“Il primo gesto” di Marta Pastorino

La vita è fatta di scelte. Scelte da cui non si può tornare indietro, momenti in cui ci si trova davanti a un bivio, e dalla decisione che si prende dipenderà il corso di tutta la vita futura. Per Anna, protagonista de Il primo gesto (Mondadori, 2013), il bivio arriva quando mette al mondo un bambino, la stessa notte in cui muore Maria, l’anziana signora presso cui lavora come badante.

Di fronte a questo bivio, la decisione di Anna è di rifiutare suo figlio, di lasciarlo in ospedale e scappare via, senza nemmeno averlo mai visto, negando a questa nuova vita anche solo un abbraccio, il primo gesto appunto.

Dopo questa scena cruda nel suo essere essenziale inizia il viaggio di Anna, che ripercorre diversi aspetti. Prima di tutto si tratta di un viaggio nel passato, grazie a diversi flashback che ci riportano indietro nel tempo, partendo da un’infanzia in campagna, un fratello maggiore ingombrante, un padre autoritario e una madre frustrata e accondiscendente, fino ad arrivare a trovare le ragioni che hanno spinto Anna a scappare di casa, a passare da promettente studentessa di veterinaria a badante dell’anziana signora Maria.

Il secondo viaggio che Anna compie è fisico, in treno fino a Torino verso un futuro ignoto, una nuova destinazione e un nuovo inizio in un posto dove non conosce nessuno, spinta solo dalla volontà di trovare Giovanni, il nipote della signora Maria di cui Anna ha sentito parlare così tanto durante i tre anni passati vivendo con lei, senza mai riuscire a incontrarlo. Un viaggio in treno verso una nuova città, ma soprattutto una nuova vita, dalla quale non sa ancora cosa aspettarsi.

Infine, Anna intraprende un viaggio interiore, verso le ragioni che l’hanno spinta ad abbandonare il suo bambino, e ancora prima ad abbandonare la sua famiglia, in un gioco di responsabilità e colpe da ricercare nel profondo del suo animo. In questo percorso si rivela indispensabile la presenza di Ramona, una ragazza straniera che non esita ad aprirle le porte di casa sua, nonostante sia un’estranea, per il semplice motivo di aver riconosciuto in lei una forma di dolore cupo che sentono di avere in comune.

Trasferitasi in questa nuova casa, Anna entrerà in contatto con la madre di Ramona, infaticabile lavoratrice che non parla l’italiano pur essendo in Italia da anni ormai, e il figlio Iulian, un bambino di sei anni che riuscirà a instaurare uno stretto rapporto con Anna trovando un canale di comunicazione fatto di gesti e attenzioni ben più importanti e profondi delle semplici parole.

E poi c’è Giovanni, il nipote della signora Maria, che Anna riesce a trovare in una scuola di danza nel centro di Torino, che arriva a conoscere giorno dopo giorno mentre lui la guida verso un’accettazione del proprio corpo in linea con la natura e con l’universo che ci circonda, e con cui condivide momenti di sincerità sconcertante e di intimità legata alla sola cosa che li accomuna: l’affetto per la signora Maria.

In un intreccio di continui flashback, di racconti e di segreti di famiglia rimasti sepolti troppo a lungo, Marta Pastorino conduce il lettore lungo un percorso tortuoso e disarmante, di cui non si conosce il punto d’arrivo e spesso neanche quello di partenza. Si viene travolti da una serie di eventi, di ricordi e di personaggi che lasciano la mente frastornata a rimettere insieme i pezzi di una storia che si rivela poco per volta.

L’autrice tocca temi importanti, e per qualche verso scomodi, come l’abbandono di un figlio e la difficoltà di gestire una donna anziana non autosufficiente ma tremendamente testarda e orgogliosa, usando sempre parole crude e affilate, senza giri di parole, ma piuttosto con una visione d’insieme che rende ogni episodio un movimento di una coreografia che appare nella sua interezza solo dopo aver terminato la lettura del romanzo.

 

(Marta Pastorino, Il primo gesto, Mondadori, 2013, pp. 185, euro 17)

“Oh…” di Philippe Djian

In un romanzo che ha il merito di scaraventare il lettore subito nella vita – fatti, pensieri, emozioni – della sua protagonista, se c’è una cosa che in avvio lascia perplessi è il motivo che sembrerebbe il punto focale – e drammatico – di tutta la storia. Capita che nel romanzo di Philippe Djian, “Oh…” (Voland, 2013), una produttrice cinematografica (colta, capace; si presume: ancora attraente) al centro – proprio il caso di dire – della scena, venga violentata da uno sconosciuto. Michèle, donna dalla vita privata agitata da una serie impressionante di sconfitte e fallimenti, sembra assorbire il colpo senza isterie: né le passa minimamente per la testa di chiamare la polizia. Non che non ne sia turbata, ma il fatto è presentato in una sintassi (non solo letterale) di esistenza quotidiana che sembra non fare distinzioni fra un avvenimento – violenza compresa – e l’altro (che si tratti di vita professionale o privata).

Il paesaggio umano che la circonda è presto detto. Un padre violento che è stato un incubo per anni, una madre sciroccata e residuale (nonché un peso economico, visto che ora le tocca mantenerla), un ex marito frustrato dagli insuccessi artistici e poi tradito con l’uomo della migliore amica, un figlio incomprensibile intenzionato a sposare una ragazza molto in carne che aspetta un bambino da un altro tizio. Con tutto il carico di cinismo, di vita vissuta e caricata sulle spalle, non è semplice credere al cimento freddo con cui all’inizio la donna racconta dello stupro – quasi una parentesi in tutto il resto («una perfetta maschera da stronza», la definisce l’ex marito). Presto però si comprende come sia proprio questa la sfida del narratore: quella (simulata? apparente?) indifferenziazione del materiale narrativo. Djian in tutto il libro non inserisce uno spazio, un salto non di capitoli ma persino di paragrafi fra un’azione e l’altra (comprese le storie in flashback): un continuum che è come un blob (ma dal montaggio discreto e vischioso) in cui è invischiata l’intera vita (esteriore e psichica) della donna.

Tuttavia, intorno all’iniziale strappo di verosimiglianza, all’assenza di uno scarto di tono quando, ragionando sulla sua storia e sul presente, la voce narrante informa il lettore dello stupro (tralasciamo l’annosa e irrisolvibile questione di quanto uno scrittore uomo possa essere capace di “entrare” nella sensibilità di una donna simulandone la voce narrante), Djian costruisce un tessuto magistrale di fatti e rapporti umani che mettono a nudo il cuore della donna: il microcosmo di relazioni, di sentimenti quando non ostili, ambigui, è detto dalla specola di uno sguardo implacabile (una certa somiglianza con Michel Houellebecq appare evidente). Che non salva niente e nessuno, pur avendo un sapore di verità molto umana – o, se si vuole, di un’umanità molto vera. Di una cultura occidentale che sembra giunta al limite delle sue capacità emotive.

