“Il nostro uomo sul campo” di Robert Perišić

«Semplicemente il tempo scade. E ci siamo ripromessi tante cose. Siamo impazienti. Nervosi. Accelerati. Le pubblicità di come dovrebbe essere la nostra vita ci vengono buttate in faccia come un drappo rosso in questa corrida convulsa. Annaspiamo. Prendiamo una nuova rincorsa. Beviamo la Red Bull che ci mette le ali. Siamo una generazione così».

Robert Perišić è indubbiamente una delle voci più chiare e importanti apparse sulla scena letteraria croata negli ultimi vent’anni. Ideatore della rivista letteraria Godine nove, critico e giornalista per diverse riviste croate, oltre che sceneggiatore, Perišić inizia scrivendo poesie, per passare poi alla narrativa; alcuni suoi racconti inizialmente vengono pubblicati su varie riviste, e nel 1999 esce la sua prima raccolta: Možeš pljunuti onog tko te bude pitao za nas (Puoi sputare a chi ti chiederà di noi). Nel 2007 pubblica Il nostro uomo sul campo, romanzo acclamato dalla critica, che gli vale il premio Jutarnji list.

Si potrebbe parlare di un romanzo impegnato, perché l’autore ha applicato uno sguardo critico su tutta una serie di problemi sociali comuni ai paesi in transizione. Tale approccio, del resto, rispecchia un impegno più ampio di Perišić, che cattura nella sua scrittura i movimenti sociali, anche quelli quotidiani, impercettibili, e politici “sul campo”. Il romanzo è però allo stesso tempo la storia personale di un individuo la cui vita viene pian piano destrutturata, disintegrata.

La guerra – un motivo di cui, a quanto pare, gli scrittori croati, come anche molti registi, non riescono proprio a liberarsi – nel romanzo di Perišić funge soltanto da cornice. Non si tratta però della guerra in ex Jugoslavia, ma di una guerra lontana e piuttosto astratta per i lettori croati: quella in Iraq.

Il protagonista, Tin, ex studente di economia, un rockettaro sulla soglia dei trent’anni, nel quale si potrebbe riconoscere tutta una generazione che visse i turbulenti anni ’80 in ex Jugoslavia, lavora come redattore della rivista Objektiv, un ambiente costellato di giornalisti opportunisti, una modella fallita, un imbroglione ambizioso, in cui Tin non si trova a suo agio e la cui ideologia non condivide. Pure continuando a sentirsi un disadattato, si costruisce pian piano una quotidianità a Zagabria.Quando un giorno gli si presenta il cugino Boris, ex studente di arabo e reduce dalla guerra in cerca di un lavoro, Tin decide di proporgli un posto come inviato dall’Iraq, pur rendendosi conto che il suo vissuto ha lasciato segni indelebili in Boris: «Il volto flemmatico, poche parole, lo sguardo perso».

Sin dalle prime pagine del romanzo, la quotidianità di Tin, che scorre tra le giornate in redazione, la vita che condivide con la ragazza Sanja, attrice, e con il suo miglior amico, ex darkettone, Markatović, si alterna con dei reportage che Tin riceve da Boris via email, ritenuti da una grossa fetta della critica croata la parte più riuscita del romanzo.

Le mail del cugino però sono inutili per il giornale, e per renderle accettabili dal suo capo Tin le edita, nascondendo che l’autore è un suo parente: piuttosto che dei veri reportage di guerra, si tratta di confuse cronache, psichedeliche riflessioni caotiche che riportano notizie dei bombardamenti in Iraq, e si confondono spesso con le reminiscenze dell’esperienza bellica dello stesso Boris. Dopo che Tin ha cercato invano di convincerlo a tornare, un giorno i suoi reportage smettono di arrivare. Tartassato dalle chiamate della zia preoccupata per il figlio, e poi dal suo capo che viene a scoprire la verità, Tin dovrà affrontare la nuova situazione e il lettore assisterà a un lento ma inesorabile disintegrarsi dei punti saldi nella vita del protagonista, che trova eco anche nel cambio della sintassi, del registo e dello stile del testo.

Perišić, adottando una scrittura concisa, umoristica, fatta di frasi brevi e a tratti ironiche ma anche amare e pungenti, cattura il peggio dei fenomeni della quotidianità croata, fa i conti con una società che subisce ancora i danni morali della guerra ma che ha tanta voglia di trovare un equilibrio e andare avanti sulle proprie gambe. Scrive di un paese comandato fortemente dai media e dai vecchi e nuovi modi di pensare – ugualmente pericolosi e poco coerenti –, un paese popolato da gente senza scrupoli e ideali, da persone che riescono a costruirsi una carriera in fretta, sventolando nuove bandiere e nascondendo vecchie tessere di partito. Un paese che ce la farebbe comunque, perché di teste nuove e critiche ce ne sono, se solo non fosse bloccato in un mare di stereotipi e guidato da persone poco carismatiche e disoneste.

La nuova generazione, alla quale appartiene anche l’autore, è amareggiatae ironica, schiacciata dalle innumerevoli possibilità di scelta, ma riesce comunque a trovare nella realtà attuale una fonte di ispirazione, e di ribellione costruttiva, che lascia il posto a un barlume di speranza.


(Robert Perišić, Il nostro uomo sul campo, trad. di Elvira Mujcic, Zandonai, 2012, pp. 339, euro 16)

“Sforbiciate” di Fabrizio Gabrielli

La sforbiciata è un gesto atletico di particolare difficoltà. Richiede coordinazione, precisione, potenza e soprattutto tempismo. Basta un attimo per saltare a vuoto, un istante per mancare l’impatto col pallone e finire goffamente al suolo. La perfetta sforbiciata ha bisogno di un solo istante: quello in cui il piede impatta con il pallone e l’acrobazia del volo trova la sua piena dignità nella trasformazione in rete. Per la gloria del risultato non importa che sia lo scarpino o il parastinchi a impattare sulla sfera, basta che la palla superi la linea, perché, come diceva una sigla di qualche tempo fa, «tanto c’ha ragione chi fa gol».

Fabrizio Gabrielli ne ha confezionate trentuno di Sforbiciate tra il primo, il secondo e i tempi supplementari della sua raccolta pubblicata da Piano B edizioni, nella collana Disport, (cui si sommano un contributo di Davide Enia e quindici illustrazioni originali dell’artista argentino Maximiliano Chimuris).

Trentuno gesti tecnici che attraversano il tempo e lo spazio in ordine sparso su un campo da gioco su cui si muovono indifferentemente grandi eroi del pallone (George Best) e personaggi apparentemente distanti dal prato verde come Salvador Dalí e Django Reinhardt. Un campionato unico che abbraccia più epoche e tutti i continenti, in cui ogni singola storia merita una cronaca da finale di Coppa del mondo. Come la vicenda di Raoul Diagne, il primo giocatore di colore a indossare la maglia della nazionale francese negli anni ’30, o le maglie diverse dei fratelli Boateng, Kevin e Jerome, titolare nel Ghana il primo e terzino della Germania il secondo. C’è spazio per la rivalità delle tifoserie di Gerusalemme, in cui i sostenitori del Beitar, del Maccabi e dell’Hapoel si contendono dagli spalti molto più del risultato nella rivendicazione anche violenta dell’identità, e per i 350 gol del bomber sudanese Ali Gagarine, idolo di un giovanissimo Samuel Eto’o.

E poi c’è tanto Sud America, con un occhio sempre rivolto a Osvaldo Soriano e ai suoi memorabili racconti, in una costellazione di grandi storie di piccolo calcio, di campioni passati silenziosi per l’Europa ma capaci di incendiare stadi interi con le loro giocate, come il Maradona di San Salvador, Mágico González, o il colombiano superstizioso Freddy Rincón.

Brevi storie di calcio con cui Gabrielli celebra, nonostante uno stile a tratti un po’ ostico, i suoi eroi disperati, accarezzandoli con le parole, e rende omaggio a un calcio lontano e sconosciuto alla gran parte degli appassionati di pallone, ma non per questo meno degno di essere ricordato nelle sue piccole grandi storie.


(Fabrizio Gabrielli, Sforbiciate, Piano B edizioni, 2012, pp. 159, euro 14,90)

“L’amore graffia il mondo” di Ugo Riccarelli

Ugo Riccarelli ci ha abituato alle grandi narrazioni. Lo ho fatto con Il dolore perfetto (Mondadori), Premio Strega nel 2004, ruota maestra degli eventi che semina impronte su due famiglie e ritorna (a) se stessa, nell’esatto punto in cui era partita, sfigurando i destini per lasciarli immutati. Ci è riuscito con Le scarpe appese al cuore (Mondadori, 2003), parabola poetica di buio e di rinascita. E ora con L’amore graffia il mondo, dipana ancora una storia capace di attraversare gli occhi. Di proiettarli altrove, in un lontano che comunque resta addosso. Una storia tra i binari.

