“I mattoidi italiani” di Paolo Albani

Giusto Quodlibet poteva “pensare” questo libro. Il titolo, I mattoidi italiani, nella sua semplicità dice tutto: il libro di Paolo Albani è un’accurata enciclopedia di uomini che hanno due caratteristiche, ed entrambe nella loro accezione positiva e negativa: sono pazzi, appunto, e italiani. Il genio si sa è di casa qua da noi, o almeno così ci hanno insegnato Dante, Leonardo, Borromini e via andando. Erano visionari questi grandi uomini del nostro illustre passato? Certo. Pazzi? Mica tanto. C’è gente che ha fatto e pensato molto di più. Solamente non hanno avuto il successo che meritavano… O che credevano di meritare. L’autore è accurato e puntiglioso. Divide per generi: linguisti, scrittori, pensatori, fisici, scienziati, psicologi, medici, moralisti, sessuologi, architetti, inventori e molti altri. Ce n’è per tutti i gusti. Con tanto di documentazione scritta e apparati iconografici. Però qualcuno a questi gli ha dato – magari solo per periodo breve – pure retta. Nessuno di loro è finito in manicomio.

Chi ha detto in fondo che la terra non gira intorno al sole? E perché non potremmo usare un alfabeto numerico universale? Quando si è deciso che solo le religioni dovevano avere dei comandamenti? L’ateismo perché non deve avere regole? E si sa, in fondo, che se beviamo con una cannuccia l’uovo dal sedere di una gallina acquisiamo forza e fluido vitale. E qui che Albani colpisce appieno e a fondo: di poeti, architetti e filosofi mattoidi ce ne sono stati e ce ne saranno molti, ma le figure trascritte e raccontate – minuziosamente tra l’altro – toccano tutto, o quasi, lo scibile umano.
Mi verrebbe da dire che la follia è ovunque ma sarebbe fin troppo banale. Sicuramente però tante delle nostre scoperte e della nostra conoscenza derivano da gente, al loro tempo, considerata folle. Ha solo avuto un po’ più fortuna della schiera di personaggi messa in campo in questo libro che ricalca – fedelmente nello spirito, non nella forma – le operazioni di Blavier e Raimond Queneau (sulla cui sanità mentale, dopo essermi divorato i suoi Esercizi di stile, avrei molto da ridire), “tentate” in Belgio e in Francia.

Il libro esce in un volume unico (ma chissà perché credo che se ne possano riempire molti altri), nella solita elegantissima veste che caratterizza i testi di questa casa editrice che ci ha abituato a scelte azzardate e, permettetemi, “folli” come questa. Tanto di cappello a loro e all’autore per questo lavoro utilissimo per comprendere realmente chi siamo e da dove veniamo, noi italiani. Un catalogo del disordine, per ordinare ciò che non può essere ordinato: tutto ciò che vive, sopravvive, e spesso muore su quella linea di confine tra i geni veri (pochi) e presunti e tra affabulatori e insani di mente. Insomma tutti i livelli della pazzia: dai visionari ai pazzi da legare.


(Paolo Albani, I mattoidi italiani, Quodlibet, 2012, pp. 339, euro 16)

“Banks” di Paul Banks

I grattacieli di New York, esoscheletri metallici di quartieri, il profilo grigio di Manhattan. Prima della musica, le immagini. Le foto. Banks: un disco rock come un album fotografico. Si, perché l’autore degli scatti fotografici e della musica è il medesimo: Paul Banks, per l’appunto. Mr. Banks è il leader degli Interpol, una band che non deve essere presentata in quest’articolo vista la sua fama e il suo ruolo nel panorama indie-rock degli anni Duemila. Li chiamiamo brevemente in causa perché le istantanee di Banks rappresentano i contesti metropolitani malinconici e cupi che il gruppo di New York ha raccontato in maniera magnifica nei suoi album, soprattutto lo storico esordio Turn on the Bright Light (che ha da poco festeggiato il decennale dell’uscita). Oltre alla lieve depressione urbana, in Banks non ci sono altri raccordi e richiami con la band-madre.

Nel secondo lavoro solista il cantante americano abbandona lo pseudonimo Julian Plenti. Era infatti il 2009 e Banks pubblicava Julian Plenti is… Skyscraper (ovvero grattacielo, giusto per rimanere in tema). Sorprese e colpì piacevolmente la critica; un po’ meno i fan più agguerriti degli Interpol, vista la vocazione elettronica e sperimentale che coinvolgeva non poche tracce. A tre anni di distanza, Banks segue la meta di Skyscraper e la supera. Abbandonati i momenti strumentali più eterogenei – come le trombe in “Unwind” e le varie sezioni d’archi – questo disco risulta più compatto e coeso del predecessore, senza perdere nulla dal punto di vista melodico. Anche perché le danze sono aperte dall’accattivante “The Base”: elettronica e campionamenti perfettamente fusi con il corredo ritmico e melodico delle chitarre, ritornello indelebile e una performance vocale non indifferente. E quell’intermezzo un po’ folle che non guasta. E così, se “The Base” tranquillizza da subito l’ascoltatore, “Over My Shoulder” – altro pezzo capolavoro – lo esalta piacevolmente. Più dolce e soffusa “Arise, Awake”: è un rallentamento necessario prima di “Young Again”, orecchiabile primo singolo pop. Dopo la strumentale “Lisbon” (il giramondo Banks sembra avere una predilezione per i paesi spagnoli e portoghesi, vista la presenza di “Madrid Song” in Skyscraper), ecco i riff di “I’ll Sue You” e della torva “Paid for That”. Con “Another Chance” ritorna un vecchio espediente ascoltato anche nel primo disco: usare dei campionamenti di dialogo e parlato come accompagnamento. “No Mistakes”, con la sua carica, riscuote l’ascoltatore portandolo al crescente finale di “Summertime Is Coming”.

Ascoltando più d’una volta l’album senza pregiudizi e inutili paragoni, la malinconica bellezza del lavoro viene fuori. Uno spunto interessante: l’ultimo disco degli Interpol (uscito nel 2010) si chiamava semplicemente con il nome dei suoi creatori: Interpol. Proprio come nel caso di Banks. Che la presa di coscienza cupa e sofferta affrontata dai quattro musicisti di New York con il loro disco più complesso sia avvenuta anche per il loro leader? La musica sembrerebbe dire di si, gettando più ombre che luci sul futuro rock della Grande Mela.

 

(Paul Banks, Banks, Matador, 2012)

 