Sfida vinta, dunque, e non potrebbe essere altrimenti, per virtù di scrittura. Djian, parigino disincantato assai, lo dice con voce chiara: ciò che conta è la lingua, la scrittura (la traduzione è del bravo Daniele Petruccioli). E le storie non sono niente. Finalmente.

(Philippe Djian, “Oh…”, trad. di Daniele Petruccioli, Voland, 2013, pp. 175, euro 16)

“666 Park Avenue” di David Wilcox

Ci sono nomi in grado di far sobbalzare gli spettatori sulle loro sedie prima ancora di avere una qualsiasi immagine davanti gli occhi. Uomini, personaggi che rimangono talmente vividi nei ricordi degli appassionati da valere da soli fiducia incondizionata. Uno di questi nomi è sicuramente quello di Terry O’Quinn: il Peter Watts di Millennium ma soprattutto il John Locke di Lost, per citare i due forse più significativi per lui e per noi.

Quando ABC annuncia la sua presenza nel cast di 666 Park Avenue la curiosità si fa già alta. La presenza del male, pronto a tentare i peccatori ignari di ciò che li circonda, viene portata in televisione dal produttore David Wilcox, riprendendo le vicende dell’omonimo libro di Gabriella Pierce, primo di tre romanzi di grande successo (almeno in America) usciti dal 2011 a oggi. La figura che incarna il potere oscuro risiede nel Drake, monumentale hotel situato al 999 di Park Avenue a New York, e risponde al nome di Gavin Doran. A chi altri sarebbe potuto essere legato O’Quinn?

Proprio nella sua proprietà lo raggiungeranno Jane e Henry, i giovani fidanzati destinati a diventare i “veri” protagonisti della storia. Nella speranza di trovare la fortuna dopo il loro trasloco verranno trascinati in una serie di eventi decisamente più grandi di loro, tra opportunità imprevedibili e impreviste per Henry e un legame mistico e inquietante che lega Jane allo stesso Drake. Presenze spettrali, sogni (o meglio incubi) oltremodo realistici sono soltanto la superficie di quanto si nasconde dietro le attività della famiglia Doran.

Premesse per un possibile futuro radioso? Neanche per sogno. Gli americani non hanno apprezzato appieno il prodotto giunto sulla ABC, e dai quasi sette milioni di spettatori dell’episodio pilota in un paio di mesi si è giunti a poco meno di quattro prima di Natale. Numeri allarmanti per le alte sfere del network, che anche in questo caso (e ormai vi stiamo presentando una collezione di situazioni simili) hanno portato alla inevitabile cancellazione dello show dopo la messa in onda dell’ultimo episodio.

Ma questa volta ci si è spinti anche oltre: 666 Park Avenue non ha ricevuto solo l’avviso di imminente chiusura, ma dopo la registrazione delle ultime puntate è stato misteriosamente allontanato dal palinsesto e rinviato a non ben precisate date estive lasciando gli spettatori orfani dei quattro episodi conclusivi, creando una serie di turbolenze andate avanti per settimane. Tutti gli appassionati hanno rincorso una confusionaria rete di notizie inerenti la messa in onda degli episodi prima su una rete australiana, poi su una spagnola (ma non in lingua originale), passando anche per il web. Alla fine, tra episodi finiti per sbaglio su internet e canali più o meno sconosciuti, chi ha voluto a tutti i costi giungere a questa tribolata conclusione è riuscito nel suo intento.

Inutile dire quanto lo show abbia risentito del trattamento ricevuto: le ultime ore sono state sicuramente più “confusionarie” rispetto a quanto mostrato prima dell’annuncio della cancellazione; inoltre, se l’arco narrativo è stato comunque chiuso (più di quanto si possa dire per altre serie del passato morte senza un finale) alcuni punti interrogativi sulla trama rimangono, alla luce di qualche situazione gestita non in modo appropriato. Una serie di problemi fin troppo ingombrante anche per poter sperare in una traduzione italiana, almeno nell’imminente futuro.

Ma allora perché consigliarvi 666 Park Avenue? Per il semplice fatto che ogni serie  vale ben oltre il numero di spettatori capace di attirare davanti al televisore o a uno schermo di computer. Perché i network non si scordino mai il rispetto per quei milioni di fan rimasti colpiti da quanto visto e completamente ignorati, a cui è stato riservato un trattamento straripante di indifferenza. E perché interpretazioni come quella solita, intrigante e appassionante di Terry O’Quinn non ci debbano abbandonare così presto.

 

“Bianca come il latte, rossa come il sangue” di Giacomo Campiotti

Dal best-seller di Alessandro D’Avenia (Mondadori, 2010) arriva Bianca come il latte, rossa come il sangue per la regia di Giacomo Campiotti, con Filippo Scicchitano (già visto in Scialla!), Luca Argentero e la partecipazione di Flavio Insinna.

Leonardo ha sedici anni e poca voglia di studiare. Gli amici lo chiamano Leo per la sua forza prorompente che lo porta a vedere il mondo solo in due colori: bianco come il vuoto, il nulla, la tristezza, la scuola; rosso come la passione, il calcetto, la gioia, i capelli di Beatrice, la ragazza più grande di cui è innamorato senza la forza di dichiararsi. Chiede aiuto a Silvia, amica di sempre e da sempre in silenziosa attesa che l’amicizia diventi amore. Trova il modo e il coraggio di parlarci e conoscerla, poi però Beatrice sparisce, non va più a scuola, si ammala, è leucemia, dicono a Leo. Lui la cerca e la ritrova all’ospedale senza più nessuno dei suoi capelli rossi. Il suo sangue sta diventando sempre più bianco. Si dispera, scappa, distrugge, litiga con Silvia che gli dichiara il suo amore, litiga con i genitori che non lo vogliono far diventare donatore di midollo, tinge la cameretta del bianco del vuoto. Parla con il giovane professore che, con un rapporto di finta rivalità e cazzotti sul ring, gli insegna a crescere, inizia ad andare a trovare Beatrice, la fa sorridere, stare bene, riprende a studiare con Silvia, capisce di averla sempre amata, con la benedizione della malata, e, nonostante tutto, alla fine sono tutti felici.

Romanzo di formazione attraverso il dolore (altrui e proprio) che spinge alla scoperta della responsabilità e alla maturazione, Bianca come il latte, rossa come il sangue non aggiunge molto all’argomento amore nel filone del cinema adolescenziale in Italia. Perpetrando una tradizione consolidata (Come te nessuno mai, Notte prima degli esami) il film reitera il tema della scoperta di un sentimento tra due amici di sempre dopo che il lui di turno si è innamorato di un’altra e ha chiesto all’amica aiuto per la conquista.

Campiotti e D’Avenia (anche sceneggiatore con Fabio Bonifacci, già dietro film apprezzabili come Notturno bus, 2007, Si può fare, 2008, Amici Bugie e Calcetto, 2008) complicano il sentimentale lieto fine con la malattia che rimuove l’ostacolo dell’illusione di un altro amore (o semplice passione).

