“Il peccato” di Zachar Prilepin

«Eravamo senza cuore. La felicità è leggera – più sei felice, più sei leggero. Il cuore, invece, pesa. Ne facevo a meno. E anche lei. Eravamo due esseri senza cuore».

Così esordisce il narratore protagonista del romanzo Il peccato di Zachar Prilepin, pubblicato da Voland sul finire del 2012.

Vorrei partire proprio dalla copertina che mostra la metà di una mela: questo frutto è un’immagine pregnante di significato sia nella nostra società occidentale sia nel romanzo stesso in cui ricorre in più occasioni e viene morsa, gustata ora dal narratore adolescente e poi ventenne, ora dalle donne che lo frequentano: «Le comprai una mela da una vecchietta che ne aveva un cesto», e subito ci fa pensare alla mela di Biancaneve che nasconde un’insidia – dopo qualche morso si scoprirà infatti che è bacata. Oppure quando questo frutto si lega ai primi turbamenti adolescenziali: Zacharka si reca al fiume con la cugina maliziosa: «Katja aveva con sé delle mele. Sdraiati sulla riva sgranocchiavano i pomi rossi […] lanciava i torsoli rosicchiati nell’acqua/mordendo la mela soda appena colta dal ramo […] ha la sensazione che il viso di Katja assomigli a quella polpa bianca, succosa e croccante».

La mela è l’archetipo della tentazione, il frutto del peccato per antonomasia e viene associato alla disobbedienza dei progenitori nonché alla loro voglia, umanamente comprensibile, di vivere pienamente un’esistenza per conoscerne tutte le sfumature.

Il peccato, romanzo fortemente autobiografico, ripercorre le tappe essenziali della vita di un uomo, la prima cotta adolescenziale, l’amore, il matrimonio, l’amicizia, i figli, l’esperienza militare durante la guerra in Cecenia. L’opera esalta la vita, nella gioia che ci dà, nei doni che ci fa, è un inno a vivere con il cuore, con gli organi, con tutto il corpo, così come fa il protagonista: «Lui amava la vita…magari la felicità mi corresse addosso con la stessa veemente prontezza».

La felicità è inafferrabile, un istante sospeso nel fluire del tempo, ma la scrittura ne esalta la rotondità, la perfezione. La particolarità del testo risiede nelle immagini, metafore e similitudini, che sembrano attingere da un background evocato in uno degli ultimi capitoli quando il giovane Zachar s’immerge nei ricordi d’infanzia: il cortile di casa, gli alberi e gli animali che popolano una realtà campagnola di piccolo villaggio e soprattutto i colori e gli odori della natura al limitare di un bosco che vengono rielaborati e reimpiegati nella scrittura sotto forma di sinestesie: «L’ultimo fiato che avevo in gola: suonò come se avessi urtato contro una catasta di legna, e alcuni ciocchi fossero rotolati, cozzando l’uno contro l’altro». Oppure ancora, quando paragona la guancia della propria innamorata alla levigatezza di un ciottolo: «Porge al mio bacio la guancia fresca, profumata, liscia come un ciottolo, la bocca sa di erba»; i sensi si rinvigoriscono nella freschezza di accostamenti originali tra i ricordi di un passato rassicurante. La vita e anche la morte percorrono le pagine: l’importante è vivere intensamente, pienamente la propria possibilità terrena. Godere di ogni istante, di ogni attimo di piacere effimero che l’esistenza è disposta a regalare.

Ma come una scossa, la morte di alcuni personaggi richiama improvvisamente alla realtà, ricordando la fugacità di ogni piacere, di ogni sublime bellezza. Così assistiamo alla morte di Valies, un anziano attore di teatro, «un vecchio corpulento con un cuore pesante»; o ancora, attraverso il ricordo di Zachar, ripercorriamo con tremenda lucidità la tragica fine di un suo compagno di giochi, Saša: «Lunedì mattina fu ritrovato dal custode della scuola. Mani e piedi del ragazzino premevano contro la porta del frigorifero. Sul viso le sue lacrime congelate. La bocca, un quadrato con la lingua morsicata e ghiacciata, era spalancata».

Il peccato di Zachar Prilepin è un capolavoro e sembra essere in linea di successione erede della grande tradizione letteraria russa – si pensi all’immagine della lappola che compare nel testo come termine di paragone: «Ho la testa pesante, sembra una lappola bagnata, in autunno quella stessa pianta orgogliosa e tenace che ritroviamo in un romanzo di Tolstoj: evidentemente sul cespuglio era passata la ruota di un carro, e solo dopo si era rialzato […] Come se gli avessero strappato una parte del corpo, rivoltato le interiora, staccato un braccio, cavato gli occhi. Ma lui stava dritto, e non si arrendeva all’uomo».
Come in una continuità con la tradizione, Zachar descrive ancora una pianta, l’acero americano, con queste parole: «Di spezzare un ramo all’acero che cresceva in cortile non avevo voglia, e poi col cavolo lo spezzi, sottile ed elastico, puoi torcerlo per una settimana e non ottieni nulla».

Il temperamento russo emerge in tutta la sua forza, determinazione, abnegazione e resistenza quasi a voler affermare con convinzione l’orgoglio di appartenenza a un popolo, una storia, una nazione.


(Zachar Prilepin, Il peccato, trad. di Nicoletta Marcialis, Voland, 2012, pp. 240, euro 15)

“Clôture de l’amour” di Pascal Rambert

Chi amiamo quando amiamo? Cosa amiamo?
Uno spazio asettico, spoglio, gelido. Luci al neon e pareti bianche. Due gli attori sulla scena. Clôture de l’amour è un epilogo dalle note aspre e ruvide che mette completamente a nudo l’attore, lo spettatore, l’amore stesso.

Anna e Luca fanno il loro ingresso in una scena che già rappresenta quello che sono, quello che hanno da dirsi, quello che poi saranno. Non esiste dialogo, non esiste scambio di battute, ma solo un’esausta esternazione: le prime parole pronunciate da Luca danno inizio a un flusso ininterrotto in cui tutto si palesa senza alcun freno, in un monologo estenuante che può avere come unico epilogo il completo svuotamento di se stessi, il rovesciamento, il bouleversement (forse termine più adatto non esiste) della propria interiorità.

Chi amiamo quando amiamo? Cosa amiamo? Si può amare qualcuno, sì, ma probabilmente si ama soprattutto l’idea stessa di questo amore. Ed è qui che tutto viene messo in discussione dagli analitici ragionamenti di Luca, che sviscera ogni sfaccettatura del suo amore giunto al capolinea, e con una spietata freddezza ne spiega le ragioni all’inerme Anna. Lei trema, singhiozza silenziosamente e sembra cedere nella sua fermezza, ma ascolta immobile le parole di un uomo che ancora osa chiamarla «amore mio». Un amore de-costruito, un amore che è un mausoleo, così lo definisce Luca. Un mausoleo costruito da Anna, una finzione che si svela in ogni suo aspetto, fino a impedire agli amanti di riuscire a guardarsi ancora «nel bianco degli occhi», il che è probabilmente una delle più autentiche forme di finzione.

Il monologo di Luca viene interrotto da un momento di inaspettata normalità impersonato da un coro di bambini che intona “Bella” di Jovanotti. Due minuti che allentano la tensione, paradossalmente stranianti all’interno di quel vortice di parole nel quale siamo stati inghiottiti senza neanche accorgercene.

Ma il tempo di abituarsi non c’è, ed ecco che tocca ad Anna, così diversa, così irruente rispetto al suo compagno, Anna che smonta qualunque ragionamento o teoria, Anna che rade al suolo ogni concetto elaborato da Luca pochi minuti prima. Le sue parole sono viscerali, vengono dal suo ventre, sono state create dalla rabbia che solo l’impotenza davanti a un fatto come questo può creare. Ogni traccia di razionalità viene meno, per lasciare posto a una nervosa fisicità che diventa emblema di tutto quello che fino alla fine si è scelto di volersi tenere dentro.

Ad Anna non importa della sedia con i ricami rosa né dell’illustrazione settecentesca che Luca vuole a tutti i costi. Lei vuole ciò che a questi oggetti è legato, vuole il vivido ricordo di ogni dettaglio, vuole tenere con sé quelle piccole, apparentemente insignificanti cose che senza che ce ne accorgiamo finiscono da qualche parte, dimenticate.