Comincia così la vita di Signorina, che si chiama come una vettura. Nella casa dei ferrovieri, tramortita, cullata, pizzicata dal borbottio dei treni. Dai loro starnuti, dal tuono sferragliante delle locomotive, in quel paese vicino alle terme che per volere di un politico ha impiegato ben poco a diventare stazione. Cresce con quella tata di metallo, con quella nenia che sbuffa e sprigiona persone, bagagli, pensieri. Cresce con papà Delmo, con i suoi sguardi affilati da ferroviere di marmo, da uomo integerrimo; con mamma Maria, che ha imparato prima ancora di sposarsi quale fosse il suo posto, all’ombra di lenzuola pulite e minestre arroventate. Cresce con un ciuffo di fratelli e un’oca a cui confidare quello che gli altri non sanno ascoltare. Capisce presto, capisce per caso che le sue dita sanno tracciare linee di grazia, che sanno piegare la carta e trasformarla in un miracolo, in una promessa di bellezza per corpi che non conoscono quello splendore. 

Ma non sono anni facili. Il Ventennio fascista impazza e tracima di riflussi arroganti, di passi che offendono il suolo, il potere assoluto gioca al rialzo con la vita degli altri. All’improvviso arriva la guerra, squassa il cielo come se fosse uno sberleffo, una baruffa con le cose che fa saltare in aria. Così come deflagrano i sogni di Signorina, mentre il suo sangue di donna le bagna le gambe. La scuola di sartoria è costretta a chiudere e lei riceve dalla sua insegnante dei quaderni preziosi. Lì c’è il suo testamento, lezioni di taglio e raffinatezza; lì c’è la speranza di ridisegnare il futuro come fosse un modello. Un abito a cui dedicare stoffa e colore, un abito da battezzare con le proprie mani. E Signorina sa che dentro quei fogli scorre il vagone della sua strada. Che il suo talento è già una risposta. Una risposta difficile, una risposta giusta. La guerra finisce, ma lei continua a lottare, contro la malattia del padre, che lo tarla come un mobile zuppo; lotta per ricostruire, mentre il mondo si rimette in piedi. Incontra l’amore senza volerlo, diventa moglie di un uomo fragile e innamorato che vorrebbe darle il massimo e inciampa nelle sue stesse mosse. Signorina si trasferisce per rilanciarsi, per avere finalmente un suo locale, un suo atelier, ma tutto precipita ed è sempre lei a dover risollevare ciò che cade. Anche quando è la prima a schiantarsi. Perché nel suo essere donna c’è tutta la forza negata dalle apparenze, c’è la volontà immersa nel sacrificio. Un sacrificio che si coniuga anche con la maternità. Signorina partorisce Ivo, un figlio debole, che si affanna per estorcere un po’ d’aria. E sta a lei prima accettare di separarsene e poi scavare una stanza nei suoi polmoni, regalargli la musica per farlo respirare. Riccarelli descrive magistralmente la fatica di quel bimbo di strappare l’ossigeno a ogni minuto, della gola che si strizza e si allenta come un mantice, con la stessa sensibilità lirica e sferzante de Le scarpe appese al cuore, afferendo a un’esperienza personale.

La vicenda di Signorina, di una vita immolata sempre a una causa più grande della propria, a un motivo vincente per cui rinunciare a qualcosa di sé, all’amore che non si era sognato così, alla famiglia che chiede di più, che sottrae occasioni per ricambiare con lacrime e sudore, è la stessa di tante donne, costellazioni di donne che hanno vissuto in funzione di un progetto diverso dalle proprie aspirazioni, in funzione di ciò che esigeva la famiglia o il suo contenitore allargato, la società. Riccarelli, con la sua voce fuori campo, sa addentrarsi nel midollo del dolore. Una scrittura matura, sapiente, screziata, che cammina accanto, intorno e in mezzo agli eventi degli ultimi sessant’anni. Per non renderli solo uno sfondo suggestivo, ma l’eco e il deuteragonista dell’intero romanzo. Perché la storia di un uomo, e in questa caso di una donna, si rovescia in quella degli uomini, di intenti più forti che spesso schiacciano i singoli desideri. Mentre i treni passano, ricordandoci quanto è difficile sapere dove andare.

(Ugo Riccarelli, L'amore graffia il mondo, Mondadori, 2012, pp. 228, euro 19)

“Auff!” dei Management del Dolore Post Operatorio

Inventiamo una grande struttura degli opposti tra le uscite discografiche italiane alternative di questo 2012, parlandone come se fossero parte delle correnti letterarie Ottocentesche (ha senso, no?). Padania degli Afterhours è la grande opera romantica, Il Mondo Nuovo del Teatro degli Orrori è la controparte verista e Nati per subire degli Zen Circus è l’antiromanticismo per eccellenza. Il posto per Auff! dei Management del Dolore Post Operatorio (MaDe DoPo, abbreviato) è una nicchia, un anfratto, è quello dei decadentisti: il quartetto abruzzese conosce la musica come conosce la metrica, il lessico e il ritmo della poesia e li utilizza come arma postmoderna, tagliente e incisiva in tutto Auff!.

Il disco scorre rapido e accattivante all’ascolto, allo stesso tempo furia punk corrosiva e cura per i dettagli. I MaDe DoPo sono contemporanei, non sempre condivisibili, sempre provocatori. È una vera e propria dichiarazione poetica la stessa “Auff!”, che inizia con il verso «Credi che questa mia non sia poesia?» per continuare nella seconda strofa con «Distruggerò l’endecasillabo del madrigale / con un terribile Hiroshima provinciale” e fare, alla fine, il verso a Pierpaolo Capovilla stesso. I riferimenti alla recente politica non mancano, velati o meno; così come alla cronaca, ai casi di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine in “Signor Poliziotto”; il problema dell’occupazione e del precariato italiano trovano il loro urlo in quello di “Norman”, dottorando suicida. I MaDe DoPo ne hanno un po’ per tutti: dalla Bibbia in “Irreversibile” alla ricerca scientifica esasperata come spreco («Miliardi di euro per una domanda / ci avrebbe mangiato tutto il Ruanda») in “Macedonia”. Non sempre condivisibili, sempre provocatori.

Dal livello decisamente buono di Auff! spiccano due tracce sopraffine: “Amore Borghese” cantata con Emiliano Audisio, ex Linea 77, ha i contorni sfumati del sogno lussurioso; dal ritmo forsennato; la penultima “Nei Palazzi” è lo psicotico sfogo del mondo contemporaneo trasposto in musica e rime affilate. Luca Romagnoli, alla voce, urla in metrica, canta poco – di solito nei ritornelli – è perfetto per l’impianto musicale nevrotico che l’accompagna.

In conclusione, a parte una comprensibile confusione iniziale nell’ascoltatore dovuta al forte scontro con questo disco, i MaDe DoPo sono un realtà non ignorabile del panorama musicale alternativo italiano e Auff! è un ordigno innescato solo dal tasto play.
Impossibile restare indifferenti.

 

“Un uomo di passaggio” di Ben Lerner

Jonathan Franzen ha dichiarato che Un uomo di passaggio è «divertente e intelligente, vivissimo e originale in ogni sua frase». Secondo The New Yorker il romanzo si costruisce grazie a «frasi e battute meravigliose quasi in ogni pagina». Se non si ha la penna di Franzen o l’autorità della testata statunitense, si prova un timido disagio quando, terminando la lettura, ci si scopre un po’ perplessi.

Un uomo di passaggio di Ben Lerner è la storia di un americano giovane, amante della letteratura, borghese e dipendente dagli ansiolitici (ma dai?) che vince una borsa di studio per Madrid. Nel vecchio continente, complice la disponibilità di denaro e la lontananza, il programma di studio si inceppa tra hashish, alcol, contemplazioni di opere d’arte sotto l’effetto di stupefacenti, falò e risvegli frastornati (ma dai?). Nonostante il cliché, le prime pagine sono davvero «divertenti» nel senso che il personaggio ha una notevole dose di ironia: incapace di vivere «una profonda esperienza artistica», il «presunto scrittore» (per sua ammissione) compone poesie nonostante le comprenda solo se i versi sono inseriti nella prosa, cioè «quando le barre sostituiscono gli accapo e ad arrivare non è tanto quella particolare poesia, quanto l’eco di una possibilità poetica». 