Già vicino al cinema dei giovanissimi sin dal suo esordio con Corsa di primavera (1989) e soprattutto con il più recente Mai + come prima (2005), che già aveva introdotto la tematica della morte come momento di crescita per gli adolescenti, Campiotti prende, per il suo ritorno al cinema dopo otto anni di film per la televisione, un libro di enorme successo, arruola Filippo Scicchitano e lo colloca in un ambiente simile a quello del fortunato Scialla!, ma non riesce a trovare quell’equilibrio necessario per arrivare a un prodotto che vada al di là della semplice presa sul pubblico più giovane. Tutto in Bianca come il latte, rossa come il sangue è già visto, retorico, molto, troppo, giovanilistico. Le sentenze di educazione morale che sfornano il prof di Luca Argentero e la pallida Beatrice interpretata da Gaia Weiss sono di una banalità da sussidiario. La ricerca di una ragione trascendente per giustificare il dolore è abbozzata per elevare il registro con una nota di metafisica rassegnazione. Come la Beatrice dantesca a cui nel film si finisce per fare ovvio e trito riferimento, l’oggetto dell’amore di Leo è per lui cammino di elevazione non verso Dio, comunque nominato e sbeffeggiato a mezzo cellulare e T9, ma verso la maturità dell’essere umano, verso l’abbandono definitivo del purgatorio dell’adolescenza per l’età adulta. Che essa poi sia inferno o paradiso non è dato saperlo.

I momenti migliori, più divertenti, sono quelli con Flavio Insinna e Cecilia Dazzi, genitori di Leo, angosciati e indecisi tra comprensione e severità. Per il resto, Bianca come il latte, rossa come il sangue è un susseguirsi di cliché adolescenziali, di corse in leggero stile Muccino Bros., di voci narranti cariche di pathos, di atroci canzoni dei Modà e sentimenti sempre positivi e vincenti.

Probabilmente avrà un grande successo.

(Bianca come il latte, rossa come il sangue, di Giacomo Campiotti, 2012, Commedia, 110’)

“I tre Cristi” di Milton Rokeach

L’espressione ricorrente: «Sono un povero Cristo», contiene la semplice verità di una persona ridotta male, sofferente, che ha fallito, non avendo raggiunto i risultati desiderati. In realtà contiene anche una forma di straniamento: in certo modo indica perdita di identità. È proprio in questa seconda accezione che bisogna intendere il titolo del libro di Milton Rokeach: I tre Cristi (Fandango Libri, 2012). Il racconto, lungo e dettagliato, rappresenta la «Storia dell’esperimento più folle del mondo», come è indicato nel sottotitolo.

Fin dall’inizio l’autore ci tiene a sottolineare che non è uno psichiatra, né uno psicoterapeuta: «La mia formazione riguarda la psicologia sociale e la teoria della personalità e tutto questo mi ha portato all’appuntamento con i tre Cristi». Non vi è dunque nessun approccio psicoanalitico, tuttavia non mancano punti di contatto con i maestri della psicoanalisi: da Freud a Lacan, a Bateson. Così come pure molti sono i riferimenti letterari: da Voltaire a Russel, tanto che il saggio può essere definito a buon diritto «un atto letterario».

Ma non sono questi i soli pregi del saggio. Esso appare, in modo forse inconsapevole, anche un libro di denuncia, se consideriamo che l’esperimento fu condotto, nello spazio temporale di venticinque mesi e mezzo, tra il 1959 e il 1961. Proprio in quel periodo, infatti, negli Stati Uniti era cominciata una doppia tendenza nei confronti di persone con problemi mentali cronici: l’abolizione dei luoghi di cura statali (“la deistituzionalizzazione”) e l’inizio di quella che diventerà poi una massiccia diffusione degli psicofarmaci (“l’impero della chimica”).

Questi due temi, insieme con le esperienze dei tre personaggi, accomunano, mutatis mutandis, Rokeach a uno scrittore più vicino a noi per sensibilità: Mario Tobino, egli sì psichiatra e scrittore, il quale con indomita passione e con vibrante partecipazione umana, in due libri indimenticabili (Le libere donne di Magliano e Gli ultimi giorni di Magliano) affronta la stessa tragica situazione, dopo che l’onda lunga statunitense giunse fino a noi e trovò nella tanto discussa legge 180 (13 maggio 1978) il suo compimento.

Sappiamo oggi a distanza di anni che tale atto di deresponsabilizzazione da parte delle pubbliche istituzioni non è stata una scelta felice, perché il rifiuto di prendersi cura dei malati continua a lasciare gli schizofrenici nelle case di accoglienza e nelle prigioni dei diversi paesi. È stato questo un tema dibattuto nel passato e alla luce dell’esperienza acquisita è pur vero che gli esiti spesso sono disastrosi. Sta di fatto che solo una realtà precedente all’abolizione dei manicomi poteva permettere di condurre l’esperimento singolare realizzato da Rokeach.

La storia è semplice e lineare: l’autore riesce a mettere insieme tre schizofrenici di tipo paranoico che, ciascuno a modo suo, in un delirio di onnipotenza, credono di essere Gesù Cristo. Tale patologia è frequente e trova una sua giustificazione esperienziale nella constatazione di Bertrand Russel, contenuta nell’opera Il potere e messa da Rokeach in esergo al suo libro: «Ogni uomo vorrebbe essere Dio, se potesse; e per alcuni è difficile ammetterne l’impossibilità».

A questi tre Cristi Rokeach dà dei nomi: Clyde Benson, Joseph Cassel, Leon Gabon. Essi vengono messi insieme in un’unica struttura ospedaliera nella città di Ypsilanti, Michigan, e diventano i tre protagonisti della storia. Lo scopo è di permettere a ciascuno di comunicare il proprio vissuto patologico e, attraverso questo processo, tentare di guarire e di riconquistare la propria identità. Si tratta di un esperimento che obbedisce a precisi criteri scientifici e che tenta di applicare teorie già collaudate in psichiatria. Ma con quali risultati?

Con un finale a sorpresa, che riprende il motivo del sottotitolo del libro, l’autore è portato a considerarsi egli stesso un quarto Cristo, perché anch’egli, in un delirio di onnipotenza, con il suo esperimento ha avuto la presunzione di ottenere dei risultati umanamente impossibili, manipolando la vita e i sentimenti dei tre pazienti.

In un certo senso perciò è vero che il libro rappresenta un «tributo alla follia che fa riflettere sulla normalità».

Ma il libro contiene anche un forte messaggio di speranza, perché, conclude l’autore, «se la prognosi di schizofrenia paranoide è scarsa, ciò riguarda più la nostra ignoranza che lo stato del paziente, con la fiducia che la conoscenza avanza gradualmente e dunque le condizioni che ieri erano incurabili oggi o domani diventeranno curabili».