Le parole finiscono. I gesti nervosi, le lacrime, finiscono anche loro. Siamo di fronte a due esseri svuotati, uguali, nudi.

Uno spettacolo che lascia senza parole. Il testo di Clôture de l’amour nasce in francese, una lingua che riesce a essere allo stesso tempo dolce e spigolosa, a tratti tagliente. Coloro che hanno avuto l’occasione di vedere la versione originale (per esempio al festival Vie, Scena Contemporanea dell’anno scorso) potranno constatare che la traduzione italiana non delude, e la spietata raffica di emozioni alle quali siamo sottoposti è esattamente la stessa.

Allo spegnersi delle luci di scena lo spettatore resta semplicemente muto, immobile, esausto.


Clôture de l’amour
Testo e regia di Pascal Rambert
Traduzione di Bruna Filippi
Con Anna della Rosa, Luca Lazzareschi

Spettacolo andato in scena dal 3 al 14 aprile 2013 presso il Teatro Vascello di Roma.

La collana La Cultura de ilSaggiatore

Come di consueto ormai da qualche tempo, nel secondo appuntamento di DietroLeQuarte dedicato alla casa editrice del mese, ci occupiamo di una delle collane che più la caratterizzano e la distinguono. Nel caso de ilSaggiatore è inevitabile non parlare della collana/colonna portante del progetto editoriale, La Cultura, fin dal 1958, anno in cui Alberto Mondadori fonda la casa editrice.

Se lo scopo de ilSaggiatore è, fin dall’inizio, mosso da una volontà di fornire «risposte a domande collettive, La Cultura aggiunge, a quei volumi, il “modo di usarli”». I libri pubblicati in La Cultura sono dunque strumenti per l’interpretazione e la comprensione della realtà – «storia-critica-testi» sono in origine gli ambiti esplorati –, al pari di una bussola, di un termometro, o di una bilancia. Un obiettivo, almeno nelle intenzioni, pienamente «illuministico».

Tenendo presente questa linea non è difficile individuare già nei primi titoli pubblicati il progetto editoriale che ne sta alla base: a cominciare dai testi di Jean-Paul Sartre, come Che cos’è la letteratura? (1960) e L’essere e il nulla (1965), continuando con Karl Jaspers e La bomba atomica e il destino dell’uomo (1960), con Claude Lévi-Strauss e Tristi tropici (1960) e con Carl Gustav Jung e La psicologia del transfert (1962). La successiva suddivisione della collana in numerosi settori permetterà di includere autori più svariati, da Paul Klee a Simone de Beauvoir, da Emilio Cecchi a Ernesto De Martino. Le uscite continuano così a «prevedere titolo di grande rilevanza per la cultura italiana, in ambito sia filosofico […] sia antropologico […] sia linguistico e di critica letteraria». «Strumenti di conoscenza» dunque per formare lettori “illuminati”.

Con la morte di Alberto Mondadori e i vari cambiamenti societari de ilSaggiatore (nel 1986 la casa editrice torna sotto Mondadori per poi rendersi nuovamente indipendente nel 1993), anche La Cultura subirà dei mutamenti: prima nel 1981 con un ritorno a una “veste unitaria”, senza suddivisioni, e un cambiamento della grafica; poi, a partire dal 1993, grazie anche a Luca Formenton, «editore protagonista», e ai suoi collaboratori – tra cui Aurelio Pino – con una ritrovata volontà di «rivolgersi a lettori culturalmente attenti, con libri capaci di offrire riflessioni e approfondimenti, sia in riferimento ai vari settori del sapere sia in rapporto al dibattito in corso». Agli autori “classici” come Lévy-Strauss e Jean-Paul Sartre – ormai solide ricchezze di un catalogo impressionante – si affiancano nomi nuovi, tra cui Christopher R. Browning, Noam Chomsky, Nassim Taleb e gli italiani Enrico Deaglio, Lucio Magri e Ferruccio Parazzoli.

Per concludere questo rapido approfondimento sulla collana La Cultura segnaliamo tre titoli recenti degni di nota, testimonianze tangibile della continuità progettuale della casa editrice:

Cosa Grigia, di Giacomo Di Girolamo: in questo libro che è, al tempo stesso, «inchiesta, reportage, romanzo e dramma tragicomico», l’autore indaga e viviseziona la nuova forma assunta dalla mafia, in seguito alla mutazione genetica che ha portato ogni cosa alla luce del sole, davanti ai nostri occhi, confidando nella nostra cecità quotidiana, rendendoci tutti colpevoli vittime.

Americana – Storia e cultura degli Stati Uniti dalla A alla Z, di Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari: dizionario atipico con più di trecento voci dedicate interamente agli Stati Uniti d’America che, volenti o nolenti, hanno influenzato e continuano a influenzare il nostro immaginario comune.

Perché le nazioni falliscono, di Daron Acemoglu e James A. Robinson: un libro cardine per comprendere i mutamenti dell’economia mondiale, attraverso una panoramica storica di rara purezza che indaga «le origini di prosperità, potenza e povertà» e permette di guardare con occhi nuovi gli stravolgimenti economici e sociali dell’era attuale.

“Harper’s Island” di Ari Schlossberg

Benvenuti ad Harper’s Island. Su questa ridente isola turistica vi attenderanno bei paesaggi, un ambiente accogliente, amici di infanzia e il fantasma di un assassino capace di commettere sette brutali omicidi prima di sparire per sempre. Forse.

Se volessimo limitarci allo strettissimo necessario, arrivando forse a banalizzare un po’, basterebbero pochissime righe per mettervi al corrente su cosa vi aspetta guardando Harper’s Island. John Wakefield, dopo aver eliminato sette innocenti, viene ucciso dallo sceriffo Charlie Mills. Tra le vittime anche sua moglie: questo il motivo che lo spinge a mandare la figlia Abby a vivere a Los Angeles con altri familiari. Sette anni dopo la ragazza si trova di fronte all’invito del caro amico di infanzia Henry, felice di annunciarle il suo matrimonio. Il luogo della cerimonia? Ovviamente l’isola da cui lei è fuggita per tutta la vita. È l’occasione giusta per affrontare le proprie paure, i propri demoni e il proprio passato. Ma il presente e il futuro riserveranno a tutti gli invitati ben altro; John Wakefield sembra essere ancora vivo, e il suo compito non è ancora terminato.

In un crescendo di tensione e di colpi di scena la trama (o quel poco che si può definire tale) giunge, tra una morte improvvisa e l’altra degli invitati alla festa, alla sua naturale conclusione. Cercate di non affezionarvi a nessuno, è un consiglio spassionato. Quanto detto fino a ora potrebbe non rappresentare un luminoso spot per la serie, anzi forse potrebbe far nascere qualche interrogativo tra i lettori. Viene quasi scontato chiedersi perché consigliare Harper’s Island a questo punto. La risposta, paradossalmente, sta nell’originalità di questo progetto. Ari Schlossberg ha presentato alla CBS un’idea fin troppo abusata in ambito cinematografico, ma nella quale gli show televisivi non si erano spinti spesso. Per farla breve, trasformare Scream in una serie (ovviamente con tutte le differenze del caso) non era cosa da tutti i giorni. Questo è uno dei motivi della tanta curiosità da parte del pubblico.

Durante la messa in onda qualche difetto è sicuramente saltato fuori: primo su tutti un ritmo non proprio esaltante negli episodi iniziali, in cui la storia deve ancora prendere completamente piede e ci si concentra maggiormente sulla caratterizzazione dei personaggi e sugli intrecci, a discapito di una narrazione non sempre appassionante. Concedendo un po’ di pazienza e sorvolando su qualche punto, l’interesse aumenta senza ombra di dubbio, regalandoci una sorta di lungometraggio horror/thriller lungo quasi dieci ore. A dimostrazione di un intento più da sperimentazione che da ricerca del capolavoro del brivido c’è per esempio la scelta dei titoli dei singoli episodi: 13 titoli onomatopeici per ricordare il modo in cui ci lascia la vittima della settimana (o una della lunga lista a seconda della puntata). Per farvi un esempio vi basta leggere uno dei titoli, “Crackle” (in italiano letteralmente “crepitio”), per potere avere una vaga idea di quanto potrebbe accadere.

Proprio in previsione di questa lunga serie di vittime quasi l’intero cast è rimasto all’oscuro della propria ultima puntata fino alla consegna del rispettivo ultimo copione.