Per chi abbia provato almeno una volta la confusione linguistica che si sperimenta vivendo all’estero, ma anche per chi non l’abbia provata, calarsi nei vari «lost in translation» è «divertente». Se Isabel (una delle due ragazze di cui si innamora l’uomo di passaggio) parla di qualcosa, diventa automaticamente la protagonista di tante storie possibili: «Forse aveva raccontato di quando nuotava nel lago da bambina, oppure che il lago le ricordava di quando era bambina o magari mi aveva chiesto se da bambino mi piaceva nuotare […]». La questione della traduzione infatti è il nucleo del romanzo che fa della comunicazione (dal messaggio implicito nelle opere d’arte, alle relazioni interpersonali, allo scandaglio del proprio io) il tema centrale del suo sviluppo. Ma poi il libro si perde o forse si apre a un’autoreferenzialità costruita a suon di battute pseudocervellotiche a volte ostinate: «il flusso della predicazione» probabilmente sta per «sintassi», e frasi come «la sostanza stessa dell’eccetera» o «provai la forma del dolore, ma non il dolore» risuonano forzate se seguite da una narrazione cronachistica e calante: «Mi chiese delle poesie e io estrassi quattro quaderni dalla borsa e glieli diedi spiegando che erano tutte di quella settimana e mi sarebbe piaciuto sapere quali erano le sue preferite». Questo sbalzo di registro riflette un problema di dispersione: si ha l’impressione che l’autore si soffermi molto su descrizioni studiate a tavolino a discapito di frasi impegnative («Era molto peggio di una sensazione angosciante, io ero l’angoscia») che possono risultare didascaliche e approssimative. 

C’è poi nel romanzo l’incursione della Storia, con l’attentato alla stazione di Atocha, ma anche l’episodio terroristico è sfruttato in termini “egocentrici”: in preda a una catarsi il giovane americano contatta i genitori e confessa le sue “marachelle”, così accade che, dopo un po’, si possa nutrire un vero e proprio disinteresse per questo personaggio (autobiografico?) dall’io gigante.

Viene da chiedersi se in un romanzo che parla di traduzione non ci sia stato un problema di traduzione o se davvero in originale il libro si avvii alla conclusione così: «Dissi a Isabel che saremmo andati a cena da Zalacaín come se io ci andassi tutte le sere e lei disse che ne aveva sentito parlare ma che doveva andare a cambiarsi. Le dissi che non c’era tempo, anche se in realtà ci sarebbe stato, e che era bellissima, ma le dissi che era bellissima con una certa condiscendenza…»

E niente, i due vanno a cena, ma lui non ha portato con sé gli ansiolitici e allora lui si agita e si domanda come mai proprio lui ecc ecc.

(Ben Lerner, Un uomo di passaggio, Neri Pozza, 2012, pp. 192, euro 16)

Scorie

Giulio Frasca aveva scelto di fare lo psicoterapeuta per aiutare la gente. Gli piacevano le persone – diceva da sempre – perché quella cloaca che è chiamata massa, presa nell’individuo che la compone, non conserva in sé nulla di tutto quanto possa identificarsi con il male. Il marcio – pensava Giulio Frasca – sta nella produzione di energia causata dall’installazione di un corpo accanto all’altro. Il sonno della ragione genera mostri, aveva imparato, e quello stato di assopimento è la società. Giulio Frasca pensava alle manifestazioni di piazza, che partono con i migliori propositi costituzionali per poi degenerare in violenza. Giulio Frasca pensava al concerto del Primo Maggio, dove la profonda ignoranza si mescola all’ebbrezza dei vini scadenti. Giulio Frasca pensava alle membra installate sugli autobus di linea nelle ore di punta e alle file interminabili al supermercato. La società – pensava Giulio Frasca – è un assemblaggio di membra ricucite a caso, come il mostro di Frankenstein. Bruttezza che coincide per forza con frustrazione, con la cattiveria. Di chi sono queste membra che calpestiamo a brandelli?
Con questi e altri pensieri per la testa Giulio Frasca, che credeva assai nell’uomo comune e nel piccolo contributo che ciascuno può dare per rendere migliore questo mondo, si era iscritto a medicina, specializzato in psichiatria e infine aveva scelto di lavorare con la psicoterapia.

Mario P. faceva il dirigente d’azienda. Aveva appuntamento alle sei ogni martedì. Giulio Frasca si sedeva sulla sua poltrona di pelle rossa, mentre il paziente gli dava le spalle. Finivano spesso a parlare di sesso. Partivano sempre dai sogni. Mario sognava spesso una donna che si infilava le calze, altre volte la stessa donna si limava le unghie, altre ancora la vedeva nell’atto di struccarsi davanti allo specchio.
«Chi è questa donna?», gli chiedeva Mario P.
«Nessuno in particolare», rispondeva il dottore. «Deve sapere che nei sogni, le persone che vediamo rappresentano nient’altro che la parte di noi stessi che più si avvicina a loro. In questo caso le capita di sognare in continuazione la sua parte femminile, che le sta chiedendo attenzione, una sorta di manutenzione, presa di coscienza…»
«Cosa vuol dire dottore? Mi sta dicendo che sono omosessuale?»
«Non ho detto questo, Mario. E poi siamo qui perché lei impari a conoscere ciò che cela anche a se stesso. Non deve aver paura di essere giudicato».
Mario P. si sentì come sollevato nel profondo. Da quel giorno i loro incontri furono del tutto diversi. La resistenza del paziente fu come lubrificata dalle parole del medico.
«Dottore, questa mattina al supermercato una ragazza mi è passata davanti con un fare altezzoso dopo avermi squadrato da capo a piedi e ho percepito in lei una smorfia di ribrezzo. Dottore ho provato un forte impulso a tirarle i capelli, trascinarla nel reparto surgelati, piegarla da dietro e scoparmela con tutte le mie forze, fino a farla piangere. Poi ho pensato che non era affatto vero… Dottore, non era vero che avevo notato in lei una smorfia, mi aveva osservato e io ho voluto pensare che lo avesse fatto con disprezzo. Volevo sbatterla in un angolo e farla piangere. Non mi piaceva il modo in cui portava legati i capelli».

Erano un po’ di mesi che arrivato a casa, alla sera, Giulio Frasca non riusciva a prendere sonno facilmente. Per cui aveva iniziato a leggere i russi, ma la verità è che neanche la lettura riusciva a distrarlo dai pensieri che andavano a infestargli la testa. Le facce dei suoi pazienti, le loro parole. Osservava il suo diploma di laurea incorniciato alle spalle della scrivania e continuava a compiangere questa povera, debole umanità.

Giulio Frasca pensava a Mariacarmela V., docente di storia dell’arte presso un liceo classico.
«…e delle volte», diceva la donna «delle volte amo metterle in difficoltà, quelle stronzette delle mie allieve, e cerco di farle cadere, di mostrargli in faccia la loro ignoranza profonda, quell’arroganza così giovanile, le loro belle speranze. Mi verrebbe da dire loro che sono nient’altro che povere illuse, che finiranno a insegnare pure loro e a riscaldarsi al microonde i cibi surgelati, la sera, da sole, per quanto possano amare oggi libertà e bellezza. Sono delle luride, sporche, puttane, dottore. Vorrei dirglielo ogni giorno».

Giulio Frasca pensava alla piccola Erika C., il suo visino pulito, il portamento elegante, raccolto sempre in abiti sobri.
«Lo amo. Davvero. Amo la sua devozione. Ma lo odio. Odio il fatto che mi ami così tanto, sento di dovergli qualcosa, e allora vorrei scrostarmelo via. Ecco. La nostra relazione è diventata la crosta di sugo rappresa su una padella sporca. E io devo scrostarlo via e presto. Non lo sopporto. Ieri ho incontrato in metropolitana l’istruttore di sala della palestra che frequentiamo insieme. Non ci siamo detti niente. L’ho seguito. Ho desiderato fargli un pompino per strada, un vicolo nascosto del centro. Poi sono tornata a casa e ho preparato il suo piatto preferito. Festeggiavamo due anni insieme».

Andavano tutti via così, un quarto d’ora prima della fine dell’ora. Le donne in genere tiravano fuori piccole borsette di trucco, si ripulivano il viso se avevano pianto, ripassavano il rossetto e poi attraversavano l’ingresso per saldare il conto. La tassa per sbarazzarsi dei propri rifiuti tossici. Le scorie. Entravano pieni, pesanti, i passi calcati sul pavimento di parquet. Uscivano leggeri e sollevati. Sorridenti, perfino. Tutto quel marciume loro non lo volevano in casa. Non lo volevano addosso.