(Milton Rokeach, I tre Cristi, trad. di Manfredi Giffone, Fandango Libri, 2012, pp. 492, euro 19,50)

“Cubisti Cubismo” al Complesso del Vittoriano

Dall’8 marzo fino al 23 giugno il Complesso del Vittoriano ospita Cubisti Cubismo, mostra che vorrebbe essere una rassegna crono-concettuale dell’esperienza artistica cubista, che vorrebbe indagare questa corrente attraverso tutti i suoi principali esponenti, come Braque o Picasso, e in tutte le forme artistiche che può avere influenzato, dalla pittura alla musica, dalla moda fino all’architettura, ma che purtroppo fallisce miseramente nell’intento, ottenendo un risultato ben al di sotto di ogni soglia di accettabilità possibile.

La mostra si presenta confusionaria e povera allo stesso tempo: non sembra esserci un filo logico intuibile che permetta di capire e cogliere le opere esposte, che invogli lo spettatore a soffermarsi sull’opera e guardarla realmente. Le opere raccolte, tra le quali già è da segnalare l’assenza di veri grandi capolavori, sembrano appese più che esposte, ammassate sulle pareti senza cura. Come se per fare una buona mostra bastasse inserire una serie di quadri di una corrente artistica molto nota e universalmente apprezzata, magari opere minori di artisti rinomati (Picasso, Gris, Braque, Leger, Rivera, Severini, solo per citarne alcuni); ma in realtà l’assenza di un pensiero, di un criterio, inficia di molto la fruibilità dell’esposizione, tanto da portare lo spettatore a perdere l’attenzione. In questo modo l’utente si distrae dall’arte che lo circonda, guarda senza realmente vedere le singole opere susseguirsi in infiniti corridoi e stanze, arrivando, paradossalmente, a confondersi e a sovrapporle, e impiegando alla fine non più di mezz’ora a completare il percorso.

Accanto alle più note opere pittoriche, come già accennato, la mostra espone anche lavori di matrice cubista in altre discipline artistiche. Vi è una sala dedicata alla musica cubista e alla musica del periodo storico in cui il cubismo si è sviluppato. Inoltre ci sono fotografie di edifici ispirati all’arte cubista, per lo più di Praga, e vi è il cubismo nel cinema e nella moda, con fotografie di vestiti a stampe cubiste; in ultimo, sono esposti i costumi disegnati da Picasso per lo spettacolo cubista “Parade”.

 

 

Questa scelta sarà sicuramente dettata da una volontà precisa di spaziare ed estendere il concetto di cubismo dalla pittura a tutta un’altra serie di discipline artistiche che sono state toccate e influenzate dal cubismo, eppure, anche in questo caso, complice questa totale assenza di visione organica e organizzata dell’esposizione, il risultato somiglia molto di più a un escamotage adottato per riempire, colmare lo spazio immenso che è il Vittoriano.

Sicuramente degli elementi positivi ci sono: i disegni di Parigi di Georges Braque provenienti dalla collezione Maeght di Nizza, ad esempio, sono molto belli e suggestivi, inoltre le architetture di Parigi, grazie alla loro linearità, rendono chiaro e profondamente ammirabile il lavoro preparatorio dell’arte cubista, la sua logica e le sue evoluzioni. Altro quadro degno di nota è poi la “Donna Accovacciata” di Picasso, grande esempio di arte cubista, dove il viso e il corpo di lei sono talmente scomposti in tutte le loro prospettive da risultare alla fine come due corpi e due visi che si baciano. In ultimo anche i costumi, già citati, realizzati da Picasso per lo spettacolo “Parade” sono sicuramente pezzi molto particolari da vedere e ammirare.

Quanto detto ora non cambia la sostanza: non solo non è una bella mostra, ma non è neanche una mostra sufficientemente accettabile, e non saranno certo pochissime opere degne di nota a giustificare i 12€ del biglietto, soldi a mio avviso assolutamente risparmiabili. L’arte cubista può essere tranquillamente ammirata in altri luoghi, dove è meglio esposta e maggiormente rappresentata, come per esempio a Parigi.

 

Cubisti Cubismo
8 marzo – 23 giugno 2013
Complesso del Vittoriano, via di San Pietro in Carcere, Roma
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.comunicareorganizzando.it

“Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke

Mattioli 1885 riporta in libreria le Lettere a un giovane poeta che Rainer Maria Rilke indirizzò tra il 1902 e il 1908 a Franz Kappus. L'occasione, una delle più usuali anche a un secolo di distanza, un giovane aspirante scrittore insicuro che chiede un parere personale a uno scrittore già affermato, che poi, per motivi di simpatia, prolungherà la “consulenza”.

I motivi per leggere questo bel libretto (85 pp, 10,90 euro) sono diversi. Intanto con la speranza segreta che questo grande nome del passato dia qualche consiglio anche a noi piccoli scrittori del presente schiacciati dalla difficile pratica delle lettere-oggi. E poi per conoscere il punto di vista del poeta su donne, critica, poesia, vita, morte, viaggi, per seguire le tracce di questo romanzo del non-detto che si ambienta, un decennio prima della Grande Guerra, tra Parigi, Pisa, Brema, Roma, alcune città della Svezia e infine di nuovo a Parigi.

Ma soprattutto mi sembra importante poter avere questo libretto verde tra le mani per fare la conoscenza di un poeta, oggi a noi poco meno che sconosciuto. René Rilke, il ragazzo indeciso e malizioso che ci porta a spasso per l'Europa con tanta disinvoltura parlandoci dei suoi mali spirituali e fisici, disilludendoci sulla grande tagliola della fama («somma di tutti i malintesi») è l'autore delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo, il più grande poeta in lingua tedesca della contemporaneità, il mediatore delle esperienze simboliste di fine Ottocento entro i limiti strabordanti del nietzschianesimo ed il ricercatore di una novità spirituale religiosa umana e quindi espressiva, commovente tanto più perché condotta sull'orlo di una fine.

«Chiedetevi nell'ora più silenziosa della notte: devo scrivere? Scavate dentro di voi per una risposta profonda. E se la risposta sarà affermativa, allora fondate la vostra vita sulla base di questa necessità». Parole di questo tipo sono indirizzate al giovane Kappus, esortazioni che mettono in luce la natura necessaria dello scrivere come la concepiva il poeta, in uno sforzo di moralità che è prima di tutto l'impegno a non intasare le vie del mondo delle nostre velleità frustrate e dei nostri desideri narcisistici, un richiamo all'ordine che suona terribilmente passato ma può essere un invito valido alla ricerca di una pace privata, personale, doverosa.

Fare la conoscenza del ragazzo René Rilke può significare cadere nella rete dei suoi versi, è una possibilità data al caso, un sasso gettato nello stagno, un rischio che può metterci in contatto con versi bellissimi e severi, che non concedono nulla al viandante distratto.

 

Narciso

 

Svanì Narciso. Dalla sua bellezza
senza tregua esalava la sostanza,
densa come profumo d'eliotropio.
Ma suo destino era che si vedesse.
Ciò che emanava riassorbiva in sé il suo amore
e più nulla di lui era nel vento aperto
e chiuse il cerchio delle forme estatico
e si abolì e non poté più essere.