Altro punto a favore dello show è poi l’idea, avuta fin dal primo momento, di poter chiudere con la prima stagione, in modo da non lasciare punti in sospeso e regalare un finale in grado di mettere un punto a tutte le vicende; indubbiamente più di quanto si possa dire di tanti altri sfortunati colleghi presentati proprio su LaSerie nelle scorse settimane.

Come già sottolineato in precedenza se le vostre aspettative non sono eccessive, se di horror avete già fatto indigestione tramite il cinema ma sentite ancora un buco nello stomaco, se cercate più un “passatempo” che un nuovo capolavoro cui affezionarvi, allora Harper’s Island potrebbe essere proprio quanto fa al caso vostro.
 

“Butcher’s Crossing” di John Edward Williams

L’abbiamo conosciuto da poco. Anche se è defunto da più di quel poco. E con lui per quasi cinquant’anni in Italia sono appassite anche le sue storie, fluttuando nel limbo delle trame invecchiate troppo presto, nei corridoi senza finestre del fuori catalogo.

Poi, dal cilindro editoriale, il suo nome è risbucato. Copertina vintage, carta da parati già annoiata, fantasia di fogliame svilito e ripetuto senza voglia. E appena prima della fine, uno squarcio di viso, la sezione intristita di una calotta impomatata e di un paio d’occhiali da vista. Pesanti. Come l’impatto di quel nulla.

Il libro in questione si chiama Stoner (Fazi, 2012), come il protagonista di una favola grigia, senza svolte né impennate, una strada piatta e antinarrativa che però, sospinta da una scrittura prepotente, diventa da subito una lettura eccezionale. Un fenomeno di passaparola, che induce in fretta a pubblicare il secondo titolo. Butcher’s Crossing (Fazi, 2013) è il villaggio sparuto del Kansas in cui sbarca William Andrews, in una torrida giornata del 1873. Ha appena vent’anni, la pelle soffice come la vita che conduce.

A Boston tutto è comodo e amichevole, ma quelle abitudini ben arredate, il futuro morbido, l’università e le porte già schiuse non lo calamitano affatto. Quei panni inamidati lo pungono più della lana grezza.

Vuole partire, vuole capire, spremere la sua giovinezza su zone inospitali. La sua America sta mutando rapida. Non è certo l’alveare di cemento che spenna il cielo dei “nostri” anni Ottanta, ma la ferrovia sta colonizzando spazi vergini e prima inarrivabili, il traffico di uomini e di suoni è già quello di una metropoli.

E il ragazzo vuole disurbanizzarsi prima che sia tardi. Sprofondare nell’origine, sentire il verso della terra. Reclama le radici, un’esperienza di fango e fatica che lo renda uomo. Che lo restituisca ai luoghi estremi in cui non è mai stato. E dove sente comunque di voler appartenere. Per questo salta da un treno all’altro, si incappotta di polvere e sudore fino a quel pugno di baracche. Perché da lì, solamente da quell’esatto punto nascerà il suo viaggio. Verso la caccia ai bisonti. Ma non può farlo da solo. Deve affidarsi a un capo branco. Un uomo esperto che lo conduca verso l’ignoto, il primordiale. Andrews accompagnerà Miller, che fa parlare il suo fucile più di quanto riesca col suo fiato. Offre quello che può, la sua freschezza e soprattutto le sue risorse economiche ed è presto reclutato nella squadra. Che conta altre due facce. Charley Hoge, che durante una maschia spedizione ha rinunciato alla sua mano e afferra il suo whisky con l’unica rimasta e poi Fred Schneider, scuoiatore cinico che mal sopporta quel ragazzo spuntato dai batuffoli e non perde occasione per umiliarlo un po’. Si capisce subito. Quella che si avvia è molto più di una battuta di caccia.

È un rito iniziatico, un passaggio ufficiale, l’investitura dell’età adulta per il giovane Andrews. Ma è anche il confronto di quattro uomini con i propri limiti, col teatro di una natura che sa tradire le certezze più spavalde. L’occasione per far emergere le ossessioni e le crepe di ciascuno.

Miller e la sua fame di sterminio, come se asciugare quella valle da ogni bestia fosse il suo unico riscatto e la condizione imprescindibile per poter tornare a casa. La sicumera di Schneider, la fragilità di Hoge e quella mandria di creature che diventa imprevedibile, che non è solo carne e carcassa, ma una massa che corre, si muove, reagisce.

E il pericolo non striscia solo lontano dal villaggio, in mezzo al vento e alla sete, ma sgorga dallo scontro continuo di quattro volontà e dei loro bisogni. Perché la vera Frontiera comincia a pulsare dentro gli occhi prima di essere avvistata. E Williams ci staglia davanti la forza simbolica di questa avventura, la dimensione di una sopravvivenza che si estende ben oltre quel massacro. Uno scontro di corpi e di istinti e la resa dei conti con “l’Avversario selvaggio”, il mondo ruvido e sconosciuto che ci ricorda scrittori più recenti come Krakauer e McCarthy. E l’intera matassa di fatti, personaggi e sensazioni è intessuta del potere sontuoso di una scrittura spessa, magistrale, lenticolare ma non barocca. Capace di primi piani schiaccianti e panoramiche sapienti. Capace di replicare il miracolo, di avvicinare chiunque a un luogo impensabile in cui ritrovarsi a uccidere le proprie paure, senza polvere da sparo.
 

(John Edward Williams, Butcher’s Crossing, trad. di Stefano Tummolini, Fazi, 2013, pp. 360, euro 17,50)

“Imperium” di Christian Kracht

La collana Bloom di Neri Pozza ci ha abituato a libri di qualità, che arrivano da lontano con il loro carico di paesaggi e personaggi ignoti, ma resi subito familiari grazie a penne incisive della letteratura mondiale contemporanea.

Imperium di Christian Kracht non delude le aspettative. Appoggiati al parapetto del Prinz Waldemar, piroscafo in viaggio verso i Mari del Sud, iniziamo un viaggio che spazia dal passato europeo e vagamente romantico del protagonista, inserito qua e là attraverso piccoli flashback ben incorniciati, alle coste della Nuova Pomerania, oggi Nuova Britannia, che (siamo alla fine dell’Ottocento) è protettorato tedesco in preda alla furia sfruttatrice dei «plantators». August Engelhardt, però, ha un altro progetto che non prevede profitti diversi da quelli spirituali; più di un progetto, una missione: vegetariano e nudista con lunghi capelli, sandali intrecciati e tunica di lino, vuole comprare un pezzo di terra, avviare una piantagione di noci di cocco e fondare una colonia di «coccovori, mangiatori di cocco».

«La Cocos nucifera, questa fu la conclusione cui Engelhardt giunse, era letteralmente la regina della creazione, il frutto dell’albero del mondo Yggdrasil […]. Chi la eleggeva a unico nutrimento sarebbe diventato simile a Dio, sarebbe diventato immortale». Davanti ai suoi occhi profetizzanti si spalanca il paesaggio esotico e incontaminato dell’isola di Kabakon. A un prezzo competitivo ha potuto comprarla, case e popolazione indigena inclusa, e ne è diventato padrone unico e assoluto. Ma se la modernità introduce un tipo di possesso basato sull’arricchimento del più forte, la striscia di mare separa Kabakon dal resto della colonia e può tenere al sicuro la Cocos, l’«immagine vegetale di Dio».

Kracht, giornalista e reporter di successo, con il suo terzo romanzo dimostra la volontà di contrapporre alle immagini forti e spietate a cui la storia del colonialismo ci ha purtroppo abituato, uno sguardo incantato, una proposta alternativa e sognante, che prova a farsi strada, a ritagliarsi uno spazio nell’assurdo. La narrazione è condotta da una voce esterna e onnisciente che rivela lentamente tutti i fili che costituiscono la trama, dando un’attenzione particolare ai personaggi collaterali. Di tutte storie che Engelhardt incrocia anche solo per pochi secondi, infatti, ci viene detto qualcosa in più del necessario in modo curioso e spiazzante; nessun passante è semplicemente un passante, la sua vita si interseca a quella del protagonista solo per un attimo, ma poi continua in un piccolo quadretto.

Imperium, contrariamente alla solennità del titolo e del piroscafo che incede sulla copertina, è un libro fatto di tasselli semplici, di attimi di tenera umanità. Il  momento in cui Engelhardt legge Grandi speranze di Dickens in traduzione tedesca a un piccolo indigeno che dapprima non capisce nulla, poi inizia a tradurre alcune parole in creolo e pidgin e finisce elaborando le sue prime frasi in tedesco, è forse l’immagine che più di tutte sintetizza la fiducia, la grande speranza nella possibilità di un incontro sincero, umano e senza padroni.