Risparmiami a Natale

La cucina deve rimanere al buio. Mia madre ha apparecchiato il tavolino in mezzo alla stanza e ha recuperato persino un centrotavola. Dobbiamo stringerci un poco, ma alla fine riusciamo a sederci tutti e sei, raccolti a festeggiare il Santo Natale, a far piacere alle ossessioni di mia madre, a fingere che il mondo sia sempre lo stesso.
Passo tutto il pranzo a sezionare la mia carne in scatola, senza il minimo appetito, cercando invece di capire cosa è successo e quanto siamo cambiati da quando sono cominciati i terremoti, seguiti dalle inondazioni, le quarantene, gli animali mutati, in un prosciugamento silenzioso di quello che eravamo. O è stato un processo di eliminazione del superfluo, che ci ha portati ad essere ciò che prima di allora tenevamo nascosto?
Erano due giorni che non vedevo mio padre, per dirne una. Seduto a capotavola, col volto in ombra, potrebbe essere chiunque. Da tre sedie di distanza riesco a sentire il profumo che ha addosso, una roba da donna, qualcosa di stupido e infantile, quel tipo di odore che la vicina del quarto piano lascia sempre al suo passaggio e che aleggia per le scale come una scoreggia.
Mamma mangia, ovviamente, accanto al capofamiglia, e tra un boccone e l’altro sgrana uno dei rosari che le penzolano al collo. Si è ammattita con la storia dell’Apocalisse e recita atti di dolore anche al bagno: questa storia del pranzo di Natale è opera sua, che s’è convinta che si debba fingere che non ci sia nulla di sbagliato, e che alla piccola Jenny sarebbe tanto piaciuto… Jenny ha quattro anni ed è più sveglia di tutti noi messi assieme. Trotterella al fianco della mamma quando quella la costringe a fare il chilometro domenicale fra le macerie per andare in Chiesa, ma nei suoi piccoli occhi di bambina c’è già l’odio e la rassegnazione dell’agnello sacrificale. Anche adesso fa la bambolina terribile e silenziosa, alla destra di mia madre, appollaiata sul suo trespolo.
Il nonno, poi, lo abbiamo riportato a casa dopo l’ultima bomba sull’ospizio. Continua a fissare le finestre come fossero schermi di televisione. Qualche volta ha provato a cambiare canale, senza successo.
Nessuno parla a tavola se non Damien, strafatto di hascìsc, che ha deciso passare in botta tutti quelli che crede essere i suoi ultimi giorni da fuorilegge, e che perlomeno a Natale ha avuto il buon gusto di evitare la coca, dato che ieri notte mi sono sorbito le sue sberle e subito dopo i suoi pianti incontrollabili da paranoico. Si sfonda come un cane ma almeno poi si calma, parla, illumina la cucina con i suoi enormi occhi rossi.
Io ho quattordici anni, ho cominciato a fumare la pipa e, a parte fare lo sciacallo quasi a livello professionistico, ho deciso che se proprio siamo arrivati alla fine del mondo non morirò vergine. È fuori questione.
È Natale, faccio finta di masticare un boccone inesistente e cerco il coraggio per alzarmi da tavola e salire sul terrazzo. Sono un paio di giorni che vado lì con la pipa, di nascosto, e ieri mi ha raggiunto Teresa, credendo che non ci fosse nessuno, o forse sapendo che ero lì ad aspettarla. La liceale del secondo piano, con quelle gambe lunghe e dritte, con quell’enorme cappotto, con i capelli sciolti sulla faccia. Mi eccito e metto da parte la forchetta.
Mia madre sta imboccando Jenny che accetta passivamente il purè. Papà e nonno fissano i loro piatti e Damien si è perso in un suo soliloquio a mezza voce, ridacchiando a ogni frase. Mi alzo.
«Dove vai?»
«A prendere un po’ d’aria».
Mamma ha le lacrime agli occhi.
«Torni per il dolce?»
Sono già di spalle, in corridoio. Raccolgo il giaccone e lo indosso.
«Forse».
Mi allontano e sblocco le cinque serrature della porta. Mentre la chiudo, sento ancora la voce di mia madre, dalla cucina: «Stai attento».
Mi ritrovo sul pianerottolo, in un silenzio ancora più profondo di quello di casa mia, ma disturbato da ronzii lontani, passi di topi e urla che arrivano dalla strada. Corro su per i sette piani di scale che ci separano dal tetto, spingo il portone di metallo e sono fuori. L’aria puzza e il cielo è grigio, non nevica neppure, altro che Bianco Natale. Una volta facevamo i pupazzi di neve in cortile. Mi avvicino alla balaustra e a ogni passo vedo sempre più città, o almeno ciò che ne resta. Fumo e cavi scoperti. Pozze d’acqua stagnante e finestre rotte. Sempre la stessa storia.
Devo sbrigarmi, Teresa potrebbe arrivare da un momento all’altro, sperando che non sia stata condannata a un pranzo natalizio più imperativo del mio; dietro la casetta della lavanderia ho nascosto tre cavi di lucine colorate, presi dall’ultimo supermercato che ho razziato il giorno della Vigilia. Ho sistemato le lampadine rotte e ho ricollegato i fili. Non sarà quel gran regalo, ma è qualcosa, e ogni qualcosa si suppone che valga molto, oggi.
Alzo la testa di scatto perché sento cigolare il portone e sì, è lei, che si guarda attorno come un gatto. Mi sta cercando? Mi vede e si avvicina. Cerco di nascondere i cavi, non li ho ancora collegati alla prolunga.
«Buon Natale».
«Cazzo dici», mi risponde, ma lo fa con un mezzo sorriso che ci potrei perdere la testa.
«Chiudi gli occhi».
«Eh?»
«Chiudi-gli-occhi».
Stavolta ride proprio, mi considera un cretino. Forse, ma fa niente. Io questo regalo glielo voglio fare, fosse anche solo perché non voglio morire senza averle toccato le tette.
Corro a inserire le spine. Torno di fronte a lei e la guardo: con gli occhi chiusi è ancora più bella. Verrebbe voglia di levarle i capelli dalla fronte e baciarla. No, e allora prendo i cavi e delicatamente glieli faccio passare oltre la testa e glieli appoggio sulle spalle. Le lucine brillano a intermittenza e sembra una piccola Madonna, in piedi sul terrazzone di cemento, in cima a una casa butterata e a venti famiglie sopravvissute.
«Ma che…»
«Apri».
Apre gli occhi poco a poco e all’inizio non capisce, perché vede solo me e il mio ghigno d’attesa. Poi si accorge delle luci che le danzano in faccia e abbassa lo sguardo. Socchiude la bocca, allunga le mani, tocca le lucine, si immagina ricoperta di giallo, rosso, blu, non ci crede, e chi se lo aspettava un regalo, questo Natale?
Ride. Ride e forse un po’ si commuove anche, stringe le spalle e le dita sui cavi, sposta lo sguardo su di me e si tende, quasi volesse abbracciarmi, ma richiude le mani e non lo fa.
«Grazie!»
Faccio il duro, metto le mani in tasca e stiro le labbra: «Figurati…»
Adesso non sappiamo cosa dire; non ci conosciamo neanche così bene, abbiamo in comune solo qualche ora sul terrazzo e, prima che succedesse tutto, degli incontri in ascensore. Siamo una casualità figlia della fine del mondo.
«Scusa, io non ho niente per te…»
È il mio momento di essere in imbarazzo. Rimedio prendendola di sorpresa, e stupisco anche me, perché mi faccio avanti e le bacio la bocca. Mentre lo faccio, solo una parte di me riesce a concentrarsi sulle sue labbra, che sono un po’ secche ma in fondo si fanno più morbide e umide, e sulla risposta del mio corpo; tutto il resto è teso a reprimere la pessima idea di saltarle addosso subito e qui. Mi beccherei una sberla e vedrei sfumare, forse per sempre, la mia speranza di farlo.
Mi prende alla sprovvista attirandomi a sé, e allora ci metto anche un po’ di lingua, credo si faccia così, forse siamo solo due disperati, solo due adolescenti che crescono nel momento storico sbagliato, ma lei mi sta baciando e le ho fatto un regalo idiota ma molto simbolico, e quindi cerco di non farle sentire che mi sto eccitando e la stringo a me, con le lucine tra le balle.
Un pranzo per salvare le apparenze e un limone sul tetto; per questo Natale mi accontento.

 

Questo racconto si è classificato primo al concorso Flan-Natale Story 2.