 

 

(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Mattioli 1885, 2012, pp. 85, euro 10,90)

La vampa

Stride la vampa…
Cammarano, Il Trovatore


Come quasi tutti, al battesimo il bambino pianse. Al momento in cui l’acqua benedetta gli cadde sul capo, uno strillo gli squarciò la bocca tonda e rossa: e di nuovo, e di nuovo, colmo di un dolore sproporzionato, indecente quasi, dentro la solennità vuota della chiesa.
La donna che lo aveva in braccio si mise subito a calmarlo, impaziente di restituire allo spazio sacro il silenzio non spezzato che dalla liturgia: quasi che, con quel suo pianto, il bambino attirasse troppo su di sé l’attenzione. Su di sé, e la sua qualità di bastardo.
Lo ninnava, da destra a sinistra, con forza, e di nuovo a sinistra, quasi per testimoniare l’impegno profuso, con poco successo.
E ninnandolo, si provò a cantargli qualcosa, a bassissima voce, da farsi sentire solo dal bambino, al contrario di quanto le toccava fare di solito. Perché, sì, che la voce arrivasse a sentirsi bene su, fino al loggione, saliva di persona a verificarlo l’impresario, a metà della prova: e di là si sporgeva, a gridarle:
«Se senti nagòtt, de quasëura!»
Era una cantante, la donna. Minuta, bruna, il viso gentile ma forte e spaziato dai lineamenti, colmi gli occhi scintillanti d’ombra. Il suo nome era un po’ virile, Giuseppa. Il cognome, anch’esso pesante di sonorità contadine – Strepponi –, le era stato volto in vezzeggiativo da un pubblico che voleva in scena per solito donne d’altra stazza, e vestite, magari, da maschio non per obbedire a qualche libretto di una inverosimiglianza abissale: perché i pantaloni aderissero sopra pienezze certo non maschili.
Al vestito dei maschi, peraltro, Giuseppa ci badava già quando il suo nome era ancora quello delle storpiature infantili – Peppa, Beppinèll – con cui si sfiziava suo padre, seduto tenendosela su un ginocchio mosso a cavalluccio, e spremendo a forza di solletico il riso squillante da lei; dalla madre, invece, quelle sdolcinature ottenevano una disapprovazione severa e senza parole, col broncio che le s’impuntava sul viso ad ognuna delle cento incombenze a cui c’era da far fronte nel tirare su tutti quei bambini.
Quella, per esempio, di insegnare a ognuno ad abbottonarsi, e badare a far rimanere sempre sottanine e gonne e grembiuli giù, giù, fino ai piedi, quando ci si alzava, le bambine. I fratelli, invece, Giuseppa aveva notato, avevano solo da tirarsi su, beati loro!, le braghe, e magari chiudersi bene sul davanti, ma niente sottane, grembiuli, gonne, sottogonne, mutande alla caviglia, a fare da impaccio quando si correva, o veniva da arrampicarsi, o da liberarsi vescica e ventre.
Altre discriminazioni, naturalmente, tra femmine e maschi, le vennero inculcate poi, via via che cresceva, dribblando a colpi di fortuna morbilli, rosolie e l’eterna tonsillite che le devastava di spine brucianti la gola e gli orecchi a ogni nuovo inverno; sua madre fu, che s’incaricò di fargliele entrare in testa ben bene: quasi con la livorosa attenzione con cui si occupava dei panni del bucato da distribuire, ben bene, sotto la liscivia, e la cenere, e versarvi sopra l’acqua, ammodo, nel gran calderone tenuto con il fuoco vivo sotto, per delle ore, a bollire.
E, a ognuna delle sue rimostranze, delle sue richieste, fra offesa e incredulità, del perché fosse legge, una cosa così manifestamente ingiustificata, e stupida, sempre le veniva risposto, da sua madre, e sempre a quel modo come incarognito d’impotenza: tutto risaliva a quell’unica motivazione, del dover fare figli, e che fossero tutti genuini, al marito con cui una è stata sposata; tutto quell’affollato decalogo di proibizioni, e di cose che una donna non fa, non può fare: orinare in strada, a una cantonata, imparare a leggere, dire la messa all’altare, in quel bel latino sonante, o anche solo, avanti a un notaio, mettere la firma su una compravendita, una fideiussione, un qualche atto con cui disponesse a suo piacimento di una eredità, di una parte dei parafernali o un qualunque altro bene dotale.
E poi, l’ultima cosa che a una ragazzina comunque era preclusa: la sola speranza che restava, a un figlio di povera gente, di fare denaro, a palate, mandando per giunta folle intere in visibilio, se avevi la fortuna di non rimanerci dissanguato e l’operazione riusciva o non ti ammazzava poi la setticemia: quella che si chiamava pudicamente “incisione”, e ti rimaneva la voce da ragazzino, e anche il nome con cui ti acclamavano era sempre un diminutivo, da angelo, per quanto venissi su lungo lungo, con un torace spropositato, sopra due gambe fine fine e tutt’ossa.
Ma fortunatamente, Giuseppa non ebbe bisogno di altro che di farsi pienamente donna, benché in quella gracilità di giunture che inteneriva, e sfoggiare la sua luminosa e calda purezza di timbro: suo padre se ne accorse un giorno, sentendola che cantava, china sull’acquaio, aggredendo un pesce a cui strappar via le interiora, e le venne dietro, le chiese:
«Cos’è, che cantavi?»
Lei disse che era uno stornello. Una cosa lacrimosa sopra una ragazza, a cui il fidanzato lontano non torna più, anche se è tornato a fiorire il biancospino…
«Ricantala, su, fammi sentire!», le impose, a quel modo suo affettuoso insieme e tirannico di quando giocavano insieme.
Avere accettato, con la meraviglia svagata di chi fa una parte di cui non ha mai nemmeno letto il copione, e ripreso da cima a fondo lo stornello senza più badare a infilare le mani nella spaccatura rosea del pesce, fissando gli occhi in viso al padre, e arrossendo sempre più, deliziosamente, a ogni ritornello che le ripassava in gola, segnò la sua vita, per sempre.
Fino alla necessità di disfarsi, ora, di quel piccino che le si assopiva in seno, pian piano, con i pugni stretti ancora in su, se voleva che non le rimanesse macchiata indelebilmente, fra il pubblico – che, si sa, è fatto tutto, in Italia, di veri cristiani cattolici –, la reputazione: con quali riflessi, poi, sulle scritture, gli ingaggi persi per intere stagioni, ci voleva poco, a capirlo.
La necessità, in altre parole, che a portarglielo via, ora, su due piedi, fosse l’impresario stesso – il cui nome quasi comicamente pomposo, era stato appena imposto, con l’invocazione in latino al santo patrono che se ne prendesse lui cura dall’alto, al bambino –, prima che l’affetto materno l’avesse vinta; come, con una pira, la vampa.