(Christian Kracht, Imperium, trad. di Alessandra Petrelli, Neri Pozza, 2013, pp. 189, euro 16)

“Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento” a Padova

Fino al 19 maggio, il Palazzo del Monte di Pietà a Padova ospita una mostra dedicata alla vita di Pietro Bembo (1470-1547) che è stata al centro delle rivoluzioni della cultura italiana ed europea. Pietro Bembo non è stato solo un grande letterato, ma anche amico di Raffaello, di Bellini, di Giorgione, l’amante di Lucrezia Borgia, il segretario del papa Leone X e un grandissimo collezionista di antichità. La mostra è curata da Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura ed è ideata e organizzata dal Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza. La scelta espositiva non è monografica, ma è una raccolta eclettica che vuole ricreare il paesaggio culturale di questo personaggio attraverso i dipinti degli artisti di cui fu amico e committente, i manoscritti, i gioielli, gli strumenti musicali, le sculture e medaglie che gli sono appartenuti.

La mostra è cronologica, segue la vita di Bembo ed entra prima nella casa del padre Bernardo Bembo, patrizio veneziano. Il visitatore deve solo prendere le audioguide messe a disposizione gratuitamente e lasciarsi portare dalla voce del curatore per notare i dettagli di un quadro o l’annotazione di una pagina e fare un tuffo nel fermento culturale della fine del Quattrocento.

Per capire immediatamente quali erano le opere che possedeva Pietro Bembo, il visitatore si trova davanti il dittico di Hans Memling riunito specialmente per la mostra (il pannello di “San Giovanni Battista” proviene da Monaco e quello di “Santa Veronica” da Washington) presentato in una teca che ne svela il retro: un teschio e un calice avvolto da un serpente. Questi erano i dipinti che Bembo amava insieme a quelli di Jacopo Bellini e di Leonardo da Vinci. La guida attenta di Guido Beltramini ci porta anche a considerare due preziosi manoscritti in latino di Terenzio, che nel 1491 Angelo Poliziano, amico di Lorenzo il Magnifico, paragona al giovane Bembo mentre riporta sul suo volume gli appunti dello studioso. In seguito a questo incontro, Pietro Bembo decide di partire per Messina per studiare il greco antico, e nella città siciliana scrive “De Aetna” nel 1496.
 


Proseguiamo e ci confrontiamo con due dipinti di collezione privata di Bellini con il quale era in tale familiarità da diventare l’intermediario diretto delle commissioni per la marchesa di Mantova Isabella d’Este. In seguito l’audioguida ci porta a notare nel ritratto del “Giovane con il libro verde” di Giorgione (San Francisco, Legion of Honor, Fine Arts Museums) il taglio del guanto del dito medio. La rivoluzione è tutta concentrata in questo dipinto e in questo piccolo libro verde simbolo dell’invenzione di Aldo Manuzio e di Pietro Bembo: il libro tascabile di autori classici. Diventa subito un pregiato oggetto alla moda e questo giovane taglia il suo guanto per poter girare meglio i fogli. Dall’inizio del secolo fino al 1513, Bembo è stato poeta alle corti di Ferrara, di Mantova e di Urbino, dove nasce un amore passionale con Lucrezia Borgia, della quale ricorda «la bella treccia simile a oro». Nel 1505, disserta sulle gioie e i dolori dell’amore alla corte di Caterina Cornaro negli “Asolani”, un successo editoriale che riprende la malinconia dei languidi giovani liberati dalle codifiche ritrattistiche ufficiali dipinti da Giorgione ed esposti con cura e una luce perfetta.
 


Nel marzo 1513, Pietro Bembo viene nominato segretario del papa Leone X. Questo periodo romano è testimoniato dalle opere di Raffaello lasciate a Pietro Bembo come una “Petite Sainte Famille” del Louvre o il “Ritratto di Navagero e Beazzano” con il quale passeggia tra le rovine di Tivoli. Questo rapporto con Raffaello prosegue con un imponente arazzo del Vaticano che ricorda Bembo, esposto però qui in diagonale in una esigua stanza. In questi anni, egli rifonda la grammatica della lingua italiana con le “Prose della volgar lingua”, indicando nel terzo libro in Michelangelo e in Raffaello i tenenti della nuova arte italiana fondata sullo studio dell’antico e definita nello stesso tempo dal linguaggio degli ordini architettonici moderni che domina il gusto occidentale con Serlio, Vignola e Palladio.

Nel 1527, Bembo torna a Padova, dove conserva un “San Sebastiano” di Mantegna, dei libri rari, delle monete antiche e una minuscola gemma di Dioskouridos, intagliatore dell’imperatore Augusto. La sua vasta proprietà diventa un’attrazione nota dagli scrittori contemporanei come museum, la cui dispersione di diverse opere scientifiche rende questa parte espositiva più sfuggente e inadatta a ricostruirne l’immensità. Il viaggio termina all’apice della sua carriera nella Roma di Paolo III Farnese nel 1539.
 


L’idea di raccontare la storia di uno studioso letterario come Pietro Bembo era una vera sfida a non cadere in un eclettismo ermetico: è ampiamente riuscita grazie a una cura e a una scenografia non invasiva, la presenza di capolavori da musei internazionali, dei testi chiari e un’audioguida che ci invita a fermarci anche davanti alle teche dei libri quattrocenteschi o delle lettere manoscritte per capirne il rilievo. La mostra è eterogenea ed esauriente e lascia al visitatore una visione estesa degli impulsi culturali del Rinascimento e di un’arte italiana unita.

 

Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento
Palazzo Monte di Pietà, Piazza Duomo 14, Padova
2 febbraio – 19 maggio 2013
Per maggiori informazioni consultare il sito www.mostrabembo.it

“Testa di cane” di Jean Dutourd

Edmond Du Chaillu ha una testa di cane. Per il resto, la sua vita è piuttosto normale, a tratti anche fortunata. Certo di angherie ne subisce, nemmeno troppe però. Certo le persone fanno fatica ad accettarlo, ma non più di tanto in fondo. Edmond Du Chaillu ha la testa di uno spaniel e il corpo di un uomo e, sebbene con qualche intoppo, questo non gli impedisce di studiare, lavorare, andare a letto con belle donne borghesi, discutere di affari e politica fumando sigari, assumere domestici e finanche comprarsi un cane.

La storia comincia con lo sgomento di Madame e Monsieur Du Chaillu che hanno appena dato alla luce un neonato con una testa di cucciolo dai peli bianchi e gialli. L’infanzia e l’adolescenza del protagonista sono regolari, per quanto possibile, e costellate dai tentativi dei genitori di estirpare dal loro erede ogni presunto sintomo della sua natura animalesca. Dopo l’imbarazzo e l’aggressività iniziali, Edmond riesce addirittura a integrarsi tra i suoi compagni di scuola e anche durante il servizio militare dà prova di sapersela cavare. Successivamente, l’uomo-spaniel riesce a conseguire ben due lauree. Trovare lavoro è più complicato poiché quasi tutti gli impieghi degni dei titoli di Du Chaillu prevedono un assiduo quanto problematico contatto con il pubblico. Riesce anche in quello, fino a raggiungere la ricchezza. S’innamora di una donna volgare e ingrata e poi si strugge per un cane (a cui dà un nome da uomo) che non ricambia il suo affetto. Incontra donne perverse, si circonda di cani quando crede che solo loro possano colmare la sua solitudine. Per poi scacciarli, quando trova il vero amore, Anne, che lo crede un principe azzurro. Ed è con Anne che tutti i nodi vengono al pettine e Edmond potrà avvicinarsi alla sua vera natura, qualunque essa sia.

Ecco, come spesso accade nella letteratura come nella vita, il peggior nemico di Edmond è Edmond stesso. Tutte le esperienze della sua esistenza sono segnate dall’atroce condizione della sua incompletezza come essere umano, della sua doppia natura: «Un groviglio di oscillazioni sempre più ampie tra il cane e l’uomo».

Testa di cane è un romanzo che gioca sui temi del doppio, della ragione contro l’istinto, della solitudine, della diversità, della metamorfosi. Argomenti che hanno avuto padri illustri come Ovidio, che Edmond legge con passione («la disinvoltura con la quale Ovidio si muoveva in un universo contro natura lo irretiva»).

