni, al teatro dell’Orologio di Roma (via dei Filippini), lo spettacolo Aldo Morto, di Daniele Timpano. «Aldo vivo in mezzo a noi per una sera» e con lui tutta la storia, le rivoluzioni e le contraddizioni di quegli anni. Daniele Timpano mette magistralmente in scena un’indagine su un uomo odiato, idolatrato, discusso, del quale ai molti rimane solo un’istantanea in bianco e nero del prigioniero sotto la stella a cinque punte delle Brigate Rosse.

Chi era costui? Che significato ha parlarne a distanza di trent’anni? Il drammaturgo romano ricrea una prigionia reale all’interno di una stanza tre metri per uno, per rivivere le ultime cinquantaquattro giornate di un personaggio pubblico dell’Italia degli anni Settanta, ma soprattutto di un uomo che è stato tra le figure centrali della nostra storia nazionale.

Voci diverse si interpongono in questo processo, voci di redenti e voci di ribelli, voci di rivoluzione e di delusione, voci di chi l’ha conosciuto da vivo e chi da morto. Chi può porsi a giudice di quello che è stato il caso Moro? Chi detiene la verità? Renato Curcio? I magistrati? Paolo VI? Daniele Timpano?

16 marzo 1978 – 9 maggio 1978 / 16 marzo 2013 – 9 maggio 2013

«In questo stato attuale delle cose è impossibile un’azione alla reazione». A distanza di anni una storia che può ancora insegnarci tanto sulla nostra Italia, ancora frammentata, ancora vittima della storia.

Vincitore del Premio Rete Critica 2012 e finalista del Premio Ubu 2012, Aldo Morto è la differenza a ciò che è l’arte oggi. Teatro impegnato, critico, ironico, che non perde però l’immediatezza e la carica del linguaggio di scena.


Aldo Morto
di 
Daniele Timpano
in scena presso il Teatro dell’Orologio (Roma) fino al 8 maggio 2013.

Ulteriori info: http://www.aldomorto54.it/

ilSaggiatore: a tu per tu con Serena Casini

Questo mese, per la casa editrice il Saggiatore abbiamo intervistato Serena Casini, che si occupa sia di saggistica che di narrativa, il cui punto d’incontro editoriale è la collana le Silerchie.


Ciao Serena, per prima cosa ti ringraziamo della tua disponibilità. Da quanto lavori a ilSaggiatore? Puoi raccontarci in cosa consiste il tuo lavoro?

Ciao Serena… lavoro a ilSaggiatore dal 2008, dopo un master a Roma, alcune collaborazioni con service editoriali e case editrici romane, e uno stage proprio nella redazione di via Melzo. Oggi, a fianco di Giuseppe Genna, mi occupo di scouting e editing per la narrativa italiana. Festival, concorsi per esordienti, agenzie letterarie, cassetti chiusi sono tutti luoghi dove mettere il naso, dove cercare quei testi in cui dopo affondare le mani. Ed è proprio in questa seconda fase che che si compie la bellezza del lavoro, nel rapporto che si instaura con l’autore e nel confronto costante con lui. Il mio – e quello dei colleghi di redazione – è un lavoro artigianale, si tratta di oliare meccanismi che non funzionano ancora, smussare passaggi, plasmare periodi e dare loro quella forma che avrebbero nella testa dell’autore.


Quali caratteristiche deve avere, secondo te, la figura dell’editor, soprattutto di narrativa?

Deve avere curiosità, attenzione, sensibilità e orecchio. Una sorta di orecchio assoluto. La presunzione di sentire le note dissonanti, che, anche minime, insidiano l’armonia totale del libro.


Le Silerchie sembrano essere l’anello di congiunzione ideale tra la saggistica e la narrativa. Che cosa ci puoi dire di questa collana rifondata da circa un anno con la volontà di perseguire l’intento della originaria Biblioteca delle Silerchie, ideata da Alberto Mondadori?

Le Silerchie sono piccoli gioielli, perle di fiume, l’una diversa dalle altre. E sono specchio della tradizione de ilSaggiatore, della sua grande storia di casa editrice indipendente e di cultura. Come hai detto tu, nella collana si trovano saggi attenti al passato – abbiamo ripubblicato Matrimonio medievale di George Duby, con la nuova introduzione di Ida Magli –, e al presente – Intrigo internazionale di Fabio Cleto, un saggio sul camp, arricchito da oltre 150 immagini. Come per i saggi, anche per la narrativa alterniamo tra recupero di un passato nobile e ricerca di un presente autorevole: da Joyce Carol Oates di Acqua nera e dalla splendida Annemarie Schwarzenbach di Ogni cosa è da lei illuminata, ad Alessandro Bertante, Helena Janeczek e Tommaso Pincio, strizzando l’occhio alla poesia – proprio oggi sto lavorando a una delle prossime uscite, che avrà come protagonista Milo De Angelis.