“L’angelo Esmeralda” di Don DeLillo

«È un tema, quello della violenza in agguato nella nostra quotidianità, che mi ha interessato fin dall’inizio» dice Don DeLillo. L’intervista è stata pubblicata qualche mese fa su Alias in occasione dell’uscita di L’angelo Esmeralda (Einaudi), la prima raccolta di racconti dello scrittore newyorchese. Con nove short stories, scritte tra il 1979 e il 2011, il testo suggerisce strade percorribili anche da chi non conosce DeLillo. L’unica istruzione per l’uso è quella suggerita da Antonio Debenedetti: «Ecco un libro, L’angelo Esmeralda, in cui si deve entrare pian piano, scoprendo un po’ alla volta come trattarlo e che cosa aspettarsi dalle sue pagine lucide, lavoratissime, non di rado sorprendenti».

Se DeLillo pone l’attenzione sul tema della violenza, Debenedetti invita alla delicatezza reverenziale che si riserva a un oggetto fragile, da maneggiare con cura. Questi due aspetti rispecchiano il principio che governa la struttura interna del libro: il conflitto tra due poli, rappresentati di volta in volta da personaggi o semplicemente da situazioni. Un classico, se non fosse che il contrasto non è mai superato e la storia si risolve in un prologo di sé stessa.

I personaggi di DeLillo hanno qualcosa in comune con la logica dei buchi neri: li si vede precipitare verso l’orizzonte degli eventi, ma all’osservatore esterno sembra che questo moto si congeli sulla superficie del non ritorno. E così mentre per i personaggi il tempo scorre regolare, per il lettore si cristallizza un’immagine che li ritrae sul punto di cadere all’infinito. Lo sguardo di Don DeLillo, infatti, non descrive, ma intercetta «momenti di umanità», come recita il titolo della storia in cui due astronauti orbitano intorno alla terra durante la terza guerra mondiale.

Nel primo racconto, una coppia è bloccata su un’isola dove i pochi aerei disponibili partono senza orari precisi. L’unica possibilità è dividersi, così l’uomo permette alla moglie di partire e resta sull’isola ad attendere il volo successivo. In realtà trascorrerà la notte con una turista del tutto estranea al lettore. I due sembrerebbero amanti di vecchia data, ma lo scrittore favorisce i sottiintesi della vita quotidiana, spargendo suggerimenti che non trovano conferma. Nell’ultimo racconto, un uomo separato in casa tampina una sconosciuta tra i cinema della città.

A fare da baricentro c’è  “L’angelo Esmeralda”. Chi ha letto Underworld riconoscerà alcuni personaggi, chi non l’ha mai letto troverà un motivo per farlo perché “L’angelo Esmeralda” (che sarà in parte rimaneggiato per il romanzo) è probabilmente il racconto più intenso. Qui si concentrano gli aspetti ricorrenti nel testo: la violenza, l’emarginazione, l’aleggiare di un pericolo imminente, le assenze anonime e al contempo dense che bilanciano i pesi della narrazione.

Nei nove racconti, lo scrittore declina questi elementi in forme diverse ottenendo una scrittura sospesa e illuminata. Infatti l’ottima traduzione di Federica Aceto restituisce le sfumature di un linguaggio che attinge anche al quotidiano e che funziona come un fascio di luce puntato su una platea inconsapevole. La narrazione di Don DeLillo si configura così come il risultato di un cambio di focale che sposta in primo piano le realtà fuori fuoco.


(L’angelo Esmeralda, Don DeLillo, trad. di Federica Aceto, Einaudi, 2013, pp. 216, euro 19)

[SongList] Musica e Storia (terza parte)

C.S.I. – “Linea Gotica”

Questo splendido brano è esplicitamente dedicata alla memoria di alcuni eventi e personaggi della resistenza al nazifascismo nell’Italia centro-settentrionale durante la fine della Seconda Guerra Mondiale. La Linea Gotica fu la linea difensiva istituita nel 1944 dal Feldmaresciallo tedesco Albert Kesselring, comandante in capo delle operazioni nel Mediterraneo, nel tentativo di ritardare l’avanzata degli Alleati verso il Nord Italia. La linea difensiva si estendeva dall’attuale provincia di Massa e Carrara fino a Pesaro e serviva a Kesselring per attuare la sua tattica di ritirata combattuta, attuata fin dai primi sbarchi Alleati in Sicilia, per infliggere al nemico il maggior numero di perdite possibili. La Linea Gotica attraversava l’Italia per oltre trecento chilometri di terreno prevalentemente montuoso, il che permise ai tedeschi di concentrare la resistenza sui pochi valichi appenninici: in questo modo le truppe angloamericane furono bloccate per svariati mesi, subendo numerose perdite, fin quando, nel settembre del 1944, il fronte nazista venne rotto sul versante adriatico, mentre continuò a resistere fino alla primavera dell’anno successivo nella parte dell’Italia centrale.

Il brano si apre ricordando la Repubblica partigiana di Alba, dove le truppe partigiane il 2 novembre del 1944 furono sconfitte dalle forze della Repubblica di Salò: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre – recita Ferretti citando il racconto di Beppe Fenoglio I ventitré giorni della città di Alba – e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944». La Linea Gotica diventa poi il centro della narrazione dei C.S.I., teatro della guerra partigiana per la liberazione dal nazifascismo, dove «la mia Piccola Patria sa scegliersi la parte»: si intrecciano così nel testo le vicende dei partigiani che nella zona romagnola ebbero un ruolo essenziale nella lotta al nazi-fascismo. Vi sono riferimenti a figure storiche come il partigiano Germano Nicolini, conosciuto col nome combattente di Comandante Diavolo, e Giuseppe Dossetti, il «Monaco ubbidiente», prete cattolico e antifascista che fu Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Reggio Emilia.


The Clash – “The Guns of Brixton”

Tra il 10 e il 12 aprile 1981 scoppiò il primo dei grandi scontri tra la polizia metropolitana londinese e gli abitanti, per la maggior parte immigrati afro-americani e caraibici, del sobborgo di Brixton. Gli anni Ottanta furono un periodo di grave crisi economico-sociale per il Regno Unito e le misure anti-recessive del governo della Thatcher inasprirono enormemente la situazione, con tagli alla spesa sociale che andarono a peggiorare le condizioni di vita della parte più povera della popolazione. Nel medesimo 1981 sempre il governo della Thatcher, al fine di combattere la piccola criminalità, lanciò la cosiddetta operazione “Swamp 81”, che consisteva in un inasprimento dei controlli di polizia, anche in borghese, su chiunque potesse avere in qualche modo l’aria sospetta. Inutile dire che questo divenne un facile espediente per stressare ancora di più la situazione e portare al cosiddetto «Bloody Saturday» dell’11 aprile del 1981, quando gli scontri si conclusero con oltre 300 feriti, 100 auto date alle fiamme e almeno 150 edifici danneggiati. Da sottolineare che il brano dei Clash è del 1979 ma, forse già presagendo l’evoluzione degli eventi, denunciava le condizioni socio-economiche delle minoranze etniche del quartiere di Brixton, il quale divenne tra l’altro teatro di altri grandi riots sia nel 1985 che nel 1995.
 