Era venerdì sera. Mario P. era appena andato via dopo avergli raccontato del suo nascosto desiderio di fare a pezzi il cane di sua madre, solo per vederla soffrire. Da un po’ di settimane che avevano deciso di raddoppiare i loro incontri. Giulio Frasca si avvicinò alla finestra che dava sulla strada, una bella strada in ombra, rinfrescata dalla presenza dei platani e illuminata un poco dagli ultimi raggi del sole di primavera. Vide il suo ultimo cliente avvicinarsi alla macchina fischiettando, leggero, e più il dottore si concentrava su quella leggerezza, su quella pace che avvolgeva tutto il quartiere per bene, enclave di benessere incastrato nelle viscere putride della Capitale, più si sentiva soffocare. Quella liposuzione di violenza e malvagità gratuite che ogni volta, chirurgicamente, estraeva dai corpi dei suoi clienti, gli stava togliendo il respiro. Le mura del suo studio gli sembrarono rimpicciolirsi a velocità esponenziale. Un conato di vomito dalla base dello stomaco lo trascinò sul pavimento. La puzza dei suoi succhi gastrici gli pungeva l’olfatto. Giulio Frasca vomitò l’ambizione e l’invidia. Vomitò la violenza. Si accartocciava sul pavimento chiedendo pietà: «Basta, ve ne prego!», mentre cercava di aggrapparsi alla poltrona, strisciando nel suo vomito e nell’asfissia. Giuliano Frasca vomitò l’egoismo e la vanità. Vomitò l’arroganza. Si trattò di un lento consumarsi, ma alla fine qualcosa o qualcuno desiderò concedere al dottore almeno il privilegio di un’illuminazione, visitandolo così, nel freddo, nell’umido, nella puzza nauseante e mai più umana della vera interiorità dell’uomo. Il male non è riciclabile – pensò Giulio Frasca. Si può solo trasmettere, nascondere, ma non disintegrare. In questo mondo nulla si crea e nulla si distrugge.
Alle tre del mattino cominciò a respirare con più difficoltà. La pelle gli bruciava, lo stringeva come un insaccato compresso in una pellicola di piombo. Alle quattro meno un quarto prese a strapparsi le unghie e da quelle trarre i lembi giusti per sfilare via la sua stessa pelle. Pochi minuti di sollievo, per poi ricominciare a soffocare.
Fu ritrovato alle otto del mattino dalla segretaria in un bagno di sangue, sul pavimento di legno bruciato dai succhi gastrici. Il male non esiste, esiste l’uomo. La massa è solo un concetto di copertura che l’uomo usa per tutte le sue porcate. Si era messo a ridere, poco prima di morire, Giulio Frasca.
Almeno questo.

“Il dolce sollievo della scomparsa”: a tu per tu con Sarah Braunstein

Il dolce sollievo della scomparsa, edito da 66thand2nd, è il romanzo d’esordio di Sarah Braunstein, la prima mostra di una scrittura affascinante che avvolge e coinvolge in un insieme di storie abitate da personaggi straordinariamente umani e, come tali, deboli, imperfetti, fallaci.
Leonora è una ragazzina di dodici anni, figlia e bambina modello, è il contrario della trasgressione, eppure, un giorno, scompare. Dalla sua storia si propagano altri episodi, altre vite, altre sparizioni che – oltre a ipnotizzare il lettore – inquietano, distruggono e forse liberano chi resta.

Abbiamo incontrato Sarah Braunstein in occasione di Più Libri Più Liberi.

Una delle prime impressioni nette che si hanno leggendo il libro è la sensazione di guardare un film, data forse dalla struttura frammentata, dai close-up su ogni personaggio. Oltre alle possibili influenze letterarie, senti di esser stata influenzata o ispirata da un film o un regista in particolare?

Adoro i film che riescono a disorientare un po’ lo spettatore, a confonderlo. Quelli in cui si prende una direzione, poi si cambia bruscamente, e si incontrano tanti personaggi diversi lungo la strada ma solo alla fine si scopre come sono collegati tra loro. C’è un film intitolato Magnolia che posso senz’altro dire mi abbia ispirato. E poi, da adolescente adoravo David Lynch e Twin Peaks, ma è stato solo dopo aver scritto il libro che mi sono resa conto dell’enorme eco di Twin Peaks in tutto il romanzo.
Le sparizioni sono qualcosa che mi ha sempre interessato molto, e come la comunità rispondesse alla scomparsa di bambini o adulti. Semplicemente, hanno iniziato ad attrarmi le storie di persone scomparse, ma anche ogni tipo di storia che non si svolga in modo prevedibile.

La struttura del romanzo è molto complessa, perché questa scelta? È stato un modo di trasmettere, già dalla forma stessa del libro, la situazione problematica in cui i personaggi si trovano?

Credo che si possa raccontare una storia dalla A alla Z, in ordine cronologico, e in qualche modo questo riflette una sorta di coesione, una specie di coesione psicologica. Invece questi personaggi sono frammentati, scissi, in difficoltà, e credo abbia senso che il testo, la struttura del romanzo, sia complicato quanto la loro situazione. Sì, credo che in qualche modo rifletta lo stato interiore dei personaggi.
Il titolo che inizialmente avevo pensato per il libro, prima che uscisse, era Split, qualcosa di rotto, una persona psichicamente scissa. In inglese c’è anche un’espressione idiomatica per dire «andiamo via», si dice: «We’re going to split», «andiamocene», «scappiamo». Quindi in qualche modo avrebbe ricalcato anche la trama stessa.

E poi perché hai deciso di cambiare il titolo? È stato per ragioni commerciali?

Be’, sì, un giorno, quando il mio agente stava per mandare il libro ai vari editori, mi disse: «Questo libro è così unico che ha bisogno di un titolo altrettanto unico», e abbiamo cercato di trovare un titolo che fosse più originale e spaventoso allo stesso tempo, in qualche modo più sconvolgente. Alla fine abbiamo deciso per The Sweet Relief of Missing Children, che si può leggere in tanti modi diversi, ed è frammentato come la struttura stessa del libro. Penso che anche la traduzione italiana del titolo sia ottima, mi piace moltissimo anche come suona, funziona.

Suggerisce anche che ci sia una sorta di piacere nel fatto di scomparire…

Esatto, e volevo che le persone sapessero che questo è un altro aspetto che il libro esplora, non si tratta solo di orrore, ma di quella specie di strano e inaspettato sollievo, piacere o gioia che c’è nel fuggire, ma anche nell’essere lasciato, abbandonato. Nel libro ci sono figure materne che si sentono liberate dal loro ruolo quando i loro figli scappano di casa. E volevo che tutte queste possibilità rientrassero anche nel titolo stesso, perché fosse chiaro che il romanzo non propone una versione soltanto, ma tratta una realtà più nebulosa e sfaccettata.

Leggendo, a poco a poco risulta chiaro che tutti questi personaggi non sono legati solo dal tema della scomparsa e, in seguito, dalla trama stessa, ma sono anche accomunati da alcune ossessioni che nella maggior parte dei casi hanno a che fare con il sesso.

Volevo guardare da vicino tutte quelle cose di cui le persone non vogliono mai parlare, perché penso che il libro abbia a che fare con ciò che accade quando si abbatte il livello di socializzazione, che cosa c’è sotto. Volevo scrivere delle difese delle persone, che spesso sono nascoste, e credo che il sesso sia in certi casi una metafora di tutto questo, un modo di guardare alle difese nascoste. Il modo in cui gestiamo il sesso può rivelare molto di ciò che temiamo, e credo anche che sia diventato un modo per concretizzare i nostri stati d’animo. E poi, il sesso può essere un modo di scappare senza in realtà andare da nessuna parte. Fare sesso con qualcuno con cui non si dovrebbe, con la persona sbagliata, è una specie di trasgressione che ciascuno commette, e credo sia un modo di fuggire, di scappare da sé stessi. Ognuno ha un rapporto diverso con il sesso, ma sono convinta che faccia luce sulle paure e le ansie di ognuno di noi, sul nostro io nascosto.
Era la miglior metafora che potevo usare, ma allo stesso tempo era significativo anche a livello letterale, come il modo migliore per arrivare a qualcuno nel profondo, nell’intimo. Mentre scrivevo, ho letto molto Freud, e ho voluto riflettere su cosa ci trattiene dall’essere violenti, cosa ci impedisce di essere dei veri mostri. Nel romanzo ho voluto mostrare delle persone che fossero in qualche modo attratte da quella parte di sé che di solito tengono nascosta. E il sesso mi sembrava in miglior modo per esprimerlo.

Ovviamente, il romanzo tratta molto il tema delle relazioni familiari, del rapporto con i genitori. Le difficoltà di tutti i personaggi, compresi gli adulti, hanno a che fare che l’infanzia. Pensi che viviamo nella costante impossibilità di proteggere i nostri figli, e in generale i nostri cari? Il personaggio di Leonora ne è forse un esempio, la sua vita è tutta regole, protezione assoluta, eppure…