“Kama. Sesso e Design” alla Triennale di Milano

Sotto l’egida del dio indiano del piacere sessuale e dell’amore carnale (il nostro Eros, per intenderci), ha aperto, alla Triennale di Milano fino al 10 marzo, una mostra dal titolo Kama. Sesso e Design. Il rischio di cadere nel banale era forte e sempre in agguato, ma la curatrice Silvana Annicchiarico è riuscita a creare una buona raccolta di oggetti di design ispirati al sesso o agli organi sessuali maschili e femminili, coinvolgendo, inoltre, artisti contemporanei che hanno regalato ai visitatori istallazioni create appositamente per questa mostra/evento.

Le “Shivering Bowls” del giapponese Nendo sono tra le opere più interessanti dell’esposizione, sistemate in una delle tante “cappelle laterali” che si articolano intorno alla sala centrale, che ospita oggetti di culto come l’immancabile sedia di Fabio Novembre della serie “Him&Her”. Presente anche il designer Piero Fornasetti con le sue mitiche ceramiche rappresentanti per lo più volti di donna, alla quale, al posto del naso, ha sostituito in maniera spiritosa un membro maschile.
 


L’opera che richiama il maggior numero di visitatori è senza dubbio “The Great Wall of Vagina” di Jamie McCartney, che – anche se non credo ci sia bisogno di grandi spiegazioni – sarebbe una parete composta da numerosi calchi in gesso di organi genitali di quattrocento donne. Nonostante i soggetti assolutamente espliciti, non si scade in alcuna forma di bieca pornografia, bensì diventa quasi un esperimento sociologico che attira tantissime donne, interessate a “confrontarsi” con questo muro così particolare.
 


Emblematiche sono infine le affermazioni di Nigel Coates, stampate sul pannello esplicativo che accompagna la sua sala “Picaresque”, con le quali mette in relazione la sua opera e il contesto della mostra, la Milano che si sta preparando all’Expo del 2015: «I segnali sono intorno a noi: il sesso vende, come cita l’aforisma. La città riflette questo tema nel suo stesso tessuto, dal fallicismo dei grattacieli e delle macchine sportive fino alla pubblicità e all’intrattenimento».

 

Kama. Sesso e Design
5 dicembre 2012 – 10 marzo 2013
Triennale Design Museum, Viale Emilio Alemagna, 6, Milano
Per ulteriori informazioni visitare il sito:
http://www.triennale.it

“Conversazioni all’ora del tè” di Jerome K. Jerome


Conversazioni all’ora del tè (Mattioli 1885) è un breve romanzo di Jerome K. Jerome scritto nel 1903.
Lo scrittore è già di per sé un personaggio e il suo piccolo libro, mai tradotto prima in Italia ci viene restituito in tutto il suo brio da Franca Brea.
«Un libro che ci interessa veramente ci fa dimenticare che stiamo leggendo. Proprio come la conversazione più piacevole avviene quando pare che nessuno in particolare stia parlando […] un buon libro è come un buon pranzo: lo si assimila. Il migliore è quello di cui non ricordate i cibi mangiati».
Si presenta da solo questo testo più che mai attuale pieno di humour inglese e ironia.


L’intero romanzo si svolge in un interno, tra le mura di un salotto dove fa bella mostra di sé un pianoforte che avrà il suo piccolo momento di gloria durante l’esecuzione di una sinfonia di Grieg. Un gruppo di personaggi che oseremmo definire un po’ eccentrici, si riuniscono per prendere il tè nel salotto elegante e confortevole del padrone di casa: la Donna di Mondo, il Poeta Minore, il Filosofo, la Giovane Girton, la Vecchia Signorina. Questi ospiti non hanno un nome proprio, ma la maiuscola attribuita al ruolo sociale riveste il loro status simbolico, e li rende rappresentanti di tutta una categoria. Essi hanno la convinzione di dire sempre cose appropriate, pertinenti e sensate anche se non mancano contrasti o divergenze di opinioni. Ma sono anch’esse necessarie poiché «cosa c’è di meno interessante di una conversazione in cui tutti sono d’accordo? D’altra parte, la divergenza di opinioni è stimolante».


I convitati nella sala da tè lo sanno bene, recitano una parte e, come abili concorrenti, sanno muoversi nel grande gioco della conversazione in società. Infatti la primadonna è proprio la conversazione, declinata al plurale e riflettente la molteplicità degli argomenti, un prolungato scambio di opinioni relativo ai grandi temi: il rapporto uomini/donne, il matrimonio, l’arte, la musica, e la storia dell’umanità passata in rassegna come una lunga evoluzione dalla primitività e dalla barbarie.


Non mancano riflessioni esistenziali sul senso della vita: «Questa vita contiene solo domande […] le risposte alla prossima puntata […] Se si potessero ottenere delle risposte sincere quale fascio di luce potrebbero gettare sulla faccia nascosta della vita».


Il narratore all’inizio fatica non poco a inserirsi nella conversazione, cerca di dire qualcosa ma viene puntualmente interrotto («per favore non parlate»; «evitate di parlare»), eppure alla fine è proprio da lui che arrivano gli spunti più interessanti come “la breve storia francese” o “la storia del pappagallo” perché «il flusso di chiacchiere deve essere tenuto costantemente attivo».


Questa piccola, brillante opera di Jerome si presta a essere rappresentata come una pièce teatrale; sembrerebbe infatti rispettare le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione del teatro classico: è interamente ambientata in un interno (tranne una breve parentesi in giardino) e si svolge in un tempo circoscritto, verosimilmente un pomeriggio: «“Che ora è?” chiese la Giovane Girton. Guardai l’orologio. “Le quattro e venti”. Risposi».


Il lasso di tempo in cui si può gustare una tazza di tè tra gentiluomini e dame si conclude con una circolarità perfetta che rimanda al titolo stesso: «“Prenderò un’altra tazza di tè” disse il Filosofo». L’allusione al tè prelude forse alla fonte d’ispirazione per un nuovo argomento ancora non toccato dagli altri ospiti?


 
(Jerome K. Jerome, Conversazioni all’ora del tè, trad. di Franca Brea, Mattioli 1885, 2012, pp. 103, euro 10,90)

[Oscar 2013] “Lincoln” di Steven Spielberg

Venticinque anni dopo Il colore Viola e diciassette dopo Amistad Steven Spielberg torna a confrontarsi con il tema del razzismo e della schiavitù negli Stati Uniti. Lo fa con Lincoln, ritratto degli ultimi, intensi mesi del mandato (e della vita) del sedicesimo inquilino della Casa Bianca. Nel 1864, gli Stati Uniti sono spezzati in due dalla guerra di secessione tra Unione e Confederazione. La presidenza Lincoln e la volontà di abolire la schiavitù del governo sono la causa della sollevazione degli stati del sud, basati su un’economia agricola in cui gli schiavi di colore svolgono un ruolo fondamentale. Nel 1863 era stato approvato il Proclama di Emancipazione che aveva liberato tutti gli schiavi degli stati confederati, il primo passo verso la totale abolizione della schiavitù cui si giungerà con la promulgazione del XIII emendamento della costituzione degli Stati Uniti, approvato in via definitiva dalla Camera nel gennaio 1865. Sono queste, la lotta alla schiavitù e la guerra di secessione, le due tratte principali lungo cui si muove il film di Spielberg. Non un biopic in senso classico, ma un film su una legge e sull’uomo che l’ha resa possibile.

