[LaCompilation] Flanerí InMusica Estate 2012

Quanti di voi associano le proprie vacanze e i viaggi estivi alle canzoni che spopolano alle radio durante quel periodo? Quante persone scandiscono le estati in base al tormentone appropriato? Un fenomeno, questo, che sembra si sia affievolito, quasi estinto. Visti gli esiti generati in alcune occasioni possiamo dire fortunatamente estinto. Però la stagione calda rimane e con lei la possibilità di concedersi alcuni piaceri – in questo caso, musicali – di cui, probabilmente, non godremmo a pieno durante l’anno. Magari ascoltando canzoni molto lontane dal diventate il classico onnipresente da radio balneare. Forse perché troppo belle per essere sprecate così. La redazione di Flanerí/InMusica si permette allora di fare una piccola compilation per consigliarvi alcuni brani usciti più o meno di recente da ascoltare assolutamente, sotto il sole d’agosto e davanti il suo mare. Ovvio, è una miscellanea sonora eterogenea di autori, genere e i toni: italiani, stranieri, chi più chi meno commerciale, rock, pop, cantautori, dance ed elettronica, toni allegri, ballate e lenti malinconici. Tratto d’unione: la loro bellezza. 

 

M. Rei feat. P. Capovilla, E mi parli di te

 

Masoko, Birra e sigarette

 

I Mostri, Piazza Trilussa

 

Afterhours, Padania

 

Muse, Survival

 

The Killers, Runaways

 

Young The Giant, My Body

 

Of Monsters and Men, Little Talks

 

Hot Chip, Night & Day

 

Dargen D’Amico, Variazioni sul tema Nostalgia istantanea

“Volfango dipinto di blu” di Elvio Calderoni

Volfango dipinto di blu è il nuovo libro di Elvio Calderoni, al suo secondo romanzo con i tizi di Miraggi edizioni.

Volfango, che non ha ancora diciotto anni, un giorno scompare; solo un biglietto fa pensare a tutti che la sua sia una scomparsa volontaria. Dopo due mesi viene ritrovata la sua macchina carbonizzata con dentro un corpo, anch’esso bruciato, martoriato e praticamente irriconoscibile se non fosse per quell’unico tatuaggio sul polso. Solo Giovanna, la sorella, non crede che quel corpo appartenga a suo fratello; è convinta che Volfango sia ancora vivo, da qualche parte, lontano, ma ancora in vita. I migliori amici del ragazzo provano a convincerla ma senza risultati; loro, per sentire ancora la presenza del compagno in classe, costruiscono un pupazzo di cartapesta: stessa postura, stessa occhiali da sole, stesse scarpe di Volfango. Sembra davvero che seduto al banco ci sia lui accanto a Piero, che da quando Volfango è scomparso non trova il coraggio di tornare a scuola, finché la “creatura”, così chiamano il fantoccio, non viene portata in classe. Piero e Volfango si ritrovano così ancora seduti insieme al loro banco, dipinto per l’occasione di blu.

Volfango dipinto di blu è un libro che non permette distrazioni, nemmeno per un attimo, per non correre il rischio di perdere anche il minimo, apparentemente trascurabile dettaglio sulle intricate vicissitudini dei protagonisti che, incrociandosi, tessono la trama della storia. A dispetto del titolo, infatti, il protagonista non è solo Volfango, ma anche tutte quelle persone che, chi più chi meno direttamente, hanno a che fare con lui: Giovanna, che va avanti con la sua vita, certa che il fratello sia solo partito, tanto da trasmettere tale certezza anche a chi la incontra per la prima volta («Giovanna sente con certezza la presenza costante nel mondo, in un altro posto del mondo, di suo fratello»); i compagni di classe, che si fanno forza tra di loro imparando a convivere con l’assenza di Volfango; ma anche Hanna, la professoressa di tedesco legata a un gruppo di terroristi; e ancora Antonio e Piergiorgio, che si scambiano il lavoro e la città per fuggire entrambi da qualcosa. Tutte esistenze apparentemente senza alcun legame tra loro ma che alla fine si intrecciano, tra colpi di scena e rivelazioni inaspettate.

Altra protagonista di queste pagine è la musica, di cui l’autore è indiscusso conoscitore; dai Guns’n’ Roses ai Subsonica fino a Ivano Fossati, questa componente del libro accompagna i protagonisti nelle loro particolari vicissitudini, e contemporaneamente alle parole dell’autore scorrono anche le note delle canzoni da lui citate.