 


U2 – “Sunday Bloody Sunday”

Fin dalla fine degli anni Sessanta il clima politico-sociale in Irlanda del Nord era divenuto teso e violento a causa del conflitto che opponeva i cosiddetti unionists o loyalists, protestanti e discendenti dei britannici giunti nell’isola fino dal XVI secolo, che sostenevano l’adesione della provincia nordirlandese al Regno Unito, e i nationalists o republicans, cattolici e di discendenza irlandese che chiedevano invece l’annessione all’Irlanda. Dal 1970 l’IRA (Irish Republican Army) aveva iniziato una intensa guerriglia contro l’esercito britannico e contro la polizia nordirlandese, la Royal Ulster Constabulary, schierati a fianco degli unionisti, i quali avevano comunque sviluppato anche organizzazioni armate parallele per contrastare i cattolici irlandesi, come la UVF (Ulster Voluntary Force) e la UDA (Ulster Defence Association). Nell’affrontare l’esplosiva situazione socio-politica il governo unionista emanò una serie di normative restrittive dei diritti civili dei cittadini. Una in particolare provocò grande sdegno: era la norma secondo la quale un cittadino poteva venire imprigionato a tempo indeterminato sulla base di sospetti e semplicemente tramite l’approvazione del Ministero degli Interni, senza alcun tipo di processo. In reazione a questa norma, per la quale già centinaia di nazionalisti si trovavano nelle carceri britanniche, il 30 gennaio 1972 furono organizzate dalla NICRA (Northern Irland Civil Rights Association) molte manifestazioni in più città del paese. A Derry la folla riunita venne contrastata violentemente dal 1° Battaglione del Reggimento Paracadutisti comandato dal Colonnello Wilford, che aprì il fuoco sui manifestanti colpendone 26 e facendo 14 morti. Quella giornata passerà alla storia come la «Bloody Sunday».
 

Keller editore: a tu per tu con Silvia Turato

Questo mese e per la casa editrice Keller abbiamo intervistato l’addetta all’ufficio stampa Silvia Turato per assumere un punto di vista interno al progetto, ma diverso da quello dell’editore.
 

Ciao Silvia e grazie per la tua disponibilità. Da quanto tempo ti occupi dell’ufficio stampa di Keller?

Tutto cominciò nel maggio 2010, come nelle favole…
 

Raccontaci brevemente il progetto, con i tre aggettivi che secondo te più lo caratterizzano.

Progetto è proprio la parola giusta, perché dietro alla Keller c’è un’idea di editoria che tra mille fatiche e con grande impegno cerchiamo tutti insieme e singolarmente di portare avanti. Tre parole? Direi INDIPENDENTE, che racchiude lo spirito di libertà che guida le nostre scelte e la nostra concezione di cultura in generale; APPASSIONATO perché in un ambito come questo la passione è l’unico motore che può spingere a fare e a fare meglio; e poi non un aggettivo, ma una parola, LIBRO perché proprio al centro di tutto il nostro lavoro mettiamo quell’elemento che a volte, proprio nell’editoria, si rischia di perdere di vista.
 

Come riuscite a conciliare la qualità, che è il primo obiettivo di Keller, con il gusto del grande pubblico?

Avendo il massimo rispetto e della fiducia nel pubblico. Offrire libri che lo coccolano e che non lo mettono in questione, questo sarebbe trattare il lettore come un bambino o come se non fosse in grado di affrontare altro. Siamo invece convinti che la sfida che pone un buon libro, un grande libro sia nelle mani di ciascuno di noi. Nessuno escluso.
 

Questione nuove tecnologie ed eBook. Come vi ponete voi di Keller di fronti agli sviluppi dell’editoria digitale?

L’ebook è stato forse troppo a lungo una questione affrontata solo sul campo di battaglia e sulla divisione tra amanti della carta stampata e i “tecnologici”, dividendo quella che dovrebbe essere una figura unica: il lettore. Credo che sia semplicemente arrivato il momento di affrontare l’ebook per quel che è: un dato di fatto. Cerchiamo di tenerci al passo e presto sarete in grado di leggerci anche in formato elettronico.
 

Qual è il libro Keller che più hai amato e che consigli ai nostri lettori?

Quando si lavora così a contatto con i libri è difficile tirarne fuori uno dal mucchio, è un po' come se fossero figli tuoi, e sembra di fare un torto a tutti gli altri. Mi terrò sulle ultime uscite allora e vi consiglio La tela di Benjamin Stein. Un libro che affronta il tema sfuggente e delicato della verità, nonché quello della costruzione dell'identità. Come se non bastasse, lo fa in un modo accattivante, con il procedere e la tensione di un giallo, risucchiando il lettore e impedendogli di lasciare la lettura prima di aver finito… almeno una versione della storia! Il libro si può leggere infatti in un senso e nell'altro e ciascuna lettura corrisponde alla particolare verità di uno dei due protagonisti. A proposito di restituire al lettore un ruolo attivo…
 

Possiamo avere qualche anticipazione sulle prossime uscite del 2013?

Sono molto elettrizzata dalla primavera che si annuncia qui in Keller: saranno presto in libreria uno scoppiettante Ota Pavel (La morte dei caprioli belli) e poi “il mago della narrazione” svizzero Arno Camenisch (Dietro la stazione). Due scrittori dalla lingua lavorata ed elegante, ma molto diversi. Aspetto poi un maggio tutto al femminile con due penne di lingua francesi: la giovanissima Cécile Coulon (Il re non dorme) con i suoi sapori alla Steinbeck e la potentissima e incredibile Noelle Revaz (Cuore animale). Quest’ultimo un libro che aspetto dalla lettura che ne feci due anni fa, potete capire la mia trepidazione.
 

Ringraziamo ancora Silvia e vi diamo appuntamento al prossimo mercoledì per conoscere con voi una nuova casa editrice.

“La realtà dell’orco” di Silvana De Mari

La realtà dell’orco è un saggio di Silvana De Mari, scrittrice di romanzi fantasy (tra cui L’ultima profezia del mondo degli uomini, di cui vi avevamo parlato qui), pubblicato da Lindau, casa editrice torinese, lo scorso ottobre. Esso intende mostrare quanto sia reale la figura dell’orco, analizzando le fiabe tradizionali e i più conosciuti romanzi fantasy: infatti, fuor di metafora, l’orco corrisponde, nella lettura della De Mari, alle declinazioni concrete di un principio, quasi sostanza originaria che, nel solco del più genuino dualismo platonico, siamo soliti contrapporre al bene, e che genericamente definiamo il male.

Il libro non sopporta i vincoli del saggio tradizionale: «Se non sapete che cos’è la Vandea, magari avete fatto le scuole all’epoca del sei politico o con un professore che le aveva fatte lui all’epoca del sei politico; in ogni caso c’è Wikipedia, che è senz’altro pensiero unico ma è veloce ed è meglio di niente, e io mi risparmio le note che sono una cosa che odio»; si presenta infatti non tanto come un saggio vero e proprio, quanto come una riflessione dell’autrice su temi a lei cari, in un rapporto che non intimidisce il lettore, ma anzi, intende avvicinarlo con un linguaggio colloquiale, caratterizzato da ripetizioni a volte insistite, dall’uso oratorio della punteggiatura, dall’immediatezza propria di una chiacchierata tra amici. Il libro ha, in definitiva, una forte aspirazione divulgativa.