Jean Dutourd racconta questa storia grottesca con leggerezza, la affida a un narratore che sa tutto e svela tutto. Se il suo essere didascalico fosse stato marcatamente didascalico, se il suo essere ironico fosse stato anche un po’ più cinico, sarebbe stato perfetto. Invece il racconto scorre via, piacevole ma inefficace. L’incantesimo dello straniamento non si compie del tutto e alla fine si resta con un vago senso d’indifferenza.

Il romanzo, del 1950, è comunque l’opera di un grande autore (tra l’altro incredibilmente prolifico). Costruito ad arte, segue una solida e semplice struttura che culmina in un finale che, se non completamente inaspettato, almeno è il degno apice di un climax. Le scelte linguistiche sono sempre calzanti, per lo più spassose, misurate. Una misura che rende Testa di cane un gioiellino ma, purtroppo, allo stesso tempo lo appiattisce e gli toglie quel guizzo in più che avrebbe potuto avere.


(Jean Dutourd, Testa di cane, trad. di Chiara Manfrinato, Isbn edizioni, 2013, pp. 140, euro 12)

[IlLive] John Grant @Auditorium Parco della Musica, 12 aprile 2013

Il microfono sembra non funzionare. Demodula la voce alzandola troppo. Problemi con il mixer. Devia la performance vocale. Il microfono ha un ottimo tempismo: sceglie una delle canzoni più belle di Grant: “Queen of Denmark”. Il brano inizia, con Grant al piano, e il microfono si alza di tono. Il cantautore se ne accorge. Va avanti. Comunque, da professionista. Anche perché tutti pendono dalle sue note immense. Il climax diventa siderale, e nonostante il problema tecnico, l’applauso e il boato dell’Auditorium Parco della Musica si chiude come un abbraccio sopra John Grant e il suo capolavoro. Un applauso che vuole dire: Tranquillo, non era nulla. Tranquillo, la forza delle tue parole, la bellezza della melodia, la meraviglie delle emozioni ci sono arrivate dritte in petto. Anche questa volta. Grant lo capisce, sorride al pubblico. Ringrazia: «Ciao belli». Poi si corregge: «Grazie belli». Esce. Ritorna – purtroppo – solo per un unico bis: “Marz”. Prima del finale, il live romano è stato dominato dai pezzi dell’ultimo lavoro del cantautore americano, ormai emigrato islandese: Pale Green Ghosts. I battiti, i sintetizzatori e i suoni elettronici pulsano e riempiono la Sala Petrassi.

Il supporto della band – tutta made in Island – è notevole, come altrettanto pregevole è il loro talento. Sono il tramite con cui le tinte e i colori di Pale Green Ghosts prendono vita, arrivando in maniera più diretta rispetto all’ascolto del disco. Ma ovviamente, il palco è tutti per lui. John Grant. Massiccio e possente, statuario nel prendere le redini della scena e immobile nel donare la voce. Una voce che dal vivo lascia sempre il segno: conforta e continua a sorreggere chi la conosce dall’exploit del capolavoro di tre anni fa – Queen of Denmark – e che da lì non ha più smesso di seguirla, e folgora chi l’ascolta per la prima volta. Si parte, e Grant non imbraccia la chitarra. Abbandona il microfono solo per sedersi sullo sgabello piazzato davanti alla tastiera. Accenna raramente qualche movimento dance. Bello sentire direttamente come siano nati i pezzi, a chi siano dedicati. Toccante il racconto sul senso di “Glacier” e di come il muoversi per i ghiacciai sia la splendida metafora di alcuni tormenti interiori. O di “Sensitive New Age Guy” dedicata a un amico scomparso, o di come “I Hate This Town” sia una delle sue predilette.

Per il resto, i pezzi forti del disco sono stati anche quelli che dal vivo hanno colpito di più: “GMF” (Grant nel presentare la band, indicando il chitarrista, ci comunica che è lui il vero «figlio di puttana»), “It Doesen’t Matter to Him, “Pale Green Ghosts” e “Blackbelt”. Si, un po’ di rammarico per il solo bis: qualche altro pezzo dalla Regina l’avremmo ascoltato volentieri. Ma vivere un live di Grant dà sempre la sensazione d’aver assistito a qualcosa di magico e unico. Come la sua musica. Da riascoltare sempre e poi un’altra volta. E non c’è spazio per altro.

“Attacco al potere” di Antoine Fuqua

Hollywood torna a parlare di minacce terroristiche trovando un nuovo nemico nella Corea del Nord che in Attacco al potere – Olympus has fallen, per la regia di Antoine Fuqua, arriva a occupare con un commando armato il cuore politico degli Stati Uniti, la Casa Bianca.

Mike Benning era il fidato responsabile della sicurezza del presidente Asher fino a un drammatico incidente costato la vita alla first lady. Allontanato dall’incarico, non per colpa ma perché il presidente potesse dimenticare il dolore, continua a rimpiangere il suo posto in prima linea mentre sbriga pratiche d’ufficio per il dipartimento del tesoro. L’occasione per tornare al fianco di Asher arriva nel modo più inatteso: durante la visita ufficiale del presidente sudcoreano, un manipolo di nordcoreani infiltrati prende inaspettatamente il possesso della residenza presidenziale con un attacco combinato via aerea e terra che coglie alla sprovvista le difese statunitensi.

Rimasto l’unico sopravvissuto dopo essersi infilato nella Casa Bianca durante i primi scontri, Benning si troverà a dover salvare il presidente, tenuto in ostaggio, con i membri ristretti del gabinetto, nel bunker blindato nei sotterranei presidenziali. In palio, oltre alla vita di Asher, c’è la sicurezza dell’intero Paese affidata ai codici del progetto Cerberus capaci di far detonare tutto l’arsenale nucleare statunitense nei silos di lancio.

Devono aver elaborato il lutto dell’11 settembre a Hollywood. Il cinema torna a parlare di attentati sul territorio nazionale, di minacce terroristiche ai centri nevralgici e simbolici del potere nordamericano, osando quello che non si era mai osato mettere in scena: la conquista della Casa Bianca. Attacco al potere anticipa di pochi mesi White House Down di Roland Emmerich (negli Stati Uniti a giugno, da noi a ottobre), praticamente con la stessa trama ma con cattivi diversi, ottenendo risultati sorprendenti al botteghino.

Diciamolo subito: siamo di fronte a un film che offre il repertorio classico di esplosioni, terroristi cattivi e imbattibili, eroe invincibile e capace di fermare da solo quello che un intero esercito iper-addestrato di polizia, servizi segreti, federali, esercito e corpi speciali non è stato in grado neanche di rallentare, umorismo macho, violenza profusa, abbondanti inquadrature su bandiere a stelle e strisce, vertici militari che vogliono bombardare tutto, presidenti pro-tempore (qui Morgan Freeman) che invece attendono e mediano. Niente di più, niente di nuovo.

Mike Banning (interpretato da Gerard Butler, anche produttore) prova a emulare nel ruolo di unico uomo contro il terrore il John McClane di Die Hard – Trappola di cristallo e il presidente Marshall interpretato da Harrison Ford in Air Force One, ma non ha né l’ironia del primo, né il carisma del secondo.

Pur presentando un nemico nuovo e di estrema urgenza come la Corea del Nord, Attacco al potere – Olympus has fallen non offre spunti di particolare interesse sul piano dell’attualità politica. La tensione crescente con il paese retto da Kim Jong Un è solo il pretesto per sfruttare come cavallo di Troia la delegazione sudcoreana in visita alla Casa Bianca per discutere della situazione. Per il resto, la sceneggiatura non si preoccupa di aggiungere elementi significativi alla fondamentale situazione di assedio e minaccia al potere, perdendosi piuttosto in una serie di inverosimiglianze e cliché narrativi che, uniti ad una caratterizzazione dei personaggi quasi caricaturale per la semplificazione orizzontale di ogni tipo di problematica psicologica, indeboliscono la trama verso un finale scontato che insegue il colpo di scena a tutti i costi non curandosi della logica evoluzione dell'intreccio.