Muovendosi lungo il sentiero della Storia, Spielberg ricostruisce con sapiente equilibrio la risoluzione di uno dei punti più controversi della storia degli Stati Uniti che solo oggi con la presidenza Obama stanno arrivando a una, parziale, assoluzione per il loro peccato verso la popolazione afroamericana. Non c’è un minuto di troppo in Lincoln, una sviolinata eccessiva, un dramma superfluo. Pochi minuti della battaglia di Jenkins’ Ferry in apertura (violenza cruda e semplice, di gente che lotta per non farsi uccidere, uomini privi di addestramento militare che si prendono a cazzotti in una pozza di fango mentre la telecamera li bracca da vicino), poi spazio alla politica dei palazzi, alle intese dei lobbisti, agli accordi con i conservatori e i radicali, tutto in interni, con la fotografia magistrale di Janusz Kaminski, che ha lavorato praticamente a lume di candela nella maggior parte delle scene, e in sottofondo la vita privata del presidente, l’amore per la moglie, consigliera discreta con la ferita profonda nel cuore della morte di due figli bambini e il terrore che il più grande, Robert, riesca a ottenere dal padre il permesso per potersi arruolare e andare a fare la parte che sente essere suo dovere nella guerra.

Partendo dal libro “Team of Rivals” di Doris Kearns Goodwin, adattato per lo schermo da Tony Kushner, Spielberg dirige con l’abituale sapienza un film molto parlato e lontano dalle sue più recenti produzioni, puntando su un’ineccepibile ricostruzione storica e politica e un cast di altissimo livello, con uno straordinario Tommy Lee-Jones che anima lo sboccato Thaddeus Stevens, il più radicale nelle pretese di libertà per gli afro-americani, e un altrettanto grande James Spader, irriconoscibile nei panni del lobbista Bilbo, che con i suoi assistenti insegue con mille espedienti i voti per il XIII emendamento e a cui è affidato il compito di alleggerire il film con una sfumatura di commedia. Su tutto, svetta il presidente. Il suo pacato e magnetico carisma cuce e compone la storia, convince e persuade gli avversari, guida gli Stati Uniti e il film. Come nella riunione di gabinetto in cui con abile oratoria, partendo da un aneddoto privo di apparenti collegamenti, seduce i suoi ministri, in un unico, lungo piano sequenza, sulla necessità dell’impegno per la libertà di chiunque.

La prestazione di Daniel Day-Lewis è monumentale, nel senso vero, di monumento. Costruisce una statua vivente di Abraham Lincoln, gli dà vita in ogni sfumatura, si trasforma nel fisico, acquisendo la rigidità del presidente, cessa di essere l’attore per diventare Lincoln. Si dice che durante le riprese non abbia mai smesso di parlare con l’accento del Kentucky, che volesse essere chiamato “The President” dagli altri membri del cast sempre, al punto da arrivare a firmarsi così anche negli sms che inviava. Un’immedesimazione che rasenta la mimesi, punto più alto di quel lavoro di radicale meticolosità che caratterizza le interpretazioni del due volte – e probabilmente presto tre – premio Oscar Daniel Day-Lewis.

(Lincoln, Steven Spielberg, Storico, 2012, 150’)

 

“Un favoloso bugiardo” di Susann Pásztor

Duecento pagine che coprono un arco di tempo di appena due giorni in cui il passato e il presente si incontrano per aiutare i personaggi a trovare se stessi, uno stile fluido e divertente, un registro colloquiale ma non volgare, Un favoloso bugiardo (Keller, 2012) sembra scritto da uno di noi e dedicato a ognuno di noi. Al suo primo romanzo, Susann Pásztor si dimostra una piacevole scoperta letteraria, che ci regala anche qualche aforisma degno di nota.

Il favoloso bugiardo del titolo è Jósef Mólnar, detto Joschi, un uomo dalla storia nebulosa, di cui nessuno riesce a scoprire molto e che, passando da una donna all’altra, ha creato una progenie che poco sa di lui ma che con lui condivide una caratteristica, quella di saper creare intere storie da una manciata di informazioni per trovare – forse creare – la propria identità. Dopo essere stato internato in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale, e dopo aver perso la moglie e due figli per mano dei nazisti, Joschi torna a vivere, a conoscere donne, a sposarle, a tradirle e a sfornare figli.

Sono proprio questi figli, anni dopo la sua morte, a riunirsi a Buchenwald in occasione di quello che sarebbe stato il suo centesimo compleanno, portando con sé Lily, la nostra narratrice, figlia di Márika e nipote di Joschi. Si forma quindi un quartetto che non potrebbe essere più diverso: l’appena citata Márika ha un passato molto disinibito, è una signora distinta ma spigliata, che vorremmo quasi conoscere nella vita reale; Hannah, invece, la immaginiamo come una donna semplice e castigata: come ferita dalle sofferenze del padre, è un’ebrea praticante, che sente ogni giorno in sé l’orrore dell’Olocausto e che cerca di onorare la memoria di chi vi è morto o di chi l’ha esperito; Gabor, il figlio minore, è riservato, silenzioso, non ha con le sorellastre il rapporto complice che invece Márika e Hannah condividono; Lily, infine, abile narratrice, è una curiosa senza pari, affascinata da questo zio silenzioso e da una storia familiare così oscura da poter essere plasmata quasi a piacimento.

A partire da quell’incontro, in cui inizialmente nessuno si sente a proprio agio, e che a tratti rivela tensioni notevoli, si cerca di ricostruire la storia di Joschi, un uomo che ha detto di sé tutto e il contrario di tutto: parlando del padre e della loro infanzia con lui, i figli iniziano a confrontare le informazioni in loro possesso, che quasi mai combaciano, narrano vissuti mirabolanti in cui l’ingegnosità del padre, un autentico favoloso bugiardo, li ha messi duramente alla prova. La capacità inventiva fuori dal comune di Joschi, a quanto pare, è genetica: con le informazioni contrastanti a loro disposizione, e con il poco che sanno effettivamente del genitore che hanno in comune, i quattro ricostruiscono la propria storia e plasmano la propria identità, aggiungendo pagine e pagine al nostro libro, che si fa via via più appassionante. «L’ignoranza non protegge mai», leggiamo, ma neppure ferisce. Hannah si è creata un personaggio dal forte sentimento religioso, si ritiene un’autentica ebrea, una vittima di seconda generazione dell’Olocausto, e non se la sente di verificare negli archivi di Buchenwald se il padre vi sia stato veramente internato o meno: se fosse stata solo una storia, l’ennesima bugia di un uomo dalle mille vite parallele, la sua intera esistenza perderebbe tutto il suo senso. Allo stesso modo, sui racconti di quest’uomo sorprendente, simpatico ma a dir poco ambiguo, si basano le vite di Márika e Gabor: ci ritroviamo di fronte una famiglia di attori che, in un certo senso, interpretano la vita per capirla, la narrano per trovare la propria collocazione, sono una specie di manifestazione pirandelliana alla disperata ricerca di una verità che, si renderanno conto, forse è meglio adattare a sé così da non rendere privo di senso tutto il proprio vissuto.

L’aspetto più positivo di questo breve romanzo è che i temi trattati – l’Olocausto, l’identità ebraica, la ricerca di una propria identità personale, ma anche la vita familiare in generale – sono narrati con semplicità, inseriti in un contesto tragicomico che mai scade nel ridicolo e che non si avvicina nemmeno una volta al dissacratorio. Márika, Gabor, Hannah e Lily sono personaggi molto vivi, le cui storie non sono un modo per riempire i buchi narrativi o per distrarre il lettore dalle eventuali incapacità o incoerenze dell’autore: al contrario, servono a rendere tutta la narrazione più concreta, più “veritiera”, seppur all’interno di un libro in cui la verità è decisamente relativa.

