“Arte in Giappone. 1868-1945” alla GNAM di Roma

La mostra Arte in Giappone. 1868-1945, curata da Masaaki Ozaki e Ryuichi Matsubara, è ospitata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dal 26 febbraio al 5 maggio 2013. L’evento, organizzato per celebrare il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto Giapponese di Cultura a Roma, nasce dalla collaborazione della Galleria romana con il Museo d’arte moderna di Kyoto, dal quale provengono quasi tutte le opere esposte, e consta di 111 dipinti e 59 oggetti d’arte applicata. L’offerta espositiva varierà però ai primi giorni del mese di aprile, quando gli esemplari artistici in mostra verranno quasi tutti sostituiti da altri per ragioni legate alla delicatezza dei materiali, in particolare dei tessuti dipinti. C’è da osservare che tale scelta organizzativa, sebbene dovuta in primis alle necessità conservative delle opere, permette anche l’alternarsi in due fasi di dipinti e manufatti, e quindi l’esposizione di un numero totale molto consistente di pezzi. Un’occasione di grande importanza quindi, se si considera che l’evento si propone di offrire uno spaccato della produzione artistica giapponese legata a un periodo storico molto rilevante, ma soprattutto molto ampio e artisticamente fecondo, che va dalla metà del XIX secolo al tragico epilogo del secondo conflitto mondiale.
 


 

Con la Convenzione di Kanagawa, siglata nel 1854 e pressoché imposta dagli Stati Uniti, il Giappone apre il commercio con la potenza occidentale, ponendo fine all’isolazionismo del periodo Edo; dodici anni dopo l’imperatore Meiji abolisce il regime feudale dell’epoca Togukawa, introduce un sistema politico che lo vede affiancato da un Parlamento e conduce lo Stato a una rapida industrializzazione. Nel frattempo, mentre il “giapponismo” si insinua in Europa, l’arte dell’isola imbocca contemporaneamente due vie opposte: quella dell’apertura a soggetti e tecniche propri dell’arte europea – si pensi all’introduzione della pittura a olio – e quella del recupero di modelli espressivi, tematiche e linguaggi legati all’antica tradizione giapponese, che a ogni modo non si manterrà impermeabile alle influenze occidentali. A quest’ultima corrente è dedicata l’evento in corso alla GNAM, che ha visto la luce nei giorni in cui a Roma si guardava a Est già con un’altra mostra dal titolo Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente, allestita presso Palazzo delle Esposizioni e conclusasi il 10 marzo.

 


 

L’esposizione della Galleria è suddivisa in tre sezioni corrispondenti ai periodi di reggenza dei tre imperatori, Meiji (1868-1912), Taisho (1912-1926) e Showa (1926-1989), e offre all’osservazione degli spettatori splendidi kimono, paraventi decorati a pittura, vasi, preziosissimi oggetti d’arredamento e numerosi kakemono (rotoli di seta o carta dipinti).

Le linee, i colori e i motivi ornamentali, probabilmente non risulteranno inconsueti anche a chi, sebbene privo di una solida conoscenza dell’arte nipponica, appartiene a una cultura che ha abbondantemente attinto da questo ricco e affascinante serbatoio figurativo. Tuttavia, un percorso espositivo popolato da una natura immensa e sovrastante in cui l’uomo scompare, da lunari sagome femminili e da prorompenti ritratti di divinità, ha il merito di costituire uno stimolo potente per un più approfondito accostamento a questa  realtà e alla sua sensibilità.
 


Arte in Giappone. 1868-1945
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Viale delle Belle Arti, 131, Roma
Prima esposizione: 26 febbraio – 1 aprile
Seconda esposizione: 4 aprile – 5 maggio
Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.gnam.beniculturali.it

“Romeo e Giulietta”, regia di Valerio Binasco

Romeo e Giulietta, nella regia di Valerio Binasco, è diventato un inno senza musica in una cattedrale vuota, che si regge su pilastri letterari che affondano nell’impossibilità di rinascere. Perché per rinascere bisogna prima morire e forse in Romeo e Giulietta esiste ancora qualcosa di vivo. Non il tentativo di rappresentare ciò che è così sepolto da non essere mai stato rappresentato dopo una mitica scena originaria. Non il tentativo di sminuzzare il testo e ricomporlo secondo le necessità teatrali o le esperienze vitali. Non il tentativo di creare parallelismi tra temi di ieri e di oggi, che troppo spesso finisce per essere un modo per imporre la morte del presente sulla vita del passato. Dunque forse è necessario bagnarsi le mani nel sangue dell’opera per dipingere sul palco una riflessione non più sull’opera stessa, ma sulla struttura della parola che si ripete senza riuscire mai a scambiarsi con quella che la segue. Se Romeo e Giulietta sono divenuti una Gioconda su cui ciascuno possa disegnare baffi, cappelli e quant’altro, allora forse è ora che questa Gioconda divenga così dirompente da sbalordire per ciò che non ci si attende possa essere, prima di sbalordire per ciò che altri vogliono farla essere.

Allora è necessario uno studio analitico del testo, se per analisi intendiamo una ricerca del dettaglio, del piccolo “atto mancato” della vicenda, in un testo che risplende troppo per non essersi consumato i timpani nell’udirsi di continuo («del testo mi piacciono soprattutto cose marginali», spiega il regista). La risata deve essere incongrua e spezzare ogni poesia, la rabbia eccessiva, urlata non nell’odio che ne determina l’inizio, ma nel frammento di voce che ruggisce ancora proprio mentre il grido si sta spezzando. Romeo (Francesco Montanari) sorprenderà, perché è un amatore dell’amore per la donna da amare, prima che sposo di Giulietta. E Giulietta (Deniz Ozdogan) è l’eccesso dei suoi movimenti da adolescente, dei suoi veloci inchini da ballerina in erba, prima che la ragazza traviata dall’amore impossibile.