Antoine Fuqua è ormai lontano anni luce da quel Training day del 2001 che lo aveva messo in luce nel cinema USA. Dopo la buona sequenza introduttiva della morte della first lady interpretata da Ashley Judd, Attacco al potere perde in intensità sin dalla scena dell’attacco alla Casa Bianca, in cui un solo bombardiere, accompagnato da un gruppo di incursori, riesce a neutralizzare uno dei luoghi più sorvegliati al mondo, per continuare con un susseguirsi di sparatorie e duelli corpo a corpo.

Niente di nuovo, niente di originale.

 

(Attacco al potere – Olympus has fallen, regia di Antoine Fuqua, 2013, azione, 120’)

 

“Il diciottesimo compleanno”: a tu per tu con Riccardo Romagnoli (seconda parte)

La prima parte dell’intervista a Riccardo Romagnoli si chiudeva con alcune considerazioni dell’autore sulla città di Roma, nella quale è ambientato il suo romanzo d’esordio Il diciottesimo compleanno. Ma le domande e le risposte continuano.


Il diciottesimo compleanno è il tuo primo romanzo: un esordio particolare, a mio giudizio, perché se da un lato si nota, attraverso i continui rimandi testuali, una conoscenza matura della cultura occidentale classica, dall’altro lato si ha l’impressione di una scrittura come un fiume in piena, che porta con sé pietre preziose ma anche detriti e fango, più da romanzo scritto in gioventù. Ci puoi dire qualcosa sulla stesura di questo romanzo?

Forse è utile partire dall’inizio, cioè da quando ho cominciato a scrivere. Avevo poco più di 13 anni e feci delle poesie, che, almeno io, chiamavo tali ma che oggi mi sembrano prose poetiche. Dopo qualche settimana (era estate e quindi c’era vacanza) scrissi le prime pagine di ciò che avrebbe dovuto essere un romanzo. Negli anni successivi tentai di raccontare storie ma non uscivano: erano vivide finché rimanevano dentro di me e poi, appena cercavo di farle venir fuori, appassivano. Un fatto importante avvenne nel 1982: una sera (vivevo ancora a Firenze) andai al cinema a vedere Ricche e famose, l’ultimo film di G. Cukor. È la storia di due scrittrici, l’una (famosa per i suoi romanzi rosa a grossa tiratura) è interpretata da Candice Bergen, l’altra (famosa per i suoi romanzi di introspezione e di ricerca) è interpretata da Jacqueline Bisset. È un film sullo scrivere e sull’essere amici. Sentii, allora, che sarei stato uno scrittore. Trascorsero degli anni, nel mezzo ci fu il servizio civile a Roma, un lavoro a Livorno. Infine arrivai a Milano e questa città (dove vivo adesso) ha permesso alla mia scrittura di manifestarsi. Il mio primo testo narrativo (escludendo le prove adolescenziali che possono tuttalpiù essere considerate degli abbozzi) è nato qui: un racconto. L’estate successiva ci fu un romanzo. A rileggere sia il racconto che il romanzo, oggi, provo una certa vergogna perché sono (ed erano) di una mediocrità fondamentale. Però ero venuto allo scoperto. Conobbi Giuseppe Pontiggia, a cui presentai un nuovo romanzo (quello che potrei veramente considerare il romanzo numero 1, nell’ordine temporale). Pontiggia fu il primo a dirmi: «Lei è uno scrittore». Devo molto ad Antonello Nociti e alla sua Casa Zoiosa (un centro culturale attivo a Milano nella seconda metà degli anni ’80) dove ebbi modo di frequentare alcune persone con cui fondammo il Quinario e con cui ci confrontammo sulla scrittura come in una palestra.
Credevo di essere arrivato. Ma non fu così. Scrissi romanzi e raccolte di racconti. Ascoltai suggerimenti. Feci e disfeci. Contattai case editrici, scrittori, editor, lettori. Niente di niente. A parte qualche generico commento positivo i miei testi venivano sistematicamente rifiutati.
Decisi di smettere. Avevo scritto un testo che mi aveva particolarmente impegnato. Si intitola PUS – Romanzo dermatologico. Le reazioni furono ancora più negative di quanto non lo fossero state in precedenza. Mi dissi: Basta!
Per quasi due anni mi dedicai ad altro. Ma, dentro, sentivo sempre la voglia di raccontare e di creare storie. Così, un giorno, tornai a dialogare con me stesso. Riccardo, mi dissi, se ami scrivere fallo senza pensare a pubblicazioni, eventuali riconoscimenti, riscontri di pubblico e critica. Vai avanti e scrivi per te e per quei quattro gatti che forse tra gli amici vorranno ascoltarti.
Quindi, da lì, prese l’avvio Il diciottesimo compleanno (che nella sua versione originale avevo intitolato Vaga gioventù animale), un romanzo pensato per me, costruito per aveve come lettore me stesso. Mi sentivo pieno di una libertà inebriante. Non c’erano paletti e reticoli. Non c’erano cose da dire e altre da tacere. Non c’era il gusto del pubblico. Non c’era l’accondiscendenza ai gusti letterari. C’ero io col mio foglio di carta.
Questo lungo prologo credo spieghi cosa sta dietro Il 18esimo. Ci sta una solitudine immensa, non in quanto uomo ma in quanto scrittore. Ci sta un grande fiume che, bloccato per anni, poi lo si lascia defluire (se non fosse troppo volgare direi che somiglia a quando si orina dopo aver bevuto molto e dopo aver molto trattenuto!!!!) Ho voluto che immaginazione (tantissima) e realtà si fondessero in un allucinatorio circo di passione e di sangue, di eccessi e di fascino, di sapere e di morte. Una sfida contro una letteratura rassicurante e zuccherina, ma una sfida non prodotta con l’intento di “scandalizzare” perché ero convinto che Il 18esimo sarebbe rimasto chiuso in un cassetto, forse destinato a qualche benevolo postero.
Il 18esimo, allora, è un romanzo d’esordio ma non giovanile benché della giovinezza e del suo slancio abbia l’ebbrezza fulminante, e ingenua talvolta, lo sfogo irruento e, forse, troppo scioccante, e per questo, forse, imperfetto (se l’imperfezione è un difetto comunque! Galileo diceva che la terra se fosse perfetta, come sostenevano gli aristotelici e cioè fosse incorruttibile nello stesso modo di una sfera di etere, sarebbe un “corpaccio” inutile, morta e senza alcun interesse).


Giorgio Vasta, in un articolo uscito su La Repubblica il 30 dicembre scorso, ha parlato di Il diciottesimo compleanno e di altri tre titoli – Tutto cospira a tacere di noi, di Daniela Ranieri; La dissoluzione familiare, di Enrico Macioci; L’impero familiare delle tenebre future, di Andrea Gentile –, come di romanzi che «riscoprono la forza creativa della letteratura», una specie di «quinto punto cardinale». Hai avuto modo di leggere i libri dei tuoi tre “compagni di viaggio”? Che opinione hai della narrativa italiana contemporanea?

Conosco i romanzi di Ranieri, Macioci e Gentile. Credo che Vasta ci abbia “selezionati” perché (innanzitutto) abbiamo dato una priorità alla lingua e alla sua forza espressiva. Fa piacere che, dei quattro romanzi, due siano stati pubblicati da case editrici importanti (come dimensioni), cioè Ponte alle Grazie e ilSaggiatore. Questo vuol dire che c’è interesse a far emergere scrittori che non avranno un pubblico vastissimo ma che però potranno, specialmente grazie all’aiuto promozionale degli uffici stampa, incunearsi e trovare una propria collocazione.
Non leggo molto dei contemporanei italiani, se si escludono i testi di Moresco che ritengo tra i più interessanti in assoluto nell’attuale nostro panorama letterario.
Non lo faccio per snobismo. Ma è che trovo poche consonanze con altri autori. Sono cresciuto (come scrittore) nell’isolamento. Come dicevo prima, ho pubblicato il mio primo romanzo nel 2012, avendo iniziato a scrivere da almeno venti anni (se non si considerano le prove adolescenziali.) Di norma uno scrittore pubblica un libro. Riflette sull’accoglienza avuta. Ascolta il parere di editor, lettori, editori, altri scrittori, critici. Il secondo romanzo nasce da una rielaborazione dei giudizi che si sono avuti, e così via per i libri successivi. Io invece sono andato avanti a scrivere senza un confronto di questo tipo.


La domanda finale, come d’obbligo, riguarda i tuoi progetti di scrittura futuri: stai già lavorando a un secondo romanzo? Ci puoi anticipare qualcosa?