Volfango dipinto di blu una volta finito lascia un senso di incertezza: viene da chiedersi se si sono capiti pienamente tutti i nessi tra le persone e i fatti raccontati; viene istintivamente da riaprire il libro per rileggere i singoli dialoghi o le descrizioni di qualche avvenimento per essere certi di non aver perso qualche particolare. Proprio come spesso accade nella vita reale.

Una storia che fa riflettere su come l’assenza di una persona possa avere ripercussioni tanto forti sulla vita di coloro che gli stavano accanto; sul come scappare a volte possa sembrare la soluzione più facile, ma non la scelta giusta e soprattutto sul fatto che non è mai troppo tardi per cambiare le cose. Un libro da leggere. Obbligatoriamente.

 

(Elvio Calderoni, Volfango dipinto di blu, Miraggi Edizioni, 2012, pp. 224, euro 13,90)

“Accadimenti nell’irrealtà immediata” di Max Blecher

«Quando guardo per molto tempo un punto fisso sulla parete mi accade a volte di non sapere più né chi sono né dove mi trovo. Avverto allora da lontano l’assenza della mia identità, quasi fossi divenuto, per un istante, una persona del tutto estranea».

Così inizia il romanzo dell’ingiustamente dimenticato Max Blecher, autore ebreo-romeno morto nel 1938 dopo un decennio passato a letto a causa d’una tubercolosi spinale. Viene da chiedersi dunque: fino a quando il corpo può tenere prigioniera la mente? Se certamente è la morte l’attimo in cui si compie lo sfaldamento dell’unità anima-corpo, vi sono dei momenti, come quello descritto da Blecher, in cui il pensiero sembra liberarsi dell’inutile zavorra fatta di pelle, nervi e ossa e farsi fluida, al punto di mischiarsi con l’impasto primordiale di cui è fatto il cosmo.

Accadimenti nell’irrealtà immediata è il resoconto del tentativo di Blecher di sottrarsi all’oppressione di un’arida realtà che, come in un infinito ciclo di produzione, si ripete ossessivamente in un flusso continuo di esistenze tutte uguali tra loro, delimitate e chiuse in una cupa solitudine, cui è possibile sottrarsi solamente rifugiandosi in un luogo liminare tra sogno e delirio, l’irrealtà per l’appunto, unico posto dove ancora risplendono intatti i segreti semi della vita.

La ricerca d’un contatto con quel mondo di luce porta Blecher all’incessante tentativo d’annullare l’angusto limite della propria persona e a cercare una fraternizzazione con le entità che popolano la terra. Emblematico è l’incontro tra l’autore e un albero: «Silenzioso e splendido […] Mi riempii il petto d’aria e, allungandomi per bene sul dorso, rivolsi un caldo saluto ai rami sopra di me. Vi era qualcosa di semplice e ruvido nell’albero, che si sposava a meraviglia con le mie nuove forze. […] Quanto più attentamente guardavo la corona di rami che si stendeva all’infinito, tanto meglio sentivo dentro di me il modo in cui la carne si dilaniava e come negli spazi lasciati vuoti cominciasse a circolare l’aria viva di fuori. Il sangue saliva nelle vene maestoso e pieno di linfa, spumeggiante per l’effervescenza della vita semplice».

Il mescolarsi delle due esistenze in una sola, l’abbattimento dei confini che isolavano le due entità l’una dall’altra porta Blecher a voler convincere anche gli altri uomini che sia possibile trovare un antidoto alla grigia mortificazione della quotidianità. Ma è tutto inutile. Blecher non riesce nemmeno a convincere la propria compagna, Edda, che in fondo alla stanza, al posto d’una semplice sciarpa, c’è invece un vaso di splendide dalie rosse. Che esso vi sia o no veramente non ha alcuna importanza; Edda non può o non vuole vedere. L’ottusa cecità della donna mortifica l’autore e lo porta a una folgorante agnizione: il mondo non ha alcun interesse a cambiare se stesso, nessuna volontà ad abbattere le barriere tra le varie esistenze: «Tutte le cose, tutte le persone erano racchiuse nel loro piccolo e triste dovere di essere precisi, null’altro che precisi. Inutile credere che in un vaso ci fossero delle dalie, quando lì c’era una sciarpa».


(Max Blecher, Accadimenti nell’irrealtà immediata, trad. di Bruno Mazzoni, Keller Editore, pp. 168, euro 13,50)

“Banana Confused” di Patrizio Maria

Patrizio Maria si definisce così: «Sono un cantautore indie-rock con la voce da collegiale francese del ’700, sempre girato sul doppio lato di me stesso».