Be’, diciamo che è qualcosa che mi fa paura, io stessa ho un figlio piccolo e ho scritto questo romanzo mentre ero incinta. Vorrei credere che possiamo, che siamo in grado di proteggere i nostri figli, ma non lo so. Credo che tu abbia ragione, e che tutti i problemi dei personaggi derivino da un pessimo rapporto con i genitori. Paul, per esempio, con sua madre: lei fa del suo meglio, cerca in ogni modo di dargli un padre, e una vita, di dargli sicurezza, ma sbaglia completamente e finisce praticamente per abbandonarlo. Per lei, il sesso è un modo, una sorta di metodo in realtà, per trovare chi possa darle sicurezza. Ma il risultato è che suo figlio è lasciato molto a sé stesso.
Sam, per fare un altro esempio, è rimasto orfano dopo che la madre si è praticamente gettata in un incidente che ha ucciso il resto della famiglia. Lui viene allevato da due classiche brave persone, gli zii, ma sente di avere in eredità una sorta di cattiveria, come se fosse destinato a essere cattivo, ed è questo che lo fa entrare in contatto così disperatamente con Judith, perché la vede in qualche modo come pericolosa e instabile.
Quindi, qualunque sia la nostra situazione familiare, credo che le nostre fantasie riguardo noi stessi e i nostri genitori siano potenti ed efficaci almeno quanto la realtà stessa. Per esempio, nel caso di Leonora: ha genitori molto più attenti, forse fin troppo, ma questo non riesce comunque a salvarla. La sua bontà è la sua curiosità nei confronti del mondo, ed è per questo che si metterà nei guai e si lascerà rapire. Il messaggio che riceve da sua madre è che bisogna essere socialmente attivi, che bisogna rendersi utili, e un’altra cosa che la madre le ha insegnato è di non giudicare mai nessuno solo dall’aspetto. Quindi quando quei due tizi un po’ inquietanti le si avvicinano, lei segue la lezione di sua madre, e non vuole fare l’ipocrita, quindi la segue alla lettera, e si trova in pericolo.
Nel libro ci sono tanti tipi di genitori, e nessuno è davvero in salvo. Ma credo che il romanzo abbia anche molto a che fare con la realtà della maternità, la vera angoscia che una madre prova quando la sua identità viene quasi inglobata dal figlio. Nel caso di Grace, per esempio, ha questa bimba, la adora, la cresce meglio che può, ed è sempre molto preoccupata per lei, Judith. E tuttavia, quando Judith scappa di casa la madre prova una sorta di liberazione, sente che finalmente può forse vivere la sua vita e scappare a sua volta.
Quindi non lo so, forse è solo una serie di riflessioni che inevitabilmente mi sono trovata a fare durante la gravidanza. In ogni caso, ho l’impressione che sempre più donne, almeno negli Stati Uniti, e ancor più negli ultimi cinque anni, sentano l’esigenza di parlare della maternità, anche in modi in cui le persone di solito non amano parlarne: dell’ambivalenza e della complessità di un’esperienza del genere, senza romanzarla più di tanto.

Parlando invece di scrittura in sé e per sé: nel romanzo ci sono molti personaggi diversi, adulti e bambini, e ognuno è trattato con incredibile precisione e cura. In che modo sei riuscita a calarti nei panni di personalità tanto diverse? È stato difficile gestire il punto di vista dei bambini?

Dunque, tra tutti, la voce di Leonora è quella che mi è riuscita più facile, naturalmente. Non appena l’ho focalizzata, è stata la sua voce a riempirmi, non è stato difficile, mi è bastato incanalarla: era come se mi riempisse la mente e io non dovessi far altro che metterla sulla pagina. Non so perché, forse perché è la figura più vicina alla mia, ma il suo punto di vista è stato chiaro fin da subito.
Per quanto riguarda le altre voci, ho cercato di svilupparle mantenendomi molto vicino a ogni personaggio mentre ci lavoravo: scrivevo cinquanta o sessanta pagine utilizzando la stessa focalizzazione, cercando di arrivare a conoscere davvero ogni singolo personaggio prima di andare avanti. Ho scritto il libro in queste grandi sezioni, e poi le ho divise e mischiate solo in seguito.
La chiave per scrivere il libro è stata avvicinarmi pian piano a ogni voce, specialmente al punto di vista dei bambini. Quando ho sentito la voce di Paul, per esempio, e mi sono addentrata nel suo modo di ragionare, ho percepito la trama dei suoi pensieri, è stato allora che ho realizzato che sarei riuscita a scrivere il romanzo. Ci è voluto moltissimo tempo: lavorare ogni personaggio, arrivare a sentire la voce, la consapevolezza di ognuno. Ci metto molto, ma quando ci riesco, quando riesco ad arrivare al cuore di un personaggio, è allora che amo scrivere, ed è stato allora che mi sono resa conto che davvero avrei potuto mettere insieme il libro.

Quanto tempo hai lavorato al romanzo?

Moltissimo, perché quando ho iniziato non sapevo come strutturarlo. Ci sono voluti quasi dieci anni, è stato anche un modo per insegnare a me stessa a scrivere. Si trattava del mio primo libro, e quando sono arrivata in fondo mi sono resa conto di aver imparato tantissimo sulla scrittura, su come mettere insieme le frasi, su come scegliere le immagini. Quindi sono stata costretta a tornare indietro e ricominciare da capo, non tanto per modificare i personaggi o la storia, ma perché tecnicamente avevo acquistato un maggiore controllo sulla frase, sulle parole. L’ho ripreso dall’inizio o e ho lavorato e lavorato il tutto un’altra volta. Sì, ci ho messo moltissimo, ma ero molto giovane quando ho iniziato.

Sembra banale, ma credo che chiunque abbia letto il libro avrebbe voglia di chiedertelo: c’è un personaggio al quale sei più legata, uno che consideri il tuo preferito?

Guarda, non avrei proprio voluto arrivare a questo. Mentre ci lavoravo avevo gli stessi sentimenti nei confronti di ogni personaggio, ma poi, alla fine, quando ho guardato al libro finito, mi sono sentita fortemente legata a Leonora. Scrivere la sua storia è stata una sofferenza immensa. Sono convinta che fosse necessario farle ciò che le ho fatto, ma mi ha spezzato il cuore, è qualcosa che non avevo mai provato prima. Credo di essere sempre riuscita a mantenere una certa distanza tra me e i miei personaggi, ma con Leonora è stato diversi, la sentivo profondamente vicina, e alla fine volevo salvarla, proteggerla da tutte quelle cose terribili. Poi però mi è tornata in mente la lezione di uno dei miei insegnanti di scrittura, che diceva che non possiamo proteggere i nostri personaggi, ma anzi dobbiamo imporci di fare loro ciò che deve accadere a servizio del libro. E parte delle ragioni per cui ho scritto questo romanzo era esplorare in profondità l’esperienza di un bambino che è stato rapito. È qualcosa che vediamo sempre in televisione o nei film, ma la vittima è sempre una sorta di oggetto di scena, una bella bambina, e niente di più, non arriviamo mai ai suoi pensieri, non così nel dettaglio, comunque. E volevo vedere che cosa sarebbe successo andando a scavare in profondità, ma sempre lasciando filtrare la realtà nel libro, per quanto pericolosa. Doveva accadere, e volevo arrivarci, e rendere omaggio al personaggio testimoniando la sua esperienza. Quindi sì, senz’altro Leonora.
E poi, l’altro personaggio che amo particolarmente è Paul, perché credo che il romanzo sia in parte suo. Non avrei mai immaginato di sentirmi così legata a lui, ma nel momento in cui decide di cambiare nome e cerca di confessare, be’, credo che quello sia un gesto davvero incredibile da parte sua. È così buono e generoso quando prova a confessare, ed è davvero convinto di fare qualcosa, finalmente, di agire: non è più passivo, cerca di rendersi utile, proprio come Leonora con la sua famiglia. Ed è una cosa folle, ovviamente non funziona. Ma credo che lui sia convinto di potersi liberare dal suo passato con quel gesto, e davvero mi sembra una specie di eroe. E poi c’è la questione della sua omosessualità, che ha sempre represso, convinto che non potesse neanche lontanamente far parte della sua vita, ma alla fine riesce a superare anche questo, quindi… non l’ho mai definito in questo modo prima d’ora, ma sì, credo proprio che sia un eroe.
Sono convinta che la colonna portante del romanzo siano loro due.

A proposito della figura di Paul, c’è un capitolo del libro in cui è poco più di un bambino, e ha davanti agli occhi questa torta di compleanno, e ha una voglia terribile di assaggiarla, mentre la madre glielo impedisce perché aspetta l’ennesimo ospite. È una scena molto forte, indelebile, e così equilibrata in sé che potrebbe funzionare come racconto. Hai mai pensato di dedicarti a racconti brevi?

È vero, anzi credo di averlo davvero pubblicato come racconto, come estratto, prima dell’uscita del libro. È la giusta domanda, perché dopo il romanzo ho pubblicato un paio di saggi brevi, ma adesso mi sto dedicando ai racconti, ne ho due pronti che sto cercando di far uscire proprio ora su qualche rivista. Il racconto richiede una scrittura in certo modo più difficile, occorre misurare ogni singola parola, tutto ha la sua importanza, ci vogliono economia e precisione. Voglio dire, anche un romanzo è difficile da scrivere, ma c’è comunque lo spazio per lasciare che la scrittura esploda. Invece un racconto deve essere netto, preciso; è difficile. Però ci sto provando proprio in questo periodo, e sono ottimista: credo di aver finalmente imparato che cosa non dire, non l’avevo mai capito prima. Quindi sì, vorrei provare a scrivere dei racconti. Sto anche scrivendo un altro romanzo, e non voglio usare la stessa struttura, però mi interessano i romanzi che hanno più storie intrecciate, o che fanno parte di una struttura più ampia, cicli di storie o diversi episodi all’interno dello stesso romanzo. Trovo che sia una forma interessante: non voglio fare niente del genere, ma qualcosa di simile.