«È quasi tutto troppo con Shakespeare e Romeo e Giulietta ha persino un troppo in più», dichiara il regista Valerio Binasco nel comunicato stampa per il Teatro Stabile di Napoli. Esplorare quel “troppo” significa anche osare incrinare il testo fin quasi alla rottura e allo sberleffo, così come affidare alla superba Milvia Marigliano un ruolo che, proprio grazie alla sua interpretazione, diventa monumentale, come quello della balia di Giulietta. La messa in scena deve avere ritmi inusitati, rallentare improvvisamente in una lotta in slow-motion improvvisa e straniante e persino le luci potranno essere strumenti concretamente nelle mani dei personaggi. Si tratta dunque di un teatro che parla del testo facendosi parlare dal testo. Perché forse è proprio questo il pregio ulteriore di un testo abusato: non il testo, ma l’abuso che ha subito. E se di abuso si è vissuti in questi secoli, allora di abuso si può parlare attraverso questo testo/corpo, parlando del “troppo” che quotidianamente ne ha inciso le membra. Forse non si è trattato nemmeno di apprezzare un Romeo e Giulietta di Valerio Binasco. Forse si è trattato di sottrarre a Romeo e Giulietta proprio Romeo e Giulietta e inscenare “il troppo” che ha sedimentato su di essi per secoli.

con Francesco Montanari, Deniz Ozdogan 
e con Milvia Marigliano
regia di Valerio Binasco
produzione Teatro Eliseo in collaborazione con Compagnia Gank e Gloriababbi Teatro

Prossime date:
26 marzo-28 marzo 2013 – Teatro Eliseo, Roma
23 aprile-05 maggio 2013 – Teatro Carignano, Torino

[LibriCome4] Giorgio Agamben racconta Baudelaire e Benjamin

Non tutti sanno che negli ultimi anni della sua breve vita Walter Benjamin si concentrò sulla figura di quello che può essere considerato l’iniziatore della poesia moderna, Charles Baudelaire, il flâneur per eccellenza, il poeta dell’esclusione sociale, colui che sperimenta e osserva attentamente, aggirandosi stancamente per le vie di Parigi senza la fretta frenetica delle persone che lo circondano, l’alienazione provocata dalla realtà artificiale delle metropoli.

A scoprire il manoscritto di Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato fu nel 1981 il curatore del volume in uscita per Neri Pozza, Giorgio Agamben. Ce ne dà contezza nell’ambito di uno degli incontri programmati da “Libri come”.

La storia o meglio la preistoria del rinvenimento dell’opera frammentaria è per certi versi avventurosa. Quando trentadue anni fa, Agamben si recò alla «Bibliotheque nationale» di Parigi, cercando fra la corrispondenza del filosofo e antropologo francese, grande amico di Benjamin, George Bataille, ha la fortuna di imbattersi in una serie di manoscritti vergati dall’inconfondibile calligrafia minuta benjaminiana, lasciati in deposito nella biblioteca dalla vedova di Bataille e non ancora catalogati.

I manoscritti parigini sono una scoperta straordinaria perché permettono di gettare luce sul metodo di lavoro del grande intellettuale tedesco. Infatti quello che all’inizio si presentava come un capitolo di al massimo 30/40 pagine o meglio un «modello in miniatura» dell’opera che stava allora scrivendo, i Priser Passagen, frutto delle sue lunghe passeggiate da osservatore sociale della capitale francese, diventa un mese dopo un libro autonomo di ben più ampie dimensioni. L’importanza di quest’opera nel laboratorio benjaminiano degli anni 1937-1940 è sottolineata anche dal fatto che quella che fino a ieri veniva considerato l’ultimo libro compiuto di Benjamin, le Tesi sul concetto di storia (1940), venga da lui stesso definito «un’armatura teorica per il secondo saggio su Baudelaire». Molti dei materiali raccolti per i Passagen finiranno così nel confluire nel saggio su Baudelaire, rendendo quella che doveva essere l’opera principale una sorta di schedario.

Quello su Baudelaire seppur frammentario è il vero ultimo libro di Benjamin e l’edizione curata da Agamben rappresenta un osservatorio privilegiato da cui seguire le varie fasi della genesi e dello sviluppo di quel vero e proprio work in progress che fu il saggio sul poeta francese. Ed è tanto più meritoria questa edizione in quanto consente di fugare quella leggendaria aura si esoterismo che da sempre circonda la figura di Benjamin entrando nei processi materiali della sua scrittura e gettando così luce sulla sua teoria.

Ma Charles Baudelaire è un’opera che procede per dove? E qual è la differenza fra un’opera compiuta e una non compiuta?

A questa domanda, solo apparentemente semplice, Agamben cerca di rispondere portando due esempi: quello di Petrolio di Pier Paolo Pasolini, romanzo tutt’altro che finito ma pubblicato come tale e il Roman de la Rose, poema iniziato da un autore e terminato da un altro. Più che di fine di un’opera, sottolinea Agamben, occorrerebbe parlare di “abbandono” da parte di quello scrittore della propria creazione.

A ben vedere ogni opera può dirsi un’opera «in cammino» verso la sua forma definitiva o per meglio dirla all’Aristotele «verso se stessa».

Avendo bene in mente la distinzione marxiana fra «modo della ricerca» e «modo dell’esposizione», Benjamin divise il suo lavoro in due fasi non necessariamente cronologicamente contigue: la documentazione e la costruzione (ovvero la dispositivo di cui parlava Cicerone nel De oratore).

Avviene così che il materiale raccolto da Benjamin lungi dall’essere qualcosa di inerte su cui proiettare la sua teoria, si fa vivo, magma che contiene già in sé le forme di un potenziale sviluppo. Qui è possibile anche intravedere ciò che Benjamin intendeva per filologia definendola una «pratica mistica». Questi materiali palesano già in sé un intimo legame: «Avviene qui, per il rapporto fra documentazione e costruzione, qualcosa di simile a quanto Benjamin descrive per l’incontro fra passato e presente nell’ “ora della conoscibilità”».

La costruzione è la parte centrale, più lunga e tormentata, del metodo benjaminiano. Adorno parlò di «montaggio scioccante» cui Benjamin replicò così: «L’apparenza della chiusa fatticità, che aderisce alla ricerca filologica e getta il ricercatore nell’incanto, svanisce nella misura in cui l’oggetto viene costruito nella prospettiva storica. Le linee di fuga di questa costruzione convergono nella nostra propria esperienza storica. Con ciò l’oggetto si costruisce come monade. Nella monade diventa vivo ciò che come reperto testuale, giaceva in mitica rigidità».

L’esperienza dello shock nell’ambiente urbano di Baudelaire rivive nel «montaggio scioccante» di definizione adorniana tanto da confondere il volto del poeta flâneur che passeggiava per i boulevard parigini con quello del filosofo e critico tedesco.


(Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi, Clemens-Carl Härle, Neri Pozza, 2013, pp. 944, euro 23)


L’evento si è svolto sabato 16 marzo presso il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, all’interno del festival Libri come.

“Atletico Minaccia Football Club” di Marco Marsullo

Un esordio sorprendente quello di Marco Marsullo con Atletico Minaccia Football Club (Einaudi Stile Libero, 2013), tra campi di periferia e improbabili comandamenti calcistici, che restituisce il calcio alla sua dimensione autentica di passione e gioco.

Vanni Cascione è un mediocre allenatore di categoria che si culla nel sogno di diventare Mourinho. Non è mai riuscito a completare una stagione però, né in Eccellenza né nelle altre serie minori. È sempre stato esonerato prima. Nonostante questo è convinto che un giorno il suo nome sarà grande, prima nei campionati regionali campani, poi in tutto il mondo. L’occasione arriva per telefono in un’assolata mattina d’estate. Dall’altro capo della linea c’è Luigi Magia, direttore sportivo dell’Atletico Minaccia Football Club sorto dalle ceneri della Dinamo Giuliano, società squalificata per infiltrazioni camorristiche e rifondata dal cavalier Baffoni, industriale del mobile deciso ad avviare un ambizioso progetto calcistico. La coppia Cascione-Magia si mette subito al lavoro per costruire una squadra capace di vincere subito il campionato e ottenere la promozione in serie D.

La forza di Atletico Minaccia Football Club è tutta nella scrittura, a tratti irresistibile, di Marsullo. Uno stile fluido che si contamina di espressioni dialettali campane nei dialoghi, si arricchisce di riferimenti continui alla cultura popolare di ogni livello (lo stopper sul viale del tramonto Antonio Pisapia, così vicino all’Uomo in più del film di Paolo Sorrentino, la rappresentazione fantozziana del dolore, il nozionismo musicale di Fabrizio Spugna, centrocampista un tempo campione del programma televisivo Sarabanda con il soprannome di Uomo Tricheco), spiazza elevando il registro a considerazioni universali sul valore del calcio come ultima rappresentazione sacra di cui parlava già Pasolini («Provate a immaginare un campionato che si giochi tutti i santi giorni della settimana. Sarebbe cancellata la ritualità della domenica, degli anticipi al sabato, della coppa al mercoledì. Si perderebbe la bellezza dell’occasione, l’unicità di un’ora e mezza gentilmente messa a disposizione per gli uomini dal dio del calcio in persona»), per poi riprecipitarlo nel quotidiano con battute di brillante semplicità («In effetti stare sotto al Lokomotiv Volla era uno scuorno mai visto. Quella che tutti consideravano la squadra materasso era stata capace di farci diventare la “squadra doga”, quella che sta ancora più sotto della materasso»).

La descrizione del calcio di provincia, realistica pur nel suo essere caricaturale, sarebbe in sé poca cosa, anche perché Marsullo sembra guardare più al cinema, dove i precedenti comici abbondano e sono noti ai più, che alla letteratura. La storia dell’inseguimento infinito di una gloria sportiva, anche minuscola, è argomento già affrontato più volte, gli espedienti narrativi sono già noti (il consigliere inatteso, il nemico invincibile e minaccioso). È attraverso il modo della narrazione, però, che Atletico Minaccia diventa un libro da consigliare. La capacità più unica che rara di strappare una risata quasi a ogni pagina, di riuscire a tratteggiare differenti sfumature di miseria nei vari personaggi con poche parole, come per Mohammed, il mediano ghanese che può giocare solo le partite in trasferta perché sprovvisto di permesso di soggiorno e ricercato dai carabinieri nello stadio casalingo di Sputacchiaro Maggiore, o l’erotomane Magia, consegna all’immaginario collettivo una specie di Armata Brancaleone del pallone, una squadra improbabile guidata da un condottiero titanico nella sua orgogliosa pezzenteria e un romanzo che, pur non privo di debolezze e cadute di stile, conquista e fa affezionare il lettore, che si ami il calcio o no.

(Marco Marsullo, Atletico Minaccia Football Club, Einaudi Stile Libero, pp. 224, euro 17)

“Sinister” di Scott Derrickson

L’America è l’ambiguo crocevia del cinema horror. Non ha allevato nessuna nuova scuola registica, come nel caso della Francia e della Spagna, e si è anche permessa di congedare in maniera poco garbata i Maestri e le loro opere capitali, dandole in pasto ai reboot. Poi abbiamo i sequel. Inutili e irritanti, macchiano la bellezza dei predecessori (come lo scabroso Hostel III). Aggiungete inoltre i soliti commerciali remake (il recente Non Aprite Quella Porta, per citare il primo di una lunga lista che invaderà a breve le sale). Tra queste sabbie mobili, riescono a uscire opere indipendenti, originali e davvero sconcertanti (MayGutLovely MollyChainedLe Colline Sanguinano), e film che non inventano nulla di nuovo, ma svolgono il loro dovere alla perfezione. Ovvero: spaventarti fino al midollo. Sinister appartiene a quest’ultima categoria. Mai titolo fu più azzeccato. E lo si capisce dalla prima terribile scena. Un’inquadratura sgranata, un amatoriale filmato in super8. Quattro persone incappucciate e impiccate a un albero. Una colonna sonora straniante. A essere trucidata sull’albero è la famiglia Stevenson. Ma c’è di peggio: all’appello manca la figlia più piccola, scomparsa dopo la strage.

Sul drammatico fatto di cronaca indaga Ellison Oswalt, scrittore ormai caduto nel dimenticatoio, sempre nella spasmodica ricerca della storia giusta per un nuovo best seller. Ma stavolta Oswalt esagera. Supera la linea d’ombra. Tenendo all’oscuro la famiglia, fa trasferire tutti nella casa della famiglia Stevenson. Spera di trovare l’ispirazione e l’influsso giusto per la nuova opera. Ma gli avvenimenti prenderanno un diabolica tangente, e un incubo senza pietà s’abbatterà sullo scrittore e i suoi cari. Si, perché lo scrittore trova in soffitta i filmini amatoriali dei precedenti inquilini. Non ci pensa due volte a profanare i ricordi delle vittime, e ossessionato dall’inchiesta, si chiude in studio per visionarli. Giorno e notte, fino a logorarsi. Tramite le pellicole l’incubo prende forma: li è immortalato sia l’omicidio degli Stevenson – è l’assassino che filma? – sia altri quattro omicidi, dilazionati nel tempo fino ad arrivare agli anni Sessanta. Unico tratto in comune: la presenza nei video di un sinistro essere dal volto mascherato e mostruoso. Assomiglia molto al Mr. Boogie che la figlia di Ellison inizia a disegnare sui muri di casa.