(Susann Pásztor, Un favoloso bugiardo, trad. di Fabio Cremonesi, Keller editore, 2012, pp. 217, euro 14,00)

“Il piantagrane” di Marco Presta

Capita di rado di leggere un libro divertente, colto e raffinato al tempo stesso. Con un’ironia garbata e una satira vivace ma sottesa, Marco Presta, con il suo “Il Piantagrane” (Einaudi, 2012), ci regala un affresco dell’Italia contemporanea (e del nostro tempo) che fa rabbrividire proprio perché reale ma, che fa ridere proprio perché profondamente grottesca. In realtà non si parla mai del nostro paese ma gli indizi lasciati qua e là, disseminati in una narrazione incalzante e caotica profondamente inserita nel gioco degli antieroi e del nonsense, ci fanno “sentire a casa”, purtroppo, ancora una volta, a malincuore.

Alla base di tutto c’è un tema fortemente “di moda”, quello della rivoluzione. Di moda nel “parlato”, naturalmente: qui in Italia la rivoluzione non s’è mai fatta (o forse sì, ma mascherata: o almeno questo pensava Curzio Malaparte quando parlava della disfatta di Caporetto nel suo Tecnica del colpo di stato) e mai, probabilmente si farà (per troppe cose, nonostante troppe cose).
Allora capita – ma è fantasia lo sappiamo – che un uomo, un vivaista (bella parola, eh?), un bonaccione (uno che di italiano paraculo ha davvero poco) che pensa solo alle sue piante e all’amore (una ragazza conosciuta appena, a dir la verità), incarna a sé un cambiamento. Come? Il seme di una rivoluzione positiva si è innestata in lui. Re Mida al contrario: dove “tocca”, anzi “passa” lui tutto ritrova senso. Bello, no? Mica tanto. Ve lo immaginate un paese dove i giornalisti non parlano di cucina e gossip ma di problemi veri? Dove i politici e i finanzieri lavorassero in nome della giustizia e dell’uguaglianza? Dove i tifosi di calcio applaudissero anche gli avversari e gli arbitri non fossero condizionati da interessi troppo grandi? Ecco il punto. Un paese così non andrebbe bene a molte persone. Con la tecnica a cui ci abituò il buon Saramago (“Immaginate che tutti diventano ciechi”, “Pensate se tutti smettessero di votare”, “Cosa succederebbe se la morte smettesse di sopraggiungere ad un certo punto della nostra vita?”) questa ipotesi creerebbe non pochi problemi. Soprattutto in alto (ma anche in basso, ben intesi, siamo onesti): questo il motivo per cui l’anima candida inizia ad essere accerchiata da forze oscure (in realtà neanche troppo) che se venisse fatto fuori mica sarebbe poi una tragedia.

Giovanni – questo il nome – è un Don Chisciotte involontario e come tale ha bisogno di un fido aiutante, Sancho Panza: uno scudiero burbero, nevrotico, pazzoide e un po’ ignorante. Ma buono. E sincero, come pochi. E soprattutto scaltro: lui che ha vissuto una vita d’inferno conosce meglio d’altri la sua razza, quella umana. La logica e il buon senso che porta con sé il suo servito sono una spada di Damocle a cui si può poco e nulla: fuga, e fuga sia. Il nostro destino è in mano a una coppia stralunata che farebbe invidia a tanti duetti comici. Merito di un autore che è bravo davvero e che merita il successo che, con questo libro (in radio – è un autore de “Il ruggito del coniglio” – ce l’ha già), sono sicuro arriverà.

(Marco Presta, Il piantagrane, Einaudi, 2012, pp.256, euro 17,50)

Pablo

«Pablo».
C’è rosso, qualcosa di rosso che spezza il buio. E silenzio.
«Pablo…»
Un odore acre mi afferra alla gola. Tossisco violentemente e non riesco a fermarmi. Butto fuori ancora sangue e saliva. Ho la vista annebbiata e nuovi conati di vomito mi scuotono. Non ho dolore, solo freddo. Molto, molto freddo.
«Pablo», dico, «per la terza volta».
Non so se sono morta, sembra uno strano sogno. Un sogno silenzioso, calmo e soffocante.

Io Pablo l’ho conosciuto al mare. Una di quelle cose che succedono per caso, sembra, e poi ti rivoltano la vita. Lui era accoccolato su una roccia massiccia, bruna e porosa, protesa sul cobalto del mare. Le dita scure si chiudevano su un canna lunga, rudimentale, dalla quale pendeva un filo invisibile, a perpendicolo sull’acqua. Il suo sguardo antico fissava calmo e immobile il punto preciso in cui il filo sottilissimo bucava l’acqua scura e spariva. Sembrava fosse lì da secoli, che dovesse essere lì e in nessun altro posto. Il sole calava piano nella baia. Ma c’era caldo, quel giorno, un caldo insopportabile. Io misi a fuoco l’obbiettivo e mi avvicinai a lui. Lentamente. Quando entrai nel suo campo visivo non fece minimamente cenno d’avermi visto. Si mosse appena, come per trovare meglio il punto d’appoggio.
Continuava a guardare quel punto fisso sul mare, come fosse l’unica cosa esistente al mondo.
Io scattai.

Poi lui aveva riposto la canna nella capanna e arrostito il pesce. Mi avvicinai, allora. Avevo scattato una ventina di foto fantastiche per il mio magazine, ero eccitata e avevo fame.
«Puedo assagiar?», gli chiesi nel mio spagnolo rabberciato.
Lui si voltò e mi guardò per la prima volta con quei suoi occhi antichi, calmi e distanti.
«Prego, mucacha, prego…», mi disse sorridendo. «Italiana?»
Anch’io sorrisi, e annuii.
Ci sedemmo uno di fronte all’altra, e ancora fui colpita dal suo sguardo. Mangiammo in silenzio, nella sera calma di Valencia, e poi parlammo. Parlammo molto, io lo guardavo, lui si passava le dita scure e nervose tra i capelli. Non so come dire, penso che queste cose non accadano sempre, non a tutti. Penso anche che quando due persone hanno tante cose da dirsi, è bello dirsele un po’ alla volta, magari ogni tanto o tutti i giorni, ma per sempre. Alla. fine mi ha accompagnato in albergo. Ci sono molti modi di stringersi le mani, e quella notte lui l’ha fatto con me nell’unico modo in cui io avrei voluto lo facesse. Mi ha detto: «No lasciarme, muchacha…»
Questo è successo dodici anni fa, e io e Pablo non ci siamo più lasciati.

Così ero con lui, quel giorno. O quella notte.
Dissi: «Pablo, ho paura. Tu dici che è vero?»
«Cosa?»
«Che finisce tutto, stanotte…»
«Stai calma, muchacha, calma, no te preocupe…»
«Non ci riesco, Pablo. E tu? Tu non hai paura?»
«No».
«Perché, dimmi perché…»
«Es una favola, muchacha, seguro…»
«Guardami, Pablo, guardami…»

È l’alba e siamo sulla spiaggia: hanno detto che sarà una cosa rapida, solo una gran luce. Senza cose trascendentali, senza dolore. Saremo avvolti da una gran luce. Mi sembra un buon modo di morire – penso – mi dispiace solo per Pablo. Io la mia vita l’ho presa sempre con filosofia, ma mi dispiace lasciarlo, ecco, mi dispiace molto. Comunque l’abbiamo deciso insieme, di aspettare sulla spiaggia dove ci siamo conosciuti. Come se in qualche modo ci concedessimo l’arbitrio di dare un senso alla nostra storia, un inizio e una fine che ci appartenesse.
È per questo che siamo qui, io e Pablo, stanotte.