Vuoi darci qualche anticipazione sul nuovo romanzo?

Dunque, non è semplice da descrivere. Per un po’ ho lavorato come assistente sociale, come counselor, parlavo con le persone, le ascoltavo. E ho lavorato anche in un ospedale psichiatrico mentre scrivevo il romanzo. Quindi ho passato davvero molto tempo accanto a persone sofferenti, che credo sia una delle ragioni per cui ho scritto questo libro in questo modo. Però mi ha fatto venire un’idea: negli Stati Uniti abbiamo questi enormi superstore, come Walmart, che contengono un supermercato, negozi di arredamento, piante, prodotti per il giardino, una farmacia, una banca… e tutto è nello stesso posto, è come una piccola cittadina. E ho pensato: «Scommetto che prima o poi ci sarà uno psicologo, da Walmart». Credo che questa cosa non sia poi molto lontana dalla realtà, quindi sto scrivendo un romanzo su un analista che lavora in un superstore come quello, perché è un mondo che conosco, ho studiato teoria della psicologia, e credo che potrebbe essere divertente, una specie di critica sociale. È appena agli inizi, ma l’idea è questa.
 


 

(Sarah Braunstein, Il dolce sollievo della scomparsa, trad. di Andreina Lombardi Bom, 66thand2nd, 2012, pp. 360, euro 16)

Salvador Dalí al Centre Pompidou di Parigi

Il Centre Pompidou, museo nazionale di arte contemporanea di Francia, nel centro di Parigi, ospita fino al 25 marzo una retrospettiva sull’opera di Salvador Dalí.
La mostra è un percorso crono-tematico che esplora appieno l’opera dell’artista fornendo una visione completa del suo percorso artistico, tanto da risultare per chi, che come me, considerava Dalí un assoluto genio creatore, quasi come un’esperienza rivelatoria. Difatti l’itinerario espositivo si concentra soprattutto sulle influenze e sulle ispirazioni che hanno forgiato l’immaginario onirico dell’artista, rivelando chiaramente i percorsi logici e le associazioni mentali che lo hanno portato alla realizzazione delle sue opere, riuscendo quindi contemporaneamente a confermare e smentire la famosa frase autocelebrativa di Dalí: «Le surrelisme c’est moi!» Una volta aver visto questa mostra, infatti, Dalí apparirà allo spettatore più come un ottimo interprete e “re-interprete” che non come un pittore “divin et génial”, come è opinione comune.

Il lavoro di Dalì, appare in questa retrospettiva parigina soprattutto come una reinterpretazione «critico-paranoica», come lui stesso la definisce, delle grandi opere del passato, come accade per “Las Meniñas” di Velásquez riproposte con un linguaggio artistico proprio delle avanguardie in “Apparition d’une enfant de Velásquez” o in “Twist dans l’atelier de Las meniñas”, o come accade per altre grandi opere, soprattutto dell’arte rinascimentale italiana come la “Madonna” di Raffaello, o la “Venere” del Botticelli o il particolare di Dio e Adamo della cappella Sistina di Michelangelo, ma anche la ben più celebre “Venere di Milo” con la cassettiera.

Oltre alle citazioni più esplicite appaiono inoltre chiari quali siano gli artisti che più hanno guidato e plasmato il linguaggio artistico di Dalí, è facile riconoscere nelle sue tele elementi che riportano a Magritte, come nella tela “Couple aux têtes pleines de nuages”, o ad Arcimboldi e Bosh in “La Grande Panoramique” o a De Chirico o ancora, inaspettatamente a Lichtenstein in “Portrait de mon frère mort”.
 


Altro merito della mostra è quello di aver messo in luce il grande tema che ha pervaso un po’ tutta l’opera di Salvador Dalí: il sesso. La mostra offre una panoramica abbastanza ampia di come e quanto la sessualità umana, spesso unita al tema della morte e della putrefazione del corpo, sia stata ampiamente trattata e riprodotta nella poliedrica produzione artistica di Dalí. Innanzitutto nei disegni: gli schizzi e i tratti a mano libera dell’artista sono spesso ispirati alla tematica del sesso, come nel caso della scritta “Gala”, la sua musa, composta con alcune posizioni del Kamasutra.

Anche nelle tele il tema del sesso accompagna fortemente il percorso artistico di Dalí, un esempio ne è la tela “Le grand masturbateur”. Questo quadro, con dei chiari riferimenti a Giorgio De Chirico, come le due figure in basso ispirate a Ettore e Andromaca, l’uso delle ombre e la netta suddivisione tra cielo cristallino e piano terreno, offre anche un classico esempio delle visioni onirico-erotiche dell’artista. La scena centrale e più distinguibile fa pensare chiaramente a una scena di sesso orale, con l’immagine di un viso di donna molto vicino a un pene. Dalí ha voluto qui dividere nettamente l’universo femminile da quello maschile, da una parte l’uomo, visibile solo dal busto in giù, è un solido, il suo corpo prende la forma quasi di una colonna, è architettonico e robusto, dall’altra parte l’immagine femminile, distinguibile solo per il viso, il ritratto di Gala, che si perde in una massa informe, melliflua, in cui comunque l’immagine dell’uomo tende a perdersi e finire, tanto che dalle gambe dell’uomo inizia ad arrampicarsi, come edera, questa massa amorfa che è l’elemento femminile. È proprio nel lato femminile che prendono vita le immagini più surrealiste del quadro, l’insetto, i vermi, il drago cinese, visioni oniriche e macabre frutto di libere associazioni e che riportano a putrefazione e sporcizia, immagini lugubri che Dalí in questa tela, e più in generale nella sua opera, associa soprattutto al lato femminile che è visto come tentatore.
 


Una visione della femminilità questa, confermata anche nella rilettura che Dalí dà del quadro l’“Angelus” di Millet, un quadro che in origine raffigurava due contadini, un uomo e una donna, che all’ora del tramonto interrompono il lavoro nei campi per pregare. Gli studi che Dalí compì su quest’opera furono molteplici tanto che il Centre Pompidou gli dedica un’intera sala. La prima versione su tela che l’artista dà del quadro di Millet arriva dopo una serie di studi preparatori in cui la donna è vista come una mantide religiosa pronta a divorare il maschio e l’uomo come preda che attende la sua morte, con il capo chinato e il cappello tra le mani, anche qui le figure e il paesaggio si ispirano chiaramente all’opera di De Chirico. Nella seconda versione le figure sono invece più astratte, forme curve ma solide distinguibili solo per analogia con il quadro originale. Qui la donna è una figura più bassa dell’uomo il quale continua comunque ad avere il capo chinato e che viene trafitto da una spada, un “pungiglione”, dalla donna. Nell’ultima versione, che è solo un disegno preparatorio, le parti sono invertite, la donna è china su un carretto e viene presa da dietro dall’uomo in rapporto sessuale, un’evoluzione non da poco dell’immaginario di Dalí il quale, come precedentemente detto, vedeva solitamente la donna come figura dominatrice e tentatrice mentre l’uomo era relegato a una posizione di passività e subalternità.
 


La mostra merita sicuramente di essere vista, è una retrospettiva completa e inedita dell’opera di Dalí; i prestatori sono molto vari e per l’esposizione sono state raccolte opere da San Pietroburgo, da Rotterdam, da molti musei statunitensi e ovviamente spagnoli, tra questi, principale donatore, il museo Reina Sofia di Madrid. Grande assente, tra i prestatori, l’Espace Dalí, piccolo museo di Montmartre che raccoglie una parte notevole e di eccellente qualità dei lavori dell’artista, fortunatamente si trova a un quarto d’ora di metro dal Centre Pompidou per cui, fino al 25 marzo, sarà possibile visitare entrambi gli spazi espositivi e concedersi così un’intera giornata dedicata al grande maestro del surrealismo.


Dalí
Centre Pompidou, Parigi.
Dal 21 novembre 2012 al 25 marzo 2013.

Per ulteriori informazioni:
http://www.centrepompidou.fr/

“Da qui all’eternità” di James Jones

Del titolo hanno avuto sentore in tanti, il film nell’Italia recente lo hanno visto sicuramente molte meno persone, il libro da cui è tratto qui da noi è quasi una novità. Quasi perché il romanzone Da qui all’eternità di James Jones(1921-1977) finora circolava in una versione Oscar Mondadori che, come quella americana, era scevra dei suoi contenuti più indigesti a quella gran parte di pubblico che il racconto del mondo può tollerarlo solo a patto che non si vada sino in fondo.