La carriera dell’artista inizia a metà degli anni ’90, collaborando con Paola Turci e aprendo i concerti di De Gregori, partecipando poi a concorsi musicali in ogni angolo d’Italia, alternando perfettamente il ruolo di cantautore a quello di chitarrista e compositore. Tra il 2007 e il 2010 escono i primi singoli, “Io c’ho l’ansia”, “Killer” e “Sociopatica”; è qui che grazie a concerti, video musicali e passaggi radiofonici comincia a conquistare una fetta importante di pubblico.India londinese vende più di 5000 copie e nel maggio del 2012 esce il nuovo album, Banana Confused . «Il disco – dice Patrizio Maria – è un piccolo diario dove ho descritto le mie passioni, i miei amori, dolori, colori, pensieri ed esperienze. Sono felice di aver tirato fuori quello che avevo dentro con sincerità e passione. Èun grande zoo con le gabbie aperte». Il lavoro, registrato tra Londra e Roma, è un mix esplosivo di generi musicali, suoni e vita vissuta: rock, britpop, folk e qualche pizzico di elettronica, mentre i testi sono solo in apparenza semplici e poco ricercati.

La canzone più eclettica sembra proprio essere “Legalizziamo i mirtilli”, titolo assurdo e proprio per questo molto originale, un po’ dance anni ’80 un po’ Cristina D’avena. La caratteristica di Patrizio Maria, oltre all’essere un ottimo conoscitore della musica, è questo essere dissacrante, diviso tra la realtà di tutti i giorni e un mondo immaginario che tante volte è meno surreale del nostro quotidiano. L’amore per Londra e il legame con la terra d’Albione è palese in “Carnaby Street”, brano fresco e frizzante: il pianoforte apre il pezzo, lasciando poi spazio a un testo fatto di elefanti, indiani e marshmallow, tra ironia e critica. “Il tè dell’Inghilterra” sembra una ballata celtica; di sicuro è la canzone più romantica e affascinante per parole e musica, tra flauti, chitarra e un viaggio esistenziale:

«Il tè dell’Inghilterra è come un lungo viaggio, ti scalda le parole in questo pomeriggio, dove il sole si è fermato intorno a un cucchiaino…», fino ad arrivare al «ma chi è quello là? ma chi siamo noi?».

Decisamente più rock è il brano “Scimmia”, dove si alternano metafore e rabbia alla solita ironia, con questa scimmia nella testa che protesta e fa casino, tutti ce l’abbiamo. Molto diversa dal resto dell’album è invece “Scatole cinesi”: chitarra e batteria guidano Patrizio tra parole profonde e dense di amarezza, narrando la storia di un amore senza certezze né risposte. Celebrazione dell’amore è invece “Cuore commestibile”, semplice, fresca e molto estiva, il lato più zuccherino/zuccheroso delle coppiette, tra muffin, frutti di bosco e pioggia.

Banana Confused è un album fatto di strofe che a tratti sembrano essere poesia, nonostante quest’aria leggera e spensierata che si respira. Dopo aver ascoltato per tre/quattro volte una canzone, si comincia a percepire che dietro questa atmosfera da paese dei balocchi, fatta di mille caramelle e metafore, c’è sostanza e riflessione, in perfetta sinergia con l’uso della metafora. Non sempre risulta facile da capire il vero significato e forse, in alcuni casi, è proprio quello che Patrizio Maria cercava: lasciare una libera interpretazione a chi ascolta, in modo che ognuno possa immedesimarsi in quei giochi di parole. Eclettico.

“La fine dell’altro mondo” di Filippo D’Angelo

La fine dell’altro mondo è il romanzo d’esordio di Filippo D’Angelo, edito da minimum fax per la collana nichel, dedicata alla narrativa italiana.

Il motore della storia è rappresentato da una ricerca letteraria che il protagonista, Ludovico, un ragazzo sulla trentina, sta svolgendo su un testo francese del Seicento, intitolato L’altro mondo. Ludovico è convinto di essere in possesso di un’importante scoperta su questo libro antico: il suo autore, Cyrano de Bergerac, ha ideato una molteplicità di finali possibili a L’altro mondo, finali che andranno accuratamente documentati.