Che la casa editrice il Saggiatore sia conosciuta soprattutto per i suoi ottimi libri di saggistica è cosa nota. Lo stesso vale per la narrativa straniera con autori del calibro di Jonathan Lethem, Carlos Fuentes e David Peace. Che cosa ci puoi dire invece della narrativa italiana?

La narrativa italiana è una scommessa che, un anno fa, l’editore ha voluto fare e che ha riscosso l’entusiasmo di tutti. Abbiamo deciso di dare spazio a testi e autori che riteniamo emblematici e significativi, cercando l’intensità e la letteratura che vada al di là di qualsiasi genere, forma e stile. Quindi racconti, come Nove storie storiche di Cesare De Marchi, romanzi come Nello specchio di Cagliostro di Vittorio Giacopini, Ultimo Parallelo di Filippo Tuena e L’impero familiare delle tenebre future, esordio narrativo di Andrea Gentile.


Per concludere, qual è il libro de il Saggiatore che più hai amato fino a questo momento e che ti sentiresti di consigliare ai nostri lettori? Vale anche un libro che deve ancora uscire…

Ho già nominato Annemarie Schwarzenbach, che ho scoperto e amato proprio lavorandovi a ilSaggiatore. Potrei citare libri di autori a cui sono molto affezionata – e un po’ l’ho già fatto – al punto che sono diventati poi amici. Tuttavia il libro a cui tengo di più deve ancora uscire. Per ora posso dirti che l’autore è un romano, nato l’anno dello sbarco sulla Luna, ma, cara Serena, te ne parlerò meglio tra sei mesi.


Grazie per questa chicca finale e in bocca al lupo per il tuo lavoro. A presto dunque.

[Focus] Serie cancellate: un viaggio tra dubbi, domande e qualche mistero

Se avete seguito gli articoli pubblicati questo ultimo mese avrete probabilmente notato un punto di contatto comune alle serie presentate: in tutti e tre i casi non si è andati oltre la prima stagione. C’è chi ha pensato a questa scelta dal primo momento e c’è chi invece ha dovuto fare i conti con cancellazioni più o meno impreviste. Da spettatore prima che da redattore mi sono voluto soffermare su questo punto perché questa pratica, a mio parere barbara, sta prendendo sempre più piede negli ultimi tempi, soprattutto negli Stati Uniti, dove la mole di show presentati ogni anno è sempre più imponente.

Inutile soffermarsi sulle motivazioni, tanto semplici quanto evidenti: dovunque c’è televisione scatta la lotta per gli ascolti, e non c’è compassione per gli sconfitti. I ratings sono un giudice spietato, e qualsiasi rete (soprattutto i colossi della TV in chiaro) si ritenga minimamente delusa da un suo programma corre ai ripari sempre più velocemente e brutalmente. In principio era la pazienza; come prevedibile tutti gli show vengono valutati al termine degli episodi andati in onda, ovviamente non per la loro qualità o tramite le impressioni del pubblico, ma per il numero di appassionati riusciti a richiamare. Il verdetto è secco, senza rinvii a giudizio. La dignità di una stagione completa è salva. Con il tempo scatta l’ultimo giro, per gentile concessione del network il moribondo programma potrà arrivare a una sua conclusione, ma nessun pensiero a folli rinnovi.  È il triste destino che ha accomunato 666 Park Avenue e Last Resort in questo ultimo anno. Ma il meglio deve ancora arrivare.

Poche settimane fa alcuni telespettatori di serie partite senza estreme pretese sono stati costretti ad assistere alla cancellazione in corsa. ABC (sempre in prima linea) e The CW hanno infatti dato il benservito a Zero Hour e Cult dopo rispettivamente tre e sei episodi, “rubando” di fatto ai pochi fedeli qualche ora di televisione per uno show ovviamente con un capo ma senza coda. Un atteggiamento (come già accennato nelle scorse settimane) piuttosto irriguardoso nei confronti di chi aveva dato credito a tutti questi progetti.

Per carità, la “colpa” sta anche nei gusti della maggioranza degli americani, veri e propri patiti di reality show e compagnia bella, dominatori incontrastati dei palinsesti e assassini di tanti programmi rei soltanto di essere stati inseriti in una fascia d’orario sbagliata. Rimane comunque un atteggiamento prettamente “made in USA”, dove non sembra esserci linea di confine tra buon prodotto e capolavoro: la continua ricerca del nuovo show con cui vincere il jackpot non ammette compromessi, o si compie la missione o si fallisce. Paradossalmente in questo modo abbiamo dovuto assistere al rinnovo di serie come Revolution, uno dei flop di questo anno, già sicura di tornare la prossima stagione dopo una decina di episodi scarsi.