Da questo momento lo spettatore deve assicurare il ritmo cardiaco. Nonostante Sinister parta da luoghi tipici dell’horror – la strage, la scomparsa di una vittima, la casa infestata, la soffitta, le premonizioni dei bambini, l’inquietante Uomo Nero – qui siamo al cospetto di un opera capace di stagliarsi notevolmente rispetto agli altri prodotti del genere, ponendosi come vertice di riferimento. I meriti sono lampanti. Il cast, capitanato da un convincente Ethan Hawke alias Ellison Oswalt, è impeccabile. Da menzionare il cameo del grande Vincent D’Onofrio, che anticipa l’agghiacciante performance di Chained.  La regia di Scott Derrickson, dopo il fortunato legal-horror L’Esorcismo di Emily Rose, offre momenti di terrore puro. L’ambientazione e le atmosfere sono davvero indelebili: la summa di Sinister è nei malati super8 degli omicidi, tutti in soggettiva, dove l’entità del Male prenderà tratti sempre più sanguinari e demoniaci.

Essendo un horror pieno di colpi di scena, meglio non svelare troppo, ma state tranquilli: Sinister svolge egregiamente il suo dovere. Lo dimostrano le critiche fin troppo buone per un film di genere, i botteghini sbancati e gli incalcolabili spaventi subiti anche dagli spettatori più navigati. Buona visione e attenti a Bughuul…

(Sinister, di Scott Derrickson, 2012, Horror, 110’)

 

“The Green Dot EP”: a tu per tu con Viva Lion!

Se negli scorsi giorni non ne avete avuto abbastanza di conclavi, preti e vescovi, noi oggi vi presentiamo un Cardinale che si sta facendo rapidamente strada nell’ underground musicale, in Italia come negli States. Il suo nome è Daniele Cardinale, in arte VIVA LION!. Attivo da tempo nella scena indie/rock romana, nel 2009 lascia il Belpaese e si trasferisce in Canada, avvicinandosi al genere folk: questo importante passaggio darà un tocco più intimo e introspettivo alla sua musica. L’anno seguente entra nella grande famiglia di Cosecomuni, l’etichetta dei Velvet (si, proprio loro), mentre nel Settembre 2012 parte per un tour californiano con Claudio Falconi, chitarrista dei Grannies Club. Il 25 Gennaio 2013 esce The Green Dot Ep, ep d’esordio da gustarsi in serate uggiose e solitarie, un gran bel lavoro fatto di avvolgenti e morbide melodie, insomma “intimate music for livingrooms and tiny clubs”. Forse abbiamo detto troppo, sentiamo VIVA LION! cosa ha da dirci.


Daniele, parlaci di come sei entrato in contatto con la musica e cosa rappresenta per te.

Ho iniziato a suonare presto, a 13 anni, ma fin dai primi mesi di vita ho ascoltato musica. Raccontano i miei che appena nato non riuscissi a dormire e che rimanevo tranquillo solo accanto al giradischi. La musica è una forma espressiva, per quanto mi riguarda sia “outbound” che “inbound”, nel senso che la vivo come comunicazione verso l’esterno ma anche come momento di riflessione personale.
 

È uscito The Green Dot Ep, il tuo primo lavoro. Come nasce e cosa contiene?

È un concept album su un rapporto a distanza vissuto tra Roma e Los Angeles, è un disco per lo più folk suonato con chitarra acustica e voce e arricchito discretamente con poche elettriche, banjo, tastiere e percussioni ricavate da mani e piedi che battono il legno del pavimento dello studio. È autobiografico, nato da un periodo vissuto in Canada e cresciuto quando facevo avanti e indietro con la California.
 

Il disco contiene 5 brani, in ognuno di essi collabori con un artista. Ogni pezzo sembra una riflessione molto intima.

Come dicevo è autobiografico e, in effetti, è decisamente intimista. Ogni ospite ha arricchito i brani: Velvet, che lo hanno anche prodotto, Roads Collide, il giramondo Gipsy Rufina e l’americana Megan Pfefferkorn.
 

Anche tu fai parte del roster di Cosecomuni. Come ti trovi all’interno di questo ambiente?

Frequento Cosecomuni da dieci anni, ho un rapporto di fratellanza con chi ci lavora. Ci capiamo perfettamente e durante le registrazioni ci siamo divertiti moltissimo.
 

Roma, Canada, Stati Uniti. Cosa rappresenta per te il viaggio e quanto è legato il viaggiare alla tua musica?

Viaggiare è diventato una necessità. Mi manca terribilmente quando resto fermo per troppo tempo (per troppo intendo anche tre mesi!). Ogni viaggio è una scoperta e il tempo che ho vissuto in Canada e poi in California ha segnato profondamente quello che sta diventando Viva Lion!
 

A questo punto, non possiamo non chiederti dove suonerai nei prossimi mesi.

Stiamo organizzando il ritorno negli Stati Uniti a giugno, e intanto suonerò in Italia. Ad aprile mi hanno invitato a Londra per un house show, una dimensione che amo particolarmente.
 

(VIVA LION!, The Green Dot Ep, Cosecomuni, 2013)

 

 

“Febbre a 90’” di Nick Hornby

A vent’anni dalla prima pubblicazione arriva una nuova edizione di Febbre a 90’, romanzo d’esordio di Nick Hornby, riproposto da Guanda con una veste grafica rinnovata e una nuova introduzione dell’autore.

Già nell’introduzione all’edizione del 1992 Hornby spiegava i propositi e i temi del suo libro autobiografico. Prima di tutto c’era l’intenzione di analizzare la passione/ossessione per il calcio, in generale, e per l’Arsenal, in particolare, e con un approccio che si potrebbe definire qualitativo cercare nei vari episodi di questa vita “sportiva” (ognuno dei quali è collegato a una partita) il motivo per cui una relazione nata all’età di undici anni è destinata a durare più a lungo di qualsiasi altro legame, se si escludono i vincoli familiari. Poi c’era l’aspetto antropologico, affrontato anche qui in maniera poco rigorosa e molto pop, per il quale si prende la vita del tifoso come fonte di informazioni sulla società e sulla cultura che viviamo. Infine c’era la volontà di dare voce e dignità al semplice tifoso di calcio, non l’esperto o l’opinionista che sciorina dati e banalità, né l’hooligan che si sfoga la domenica allo stadio.