Contemporaneamente però, sul piano della realtà del protagonista, si muovono anche una serie di mondi possibili. E così la scoperta sconcertante che il giovane fa relativamente alla sua ragazza aprirà una crisi che, complice anche una difficile relazione con sua sorella, lo porterà alla continua ricerca di risposte in altri rapporti. A questo punto la narrazione procede come un vortice, un susseguirsi frettoloso di azioni. Si viene immersi completamente nella realtà di Ludovico, sembra di poter annusare il fumo delle sue innumerevoli sigarette e di assaporare l’alcool che è ingerito da lui a fiumi e assunto come fosse una medicina. Una realtà appannata dunque, rabbia repressa e violenza, che prima o poi dovranno pur sfociare.

Uno scorrere continuo a cui infine viene messo un punto e che comporta la perdita di un mondo e l’inizio di un altro.  Il G8 di Genova, il massacro alla Diaz e, per finire, il crollo delle Torri Gemelle sono gli altri “protagonisti” silenziosi del romanzo, su cui l’autore in maniera discreta ruota continuamente attorno e su cui ridesta l’attenzione a dieci anni di distanza.

Con questo romanzo D’angelo non tenta di ricostruire una cronaca, ma tenta una narrazione più intimista e personale. Fatti che senza dubbio si possono definire epocali sono riproposti attraverso una visione soggettiva, che dà modo ai lettori, soprattutto a quelli appartenenti alla stessa generazione dell’autore, di riconoscersi e di immedesimarsi, e così di rispolverare anche un po’ la memoria.
 

(Filippo D’Angelo, La fine dell’altro mondo, minimum fax, 2012, pp. 329, euro 15)

“Situazioni momentanee di panico” dei Montreal

Dopo il live per il Sisley Indipendent Tour del 28 giugno svoltosi nel cuore di  Roma al quartiere San Lorenzo, conosciamo meglio la band che ha aperto le danze: i Montreal.

Inizialmente la curiosità s’incentra sul nome del gruppo, nato nell’aprile del 2008 e che annovera tra le sue fila Gianluca Marchionne alla voce, Matteo Bassan alla chitarra, Gianluca Filaci al synth, Alessio Sellitri alla batteria e Matteo Bassani al basso. Dalle loro parole scopriamo che il nome della band non è un preciso riferimento geografico; tutt’altro, Montreal è luogo dell’anima, astratto, una pura evocazione per l’ascoltatore. Un ascoltatore che dal 6 luglio può conoscere meglio il gruppo grazie all’uscita del loro primo EP, Situazioni momentanee di panico, prodotto da Cosecomuni. Ad aprire l’EP c’è il loro biglietto da visita, come i Montreal stessi hanno definito la canzone “Ti farà piacere”. Accattivante e ipnotico grazie al synth e una ritmica coinvolgente, il pezzo è il modo migliore per presentarsi al pubblico. I riferimenti cari alla band, su tutti i Klaxons di Myths of Near Furure, i Subsonica di Microchip emozionale, Killers e Kasabian, vengono sviluppati in maniera personale e attiva. Da notare il fatto che a produrre il tutto ci siano i Velvet, sempre attenti nel ruolo di producer.

Dopo “Ti farà piacere”, il cui video sta raggiungendo su Youtube numeri di visualizzazioni importanti, è il turno di “Montecristo!”  e “Fino in fondo”, pezzi altrettanto validi, con cui i Montreal confermano il loro stile elettro-altpop, in cui i testi si fondono su basi strumentali avvolgenti e qualitativamente notevoli, dove ogni membro – nonostante i punti in comune – apporta il personale background al risultato complessivo. Solo tre tracce, ma un ottimo punto di partenza per una band che fortunatamente ancora predilige e fa del live, del contatto diretto con il pubblico, il proprio punto di forza e la vera essenza della sua musica, a differenza di chi, invece, ritiene che basti un social network per renderti famoso. E la tappa del Sisley Indipendent Tour ne è stata la prova. Nell’attesa e nella speranza di ascoltare anche il loro disco d’esordio, per eventuali Situazioni momentanee di panico sappiamo a chi rivolgerci.

 

Foto di Flavio Lenoci

Al via la prima edizione di Memoracconti – Storie da ricordare

Dopo In rime sparse, premio destinato alla poesia, ecco Memoracconti – Storie da ricordare, il concorso nazionale indetto da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí, e dedicato interamente al racconto.

Racconti brevi per la precisione (massimo 8000 caratteri spazi inclusi); racconti in italiano e a tema libero; racconti che sappiano intrattenere, far riflettere ed emozionare anche chi ha poco tempo per leggere. Il concorso è aperto a tutti, senza distinzione di nazionalità, sesso o età. Una giuria composta da scrittori, giornalisti e un librario, valuterà le brevi opere scegliendo tre finalisti. Il vincitore unico sarà designato nel corso della serata di premiazione che si svolgerà durante la Fiera “Più libri più liberi” di Roma, dicembre 2012.