Questa pratica non deve però essere dipinta come prassi in tutto il mondo: la Gran Bretagna negli ultimi mesi e anni ha sfornato tante (neanche troppo) piccole perle entrate di diritto nelle note liete di questo anno, come A Young Doctor’s Notebook, Misfits, Sherlock, Black Mirror e la freschissima Utopia (di cui vi parleremo a maggio). Non può essere ignorato il rovescio della medaglia, perché se dal Regno Unito arrivano pochi tagli brutali è altrettanto vero che il numero di show presentati ogni anno risulta decisamente inferiore rispetto alla mandria statunitense.

Viene da chiedersi se non sia questa la strada da intraprendere: rinunciare a qualche tentativo in più di sfornare lo show definitivo cercando di alzare la qualità per dare più possibilità alle varie serie di catturare fette di pubblico sempre maggiori. Il percorso delle reti americane in questo momento non sembra essere quello giusto, e un’altra piccola dimostrazione può essere la rosa di pretendenti agli Emmy Awards, per una buona metà sempre uguale da diversi anni a questa parte. Soltanto Homeland nel 2012 è riuscito a scalzare Mad Men dopo anni di dominio incontrastato contro i soliti noti, come Dexter, Breaking Bad o Boardwalk Empire. Non fraintendetemi, la critica non è da ricercare negli ultimi nomi fatti, quanto piuttosto in una mancanza di alternative valide con cui sfidare i mostri sacri.

Il vero consiglio da potervi lasciare rimane quello di non affezionarvi in alcun modo agli show televisivi, perché nella maggior parte dei casi prima o poi vi tradiranno e abbandoneranno. Informatevi il più possibile (magari tramite Flanerí) sul successo avuto, su eventuali conferme per il loro futuro e non siate impazienti, perché aspettare un po’ di più può salvarvi da grandi delusioni.

“Gli altri” di Alessandro Di Virgilio e Luca Ferrara

Gli altri (Tunué, 2013), graphic novel scritto da Alessandro Di Virgilio e disegnato da Luca Ferrara, è tratto dalla trilogia teatrale Gli altri fantasmi di Maurizio de Giovanni, creatore, tra le altre cose, del noto commissario Ricciardi.

Il protagonista – come dice il disegnatore: «Una maschera di teatro e Vinicio Capossela» – chiuso in un appartamento dimenticato da tutto e tutti, racconta tre storie che hanno come sfondo la città di Napoli.

Dal culto di Santa Maria Francesca (La canzone di Filomena), a cui si affidano donne che necessitano di un aiuto per la gravidanza, che fa da contorno alla storia di Filomena, orfana e perennemente in cerca di cibo; ai deliri strazianti di un padre (Storia di Papo e Bimbomio, forse il punto più alto della trilogia) alle prese con l’incapacità di metabolizzare la morte del figlio; al vortice di violenze (La casa è il mio regno) di un marito caffeinomane e una moglie che, del caffè, non ne sopporta più neanche l’odore.

Episodi sospesi, eterei, difficili da catturare, in contrasto, ad esempio, con il disegno corporeo delle mani dei vari personaggi; storie in cui il dramma scorre attraverso strade invisibili, sotterranee, dedali che invitano a «pensarci bene, la prossima volta che sentirete un piccolo, insignificante soffio di vento sfiorarvi il cuore», dove la superficie, il tratto, la raffigurazione sono specchio solo parziale di quanto accade, è accaduto e accadrà. Intervallati dai commenti e dalle presentazioni del narratore – angelo?, giocoliere?, demiurgo?, impostore? – che contestualizza quando narra, collocandoli in uno spazio e in un tempo definiti, ma sempre pronti a sgretolarsi di fronte ai nostri occhi, i tre episodi lasciano la sensazione che le profondità da raggiungere, gli universi da aprire e chiudere, avrebbero potuto toccare picchi ancora più suggestivi, zone grigie inesplorate, e che, in qualche modo, la macchina trivellatrice si sia fermata a un certo punto, accontentandosi del lavoro svolto.

Anche Napoli, attorno a cui ruotano la gran parte dei cuore de Gli altri, sembra avere difficoltà a respirare, soffocata a volta da alcuni eccessi d’enfasi e altre da spazi vitali forse insufficienti per lasciarla esprimere su livelli più elevati.