Un vento leggero si è alzato da poco. L’acqua è scura, più del solito. Nuvole piene e morbide veleggiano all’orizzonte, quasi a ridosso del mare. L’aria è calda e pesante. Vedo uno stormo di gabbiani che sfrecciano tra cielo e acqua, ma non in cerca di cibo.
Non ho mai visto gabbiani all’alba. E muti.

Il sole sta salendo.
Che si pensa prima di morire? Sono confusa, la testa mi gira. Morire non è poi così difficile, penso. Forse è tutta una storia inventata. È la paura che ci frega, solo la paura. Basta amarla, la morte, e lei ti ama. Com’è che ci penso solo adesso? Già, sto morendo. Però, allora, quante cose non ho pensato? Ma, allora…
«Sono stata cattiva, Pablo?», dico improvvisamente, scuotendolo.
«No, muchacha».
Si passa le dita scure tra i capelli. «Tu mi hai amato, este es importante, muy importante… il bene e il male non esistono… sono la stessa cosa…»
Si alza in fretta, scrollandosi la sabbia di dosso. All’orizzonte spuntano altri gabbiani che tagliano in ogni direzione, come impazziti, il cielo chiaro. Mi alzo lentamente. Lui scruta il cielo e le traiettorie impazzite dei gabbiani sul mare.
I gabbiani, avevano detto, i gabbiani sono i primi a sentire.
Le nuvole si sono trasformate in piccoli sbuffi pallidi e sfilacciati che continuano a veleggiare all’orizzonte.

Eravamo così, fermi. Lui mi stringeva la mano e il suo calore mi placava, in qualche modo.
Dev’essere stato allora che è successo.

I gabbiani garriscono con un fragore innaturale, come se l’audio del mondo fosse stato attivato all’improvviso sul silenzio sepolcrale dell’alba.
Garriscono così forte che urlo ma non riesco a farmi udire da Pablo. Lui infatti non si gira, non mi guarda. È fermo e immobile a guardare l’orizzonte, Forse allora sto solo pensando di urlare – mi dico – perché la voce non esce, mi rimane strozzata in gola. Lo scuoto con violenza. Pablo si gira, finalmente. Ha il terrore negli occhi e io non avrei mai pensato che i suoi occhi potessero essere così, con dentro quello che vidi in quel momento.
Non sono i suoi occhi, non sono gli occhi di Pablo.

Guardo anch’io. La mia testa ruota lentamente di novanta gradi, per ogni grado un frammento di vita. E piazza gli occhi sull’orizzonte. Sembra che il mare si gonfi leggermente, con moto regolare. Sale piano, l’acqua immobile. Il sole è alto, arde e brucia le sabbia.
Una luce accecante inonda il cielo e me, e credo che qui sia finito tutto.
Dico: «Pablo… questo caldo, io non l’ho mai sentito… devo essere morta… sì, sono morta…»
E poi non ho più nella mia la mano di Pablo.
Ho caldo, molto caldo, questo mi ricordo.

È solo, Pablo, sdraiato alla luce della luna. Gli occhi guardano fissi in su, con terrore ostinato, quell’ultimo terrore ostinato che gli è rimasto stampato dentro.

Fa un freddo dannato, adesso. Mi tocco, mi guardo intorno. Non vedo Pablo. Cerco di alzarmi ma le gambe non reggono. Tossisco. Sento in bocca il sapore del sangue, molto sangue. Lo vomito e lo vedo cadere scuro sulla sabbia. Respiro a mala pena, come se avessi i polmoni intasati da qualcosa. Giro lo sguardo intorno e verso il mare. C’è buio fitto e una distesa infinita di qualcosa, e in fondo luce.
Dov’è Pablo? Dio, che freddo. Sangue. Scuro, sulla sabbia… E i gabbiani?… Si, c’erano i gabbiani… mi ricordo bene… dove sono finiti? La luce…
La luce è lì. E tutto quel nero, dovrebbe essere il mare. Arranco carponi alla rinfusa, la sabbia è fredda, asciutta, e mi punge le ginocchia nude e le mani. Vedo qualcosa, alla luce della luna che taglia il cielo nero come un bisturi affilato. Sembra un corpo disteso rivolto in su.
Arrivo lì, dove c’era il mare. Si, il mare, mi ricordo.

«Pablo».
C’è rosso, qualcosa di rosso che spezza il buio. E silenzio.
«Pablo…»
Un odore acre mi afferra alla gola. Tossisco ancora violentemente, e non riesco a fermarmi. Butto fuori ancora sangue e saliva. Ho la vista annebbiata e nuovi conati di vomito mi scuotono. Non ho dolore, solo freddo. Molto, molto freddo.
«Pablo», dico per la terza volta.
Non so se sono morta, sembra uno strano sogno. Un sogno silenzioso, calmo e soffocante.

 

Questo racconto si è classificato secondo al concorso Flan-Natale Story 2.

“Lettino” di Martha Medeiros

In fondo ogni donna è come se fosse plasmata con diverse tonalità di cera rosa, esteriormente e interiormente. Punti di rosa che variano dal pastello al confetto, dal carne al fuxia, e la protagonista di Lettino (Beat, 2012), Mercedes, racconta, per quasi tre anni, al suo interlocutore psicanalista, il Dottor Lopes, le sue verità rosa shocking, colore che pigmenta anche la carezzevole copertina.

Mercedes odia «parlare di bambini, donne di servizio e saldi», e i suoi «tacchi alti e l’eye-liner» celano in realtà una non femminilità ammessa sin dal principio: «Penso come un uomo, ma sento come una donna. […] Sono autoritaria, audace e un vero disastro in cucina» perché «la vita domestica è per i gatti». È una quarantenne benestante, un’amante della città, insegnante e pittrice, orfana di madre, sposata con Gustavo e madre di tre figli. Racconta di non saper piangere, «il freezer della famiglia»: «mi sento vittima per essere stata privata di qualcosa che l’umanità considera vitale per l’equilibrio emotivo dell’essere umano» ma «non credo che sarei una persona più espansiva se avessi convissuto ininterrottamente con una madre sorridente e affettuosa, come quelle delle pubblicità in tivvù. […] L’unica cosa che so, è che sono stanca di seguire le regole stabilite dalla maternità, […] ho bisogno di un po’ di castigo, visto che le bambine senza madre di solito vengono sempre perdonate. […] Non so se concordo con la leggenda secondo la quale tutti gli amori diventano amicizia e che desiderare più di questo sia segno di immaturità. C’è una logica in tutto questo, ma non c’è palpitazione».

In nome di questa palpitazione e della fuga dalle «cose tiepide» la sua vita cambierà forma, colore e tepore…: «Vivere deve essere sconvolgente, è necessario che i nostri angeli e i nostri demoni siano svegli […] Ciò che non ci fa muovere un muscolo, che non ci fa fremere, sudare, sbottare, non merita di far parte della nostra biografia».

Il rapporto coniugale con Gustavo era «in quella fase in cui ogni giorno sembra domenica»: «la domenica è troppo benevola. Non c’è la malizia del sabato, né la determinazione del lunedì. […] Non c’è euforia, ma nessuno è nemmeno triste. […] non ci sono sorprese né delusioni». Con lui invece saranno «40 gradi all’ombra»…, un picco emotivo che, a prescindere dalla durata, porterà Mercedes a interrompere di netto e con onestà quell’“agonia domenicale”, ad avere l’approvazione e il rispetto dei figli, ad assaporare il gusto agrodolce delle lacrime, a non disdegnare il rossetto rosso.