È pronto il secondo romanzo, il terzo, il quarto, il quinto…
Antonio Moresco (di cui è appena uscito per Mondadori La Lucina) ha impiegato quindici anni per vedersi riconosciuto come scrittore e per pubblicare il suo primo romanzo. È stato Moresco il tramite che mi ha fatto arrivare all’esordio con Transeuropa. Amo la sua scrittura, piena e travolgente. Per lui sentivo anche una “simpatia” perché (prima di pubblicare) mi dicevo: Se c’ha impiegato lui quindici anni posso farlo anch’io! (benché mi crescesse un’ansia sempre maggiore man mano che gli anni passavano e ormai appunto io fossi arrivato a venti anni!)
Parlando con Moresco, dopo che ci siamo conosciuti e gli ho fatto leggere il mio 18esimo, mi ha detto che molti dei romanzi che ha pubblicato dopo Clandestinità (suo romanzo d’esordio) li aveva scritti in quel lungo interregno durante il quale aveva lavorato ai suoi romanzi e nessun editore gli aveva dato ascolto (è da leggersi Lettere a nessuno di Moresco).
Vale la stessa cosa per me. Ho un numero tale di romanzi già fatti che se riuscissi a pubblicarli, diciamo uno ogni due anni (come sono in genere i tempi medi) arriverei tranquillamente ai miei ottant’anni!!!!
Era solo per impostare il problema! Nel concreto… ho appena finito un nuovo romanzo (dal titolo provvisorio Torre del Lago) ma deve essere rivisto e quindi ha bisogno di restare per qualche mese a “macerare”.
Il “secondo” romanzo che sto cominciando a far girare presso gli editori si intitola Duplice piacere di risposta (e di fatto è l’ultimo romanzo “finito” in ordine di tempo).
Credo che sia un romanzo più soft del 18esimo. Racconta, su due diversi piani (temporali e linguistici) la storia di Livio e di Oscar Dreyser.
Livio è un ragazzo 19enne che, venendo a sapere della morte di uno zio di cui non sapeva neppure l’esistenza e che gli ha lasciato una casa a Monterosso (Cinque Terre), abbandona Buenos Aires (dove vive – non avendo più genitori – in un istituto religioso). Arriva a Monterosso e qui, attraverso libri, appunti, manoscritti, ricostruisce la vita (reale o immginaria) dello zio. Ai capitoli che narrano di Livio a Monterosso si intrecciano i capitoli in cui è ripercorsa la vita dello zio, Oskar Dreyser, nato nel 1920. Livio incontra amici e amiche. Si sposa con Giacinta e ha molti figli. È una persona solitaria che vive le sue esperienze più importanti in contatto col mare. Invecchierà a Monterosso, dopo aver saputo chi fossero i suoi genitori e come erano morti. La sua malinconia e tristezza cresceranno col passare degli anni. La storia di Oskar attraversa il 1900, passando dal fascismo alla seconda guerra mondiale fino al dopoguerra. Oskar appartiene a una ricca e importante famiglia di origini olandesi e argentine. Vive e cresce in Italia. Partecipa alla guerra. Si trasferirà a Firenze e poi, in un viaggio in Patagonia, incontrerà Maddalena che diventa sua moglie. Maddalena, dopo alcuni anni, muore di cancro. Oskar girovaga per il mondo, preso dal dolore, finchè non approda a Monterosso dove morirà. L’intreccio, di per sé, è ben poca cosa (credo). Mi piaceva narrare di due vite, con due stili diversi. La vita di Livio è in prima persona con una lingua fortemente frammentata, dove i puntini di sospensione (molto abbondanti e molti di più dei soliti e canonici 3 puntini) sono questa linea di demarcazione sopra o sotto la quale si pone la comunicazione che a volte scompare (e ci sono i puntini) e a volte torna su e allora ci sono le parole. Comunque la scelta sintatticogrammaticale permette sempre di cogliere il significato globale. La vita di Oskar è raccontata attraverso i titoli di cinquantuno testi letterari che Livio trova nella biblioteca dello zio e che servono, a Livio, per tracciare le tappe fondamentali dell’esistenza di Oskar. Qui siamo in terza persona. Lo stile è ampio e pieno (rispetto al “vuoto” o alla “leggerezza” della scrittura di Livio), ricco e sinuoso.
Sto anche cercando di far conoscere i miei racconti. Alcuni racconti di viaggio sono stati pubblicati su www.nottola.it.


(Il diciottesimo compleanno, Riccardo Romagnoli, Transeuropa, 2012, pp. 176, euro 12,90)

“Il diciottesimo compleanno”: a tu per tu con Riccardo Romagnoli (prima parte)

Il diciottesimo compleanno (Transeuropa, 2012) è il romanzo d’esordio di Riccardo Romagnoli. Attraverso una scrittura visionaria e terribile, l’autore racconta la vita, breve, di un adolescente «famelico», in una Roma sospesa nel tempo. Una straziante allegoria dell’esistenza, un tentativo di stracciare quel “velo” che tiene imprigionato l’individuo nel ciclo continuo della vita e della morte.


Il diciottesimo compleanno racconta la storia di Matteo, adolescente disperatamente assetato di vita che ripercorre la sua esistenza di «animale famelico» [come lo ha definito Giorgio Vasta, ndr], dalla nascita al suo diciottesimo compleanno. Una specie di catabasi moderna senza possibilità di risalita. La domanda consueta è più che mai necessaria in questo caso: da dove trae origine una storia così viva e pulsante, inquietante per larghi tratti?

Matteo vuole sperimentare ogni aspetto della vita, consapevole come lui è che la vita è nel suo consumo “famelico” e ingordo. Matteo sono io? È qualcun altro? Chi è?
Il romanzo nasce dal dolore e dalla sofferenza del vivere. La scrittura (la mia) è l’unico modo che ho per dipanare i nodi e gli intrecci che le esperienze hanno generato in me. Nello stesso tempo la scrittura si arroga il diritto di essere strumento di conoscenza, da affiancarsi alla riflessione filosofica, teologica, sociologica, politica, storica.
Il mio Matteo è della stirpe di Törless, di Von Aschenbach, di Marcel, di Ferdinand, di Castorp e di molti altri, di personaggi che, vivendo la loro vita “finta”, pretendono di svelare cos’è la vita “vera.”
Al di là e al di sotto di una glassa con cui si vuole ricoprire la vita e il nostro mondo, Il 18esimo nasce dalla rabbia e dalla mancanza di consolazione, dall’amore e dall’odio, dalla fiducia e dalla paura.


Il protagonista attende la maggiore età come un’apocalisse inesorabile e senza ritorno. In realtà l’apocalisse vera e propria, intesa come rivelazione, è costituita dalla narrazione stessa: attraverso immagini oniriche, allucinazioni ed epifanie descrivi una sorta di iniziazione di Matteo alla vita prima, e alla morte poi. Quale significato cela questa enorme allegoria della realtà?