Un lavoro, nel complesso, piacevole da vivere, ma che lascia l’amaro in bocca per quello che non racconta, per i mondi che non sono emersi totalmente.


(Alessandro Di Virgilio – Luca Ferrara, Gli altri, Tunué, 2013, pp. 96, euro 12)

 


Il graphic novel Gli altri sarà presentato in esclusiva al Napoli Comicon 2013, che si terrà dal 25 al 28 aprile 2013. 

“Preghiere notturne” di Santiago Gamboa

Non è affatto semplice riuscire a parlare di un libro come l’ultimo di Santiago Gamboa, Preghiere notturne (e/o, 2013). Forse il modo migliore di farlo è citando uno dei suoi personaggi, Manuel: non è un noir, ma uno strano romanzo d’amore. O forse affermando l’esatto contrario, non è uno strano romanzo d’amore, ma un noir. È facile però vedere al suo interno anche un’autobiografia romanzata, un Gamboa che, attraverso uno dei suoi protagonisti, ci fa entrare nel complesso mondo della diplomazia, che ha conosciuto in prima persona. Come dimenticare, però, gli attacchi frontali alla politica e, nello specifico, alla politica sanguinaria del governo colombiano di Álvaro Uribe, cui non sono risparmiate feroci condanne? Il romanzo che abbiamo per le mani è tutto questo, e non solo: è un’opera che rientra facilmente nel campo della metaletteratura, che regala spunti di lettura, che presenta temi complessi da approfondire senza mai risultare in alcun modo pesante.

Preghiere notturne racconta di due fratelli colombiani cresciuti in una famiglia del ceto medio quasi completamente priva di cultura, vittima del populismo di un presidente corrotto e di un regime paramilitare che sta lentamente distruggendo il loro paese. Più precisamente, per usare le parole dell’autore, tratta di «due persone che anelano a essere dimenticate, e (del)la vita che si frappone fra di loro come un muro». Manuel, il secondogenito, vive un rapporto particolarmente difficile con i genitori, con cui ha davvero poco in comune, e vede nella sorella Juana un’ancora di salvezza. Lei si promette di portarlo via da quella casa e dalla Colombia ed è disposta a fare qualsiasi cosa per raggiungere questo obiettivo, persino vendere il suo corpo, cosciente di farlo da una posizione di controllo: non è una donna debole, ma una donna forte che sa usare la propria bellezza per sottomettere politici, militari e chiunque altro le serva per migliorare la propria vita e quella del fratello. Una serie di eventi che sfugge al suo controllo la porterà ad abbandonare la Colombia in completa segretezza, senza lasciare alcun tipo di messaggio al fratello, che si metterà alla sua ricerca. Questa sua decisione, un atto di puro amore, porterà a conseguenze molto dure: Manuel la cercherà per il mondo, quasi improvvisandosi investigatore, finendo col cadere vittima di un complotto orchestrato da narcotrafficanti thailandesi che gli varrà una condanna a morte. È qui che entra in scena l’alter-ego di Gamboa: il console della Colombia in India viene chiamato a lottare contro il tempo per salvare il ragazzo e trovare Juana, facendoci entrare nel vivo della trama.

Lungi dall’essere un semplice romanzo d’avventura, Preghiere notturne trova un equilibrio quasi perfetto tra narrazione, invenzione, critica sociale e accenni all’alta letteratura e alla filosofia. Attraverso la voce dei suoi personaggi, riusciamo a scoprire di più sulla Colombia di Uribe, leggiamo considerazioni politiche di un certo spessore e notiamo, ancora una volta, l’importanza della cultura per la vita civile.

Tra gli altri, come si diceva, Gamboa scrive di persone del ceto medio che disprezzano la cultura, probabilmente perché è stata loro preclusa, e che fanno cieco affidamento sulla televisione e sul populismo più bieco che essa trasmette, che le porta ad ascoltare di massacri, stragi e sparizioni senza battere ciglio, senza interrogarsi sul loro significato. Guardando oltre l’accusa sociale, focalizzata principalmente sulla Colombia, tra le pagine di questo libro troviamo richiami anche per noi europei, molto spesso chiamati in causa come modello da non seguire, e in un certo senso ammoniti affinché non cadiamo nelle trappole che una presunta democrazia ci tende.

Nonostante i temi importanti che fanno da sfondo alla storia principale, e che al contempo la completano, l’autore ci dona un bel romanzo, scorrevole, dalla narrazione fluida e dallo stile impeccabile.