Il premio previsto per l’autore del racconto primo classificato sarà costituito da: attestato di vincitore assoluto; pubblicazione del racconto sul sito di Flanerí; pubblicazione del racconto all’interno dell’antologia edita dalle edizioni Memori, con riferimento al vincitore all’interno del volume e nella quarta di copertina; assegno di euro 250,00 (duecentocinquanta).


Come fare per partecipare? Basta scaricare e leggere attentamente bando, regolamento e liberatoria.
 

Il concorso scade mercoledì 31 ottobre 2012.


Per ulteriori informazioni e chiarimenti contattare:
info@flaneri.com

redazione@memori.it

“L’eredità dei corpi” di Marco Porru

Leggere di vite o di esperienze molto distanti dalle nostre, scoprendo realtà che non ci sono mai appartenute, e che mai vorremmo ci appartenessero, è sempre un’esperienza emotivamente devastante. Sono devastanti la pena e la compassione per un corpo offeso, qualunque età della vita esso stia vivendo, e sconcertanti sono le bassezze e gli sporchi meccanismi mentali cui un uomo giunge per annientare se stesso e la dignità di chi lo ama.

Ognuno di noi nasce con un DNA già scritto e segnato dal destino: una mescolanza casuale di geni in grado di regalarci la vita o la morte, spirituale intendo, e alla quale non ci si può opporre, né tantomeno combattere, nella speranza di una vittoria e sopraffazione definitive. L’eredità dei corpi, del giovane Marco Porru, finalista al Premio Calvino 2011, è proprio questo: un concerto geneticamente mal riuscito che ha reso l’esistenza di Raniero e Gabriele un’autentica lotta alla sopravvivenza. Il romanzo non concede respiri profondi per riossigenare la mente; scorre via raccontando con brutalità e violenza le routine quotidiane di una schiera di personaggi così disgraziati da ricordare, a tratti, i peccatori infernali danteschi, condannati a un’immobilità infelice ed eterna.

Malattia, perversione, ambiguità sono gli ingredienti primari di questo romanzo claustrofobico, in cui le prigioni mentali si traducono in inettitudine alla vita e in una costante ricerca di un compagno disperato quanto il nostro miserabile io, per non sentirsi soli nell’infelicità e per condividerne il peso insieme a chi può capire fino in fondo il disagio esistenziale. Così sono Raniero e Gabriele, Rosaria e Cesare, Francesca e Domenico, tutti compagni e tutti inghiottiti da un sistema familiare marcio, infettato da veleni, vecchi rancori e segreti nascosti.

L’eredità dei corpi è un libro che, una volta chiuso, disegna una ruga al centro della fronte, laddove converge l’aggrottare delle sopracciglia; perché è un libro vero, fatto di storie vere e vera disperazione ed è un libro che denuda, impietosamente, la fragilità dell’animo umano, costringendo lo sguardo a rimanere fisso su immagini alle quali, sovente, si preferisce sfuggire, perché vergognose, infime, ma incredibilmente reali.


(Marco Porru, L’eredità dei corpi, Nutrimenti, 2012, pp. 304, euro 18)

“Poesie del Mississippi” di William Faulkner

«Sono dell’opinione che in principio ogni scrittore voglia essere poeta. Quando scopre di non saper scrivere poesia di prim’ordine – e la poesia deve essere di prim’ordine – di gradazioni non ne esistono… allora tenta con i racconti, che sono il secondo genere più arduo. Quando fallisce con i racconti, viene il momento del romanzo. Vale a dire che cerca di esprimere la tragedia e la passione dell’esperienza, della vita, con quattordici parole. Se non va, ci ritenta con duemila parola. Se fallisce di nuovo, gliene serviranno centomila».

Le parole di William Faulkner, riportate fedelmente da Vanni Bianconi nella nota del traduttore posta nelle pagine finali di Poesie del Mississippi (Transeuropa, 2012) costituiscono il preambolo necessario per comprendere fino in fondo il senso di questa preziosa raccolta, oltre che la concezione chiara e delineata che il grande autore americano aveva della scrittura. Le ventotto poesie incluse in questo volumetto sono, infatti, da considerarsi degli assaggi in versi, dei frammenti in rima di quella che sarà la solida opera narrativa del romanziere americano. Così circoscritti tra un naturalismo classicheggiante e un simbolismo decadente questi componimenti furono scritti da Faulkner nel biennio 1924-25 – interessante notare che proprio al 1925 risalgono le prime bozze del romanzo The Soldier’s Pay – e fanno parte di due sezioni diverse (Mississippi Poems e Helen: a Courtship), pubblicate insieme per la prima volta solo nel 1981