L’obiettivo, bisogna dire, è stato centrato, e ne sarebbe sufficiente prova il successo continuo che il libro ha raccolto durante questi venti anni. Nelle tre parti in cui è diviso ci viene raccontato lo sviluppo della relazione, innocuamente esasperata, del protagonista con l’Arsenal, da quel giorno del 1968 in cui il padre lo porta a Highbury, cambiandogli inconsapevolmente la vita, fino al 1991, quando decide di scriverne. Con la tipica capacità di chi sa far scorrere lungo le pagine argomenti delicati e complessi senza che il lettore sia costretto a compulsare i fogli per ricavarne qualcosa, Hornby passa in rassegna problemi reali e sportivi, con i secondi spesso metafore dei primi, perché, anche se per molti il calcio non è che uno dei tanti settori dell’industria dello spettacolo, il compito di chi scende in campo e l’aspirazione di chi allo stadio siede sempre sullo stesso seggiolino non è propriamente il divertimento. Come disse Alan Durban, vecchio allenatore gallese dello Stoke City, in una conferenza stampa: «Se volete divertirvi andate a vedere i pagliacci»; o, come spiega il protagonista, «lamentarsi perché il calcio è noioso è un po’ come lamentarsi per il finale triste di Re Lear; vuol dire non aver capito niente, e questo è quello che invece capì Alan Durban: che il calcio è un universo alternativo, serio e stressante quanto il lavoro, con le stesse preoccupazioni e speranze e delusioni e gioie occasionali».

A riprova dell’abilità narrativo-argomentativa, e sempre con una prosa agile, all’interno della quale si fa ampio ricorso a lunghe parentesi, mai moleste, che come tante finestre ossigenano il testo e la mente di chi legge, basta prendere i due lucidissimi capitoli consecutivi (”Arsenal-Ipswich, 14.10.72”, e “Arsenal-Coventry, 4.11.72”) in cui prima si descrive, con una secca riflessione sociologica, l’importanza dei tifosi da curva e di seguito, con il solito punto di vista obbligatoriamente maschile ma mai maschilista, il problema degli ultras violenti.

Nonostante siano passati venti anni, il calcio, soprattutto quello inglese, sia cambiato e l’Arsenal abbia perso l’austerità di un tempo per guadagnare molto più fascino, il testo è sempre quello; tuttavia la nuova introduzione con cui si apre l’edizione del 2012 è un elemento prezioso e offre l’acuto punto di vista dell’autore sui cambiamenti avvenuti. Ponendo l’accento sull’ammodernamento forzato degli stadi (in seguito anche alla strage di Hillsborough del 1989) e sull’enorme liquidità che le televisioni hanno cominciato a versare in cambio dei diritti di uno degli sport più seguiti al mondo, Hornby schiva il merito (o la colpa) di aver sdoganato con il suo libro il calcio per il ceto medio, dando il via al processo con il quale quest’ultimo ha poi sostituito la classe operaia all’interno degli stadi.

Se questo è un discorso non replicabile esattamente per l’Italia, le sofferenze e le gioie che la passione per il calcio porta con sé sono invece universali e provate da milioni di persone: tra venti, quaranta o sessanta anni saranno ancora quelle.


(Nick Hornby, Febbre a 90’, trad. di Federica Pedrotti e Laura Willis, Guanda, 2012, pp. 288, euro 17)

“Alberto Sordi e la sua Roma” al Complesso del Vittoriano

Sguardo sornione e sorriso beffardo. Ecco come ci ricordiamo di uno dei simboli del cinema italiano, un personaggio che a chiamarlo semplicemente attore sarebbe riduttivo. Alberto Sordi amiamo pensarlo così, con la sua ironia e la sua irriverenza, con la sua schiettezza e l’allegria delle sue battute.

A distanza di dieci anni, un’esposizione al Complesso del Vittoriano, nella Sala Zanardelli, ne celebra la dolorosa scomparsa per la Capitale e per il mondo cinematografico. L’esposizione, promossa da Roma Capitale in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Direzione per il Cinema, la RAI, con il patrocinio di Fondazione Alberto Sordi, Media Partner, Il Messaggero, è a cura di Gloria Satta, Vincenzo Mollica, Alessandro Nicosia, che ne ha curato anche l’organizzazione generale, e Tiziana Appetito.

Dagli archivi personali e della Teche Rai, che offrono il primo video documentario in apertura, e dagli scatti di Enrico Appetito, fotografo ufficiale di scena della maggior parte dei suoi film, arrivano i materiali per una mostra che si presenta subito ricca e stimolante.

La morte, avvenuta nella notte tra il 24 e il 25 febbraio 2003, ruppe quel legame ombelicale che legava l’attore romano con il mondo. Il suo non era fatto di foto e gossip, di vetrine e lustrini, il suo più intimo camerino era Roma. Ed è in virtù di questo “possesso” che il titolo dato all’esposizione Alberto Sordi e la sua Roma ne rappresenta bene il rapporto; una città che ha visto girare, tra i vicoli più stretti e le strade principali, i suoi più grandi capolavori. Legame profondo, viscerale, materno.
 


Nato nel cuore di Roma, a Trastevere, in via San Cosimato, e simbolo di questa città, tanto da divenire Sindaco per un giorno, in occasione del suo ottantesimo compleanno. E Roma rende omaggio al suo più illustre cittadino, amato e venerato attore, per ricordare colui che meglio ha saputo interpretare la commedia, incarnando i vizi e le virtù degli italiani, in una lunga vita professionale costellata dall’apprezzamento del pubblico e dai prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Il percorso espositivo si snoda in due momenti. Nella prima sezione si possono rivivere Sordi e i suoi 56 film girati a Roma con circa 20 approfondimenti che vedono esposti, alcuni in maniera inedita, fotografie, album personali con rassegne stampa, copioni e oggetti utilizzati nei film. Nella seconda sezione vengono proposti i momenti più significativi della vita di Sordi a Roma: tra i tanti, la sua casa, il suo studio, gli articoli da lui scritti per Il Messaggero, l’addio alla lira, il suo particolare e personalissimo rapporto con Giovanni Paolo II.
 