Pensare che la rappresentazione – editorialmente edulcorata – della vita militare americana ai tempi di Pearl Harbour valse allo scrittore il National Book Award nel 1952 (e successivamente ne tirarono fuori il film di Fred Zinnemann con Burt Lancaster e Montgomery Clift, che avrebbe fatto man bassa di Oscar). Be’, Jones per tutto questo dovette pagare un prezzo salatissimo.Il libro subì tagli poderosi: la censura intervenne pesantemente su molte scene, sui dialoghi e in generale sulla lingua del romanzo. Tutt’altro che edulcorate, scene e lingua: dapprincipio, si capisce. Ma a giudizio dell’editore, se nel formidabile esercito che di lì a poco avrebbe salvato il mondo dal delirio nazista non si faceva a meno né dei rapporti omosessuali né della masturbazione, era cosa che al puritanesimo americano (e al maccartismo d’epoca) poteva interessare sapere, ma non nei dettagli. Si dà il caso invece che la crudezza dell’ambientazione, il malessere quotidiano, e l’afrore diffuso di una sessualità dispiegata in varianti generose e brutali, costituiscano la trama tonale del romanzo – corna e bordelli compresi.

Il fatto è che in quelle basi militari il piacere stesso sembra incapace di sottrarsi a un certa violenza di fondo. «La gente non sa che cazzo succede in questa nazione», scriveva Jones.Il mondo visto da lì galleggia sotto un cielo cupissimo. L’epica che ne viene fuori è guasta, morbosa, dissonante. Le storie di questi uomini sono rudi ma nonfacilmente chiuse nel loro ruolo militare. A partire da Robert Prewitt, un trombettiere di talento ed ex pugile deciso a non salire più sul ring, Jones disegnacon una costruzione robusta personaggi che sembrano racchiudere il destino del mondo. Sentimenti e ambizioni dei quali, velleità e sconfitte, forza e debolezza sono ricondotti alla loro cifra essenziale: ecce homo e il suo destino. Amori sbagliati compresi.

La musica delle conversazioni fra soldati i più la conoscono da certa cinematografia: «“Se tu andassi dal comandante, come ti dico io, e dicessi anche una sola parola, resteresti. E vaffanculo al capo trombettiere Houston”. “Sì, certo. E il frocetto di Houston sarebbe sempre primo trombettiere. Inoltre, la pratica è già passata avanti. Firmata, sigillata e consegnata”. “’Fanculo” ripeté Red disgustato. “Le scartoffie firmate te le puoi attaccare sai bene dove, per quel che valgono”».

Di sicuro non è uno stilista James Jones. La sua prosa non irretisce, anzi si arrampica senza troppi scrupoli su un fraseggio comodo e disadorno e si avvale di similitudini a volte scontate. Una scrittura al servizio della storia, però.La forza di Jones sta nella sua convinzione: parliamo di un narratore poco “letterato”, che molto ha visto e sa raccontare(partecipò in prima persona a quelle vicende, così come alla battaglia navale di Guadalcanal – non a caso è anche l’autore de La sottile linea rossa). Ci sono scrittori così, di cose e non di frasi; magari puoi storcere la bocca ogni tanto ma devi ammettere che hanno ragione loro.
 

(James Jones, Da qui all’eternità, trad. di Chiara Ujka, Beat Edizioni, pp. 864, euro 13,90)

“Lo Hobbit” di Peter Jackson

Nella quiete della Contea, Lo Hobbit Bilbo Baggins è comodamente seduto nel suo giardino a fumare la pipa quando riceve la visita di Gandalf il Grigio, stregone noto nella terra dei Mezzuomini per i suoi fuochi artificiali che tante feste avevano allietato. Dopo un dialogo di cui Bilbo comprende poco, lo stregone si congeda marchiando la porta di casa Baggins con un segno. La stessa sera, un manipolo di nani capitanato da Thorin Scudodiquercia irrompe in casa di Bilbo attratto dal segnale e inizia a banchettare aspettando il ritorno del mago. Sono arrivati nella Contea per arruolare lo hobbit nella loro missione: partire verso Erebor, la loro antica dimora nelle rocce, e riconquistarla dal terribile drago Smaug.

Siamo sessant’anni prima de La Compagnia dell’Anello, punto di partenza della trilogia de Il Signore degli Anelli. Bilbo è ancora un giovane hobbit sedentario e pigro, restio all’avventura, lontano da quell’inesauribile fucina di storie fantastiche che diventerà in seguito. Siamo all’origine di tutto, al primo film di una nuova trilogia che si sapeva partire da premesse narrative inevitabilmente deboli e inadatte a una dilatazione in tre film. Perché il materiale offerto da Lo Hobbit, primo romanzo di J.R.R. Tolkien del 1937, è infinitamente più debole della complessa trama della successiva trilogia dell’anello. Una favola, poco di più, con una struttura classica di labirinti e draghi, mostri e tesori e un po’ di magia. Niente a che vedere con la dimensione epica de Il Signore degli Anelli, con la complessità di un mondo creato da zero fatto di lingue nuove e un intricato immaginario di storia e mitologia che nel ’37 era solo in fase embrionalePeter Jackson doveva saperlo bene quando è partito il progetto Lo Hobbit. Perché, mentre per la trilogia dell’anello si è dovuto lavorare, in fase di scrittura, quasi esclusivamente con tagli e limature per alleggerire un intreccio enorme sviluppato in più di 1.200 pagine, il nuovo progetto ha richiesto prima di tutto un lavoro di sceneggiatura inedita per passare da un romanzo di circa 350 pagine a prima due, poi tre film.

Se da un lato la logica della riscrittura è stata volta a una captatio benevolentiae verso lo spettatore – il prologo che vede di nuovo il Bilbo anziano di Ian Holmes, in compagnia di Elijah Wood nei panni di Frodo, attendere l’arrivo di Gandalf il Grigio nel giorno della sua festa, riportando quindi a poche ore prima dell’inizio de La Compagnia dell’Anello –, introducendo volti e personaggi noti e mostrando con la maggiore evidenza possibile il collegamento tra le due storie, dall’altro si è cercato di arricchire la trama de Lo Hobbit ampliandone il respiro, introducendo le tematiche più alte dell’incombenza del Male assoluto, estranea al romanzo di origine, con richiami a elementi già noti dalla trilogia. È proprio in questa fase originale che il film mostra tutta la sua debolezza. Sorretto da un testo assai meno solido della trilogia di Tolkien, il film vacilla alla ricerca di una propria identità, partendo con toni da commedia piuttosto fiacchi – imbarazzante, per dirlo in una sola parola, il momento musical nella cucina di Bilbo – per poi andare a incupirsi gradualmente quando si recuperano temi del Signore degli Anelli come la spada dei Nazgul e la tavola rotonda con Saruman.

Quello che viene fuori è un film sfilacciato, che riesce sicuramente a divertire quando si muove nella dimensione a Jackson più congeniale, quella dell’azione e delle battaglie, ma che risulta poi incapace di essere all’altezza degli ingombranti predecessori quando i personaggi si fermano a parlare. A parte le sequenze di combattimenti, infatti, solo una scena “riflessiva” splende di luce propria nella generale mediocrità: il primo incontro tra Bilbo e Gollum, con la sua brillante sfida a colpi d’indovinelli in cui emerge la natura sagace dello hobbit e, soprattutto, la caratura dei due attori che si confrontano, Martin Freeman e il digitalizzato Andy Serkis, bravissimo e trasformato da un motion capture di livello eccezionale, che danno una grande prova.

Un film che può contare quindi quasi esclusivamente sulla potenza delle immagini, ma che anche in questo trova una debolezza nell’avveniristica tecnica di ripresa del 3D a 48 fotogrammi per secondo, che fornisce una definizione talmente elevata da far risultare il tutto posticcio, con una profondità di campo che ha veramente poco di naturale e che dona al tutto un aspetto digitalizzato che indebolisce ulteriormente questo primo capitolo della trilogia de Lo hobbit nell’impietoso confronto con Il Signore degli Anelli, che aveva invece nell’incredibile realismo, compatibilmente con la trama, una delle sue forze maggiori.

(Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, regia di Peter Jackson, 2012, fantastico, 164’)

“Da mani mortali” di Biancamaria Frabotta

Da mani mortali di Biancamaria Frabotta (Mondadori, 2012) affianca alla raccolta che dà nome al libro anche i precedenti Gli eterni lavori (San Marco dei Giustiniani, 2005) e I nuovi climi (2007), offrendo una panoramica della poesia più recente della poetessa e professoressa romana.

La trama del pubblico e del privato compone la tela di questa musica solida e molle. Biancamaria Frabotta accompagna il lettore lungo i suoi versi senza mai abbandonarne la compagnia, senza negare la sua presenza di premurosa padrona di casa persa fra i fiori e le erbacce del giardino in mostra, nell’intimo di una confessione davanti una tazza di tè, su una vecchia foto ingiallita che ritrae gli amici della vecchia stagione, i poeti.

 

Amici, non date retta a chi vi lusinga
per tenervi alla sua altezza, che è poca.
Perché perdervi dietro la traccia fangosa
dove vera indignazione non alberga?
Su quel molle limo, piede di poeta
non s’avventura, né imprime impronta.
Si lasci alla sua boria, il tirannello
di labile memoria. A sue spese impari.
A che gli vale amarla la poesia
se ricambiarla non gli è dato?
 