È un Faulkner vivo quello che scorre in questi versi, un giovane poco più che ventenne con la smania per la scrittura che arde d’amore e si danna non essendo corrisposto, che attinge dalla sua educazione attenta per sprigionare energia in simboli e figure altrettanto vive e ardenti: «Ave O Beltà! Esclama Elena, che saprebbe / resistere alla foga del Centauro, lei che anela / su un’isola di quiete oltre al suo tumulto / a una bellezza fissa e vera, ma scorda che il sogno / sfiorisce se lo tocchi, e che i rimpianti / acquistano solo una cosa certa: l’indubbio sonno». Inconfondibili risultano le tracce dell’impeto, del furore che caratterizzeranno i suoi romanzi:«Un figlio della terra era, e fu tutto / suo il sogno del suo cuore, fosse stato saggio, / da nutrire con gli occhi di luce e di spazio, / ma col dono delle lingue maledetto». Quando addirittura non semina citazioni raffinate:evidente il richiamo a The Waste Land di T.S. Eliot nel verso «il crudele aprile è figliato da una valle formosa,».

Se a un romanziere, dunque, occorre passare per la poesia e per il racconto prima di giungere al romanzo, allo stesso modo, per un lettore acuto sarà interessante riscoprire Faulkner partendo dai suoi esordi poetici, abbandonandosi ai suoi versi, che per quanto possano risultare, a tratti, acerbi o ingenui, sapranno certamente richiamare alla mente di chi legge alcuni di quei topoi che hanno reso celebre lo scrittore americano, premio Nobel per la letteratura nel 1949, e memorabili le sue pagine.


(William Faulkner, Poesie del Mississippi, trad. di Vanni Bianconi, Transeuropa, 2012, pp. 80, euro 9,90)

“La traversata” di Boris Biancheri

Eileen, «era, come si vede, poco portata alle cose terrestri e più adatta a quelle del cielo e del mare. L’acqua era infatti il solo luogo dove si sentiva veramente a suo agio. Appena la stagione lo permetteva andava a nuotare in mare», «e solo a immergervi i piedi provava piacere e sentiva sciogliersi i nodi che aveva nella testa e nel cuore». Giovane erede di una famiglia anglo-siciliana di Marsala, non particolarmente bella, né intelligente, almeno così sente dire attorno a sé dai professori e dai suoi stessi genitori. Non parla, non esprime giudizi, non coltiva amicizie, e persino il cane, regalatole per sopperire alla solitudine che sembra circondarla, non dimostra mai affetto esclusivo per la padroncina. Chiusa nel suo mondo silenzioso, come quando immersi sott’acqua tutta la realtà circostante improvvisamente si allontana, Eileen non è indifferente come appare, ma concentrata nella dimensione solitaria delle sue uniche passioni: la contemplazione della luna e il mare, nel quale nuota per ore, perché «nulla come nuotare allo sfinimento, dà il senso di essere vivi senza essere tenuti agli adempimenti della vita».

La traversata, pubblicato postumo da Adelphi, nella collana Biblioteca minima, faceva parte di un progetto letterario di quattro racconti (Racconti Elementari) del diplomatico Boris Bianchieri, scomparso appena un anno fa. Ogni testo prevedeva come tema di fondo uno dei quattro elementi naturali; così è anche in “Vento di Nord”, apparso sulla rivista Paragone. Elementari sembrano essere anche i protagonisti dei racconti, personaggi in apparenza semplici, sfuggenti, a tratti incomprensibili, ma che in realtà, pagina per pagina, si delineano e si scoprono abitanti di mondi fantastici, dove vivono senza l’ansia di affermazione, la smania di realizzazione dell’uomo comune. Eileen è una ragazza ingenua, cresce con i suoi sogni, non è interessata alla fama che le darà il conseguimento del record femminile della traversata della Manica e significativamente sparisce la mattina dei festeggiamenti in suo onore per raggiungere, in Svizzera, una comunità di amatori della luna, dove ritrova «la liquida pace» che la avvolgeva mentre nuotava nel mare di Sicilia.

Boris Biancheri, un uomo che ha ricoperto cariche diplomatiche di responsabilità, ambasciatore italiano a Tokio, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri e presidente dell’ANSA fino al 2008 e scrittore di diversi libri di argomento geopolitico, stupisce con la leggerezza del suo narrare, racconta con parole semplici un personaggio singolare, che si forma e ci conquista mentre leggiamo, che sa di fantasia, ma in fondo è reale e con appena settantanove pagine lascia aperta la riflessione sulle infinite sfaccettature di questo mondo.