(Santiago Gamboa, Preghiere notturne, trad. di Raul Schenardi, Edizioni e/o, 2013, pp. 306, euro 19)

“I cani e i lupi” di Irène Némirovsky

Il richiamo del lupo può echeggiare anche in una notte senza luna piena. Una notte di violenza e scelleratezza umana. Una notte in cui la connotazione data dal quel mostro del nazismo alla parola ‘razza’ traccia netti confini, dispensa disprezzo, odio, rancore e paura. Sentimenti che non toccano i cani che, pur della stessa specie dei lupi, sono invece accolti, addomesticati, protetti e coccolati.

I cani e i lupi (Adelphi, 2013), scritto fra il 1938 e il 1939 dall’ebrea russa Irène Némirovsky, emigrata in Francia per sfuggire alla persecuzione dei nazisti, è la storia della sua gente: «Questa è una storia di ebrei…venuti dall’Est, dall’Ucraina e dalla Polonia…una storia che, per ogni sorta di ragione, poteva accadere solo a degli ebrei». Così l’autrice del più famoso Suite francese sente la necessità di puntualizzare nel presentare questo suo romanzo ai librai presagendo possibili critiche. Del suo popolo intende parlare mostrandone pregi e difetti.

Come Ada Sinner, la protagonista de I cani e i lupi, Némirovsky dipinge volti e paesaggi cupi ma celanti una ancestrale vitalità, un passato selvaggio che richiama un forte legame di sangue, quella catena genetica che nemmeno Dio può spezzare o cancellare.

Così sarà per Harry, figlio dei Sinner ricchi, gli abitanti della parte alta della città di Kiev, sulle colline fra le ville aristocratiche dove gli ebrei arricchiti venivano accolti senza discriminazioni apparenti. Al paradiso della parte alta non erano invece ammessi i giudei del ghetto, quelli della città bassa vicino al fiume, che l’autrice descrive con il piglio di un’antropologa della marginalità, dove «…viveva la marmaglia, ebrei infrequentabili, piccoli artigiani e commercianti in squallide botteghe a pigione, vagabondi, frotte di bambini che si rotolavano nel fango e parlavano solo yiddish». A fare da spola tra inferno e paradiso c’erano poi i «maklers», gli intermediari a caccia di affari nella compravendita. A questo purgatorio apparteneva il padre di Ada, Israel Sinner, rimasto vedovo e ben presto costretto a mantenere anche la cognata, la zia Raisa, con i suoi due bambini Lilla e Ben.

Ada cresce così con i due cuginetti ma la sua povera e banale vita un giorno viene scossa dall’apparizione di Harry. Ada se ne innamora all’istante. Ma la distanza è incolmabile anche per una lupetta sognatrice come lei. Lo capisce quando, fuggendo dal pogrom, si ritrova insieme a Ben a chiedere aiuto, fra spasmo e senso di inadeguatezza, ai più fortunati parenti. Tutti si rivelano razzisti: «Si sentiva divisa in due e una parte di lei capiva perché la cacciavano, perché le si rivolgevano in tono furente: quei due bambini affamati rappresentavano per i ricchi ebrei un eterno monito, il ricordo atroce e vergognoso di ciò che erano stati e di ciò che sarebbero potuti essere».

Ada cresce continuando a spremere questo unico succo di illusione vitale rappresentato dall’amore per Harry, anche quando la rivoluzione russa, fagocitando il patrimonio paterno, la spinge a partire per Parigi insieme alla cugina Lilla e alla zia per studiare pittura. Gli eventi e la mancanza di alternative la porteranno a sposare Ben, cui è affezionata ma che non ama perché la mente e il cuore risultano indissolubilmente legati a Harry Sinner. Il caso vuole che anche lui si trovi a vivere nella capitale francese, proprio lì vicino, insieme alla sua bella e giovane moglie francese e al figlioletto.

Il richiamo del lupo è forte e i ricordi dell’infanzia distillati nei colori cupi dei quadri di Ada spingeranno il ricco rampollo verso quella bambina sporca e povera dall’aspetto selvatico e indifeso che una notte di tanti anni prima aveva fatto irruzione nella sua lussuosa villa alla ricerca di cibo e riparo.

Némirovsky non mostra alcuna compassione né si esime dal tratteggiare un ritratto poco indulgente del suo popolo. Con estrema lucidità e chiarezza forgia caratteri ben definiti per scolpire un mondo, una cultura sin dall’origine all’eterna ricerca di una propria identità e del porto sicuro di una patria. E il sapore più intenso del romanzo è dato dal fatto che spesso la proiezione della fantasia narrativa collima con l’autobiografia.


(Irène Némirovsky, I cani e i lupi, trad. di Marina di Leo, Adelphi, 2013, pp. 240, euro 10)