I poeti saranno invocati ogni volta che la coscienza della Frabotta si troverà ad attraversare momenti di smarrimento e dubbio per un mondo che non le corrisponde e che non sa riconoscerla. I poeti, come animali, alieni, o bambini perennemente in gioco, se ne stanno acquattati nel pelo del mondo e da lì possono contemplare i fatti umani e spandere il seme della salvezza. La poesia è il punto di approdo naturale della ricerca frabottiana, mantiene in sé un disinteresse estetico e morale che basta all’immobilità e alla goffaggine in cui spesso incappa.

Stabilito l’ordine morale delle corrispondenze, può esercitarsi l’”ospitalità” dell’autrice. Inizio e fine ne è la premura per piante, ortaggi, fiori, testimoni muti e assenti del tempo, segni di un passaggio sulla terra diverso, altro dalle pastoie della storia che si intuisce come il vero orrore che l’autrice, femminista e “sessantottina”, indica con certezza. E allora i fiori saranno come i figli, degni di essere contati per discendenza, a partire da un momento mitico e imponderabile in cui fu sconfitta l’insidia dell’inverno e finalmente qualcosa prese a essere (La prima generazione dei biancospini).
 

Lenti sono in questi orti i progressi
e qualche volta incorreggibili
come laggiù è il filo delle montagne
o la crescita abnorme delle zucche
che a terra si propaga in un disordine di serpe.
Anche noi, dispersi nel corso sordo delle cose
dovremo cambiare verso al sonno.
Non si dorme dalla parte del cuore.
 

L’autrice costruisce un linguaggio a cui appigliarsi che sembra essere esso stesso parte della trama. Referenti oggetti, citazioni sempre aperte e orgogliose, sicuramente un canone ristretto di influenze non consapevoli; il dettato di queste poesie composte in un arco di circa sette anni è soggetto a una lenta e impassibile eugenia che elimina le propaggini secche o inutili di sé. La freddezza della Frabotta versificatrice attira il lettore con un sorriso eccessivamente gentile per essere sincero, ancora, in lei, il gioco poetico è quello di confondere e disorientare. Dunque non è raro che i brevi strappi lirici si dilatino in chiusa inanellando terzine o distici irragionevolmente lunghi e sfacciatamente prosastici, l’impianto metaforico aumenta lentamente la sua portata e alcuni puntelli che possono tranquillamente definirsi stilemi tipici (poliptoto) tornano ad affacciarsi con regolarità. Biancamaria Frabotta è poetessa di lungo corso e, sottopelle, la sua riflessione si dimostra, oggi, ancora in piena dialettica interna.
 

Manca un fiore
alla tua tomba recente.
Non avertene a male
se la rubo a un vicino.
Nutrita è la sua scorta
e perdonerà il furto.
È la prima estate
che t’ho voltato le spalle.
Come quando il mare è solo, la sera
e si smette di guardarlo.
 

Presto l’osservazione dei casi umani va a schiantarsi contro il muro della morte. La cadenza del tema è, a partire da questo frammento delle Poesie scritte per Giovanna, ossessivamente visitato e attraversa tutto il volume senza risparmiare nemmeno l’emblema vegetale di una felice alterità. Testimone ne è il nume tutelare Bernardin de Saint-Pierre, l’inverno può devastare la presenza immobile di un giardino senza tuttavia sradicare il germe della vita, elemento naturale, sarà bene precisarlo, del movimento poetico frabottiano: «in verità le viti cominciavano / appena ad aprire i germogli». 

Più che la morte dei filosofi, è la mancanza che lascia l’autrice attonita davanti un dolore che non viene mai penetrato dal verbo. La mancanza degli amici, degli affetti, la fine inconcepibile di una gioia che pure si era intuita nella sua eternità. E, come le piante, anche i poeti possono esserne toccati, «il poemetto “Il gesto più gentile dell’amicizia” si riferisce a una casuale visita nella notte di Capodanno del 1º gennaio 2006 alla villa La Rondinaia, dove Gore Vidal visse e lavorò per quasi un trentennio insieme all’inseparabile amico Howard Austen. Dopo la morte di Howard e il ritorno in patria dello scrittore americano la villa restò per qualche mese intatta, completa di mobili, arredi e preziosi cimeli», scrive l’autrice in un breve auto-commento posto a chiusura del volume, licenziato qualche mese prima che lo stesso Vidal ci abbandonasse a metà di questo tristissimo 2012.
 

Vattene, Presidente, dai cieli
dai soli, dalle nevi, dagli uccelli
in fuga dalle tue bombe intelligenti […]
 

La riuscita meno felice di questa ultima produzione la ritroviamo nella rima facile della poesia d’occasione, che ricorda l’avventatezza del giovane incastrato nel paradigma cieco della poesia-come-contestazione. Nel caso di questo poemetto a chiusura di Visite di calore, l’occasione è, ci ricorda ancora l’autrice, la visita romana di G.W. Bush del 2007, quando la guerra in Iraq era in corso.

In conclusione, dividere il tempo necessario alla lettura con questo Da mani mortali è gesto che può con semplicità riconciliare anche lo spirito più desolato, purché provvisto del germe dell’ottimismo, circa il destino di una poesia sempre più avvilita da animi compromessi che dalla scuola del troppo cinismo non riescono ormai che a distillare bruttura. Lo scandalo del poeta-bambino e di una poesia come sguardo disinteressato (e sarà bene sottolinearlo: disinteressato) oggi più che mai ha bisogno di interpreti forti, integri, che anche in prospettiva sappiano lanciare un monito ai colleghi più smaliziati circa la «pigra attesa propizia alla poesia spesata».
 

Vantando una comune discendenza
siedono sotto una fila di ombrelloni
i poeti di Roma. Fra loro Valentino loda
la pigra attesa propizia alla poesia spesata.
Discretamente assiepati più a nord
i poeti della pianura sospirano spaesati
il vicino autunno. Fra le due linee
dell’ombra, io sola imbronciata non godo
la frescura delle distinte pagode
rischiando l’insolazione degli indecisi.
 

(Biancamaria Frabotta, Da mani mortali, Mondadori, 2012, pp. 158, euro 15)

“Babel” dei Mumford & Sons

Con i Mumford & Sons nelle orecchie si può fare tutto, e andare ovunque. Ascoltando il loro secondo disco, Babel, non si corre mai il rischio di dover mettere la mano in tasca per premere il tasto e passare alla canzone successiva. Ogni brano è una storia a sé, e allo stesso tempo tutti hanno quell’inconfondibile marchio di fabbrica, ovvero energia alla massima potenza, sentimento e ritmo che trascina.

I Mumford & Sons sono un gruppo inglese della West London nato nel 2007, nel 2009 debuttano con il loro primo album, Sigh no more, che si piazza secondo nelle classifiche di Gran Bretagna e Stati Uniti, vendendo cinque milioni di copie. Con Babel, si confermano i nuovi re della musica folk, rimanendo fedeli a loro stessi, alle proprie radici e alle proprie idee, senza preoccuparsi di dettare moda e senza rincorrere il successo. Anche se è proprio lui che insegue questi quattro giovani inglesi dall’aria trasognata, vestiti di cappelli e panciotti con una freschezza tutta loro.

E se il ritmo travolgente e la semplicità sono la prima cosa che colpisce dei loro brani, i testi delle canzoni non hanno niente di falso e costruito: sono parole di vita vissuta nelle quali ognuno può benissimo rispecchiarsi, perché non sono le solite favolette che non interessano più nessuno bensì storie vere, ricche di romanticismo e, a volte, con un retrogusto amaro: un amore non corrisposto, un’occasione perduta o la paura di non essere all’altezza delle situazioni cui la vita pone davanti. Ma i Mumford cantano che le difficoltà vanno affrontate a testa alta, che dai propri errori non si può che imparare, che un cuore spezzato prima o poi deve rimettere insieme i pezzi e guardare avanti, e questo connubio romantico/malinconico viene miscelato all’entusiasmo e alla passionalità con cui queste parole prendono forma, la forma del folk, che si sprigiona nei brani pieni di allegria e della grinta tipica delle anime giovani: «And I lost my head / Let's live while we are young», “Whispers in the dark”.

Nel mondo della musica di oggi, dove sembrano spopolare solo brani commerciali, i Mumford & Sons si fanno strada, tra una gomitata al pop e una alla techno, portando avanti tradizione e freschezza, poesia e talento, perché questa band suona tutti strumenti acustici: il banjo, grande protagonista, il contrabbasso, il pianoforte, il mandolino, le percussioni e la chitarra acustica, scusate se è poco, il tutto coronato dalle capacità canore dei quattro: Winston, Ben, Lovett, e, in particolare, dalla potente e splendida voce di “papà” Marcus, leader di un gruppo che ormai è nel cuore di molti.