(Boris Biancheri, La traversata, Adelphi, 2012, pp. 76, euro 6)

“A Lisbona con Antonio Tabucchi. Una guida” di Lorenzo Pini

È tempo di vacanze. C’è chi sogna come meta di viaggio splendidi lidi bagnati da un mare trasparente e apparentemente incontaminato, chi opta per un soggiorno relax e rinfrescante in montagna e infine chi decide di sfidare i 40 gradi all’ombra di questi giorni per visitare una delle affascinanti capitali europee.

Se il vostro gruppo di amici, con cui avete deliberatamente scelto di trascorrere le ferie e partire, fa parte dei temerari di cui sopra, sicuramente fra loro c’è sempre il radical chic di turno che squaderna il suo immenso sapere dall’alto del suo piedistallo facendo pesare agli altri la loro ignoranza da italiano medio. Se però la capitale che visiterete è Lisbona, potreste stupire con effetti speciali quel saputello del vostro amico proponendogli itinerari che profumano di letteratura seguendo le mappe, disegnate da Guido Volpi, che troverete nella vera e propria guida letteraria realizzata da Lorenzo Pini, redattore e grafico editoriale, per la Giulio Perrone Editore, A Lisbona con Antonio Tabucchi. Una guida. Pini disegna le tappe di una sorta di pellegrinaggio nei luoghi della città che hanno visto aggirarsi le agitate e inquiete esistenze dei personaggi dei romanzi del grande scrittore, recentemente scomparso, Antonio Tabucchi.

Ne emerge una Lisbona dalle mille sfaccettature vista dal caleidoscopico sguardo dell’autore: una Lisbona leggendaria se si risale alle mitiche origini di una fondazione da parte di Ulisse; una Lisbona dominata dai Mori quanto, dopo la Riconquista cristiana, proiettata verso inedite aperture oceaniche dall’epoca d’oro delle grandi scoperte geografiche; una Lisbona abbacinante di sole di giorno con la sua caratteristica forma a mezzaluna adagiata su un’ansa del fiume Tago, quanto oscura e misteriosa di notte; una Lisbona cosmopolita quanto legata alle proprie tradizioni come la celebre musica popolare, il fado, che potreste sentire suonare camminando fra le freguesias della città; una Lisbona intellettuale se capitate nel quartiere Chiado. In chiusura il libro fornisce svariate dritte su alberghi, monumenti, trattorie e varie amenità.

«La Lisbona di Tabucchi è geografia, architettura, spazio urbano e memoriale, entro i cui confini si sono consumati eventi privati e pubblici, esistenziali, storici e politici».

Seguiamo Pereira, malinconico giornalista del Lisboa, scendere dalla sua casa in Rua da Saudade, sotto le mura del castello di Sao Jorge, verso le piazze principali della Baixa, per andare a prendere il tram giallo che lo porterà alla redazione in Rua da Rodrigo da Fonseca, quindi andare a pranzo in Rua Alexandre Herculano al Café Orquidea a sorseggiare l’immancabile limonata mentre gusta un’omelette alle erbe.

Possiamo poi imbatterci nel protagonista di Requiem, romanzo scritto da Tabucchi direttamente in portoghese (a sottolineare, se ce ne fosse bisogno, il suo viscerale legame con questa sua seconda patria adottiva), compiere il suo percorso allegorico e allucinatorio tra i fantasmi del suo passato: l’amico Tadeus al Cimitério dos Prazeres, l’amata Isabel alla casa do Alentejo, il padre nella vecchia abitazione sotto il faro del Guincho e infine, finalmente, il grande poeta Fernando Pessoa, chiamato il “Convitato”.

Itinerari “fernandini” compiono i personaggi del racconto Il gioco del rovescio, ovvero visitano tutti i luoghi prediletti dagli eteronomi del poeta. 

Tutta pervasa dallo spleen baudelairiano è invece la Lisbona del racconto Any where out of the world, titolo appunto di un poème en prose del poeta francese.

Notturno, ambientato fra i giardini simbolo della capitale portoghese, è infine l’atmosfera di Notte, mare o distanza.

Se «la letteratura ha la capacità di caricare di significati anche i paesaggi meno significativi», questo vale sicuramente per i romanzi di Antonio Tabucchi. E allora quale migliore occasione di immergersi nuovamente o per la prima volta fra le pagine dei libri del nostro e contemporaneamente lasciarsi condurre per questi luoghi dalla speciale guida di Lorenzo Pini, anche solo con l’immaginazione? Magari con un volo low cost.
 