E a chiudere questo cammino ideale tra film e vita, finzione e realtà, ecco le toccanti immagini del funerale a testimonianza di quanto i romani abbiano amato Sordi rendendogli omaggio in cinquecentomila nella camera ardente allestita per lui in Campidoglio e partecipando in duecentocinquantamila alle esequie del grande artista a San Giovanni.

Un personaggio che ancora fa storia.

 

Alberto Sordi e la sua Roma
Complesso del Vittoriano, Sala Zanardelli, via di San Pietro in Carcere, Roma
15 febbraio – 31marzo 2013
Per maggiori informazioni visitare il sito
http://www.romeguide.it/?pag=schedamostrenew&id=5335&sezione=mostre

“Fratello buono, fratello cattivo” di Matti Rönkä

Fratello buono, fratello cattivo di Matti Rönkä (Iperborea, 2013) è un noir, di quei noir nordici che abbiamo imparato ad apprezzare nonostante gli scenari e le ambientazioni ci risultino lontani, quasi ostili. La neve, il freddo che congela le mani ma anche il sorriso e un mondo lontanissimo che è pieno di storie che nemmeno pensavamo esistessero.

La prima cosa che colpisce in questo libro è il luogo in cui si svolge tutta la vicenda. La Carelia, luogo diviso storicamente e geograficamente tra Russia e Finlandia. Luogo in cui la seconda guerra mondiale ha portato dolore e sofferenza sottolineando lo spaesamento e la non integrazione delle popolazioni che si dividono tra varie appartenenze ma non appartengono mai a se stesse.

Un fratello buono e uno cattivo che, come nella migliore tradizione poliziesca, spesso scambiano i propri ruoli. Viktor vive a Helsinki dopo aver trascorso un periodo a San Pietroburgo in seguito all’allontanamento dai suoi luoghi d’origine. In Finlandia ritrova la sua identità, anche se si muove sul filo delle varie illegalità che gli gravitano attorno. Finché non arriva in città il fratello, Aleksej (quello buono o quello cattivo?) che da irreprensibile ingegnere scappa dalla madre Russia per sfuggire ai traffici illeciti in cui si era cacciato.

Viktor è un uomo controverso che si divide tra piccole irregolarità e il suo lavoro nel mondo dell’edilizia, che ama una donna lontana, diviso tra l’uomo che era e l’uomo che vuole diventare.

Un personaggio sopra le righe, che ben presto incrocerà il destino del povero Viktor, è poi quello del poliziotto Korhonen che lo assolda per cercare di capire quale sostanza sintetica, arrivata da chissà dove, stia seminando morte tra i russi in Finlandia. Ma non tutti i russi, i russi che vengono da quel luogo di confine, per molto tempo dimenticato, che è la Carelia.

Le nostalgie delle ambientazioni russe che il protagonista ricorda cozzano con la capitale finlandese moderna che sembra essere questo luogo meraviglioso e perfetto in cui tutto funziona ma che nasconde crimini, emarginazioni, droghe e la potentissima mafia russa che si appoggia come un corvo affamato sulle spalle di questa opulenta città.

Una storia piena di colpi di scena e, come nella migliore tradizione giallista, con un finale che lascia basiti. Un noir che per la cura con cui sono raccontati i personaggi e la verosimiglianza di tutto ciò che racconta può appassionare anche chi non è solito approfondire il genere.

In fondo la malavita, a tutte le latitudini, ha delle caratteristiche comuni che chiunque può ritrovare in modi, atteggiamenti e devianze di casa propria. Questo giallo è pieno di neve, boschi e città nordiche ma potrebbe benissimo essere ambientato tra i vicoli di Napoli o nella mala marsigliese.

L’autore, Matti Rönkä, è molto famoso in Finlandia in quanto volto noto della tv, e in questo giallo ha messo anche una parte di sé raccontando al mondo intero le vicissitudini delle divisioni che ha dovuto subire il popolo careliano.

La scrittura è incalzante, avvincente e sembra proprio di ascoltare i dialoghi tra questi personaggi che per le loro peculiarità e stramberie sono davvero reali.

Un bel giallo, un bel noir, ma soprattutto una bella storia da leggere attraverso molte chiavi di lettura. Una storia di famiglia, ma anche la storia di un popolo, la storia di un Paese diviso tra due nazioni, una storia sociale ma anche, sullo sfondo, una storia d’amore.


(Matti Rönkä, Fratello buono, fratello cattivo, trad. di Cira Almenti, Iperborea, pp. 204, euro 14,50)

[SongList] Musica e Storia (prima parte)

Ennio Morricone & Joan Baez – “Here’s to You (The Ballad of Sacco and Vanzetti)”

Immigrati negli Stati Uniti alla fine degli anni Dieci, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti si conobbero nel 1916, quando entrambi iniziarono la militanza in un gruppo anarchico italoamericano di Plymouth. A seguito dell’intervento statunitense nella prima guerra mondiale tutto il gruppo si rifugiò in Messico per evitare la chiamata alle armi e rientrò negli Stati Uniti solamente al termine del conflitto. Il clima per gli anarchici non era però cambiato: dopo la vittoriosa rivoluzione bolscevica in Russia, anzi, i comunisti e più in generale i sovversivi – categoria generale all’interno della quale venivano fatti rientrare tutti coloro che erano, in un modo o nell’altro, scomodi per l’ordine costituito – erano guardati con ancor maggior sospetto in quella che passerà alla storia come la prima Red Scare: la paura rossa. Sacco e Vanzetti vennero inclusi, a loro insaputa, in una lista di sovversivi compilata dal Ministero della Giustizia: pedinati notte e giorno da agenti dei servizi segreti si attendeva solamente un pretesto per agire. Quel pretesto arrivò nel 1920: mentre i due italiani si apprestavano a fare un comizio che avrebbe dovuto far luce sull’assassinio da parte della polizia di un loro compagno anarchico, il tipografo Andrea Salsedo, Sacco e Vanzetti vennero arrestati dalle forze dell’ordine per possesso di armi e divulgazione di materiale propagandistico anarchico. Successivamente, mentre i due si trovavano già in carcere, ai loro capi d’accusa si sommò anche una rapina avvenuta a South Braintree, sobborgo di Boston, nella quale due persone erano rimaste uccise.