Leggendo assisteremo alla trasformazione di una donna che, mettendosi in discussione dal profondo e coinvolgendo la nostra emotività di lettori a partecipare di tutti i suoi baratri, finirà con lo sciogliere i nodi che l’avevano costretta a rivolgersi alla psicanalisi: «Una volta, quando mi sentivo triste, […] volevo la trasformazione immediata: dalla stazione Tristezza alla stazione Hip-hip-hurrà, senza scali e senza attese. Vivere è ben altro che una camminata, non c’è la piacevole opzione di scegliere dove scendere. Bisogna attraversare tutto». E Mercedes lo farà «nella piena luce del giorno», accettando con serenità che «tutto è transitorio».

Abdicando il difficile e a volte ingrato ruolo di giudice severo, e analizzando la purezza che in realtà riverbera in ogni avvenimento narrato, chiunque concepisca l’esistenza come qualcosa da mordere e baciare con entusiasmo, amerà questo romanzo. Purché la fame del lettore non sia «mai stata di cibo, ma di vita vissuta».

D’altronde «il mondo progredisce, progredisce, progredisce e quando lo analizziamo, nell’atto finale, si presenta immutato, fermo da secoli in un’unica e incorruttibile verità: continua a essere l’amore la cosa più rivoluzionaria che esista». E proprio la protagonista aggiunge un’altra saggia chicca: «Riverivo la solitudine perché credevo di conoscermi a sufficienza. Da soli ci preserviamo e basta. La nostra esistenza, per valere qualcosa, si conferma soltanto attraverso gli altri».


(Martha Medeiros, Lettino, trad. di Cinzia Buffa, Beat, 2012, pp. 125, euro 7)

“Magma” di Lars Iyer

Un gioco di incroci di traiettorie, di scontri e di incontri, che fa del movimento il suo soggetto principale: questo è Magma di Lars Iyer (Meridiano Zero, 2012), professore di filosofia all’università di Newcastle che esordisce con un romanzo dai diversi gradi di lettura.

La trama è molto semplice: due accademici britannici viaggiano per l’Europa tra bar e convegni in attesa di un’idea filosofica che legittimi la loro professione. Ma la genialità non si acquista con l’esercizio e i due si scoprono personaggi “marginali”: «Siamo essenzialmente periferici. Chi mai si sente minacciato da noi? Chi si preoccupa di noi? Nessuno concordiamo».

Lars vive in un appartamento infestato dalla muffa, legge riviste scandalistiche, gioca con l’iPhone, mangia a dismisura e beve molto gin, come W. del resto.

W. è polemico e cinico, sempre malato perché è la sua intera esistenza a rivelarsi un’eterna fase d’incubazione. E Kafka, che proprio durante la malattia raggiungeva la perfezione, diventa la guida spirituale dei due filosofi. Eppure «La letteratura ci ha rovinati: abbiamo sempre concordato su questo. La tentazione letteraria è stata fatale», perché ha instillato il virus del pathos a discapito di ogni abilità intellettuale.

Se la storia è quasi elementare, la narrazione è molto articolata. L’ottima traduzione di Delia Belleri, restituisce lo stile sarcastico e a tratti nervoso di Iyer, che molti hanno conosciuto attraverso il seguitissimo blog Spurious (che è anche il titolo originale del libro).

Con estrema leggerezza, l’autore presenta al pubblico un testo che non decostruisce, ma scompone la focalizzazione spartendola tra narratori di primo grado e di secondo grado. Lars infatti assimila invettive e suggestioni senza apporre alcun filtro critico, lasciando che sia lo sguardo esterno dell’amico a dar corpo alla sua immagine come se fosse egli stesso il frutto di una continua citazione.

Il libro prende forma grazie a un circuito di idee in continuo movimento. È il dialogo tra i due filosofi a spingere un testo che diversamente si rivelerebbe un po’ ripetitivo. La forza di Iyer è nella misura: sarebbe bastata una pagina in più a trasformare un testo originale in un artificio bizzarro. Invece l’autore calibra perfettamente ironia e riflessione, gli sbalzi del registro linguistico, i toni che stemperano la seriosità di alcuni concetti apertamente dotti. Ma buona parte di filosofia resta celata nella struttura del testo, per esempio nei dialoghi socratici e platonici, o nei temi, come l’amicizia di Seneca, o nei nomi, come questo W. che forse è Wittengstein, ma forse no. Sta al lettore rintracciare i segnali nascosti. Ed è divertente perché come recita la collana di Meridiano Zero: «De te fabula narratur».


(Lars Iyer, Magma, trad. di Delia Belleri, Meridiano Zero, 2012, pp. 176, euro 10)

Voland: a tu per tu con Daniela Di Sora

Per concludere il nostro viaggio DietroLeQuarte di Voland abbiamo chiacchierato con l’editore Daniela Di Sora. Seduta a un tavolo di legno tra pareti piene di libri, Daniela mi ha raccontato un po’ della sua storia, della storia di Voland e tante curiosità su autori, traduttori e traduzioni.

Per la nostra rubrica DietroLeQuarte, questo mese ci siamo occupati della vostra casa editrice. Abbiamo raccontato la vostra storia (qui), abbiamo provato a interpretare le vostre scelte, abbiamo esplorato nel dettaglio la vostra nuova collana Sirin Classica (qui), nata nel 2010 in occasione del vostro quindicesimo compleanno. L’impressione che abbiamo avuto è che il vostro successo e i premi che avete ricevuto (nel 1999 il Premio alla Cultura della Presidenza dei Ministri e nel 2003 il Premio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), nasca da una scelta coraggiosa, quella di pubblicare in Italia autori che non hanno ancora trovato spazio o opere minori rimaste nascoste al grande pubblico. Come ci si sente adesso che la scelta si è rivelata vincente?

All’inizio, come forse sapete, volevamo occuparci solo di letterature dei paesi slavi. A onor del vero abbiamo un po’ aggiustato il tiro affinché questa scelta si rivelasse vincente: c’è voluta un po’ di elasticità mentale perché la rigidità consente pochi movimenti. E così ci siamo un po’ ammorbiditi. Abbiamo mantenuto una collana, Sirin, che si occupa esclusivamente di autori slavi e abbiamo aggiunto Sirin Classica, che si occupa di autori russi classici. Queste sono le due collane essenziali e più vicine al mio cuore; poi ci sono Intrecci, Amazzoni, Confini e l’ultima nata, Finestre, che sta andando anche abbastanza bene. Il progetto è quindi diventato più ricco, più armonico e questo ha portato qualche riconoscimento perché l’idea di fondo, sottintesa sin dall’inizio, della “letteratura di qualità” non è stata mai abbandonata. Ci siamo aperti ad altre letterature, ma sempre ad autori di spessore, la cui opera ha grande importanza nel paese d’origine e che siamo in qualche caso riusciti a imporre anche nel nostro. Come ci sentiamo? Abbastanza soddisfatti. A volte vorremmo che alcuni autori che noi giudichiamo altrettanto validi fossero più venduti e più vendibili. Al di là del riconoscimento teorico c’è il riconoscimento in libreria, che in questi ultimi mesi, non solo per noi, ma per tutto il mondo editoriale, sta un po’ vacillando.

A proposito di successi in libreria… Su www.bookrepublic.it è possibile scegliere tra ventisei dei vostri titoli che sono attualmente disponibili anche in ebook. Il dibattito sulla digitalizzazione dell’editoria è sempre aperto e “caldo”, potremmo fare un’altra intervista e parlare solo di questo, ma le chiedo di riassumere il suo/vostro pensiero a riguardo. Nel vostro caso specifico, come sta andando?