Mi è capitato di sentir parlare del 18esimo descrivendolo come una discesa agli inferi o come un viaggio iniziatico. Il 18esimo, in realtà, non prevede un’acquisizione di maggiore consapevolezza da parte di Matteo. Matteo, per usare un’espressione che mi diverte e che mi piace, “nasce imparato”, sa fin dal momento in cui viene partorito, e la sua sapienza ha le stesse carattersitiche “magiche” che vengono descritte a proposito di Siddharta e del suo venire al mondo già adulto.
Tutto il romanzo ha una forte venatura antinaturalistica. Qualcuno mi ha chiesto: ma come fa un ragazzo di 15 anni a leggere una mole così smisurata di libri? Come fa ad avere un numero così alto di incontri sessuali? Come fa a masturbarsi così tante volte? Come fa ad avere una consapevolezza così profonda? Io rispondo con una frase che Matteo dice nel capitolo degli 8 anni: «Stabilivo così la misura del mio tempo, in cui avrei vissuto ogni secondo come fosse un mese altrui, accumulando esperienze».
Matteo sa da sempre che i suoi sogni e la libertà del suo diventare maggiorenne sono apparenze e inganni. Lo sa lui e lo sanno i suoi amici che vivono in una specie di eterno presente in cui la vita e la morte sono unite e inscindibili.
Il romanzo (e questo è uno dei suoi significati, o almeno quello che io ho avuto dentro di me scrivendo perché, poi, è noto che le opere siano sempre molto di più di quanto i loro autori consapevolmente ci pongono) vuole rivelare la sostanza dolorosa del vivere. Non a caso, Ivan (nel capitolo dei 15 anni) termina se stesso terminando la lettura del “Cantico del gallo silvestre” di Leopardi. Il male di vivere è nelle righe del 18esimo, un male incontrovertibile e ineliminabile. Nietzsche ne La nascita della tragedia racconta il mito di Mida e del Sileno. Quando Mida cattura il Sileno e gli chiede qual è la cosa migliore per l’uomo. Sileno risponde: «La cosa migliore è per te totalmente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente».
Tale è la natura paradossale del vivere che ho cercato di rendere nelle esperienze di Matteo, della sua famiglia e dei suoi amiciamanti. L’uomo nasce, senza che l’abbia voluto o chiesto. L’uomo vuole vivere, perché oltre la vita non sa cosa ci sia e cosa egli sia, in quanto lui è vivo e solo sa di ciò che è. Neppure la morte (benché voluta e programmata) può arrestare il terribile rovello in cui si dibatte l’uomo.
Così come (io ritengo) è traumatica all’ennesima potenza la vita pur nella sua negazione, così ho voluto rendere traumatica la vita di Matteo e ho voluto trasmettere tali traumi al lettore, prima ignaro e poi, dopo aver scorso le pagine del romanzo, forse inorridito ma (spero) più vicino al fondo oscuro dell’essere la cui comprensione, comunque, non fornisce lenimento o liberazione (quasi che una razionalizzazione del rimosso, seguendo Freud, possa annullare il potere e il dominio del rimosso.)
Il 18esimo, quindi, è un violento rifiuto di ogni consolatoria visione della vita e, nello stesso tempo, vuole negare ogni possibile fuoriuscita da tale vita. L’esito finale del romanzo, l’apocalittica festa con cui il libro si apre e si chiude, non risolve niente. Il tempo è quello circolare, per cui, appena la storia è terminata può ricominciare perfettamente uguale alla precedente. L’incubo non si conclude mai, inizia sempre.


Uno degli aspetti più caratteristici del romanzo è la commistione di generi e di modelli, con un trionfo finale su tutti della tragedia classicamente intesa – non credo siano casuali i riferimenti a Tieste, Edipo e Medea. Solo un’impressione o c’è del vero?

Il capitolo dei 15 anni è una grande, onnivora, tentacolare genealogia letteraria. Ci sono i libri che generano libri come se fossero (i libri) padri e madri che partoriscono. E non a caso questo capitolo precede il capitolo dei 16 anni dove le genealogie sembrano interessare gli incontri e le relazioni, con uomini e donne che vivono in parti vicine o lontane di mondo.
C’è una specularità, che è presente nell’intero romanzo, tra libri, persone e vita. Nei ricordi di Matteo la prima sua eiaculazione autoerotica è connessa all’Iliade.
La tragedia e l’epica segnano le vicende di Matteo e fanno da controcanto alla narrazione, dispiegandola entro le coordinate di gesta che non sono tanto e solo di Matteo Solmi, ma che aspirano a una universalità essenziale.
Matteo sono io, vorrei che dicesse il lettore del 18esimo. Luisa sono io. Leo sono io. Anna sono io. Luciano sono io.
E vorrei anche che dicesse: Matteo, Luisa, Anna, Leo, Luciano sei tu, è luilei, siamo noi, siete voi, sono loro.
Proiettare il singolare sull’universale credo che serva anche a stemperare la ferocia delle gesta narrate, proprio perché non riferibile alla responsabilità di un individuo ma collocabile in quel fondo oscuro e irrazionale che è il nucleo pauroso della vita.
L’impressione, quindi, di cui mi parli a proposito dell’epos e del tragos, è perfettamente plausibile, e voluta da me in quanto autore. Anzi, direi andando oltre, solo la cornice epico-tragica rende “sopportabile” il mio romanzo.


Roma è la città in cui si svolge la storia di Matteo, il suo graduale appropriarsi della vita. Un luogo a tratti infernale, che ricorda la Babele veterotestamentaria, capace di offrire al protagonista numerose vie di accesso verso l’altro, l’ignoto, la morte. Perché questa scelta e che legame hai con questa città?

Roma è stata la prima città che ho visitato (dopo Firenze mio luogo natale). Avevo circa otto anni e ricordo, di Roma, la gioia del viaggio, e l’insonnia della notte precedente, poi l’ascensore dell’hotel e lo zoo. Da quel primo viaggio, però, Roma è rimasta la Città, e non per niente ci sono tornato quando avevo 23 anni e sono partito per fare il servizio civile (allora, eravamo nel 1978, il servizio civile durava 20 mesi. Io scelsi di farlo presso l’Unione Italiana Lotta Distrofia Muscolare di Roma).
Roma, quindi, ha rappresentato, per me, la libertà e l’indipendenza, l’età adulta, l’uscita dal nido familiare, l’incontro col mondo del lavoro.
Spesso, quando ero libero, di giorno, mi dedicavo a scoprire musei e chiese, palazzi e quartieri. Di notte, vagavo in lunghe passeggiate solitarie che andavano dalla Stazione Termini fino a Piazza San Pietro, perso nei miei pensieri e nei miei sogni.
Amavo, e amo, i numerosi ponti che a Roma attraversano il Tevere. Mi piaceva fermarmi a metà, guardando a lungo la corrente del fiume che andava.
Ci fu un periodo, anche, in cui avevo deciso di costruirmi un cartellone doppio a sandwich e di andare per le vie della città a distribuire dei volantini che invitavano a una qualche laica conversione per creare una nuova comunità di vita e di conoscenza. Ero un po’ matto, lo riconosco, in questa spinta millenaristica che raccoglieva intorno a me altrettanti folli e disadattati.
Roma, la Città. Da allora, cioè dai miei otto anni, ho viaggiato molto, in Europa e nel mondo. Ho conosciuto tante metropoli, da Parigi e Londra a New York e San Francisco, da Shangai e Bombay a Sidney e Buenos Aires. Ho trovato città magnifiche, in alcune di queste ci vorrei vivere a lungo. Ma non ho mai, e dico mai, trovato una città che, ai miei occhi, fosse tanto ricca come Roma. Parlo di ricchezza artistica e di ricchezza storica e culturale e di ricchezza umana. A volte una sola chiesa romana è più magnifica e piena di tesori e di emozioni di un’intera Amsterdam!
La storia di Matteo non poteva che svolgersi a Roma, la Città. E, almeno nelle mie intenzioni, Il 18esimo vuole essere una celebrazione di Roma, un invito ad andarci, una baedeker da seguire per scoprirne o riscoprirne le immani magnificenze.
Non direi una Roma infernale, direi piuttosto una Roma dove monumenti e opere d’arte stimolano a uscire da noi stessi e a vivere a piene mani, per tentare di cogliere e di creare, nella propria esistenza, lo stesso sublime che la città contiene e che millenni di sovrapposizioni storiche hanno depositato qua e là.
Se, nel 18esimo, il tempo è il tempo astratto in quanto del singolo individuo e non contestualizzato storicamente, lo spazio, invece, è lo spazio concreto delimitato in nomi luoghi situazioni.
La atemporalità (che non significa assenza di sviluppo narrativo) è caratteristica del 18esimo. Se si domandasse in quali anni il romanzo è ambientato ci sarebbero notevoli difficoltà a fornire una risposta univoca. Non vengono citati fatti o situazioni caratterizzanti. Ciò in relazione al mio tentativo di inscrivere le vicende di Matteo nel quadro del raccontare epico-tragico.
Ma la relazione con lo spazio – con l’estensione della materia in forme, dimensioni, strutture, la topografia e la toponomostica di Roma – queste sono analizzate con la cura di un entomologo e di un anatomista. Mi piace (per i luoghi) l’accuratezza verista alla Zola. Vorrei, come dicevo poco sopra, che il mio romanzo potesse servire come guida turistica di Roma, della Roma che ha attraversato Matteo (i grandi antichi acquedotti, il Colosseo, piazza Vittorio, il quartiere Salario, il planetario e Santa Maria degli Angeli, San Pietro, le spiagge di Ostia, ecc.).
Terminando con una battuta, sarei felice che il mio romanzo facesse venire voglia di andare a Roma, sia a coloro che già la conoscono, sia a coloro che ancora non ci sono stati! A questo punto credo che avrei diritto a un vitalizio da parte dell’amministrazione comunale di Roma! Ahahahhahah…

 

L’intervista continua qui.