Il processo che i due italiani subirono fu ingiusto, chiaramente caratterizzato dalla volontà della politica americana di perseguire una politica del terrore nei confronti di tutti coloro che venivano ritenuti pericolosi per il sistema, tra i quali gli anarchici avevano storicamente un posto d’onore. «Police know how to make a man a guilty or an innocent. Against us is the power of police», canta Joan Baez. Nonostante le proteste che si levavano da più fronti – tra le più famose si ricordano quelle di Albert Einstein e Bertrand Russell ma è da notare che persino Benito Mussolini, che pur non aveva certo simpatie anarchiche, difese i due connazionali – i due vennero giustiziati sulla sedia elettrica il 23 agosto del 1927.

Esattamente 50 anni dopo, il 23 agosto 1977, il governatore del Massaschusetts, Michael Dukakis, emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, riabilitandone la memoria sotto ogni punto di vista. Il testo della canzone, usata nella colonna sonora del film Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, riprende le parole finali di un discorso tenuto da Vanzetti in difesa sua e del suo compagno.
 

Ambrogio Sparagna e Giovanni Lindo Ferretti – “Occitania”

La crociata contro gli albigesi, indetta da Papa Innocenzo III nel 1208, ebbe luogo tra il 1209 e il 1229 con ulteriori appendici nel 1244 e nel 1255, quando vennero conquistate dalle truppe reali francesi le inespugnabili fortezze di Montsegur e Queribus. La crociata venne indetta per estirpare l’eresia catara dai territori del sud della Francia, che si era radicata in particolare nella regione dell’Occitania. L’alleanza dei re francesi con il papato nelle operazioni militari nella parte meridionale del paese era di certo interessata in quanto sia Luigi VIII sia, in seguito, suo figlio e successore al trono Luigi IX, accrebbero enormemente, grazie alle conquiste crociate e alla fedeltà al Papa, i territori legati alla corona francese.

Rimane famosa la crudeltà con la quale l’esercito crociato represse e stroncò la resistenza catara nelle città francesi, esemplificata dalla risposta «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi» data dall’abate Arnaldo di Citeaux, legato pontificio, ai soldati francesi che gli chiedevano come riconoscere un cataro da un buon cristiano in occasione della presa di Beziérs del 1209, in quello che passerà alla storia come massacro di Beziérs. Secondo alcune fonti la frase sarebbe attribuibile al capitano generale dell’esercito crociato Simone IV di Montfort, come appunto nel testo di Ferretti.
 

Crosby, Still, Nash & Young – “Ohio”

Il 30 aprile del 1970 il Presidente Nixon, all’interno dell’ampia cornice storica della guerra del Vietnam, ordinò l’invasione della Cambogia. Il paese cambogiano era già stato teatro di scontri e dei cosiddetti “bombardamenti segreti”, in quanto entrambi gli schieramenti in lotta speravano di allargare la propria area d’influenza militare: i nord-vietnamiti davano quindi aiuti ai Khmer Rossi, il Partito Comunista della Cambogia, mentre gli statunitensi appoggiavano il colpo di stato del Generale Lon Nol, avvenuto il 17 marzo di quello stesso 1970. Tutto ciò portò a un ritorno delle violenze in larga scala e a un maggior coinvolgimento delle truppe statunitensi nel conflitto nella zona indocinese.

Già da tempo l’opinione pubblica manifestava, in patria, un forte malcontento contro la Guerra del Vietnam e il maggior impegno pacifista veniva dal mondo studentesco e universitario. Proprio in seguito agli eventi appena descritti ci fu una forte mobilitazione contro la guerra che pretendeva un  ritiro incondizionato delle truppe statunitensi e un disimpegno dal Vietnam e dai paesi a esso attigui. Una delle maggiori manifestazioni andò in scena alla Kent State University: le proteste iniziarono il giorno seguente alla dichiarazione di Nixon che annunciava l’imminente invasione cambogiana. Il due maggio, dopo una notte di grandi agitazioni, Leroy Strom, sindaco della città di Kent, chiese la militarizzazione dell’intera zona con particolare attenzione all’area del campus universitario richiedendo l’intervento della Guardia Nazionale, la quale, il giorno seguente, occupò il campus stesso. Lunedì 4 maggio una folla di tremila studenti si radunò comunque all’interno dell’università per protestare sia contro la Guerra del Vietnam sia contro la legge marziale che ormai regnava, anche se non ufficialmente, sulla città: durante una carica verso i manifestanti, i soldati della Guardia Nazionale – «tin soldiers and Nixon’s coming» – esplosero tra i 61 e i 67 colpi, uccidendo quattro studenti e ferendone altri nove: «this summer I hear the drumming, four dead in Ohio».
 

“Il Signore degli Orfani” di Adam Johnson

Un «romanzo coraggioso»: è stato definito così (con la solita enfasi che esibisce nell’elogio come nella stroncatura), da Michiko Kakutani sul New York Times il corposo racconto di Adam Johnson, Il Signore degli Orfani (Marsilio, 2013), ambientato nella segretissima Corea del Nord, un luogo in cui l’illusione della messinscena – dovuta allo strapotere del regime – è in grado di “configurare” un mondo che sembra di per sé un “fatto” letterario. O se volete, un film. Divertente però solo se non ci vivi dentro (se sei un lettore occidentale per esempio). Perché potresti dedicarti ad attività che se il buon senso considererebbe normali, il tiranno di casa, Kim Jong II, potrebbe trovare viceversa sconvenienti, se non pericolose: e così ammonirti: «non dimenticate che il divieto di osservare le stelle è sempre valido».

Un regime così (una macchina di propaganda e censura e repressione probabilmente oggi senza confronti al mondo) non consente distrazioni, dimenticanze, svaghi non organizzati e devianti rispetto alla mitologia che esso stesso crea, senza scampo. Eppure autorizza un paradosso: quello per cui un “uomo qualunque” – come vuole l’ideologia al ribasso di un’uguaglianza che riduce la specie a stampo immodificabile – segnato però da precipui talenti, conduca in quel regime una vita singolare. Talché i talenti occorsi in sorte a Pak Jun Do, il figlio del direttore di un orfanotrofio, suggeriscono al regime di prelevarlo e utilizzarlo in missioni straordinarie: degne di esser raccontate ma vissute con uno spirito alieno al comune senso di libertà (sensato o illusorio che sia) legato al nostro immaginario (e alla tradizione del romanzo occidentale).