Penso che l’ebook sia uno dei modi di leggere un libro e ognuno è libero di leggere come preferisce. Io preferisco la carta, ma perché appartengo a una generazione che è nata con la carta. Mi diverte, mi incuriosisce sfogliare gli ebook, ma rifletto sul fatto che gli ereader tendono sempre di più a somigliare al libro. Allora fatemi leggere un libro! (ride, ndr) È come se l’oggetto tendesse sempre di più a somigliare al libro. Detto questo, c’è un’innegabile praticità e comodità nel portarsi appresso cento titoli, per esempio, ma io non amo essere disturbata mentre leggo un libro. L’utilizzo degli ebook lo vedo più adatto per opere diverse da quelle di narrativa, opere scientifiche, dizionari, opere che consentono un tipo di applicazione diversa. Per la narrativa, io preferisco la carta, ma la generazione che nasce “smanettando” sarà inevitabilmente attirata dall’ebook e dunque io, come imprenditore, non ho nulla in contrario. Il problema vero è che in un sistema in cui gli ebook prevalgono sul cartaceo sparisce il sistema delle librerie, insieme alla figura del libraio, e va dimostrato che questo sia un vantaggio.

Potrebbero continuare a esistere come centri di cultura forse, questa è l’unica strada alternativa che vedo…

Anche io forse. Per fortuna non stiamo parlando di domani o dopodomani. Oggi anche la professionalità dei librai è sempre più rara e il problema è parecchio complicato. Certo non vorrei ridurmi a comprare quello che mi suggerisce Amazon. L’importante è non leggere, con qualunque mezzo, solo le Cinquanta sfumature di grigio. Poi per il resto vedremo come andrà.
 


 

Vorremmo entrare nell’officina Voland, certi di soddisfare la curiosità dei lettori. Come avviene la selezione dei titoli? Quali sono le linee guida che vi siete dati e che vi hanno permesso di mantenere così alta la vostra qualità?

La selezione dei testi avviene attraverso un filtro stabilito da un certo numero di collaboratori, per cerchi concentrici. Ci sono all’esterno delle case editrici estere con cui ci riconosciamo in simpatia, in coerenza di cataloghi e ci viene quindi istintivo visitare i loro stand nelle fiere più grandi – Francoforte, Parigi, Londra. Andiamo a cercare le case editrici che consideriamo di riferimento e che ci considerano come riferimento. Scegliamo un certo numero di libri, ce li facciamo spedire e li mandiamo in lettura a persone di cui conosciamo il gusto. In diciotto anni di lavoro ci siamo affinati e so che mi posso fidare non solo di un gusto alto, ma del giudizio di persone che hanno capito cosa va e cosa non va nel catalogo Voland. Inevitabilmente questo percorso conduce a me, che alla fine dico: «Questo mi piace, questo no, forse non è il momento ecc». Poi c’è un ulteriore filtro rappresentato dal fatto che noi pubblichiamo 22 titoli l’anno e non sono molti; togliendo un Nothomb, che c’è, per fortuna, tutti gli anni, un Phlippe Djian e Prilepin, di cui abbiamo già acquistato un certo numero di titoli, le scelte, come può immaginare, si riducono. A quel punto i due, tre consiglieri/collaboratori/traduttori delle varie aree contribuiscono con il loro giudizio. Il percorso è un po’ questo, è fatto di destini incrociati.

Tra i vostri successi editoriali, non possiamo appunto non ricordare Amélie Nothomb, scrittrice belga di cui avete pubblicato, a partire dal 1998, tutti i romanzi, alcuni dei quali sono arrivati alla quarta ristampa. Amélie resta fedelissima alla vostra casa editrice. Raccontateci qualcosa del vostro incontro, di com’è nata e come prosegue questa collaborazione.

L’incontro è iniziato in modo molto semplice. Mi trovavo a Parigi, alla libreria Virgin sugli Champs-Élysées e proprio in quel periodo avevo deciso di non occuparmi più solo di autori slavi, quindi orientativamente era la fine del 1995 o l’inizio del 1996. Entro, faccio incetta di libri e tra questi prendo Igiene dell’assassino, che era uscito in Francia nel ’94. Il libro, che poi abbiamo pubblicato nel 1997, mi rapì ed entusiasmò così tanto che decisi di rivolgermi all’Albin Michel, la casa editrice “madre” che detiene i diritti per tutto il mondo; loro mi risposero che avrei dovuto comprare quatto libri, altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla. Io ci pensai un po’ e poi li comprai tutti e quattro. L’atto di coraggio mi è stato riconosciuto da Amélie e si è creata una simpatia personale; lei è una persona straordinaria, divertente, intelligente. Da quel momento per fortuna non ci ha più abbandonato.

La vostra casa editrice si caratterizza per la “bottega di traduzione”, un laboratorio grazie al quale studenti, neolaureati e traduttori professionisti possono confrontarsi con voi, che di traduzioni ve ne intendete eccome! Può spiegarci meglio come funziona e com’è organizzata la vostra “bottega”?

La casa editrice Voland ha una cura particolare per la traduzione, ne è prova il nome del traduttore sempre in copertina. Io ho tradotto per tanti anni e quando ho tempo traduco ancora; ho insegnato anche per diciassette anni all’università di Pisa un modulo di traduzione dalle lingue slave. Il nostro scopo è far capire a chi si interessa di traduzioni cosa vuol dire la traduzione per il mondo editoriale. C’è infatti una differenza tra la traduzione filologicamente corretta e la traduzione altrettanto filologicamente corretta, ma che comunque ha un destinatario preciso, il pubblico. Far capire come si fa una scheda di traduzione, come ci si rivolge a un editore in questo campo, come si maneggia il testo, come si sciolgono praticamente alcuni nodi del testo tradotto. Questi sono alcuni degli obiettivi della bottega. Il redattore, certo, ci deve essere e fa comunque un lavoro di controllo finale, anche riprendendo in considerazione il testo in lingua originale, ma il traduttore ben formato gli permette di non lavorare come un pazzo. Chi traduce sa che un occhio esterno serve e non ci sono vie di mezzo. Ma l’idea è proprio quella di facilitare il lavoro del redattore.

Qualche anticipazione sulle uscite 2013?

In questi giorni sta uscendo in libreria Delitto a Villa Ada di Giorgio Manacorda. Poi c’è Barbablù di Amélie Nothomb, che uscirà – come di consueto – a fine febbraio. Inoltre quest’anno la Nothomb sarà in Italia dal 10 al 13 aprile e sarà ospite della giornata conclusiva del festival veneziano “Incroci di civiltà”. Continueremo con La Cattedrale, del polacco Jacek Dukaj, considerato una vera promessa nel campo del racconto di fantascienza, che è un libro su cui puntiamo moltissimo: sono tre racconti lunghi molto belli. Cosa ci resta domani, della statunitense Katie Arnold-Ratliff. E poi c’è Matteo Marchesini, un altro italiano su cui stiamo indagando. Il romanzo è bellissimo, l’ho appena letto, e s’intitola Atti Mancati. E per finire Philippe Djian, l’erede della beat generation, con un romanzo politicamente scorretto che s’intitola Oh… Djian è grandissimo, mi chiedo come l’editoria italiana abbia potuto lasciarlo da parte. Era uscito solo Betty Blue. 37° 2 al mattino per De Agostini e poi era finito nel dimenticatoio. Invece è un grandissimo autore e sono contenta che il filone Djian stia andando piuttosto bene.

Ringraziamo Daniela Di Sora per la disponibilità e vi diamo appuntamento al mese di febbraio con una nuova casa editrice.