(Lorenzo Pini, A Lisbona con Antonio Tabucchi. Una guida, Giulio Perrone Editore, 2012, pp. 176, euro 12)

“Biancaneve e il cacciatore” di Rupert Sanders

I film come Biancaneve e il cacciatore sono la ragione per cui scrivo di cinema. Perché se ci fossero in giro più persone come me – sono un bravo ragazzo, presentatemi pure la sorellina, tranquilli – a scrivere recensioni, invece dei babbuini incompetenti e servili le cui fregnacce mi tocca leggere, altre persone come me non butterebbero ai maiali i loro soldi per vedere della vera robaccia. Basta accendere la tv ed è gratis.

Innanzitutto preciso che è colpa mia, siamo sinceri: mi piace il fantasy. Cosi quando mi han parlato di una affascinante rilettura della fiaba, in cui un cacciatore insegna a Biancaneve le arti della guerra, ho iniziato a sbavare. Quando poi ho visto il bel trailer, con la Theron che fa le magie e si trasforma in corvo sono praticamente saltato sulla poltroncina e ho iniziato a mormorare «devo vederlooo», spaventando la poverina che era con me. Che non c’è più stata. Non vi dico quindi la mia rabbia: innanzitutto il cacciatore non le insegna un bel niente a quella imbranata, figuriamoci a indossare un’armatura. Poi la Theron non si vede nuda se non di schiena quindi meglio la pubblicità del Martini… E non venitemi a parlare degli effetti speciali perché io odio gli effetti speciali e odio il 3D quindi me ne frego che ci sia lo specchio magico fatto da dio e gli animaletti e le fatine, se hanno deciso di risparmiare sulla storia.

Infatti non succede un bel niente. Biancaneve è una povera scema all’inizio (e faccio notare che è perfettamente normale che sia incapace di vivere, dopo 6 anni passati in una torre) e lo rimane per tutto il film, completamente in balia degli eventi, finche alla fine sale su un cavallo e guida i suoi uomini in battaglia. E nessuno mi spiega perché: mi pigliate per scemo? Possibile che nessuno dei diecimila studenti che han fatto il DAMS, che han visto l’anteprima e che infestano tutti i blog, giornali e riviste del nostro vivere quotidiano si sia accorto che manca la storia? Che se vuoi raccontare qualcosa non basta che l’eroina sia prescelta (da chi? perché?) per poter compiere il suo Destino? Deve anche subire una metamorfosi e accettare la sua vera natura mettendo in pratica quello che ha imparato: «Usa la Forza, Luke» o qualcosa del genere. Sennò succede qualcosa di molto brutto: lo spettatore si sente preso in giro e scanserà come la peste regista e produttore. Perche è spesso colpa del produttore se il film è orrendo, e io non sapevo che costui fosse lo stesso di Alice in Wonderland e Johnny Depp.

Poi vediamo, che altro? Ah sì, il principe: Perché ha un’arma da codardo come l’arco mentre il cacciatore ha un’ascia da guerra? Si sono scambiati posto nella culla quei due? Hanno tagliato una scena importante o cosa? Sorvoliamo.

Sorvoliamo su tutto, sorvoliamo sulla protagonista inespressiva, sui motivi della cattiva (che non si capisce nemmeno dal suo flashback perché odi gli uomini , mistero) sulla morte dello Spirito della Natura copiata di sana pianta da Miyazaki (tra l’altro, se dovete fare una schifezza fatela bene: fatelo ammazzare dal supercattivo, non da uno squallido mercenario) sulle fatine buone che sembravano dei mostri da spiaccicare. Sorvoliamo sui nani inutili (guaritori?davvero? e da quando?) ma non su due cose, gli errori che stanno trascinando alla rovina il cinema. E cioè la convinzione che l’eroe debba restare così com’è, che serve esclusivamente a far sì che adolescenti grassi, foruncolosi e incapaci si identifichino con lui/lei e riempiano le sale vivendo l’illusione di poter essere un giorno amati per quello che sono, senza sbattersi, e la convinzione – pure peggiore – che gli effetti speciali possano sostituire la trama. Inetti


Consigliato a: adolescenti foruncolose e obese sotto i quattordici anni. Studenti del DAMS. Sceneggiatori falliti con tendenze suicide: è la volta buona che si fan valere o si ammazzano per la disperazione.