Per concepire e descrivere – peraltro con esuberante disposizione e pregevole empatia – un destino del genere, serviva uno scrittore che quel mondo lo conoscesse. Cosa capitata appunto all’autore, americano di San Francisco meno che cinquantenne, che la Corea del Nord l’ha studiata a lungo e visitata riuscendo poi in questo romanzo a farne molto di più – per non dire, proprio altro – che un documentario sconvolgente (sulle radio obbligatoriamente accese, sulle librerie totalmente assenti, sul silenzio soffocato e raggelato degli abitanti, sulla fame etc).

Johnson scaraventa il lettore in quel mondo non semplicemente riproducendone l’assurdità ma ricreandone il clima: di una “realtà” che è fatta ad arte dal potere ed è la sola possibile per tutti (perché del mondo rimanente i coreani nulla sanno). Ridotto a un enorme panopticon, qualche milione di persone vive in una sorta di cupo incantamento nel quale intanto ogni gioia e allegrezza sembrano assenti (differenza ammettiamolo non da poco con regimi a noi molto più familiari e più che potenzialmente in grado di stordirci senza una repressione così clamorosa).

Un mondo trasformato in un intero campo di concentramento che non sappiamo quanto possa restare segreto (in rete scorrono immagini satellitari). E che Johnson racconta in un libro a tratti appassionante, nelle cui vicende l’intelligenza, la persuasione di sé e l’amore provano a scalfire il muro di piombo che le soffoca.


(Adam Johnson, Il Signore degli Orfani, trad. di Fabio Zucchella, Marsilio, 2013, pp. 560, euro 21) 

[Amarcord] “M. Butterfly” di David Cronenberg

Era il 1993 quando David Cronenberg decise di recuperare il dramma di David Hanry Wang M. Butterfly e trasferirlo al cinema, segnando un momento nuovo della sua storia cinematografica.

René Gallimard è un funzionario contabile del consolato francese nella Pechino del 1964. È arrivato in Cina da poco, non conosce la cultura, non conosce la lingua, ha solo sua moglie. Una sera assiste all’esecuzione di alcune arie tratte dalla Madama Butterfly di Puccini da parte di Song Liling, cantante dell’Opera di Pechino, rimanendone affascinato. I due si conoscono, nasce un amore segreto con Song che si sottrae inizialmente in nome del pudore culturale per poi concedersi nei panni della schiava orientale al «grande demone bianco». Senza mai mostrarsi nella sua nudità, Song tiene il francese stretto a sé, lo porta lontano dalla sua vita precedente, dalla moglie. Per Gallimard diventa un’ossessione, un tutto annullante che lo porta a ignorare, a livello più o meno conscio, le verità mascherate di Song: è un uomo e una spia del partito comunista cinese incaricato di ottenere da lui informazioni sui movimenti statunitensi in Laos e Vietnam.

Punto di svolta nella produzione di Cronenberg, M. Butterfly rappresenta l’abbandono dell’estetica estrema che aveva contraddistinto i lavori precedenti (basti pensare a La Mosca o a Il pasto nudo), il cosiddetto body horror, la mostra dei cambiamenti della persona attraverso metamorfosi orrorifiche di effetti speciali e make-up. A partire da questo momento il regista canadese lascia perdere i mostri e gli orrori della trasformazione, ma non perde il nucleo essenziale del suo stile cinematografico. I temi classici della sua produzione rimangono: lo sdoppiamento della personalità, il confronto con l’altro da sé e la sua assimilazione, il ruolo primario del corpo, centro dell’universo umano, e la conseguente pulsione sessuale come istinto distruttivo, come tanathos freudiano. Modificando solo la forma espressiva, Cronenberg mette in scena un melodramma che parte dall’opposizione Oriente-Occidente presente nella Butterfly di Puccini e ne inverte completamente i presupposti. Nell’originale lirico è l’Oriente a soccombere assimilato dall’Occidente dominante rappresentato dall’ufficiale Pinkerton, mentre alla Chōchō-san ripudiata non rimane altro che togliersi la vita. Qui è l’Occidente incarnato da Jeremy Irons (straordinario nel comunicare con il solo sguardo) a soccombere all’Oriente di Song (John Lone, a tratti incredibile), e con esso è l’antico a cedere al moderno della rivoluzione culturale cinese e del maggio francese nella parte finale, il maschio a cedere alla femmina, o almeno all’idea di femminile.

L’altro non è solo estraneo, ma è anche e soprattutto un modo nuovo di manifestarsi della coscienza dell’individuo. Che Gallimard sappia o meno che Song è un uomo sin dall’inizio è rimesso all’interpretazione dello spettatore. Quello che è chiaro è che la parte femminile, quella donna inesistente da cui è attratto, è interna al personaggio. Nel dialogo sul cellulare della polizia che anticipa il finale i due personaggi sono seduti uno di fronte all’altro, speculari, vestiti in maniera quasi identica. Song si spoglia per offrirsi di nuovo come Butterfly, «sotto gli abiti, al di là di tutto», a  Gallimard, che lo/la fugge, fuggendo in questo modo anche la realtà stessa della sua attrazione omosessuale, continuando a coltivare il sogno di una donna illusoria. «Come hai potuto, tu che mi conoscevi così bene, commettere un errore così grande? Perché mostrarmi chi sei realmente? Quello che ho amato era un’illusione».

In un andamento dialettico, tesi e antitesi si sommano in una sintesi nuova. Gallimard di fronte all’estraneo, culturale ma anche sessuale, si interroga e si modifica sulla base del rapporto, lo assorbe in sé divenendo egli stesso l’altro, arrivando a incarnare lui stesso l’illusione del suo amore, mascherandosi da geisha nel finale carcerario, con gesti lenti, progressivi, manifestando nella maschera il mascheramento del suo io represso, quella sessualità proiettata su Song che è potenza distruttrice, eros che diventa tanathos, al punto da richiedere il sacrificio dell’amante nell’amato, l’annullamento di Gallimard stesso nella Butterfly proiezione di amore ideale, il suicidio rituale, utilizzando uno specchio come arma, che ancora una volta ribalta l’opera pucciniana e diventa unico legame possibile tra l’illusione e la realtà.
(M. Butterfly, di David Cronenberg, 1993, Drammatico, 101’)