In apertura leggiamo una famosa epigrafe di George Orwell: «Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario»; si tratta di un’idea a cui la De Mari è molto legata. Il libro sostiene, fin dal primo capitolo, di essere depositario di una verità trascurata dai più, di voler, insomma, dare un’idea di come stanno veramente le cose in questa porzione di universo; «Tutto quello che sull’Illuminismo non avete mai letto»: questa la promessa che apre il primo capitolo, dove l’autrice traccia una storia alternativa rispetto a quella solitamente presentata dai libri scolastici: «l’Illuminismo contiene lo splendore, ma anche l’orrore. Impariamo a vedere entrambi»; «l’Illuminismo ha inaugurato la fase “razionale” e “scientifica” del razzismo»; «l’Illuminismo è stato anche la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo […], che è stata scritta da persone che erano laiche, certo, ma che contiene i valori del cristianesimo».

Dietro alle figure fiabesche della strega, dell’orco, dello stregone, si ritrovano travasate le paure non solo del bambino, ma anche degli adulti; l’autrice mette infatti in evidenza come molte fiabe, antecedenti del romanzo fantasy, insieme al poema epico, trattino argomenti assai delicati e scottanti per il mondo degli adulti: in Pelle d’asino si ritrovano l’abuso sessuale, la pedofilia e l’incesto; in Hansel e Gretel e in Pollicino il cannibalismo; in Biancaneve il dramma di un bambino ucciso dalla madre e la figura del «perdente radicale», individuata nella regina, che, avendo un io sofferente, deve ricostruire la sua coerenza interna, imponendosi sugli altri, ma, pur di vincere, arriva a distruggere gli altri e se stessa («Adolf Hitler è un perdente radicale. Il terrorista suicida è un perdente radicale»); in Cenerentola, fiaba nata in Cina, il dramma dei piedi storpiati; in I vestiti nuovi dell’imperatore il consenso vile a un regime totalitaristico.

Tuttavia le paure si evolvono e nei romanzi fantasy gli eroi travestiti da persone normali sono ancora degli orfani o, più modernamente, figli di genitori assenti; a questa mancanza corrisponde non più la paura della morte per inedia, del lavoro forzato, ma la paura ossessiva del fallimento e quella del rifiuto, mali genuinamente contemporanei. Come ci tiene a specificare la De Mari, per professione, medico che si occupa di psicoterapia, dal tipo di amore che i genitori nutrono nei nostri confronti, quando siamo piccoli, scaturirà il tipo di amore che proviamo verso noi stessi: condizionato, incondizionato, carente. Da questo il grado di fiducia verso di noi e il nostro futuro. Da questo la qualità dell’aria che respiriamo.

La lettura della De Mari non si ferma alle fiabe antiche e arriva agli archetipi di Frankenstein, di Dracula, di dottor Jekyll e mister Hyde, di Peter Pan («Peter Pan è l’angelo della morte. Lui e i bambini perduti sono morti. Sono morti in ospedale»), fino a toccare alcuni scrittori (Wilde, Kafka, Orwell) e approdando, finalmente, al Signore degli Anelli di Tolkien, in cui si parla di terrorismo islamico e si critica la tolleranza dell’intolleranza: «Grazie alla follia del rispetto delle civiltà altrui, civiltà gravemente disfunzionali già nei loro paesi d’origine, sono avvallati il disprezzo più totale per le donne, la loro schiavizzazione, l’omofobia più totale, l’antisemitismo più mortale. Il nostro compito è rispettare l’individuo. Le civiltà e le religioni che non rispettano l’individuo non meritano né rispetto né comprensione, altrimenti si diventa complici […]. La nostra non è una civiltà perfetta, e a una civiltà perfetta non somiglia nemmeno, ma è la civiltà che nel bene e nel male ha prodotto la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo, e se permettiamo a tutti di sputare addosso al nostro passato, quella dichiarazione la perderemo».

Nella saga di Harry Potter, la De Mari individua diversi riferimenti più o meno diretti alla religione ebraico-cristiana: sono presenti echi del Vangelo di san Giovanni, i temi del sacrificio di sé fatto per amore degli altri, del pentimento, del libero arbitrio, l’etica della fratellanza: «Anche se la saga è cominciata prima dell’11 settembre, a mano a mano che prosegue la visione politica diviene evidente. I difensori devono battersi su due fronti, la cultura di morte che li fronteggia e alle spalle lo sterminato esercito di vili». Ma in Harry Potter è cantata, soprattutto, «la magia dell’uomo», cioè la resilienza. Usata per la prima volta dallo psicologo francese Boris Cyrulnik, la parola identifica la capacità dell’essere umano di resistere e sopravvivere, nonostante i traumi più o meno grandi, continuando ad amare la sua vita e a conservare la fiducia verso di essa, perché nessun trauma è irrisolvibile. Come si attua questo magico processo di autoguarigione? Attraverso l’antidoto della bellezza: «Cerca l’affetto di un animaletto domestico: le persone sole che hanno un micio o un cagnolino vicino a sé se la sfangano molto meglio di quelle che riempiono il silenzio solo con il televisore».

In La realtà dell’orco ogni figura dell’immaginario fiabesco, ogni romanzo fantasy fornisce una chiave di lettura del contemporaneo, costituisce il pretesto per parlare di tutt’altro, in una visione radicalmente allegorica del genere narrativo. Il libro è un percorso che, attraverso il racconto del male intessuto dalle fiabe e dai romanzi fantasy, basati sulla trasfigurazione metaforica, vuole fornirci un’interpretazione degli eventi che hanno sconvolto la storia dell’Occidente e che su di essa hanno incidenza.

Di fronte alla cultura della morte, agli orchi, il romanzo fantasy è visto come il baluardo dell’etica e dei valori civili: «Che i nemici della vita, della libertà, che i nemici della felicità […] non si facciano illusioni. Gli orchi esistono e devono essere fermati […] E senza follie di odio, perché gli orchi devono essere fermati per essere salvati, perché sono fratelli».

In La realtà dell’orco si ritrova tutto l’amore (una passione genuina, immediata, a volte dirompente) di Silvana De Mari per il genere fantasy, che la porta alla domanda finale, non tradendo le attese del lettore: «Perché scrivo fantasy? Perché solamente nel fantasy potevo mettere quello che penso di Dio. Noi siamo lo specchio di Dio. O forse non siamo lo specchio di Dio, ne siamo i figli, ognuno di noi è un suo frammento. Ognuno di noi con potenzialità infinita, quello che si chiama magia».

(Silvana De Mari,La realtà dell’orco, Lindau, Torino 2012, pp. 201, euro 21)