“Biancaneve” di Tarsem Singh

È stato salutato come la versione femminista del “cartone monumento” di Walt Disney, assurto al cielo dei simboli al punto che quasi nessuno aveva osato un remake (parodie a parte). Mirror Mirror, questo il titolo originale del film, più che una Biancaneve femminista che duetta con una regina cattiva, impersonata da Julia Roberts, pare una macedonia cinematografica con esiti alterni. È contaminazione, mescolanza di generi, registri e citazioni, tra mitologie ancora perfettamente funzionanti (dalla coppia madre-figlia Demetra Persefone a seguire), archetipi messi in circolo persino in forma involontaria, e crudeli infiltrazioni di realtà. Sarà perché il regista indiano Tarsem Singh tiene insieme, fin dalla sua biografia, sacre origini indù e profane produzioni tra Bollywood e Hollywood, ha lavorato e lavora molto in set pubblicitari e alla realizzazione di video musicali (quello dei R.E.M., “Losing My Religion” si aggiudicò un Grammy e altri premi sparsi) ed è dunque un professionista del mix come del remix. Certo è che il film spicca per il gusto di “profanare” il tempio Disney, rimescolare le carte, giocare sull’effetto sorpresa disattendendo una a una le aspettative sedimentate sull’asse Grimm-Disney.

Il copione della favola che si ha in mente è smentito, si esalta la narrazione visiva, tutto merito di scenografia (interni tra stile giapponese ed espressionista) e costumi, trionfo barocco senza i quali non si avrebbe l’effetto ridondante che fa sembrare il film un cartone. La rivisitazione, insomma, a cominciare dal fatto che non è animata ma con attori in carne e ossa, si concede parecchie libertà e senza timidezze: la voce narrante che apre il racconto è quella di Grimilde (Julia Roberts), la malvagia regina e matrigna che sa essere sarcastica, cattiva a colpi di umorismo quanto involontariamente comica e convincente molto più della Biancaneve (Lilly Collins, figlia del musicista Philip Collins), piuttosto scialba e insignificante malgrado le folte sopracciglia che parrebbero quasi caricaturali e non lo sono; il principe sembra un cacciatore, invece il maggiordomo è il cacciatore. Proprio l’esordio, grazie al lavoro della computer grafica, rende lo specchio uno strabiliante occhio meta-cinematografico, pertugio da cui si accede a un mondo dove il narcisismo scatena la rivalità femminile.

Il re, tanto benevolo verso i sudditi, è scomparso nella foresta nera (reclutata da altre fiabe) dove imperversa una bestia (riesumata da bestiari medievali e sacri testi). Intanto la matrigna ha preso il comando del regno: è una pessima governante perché dilapida i soldi pubblici in frivolezze, costringe i sudditi a una pressione fiscale iniqua e oppressiva. Biancaneve è reclusa nel castello non perché abbia fatto chissà che, solo è tanto irritante (in effetti come non dare ragione alla regina e parteggiare per lei!). Fino a diciotto anni quando, come una sorta di “Siddharta in gonnella” – anzi in veste e mantello spettacolari, realizzati come tutti i costumi dalla geniale stilista giapponese Eiko Ishioka che ha eseguito il suo ultimo lavoro proprio per Singh (scomparsa da poco, le sue opere sono esposte al Moma di New York, vinse l’Oscar per i costumi di Dracula nel film di Coppola) –, decide di uscire dal castello e di scoprire la realtà. S’imbatte in sette nani dai nomi diversi rispetto a Disney, in verità sette giganti (usano trampoli) briganti che vivono di rapine facendo acrobazie, in un principe fessacchiotto e credulone (Armie Hammer) con il suo servitore, entrambi ridotti in mutande. Avendone viste abbastanza decide di tornare a palazzo per avviare la sua personale battaglia contro la regina. E allora si trasforma in una sorta di “Robin Hood al femminile”, spadaccina con tratti da Giovanna d’Arco, rimanendo comunque acerba e slavata rispetto alla Roberts che per l’intero film è dedita a cercare di farsi sposare dal principe, anche per ripianare i debiti e le finanze del reame, tra incantesimi parzialmente riusciti, estenuanti e persino repellenti cure di bellezze a cui si sottopone nel culto dell’eterna giovinezza. Resta comunque la più bella del reame, la regina: ciò che invidia a Biancaneve pare essere, più che il fascino che manca alla sbarbina, l’età, il vantaggio della giovinezza. Presa coscienza di sé, la giustiziera Biancaneve si batterà persino con la bestia (come san Giorgio e il drago), affronterà le prove senza morire, sconfiggerà burattini di legno giganti azionati dalla magia nera che sono una felice trovata; compirà tutte quelle azioni che erano state di “competenza” del principe, bacio compreso. Ma qui è meglio non dire altro.

Certo è che la Biancaneve “emancipata” non fa che invertire i ruoli attribuendo ai personaggi maschili quella passività interposta a permanente stato letargico e/o confusionale tradizionalmente spettante, nelle fiabe, al femminile. Troppa acqua è passata sotto i ponti da quando nel 1812 i fratelli Grimm, per omaggiare lo spirito germanico, raccolsero favole popolari tra cui questa che pure ha versioni differenti e riesuma un antico mito nordico. Poi ci mise lo zampino Walt Disney realizzando, nel 1937, il primo lungometraggio animato che gli valse l’Oscar. Fiaba animata che, per l’adesione alla massoneria del suo ideatore, è stata tra l’altro anche interpretata in chiave esoterica: i sette nani, personaggi centrali sono la rappresentazione cosmica dei sette nani come pianeti e Biancaneve l’ottavo elemento, simbolo di completezza; la matrigna come matrix, energia apparente che perpetua l’illusione e si contrappone all’energia cosiddetta debole dell’universo, prevalente ma invisibile. Le fiabe, secondo l’accezione psicoanalitica racchiudono sempre processi psichici, tentativi di ricomporre un equilibrio interiore rotto o non ancora realizzato, come nel delicato passaggio dall’adolescenza alla maturità. Lo psicoanalista Bruno Bettelheim ne Il mondo incantato considerò la favola di Biancaneve come un esempio delle dinamiche edipiche nella relazione madre-figlia. La mela avvelenata, poi, ha una carriera antica e di tutto rispetto da Eva in poi, fino alle teorie di incorporazione di Melanie Klein nella lotta narcisistica tra madre e figlia. Fromm avrebbe parlato di “narcisismo maligno”. Dove voglia andare a parare il film oltre ad attualizzare la trama e dare una fotografia del rapporto tra i sessi nella società attuale (americana, in verità) a favore delle donne, non è dato sapere. La psicologia analitica junghiana insegna che solo integrando i due poli (e non già sopprimendone alternativamente uno o l’altro) si giunge a un dinamico equilibrio psichico, individuale e collettivo.

Si può constatare che il revival fiabesco attira: Biancaneve tornerà ancora sugli schermi in una versione più gotica epica e dark con una Charlize Theron matrigna. Forse si sta raschiando il fondo del barile, in assenza di idee e in cerca di sicuri incassi. Però parrebbe quasi che nel post del post moderno aumenti lo stato confusionale e si cerchino riferimenti classici, sia pure solo per strapazzarli. Così potrete assistere alla grande festa di nozze di Biancaneve con il principe in puro stile Bollywood con tanto di musiche orientaleggianti e danza del ventre. Allora forse sì, valgono le parole profetiche del capostipite moderno del narcisismo, Dorian Gray:«Viviamo in un epoca nella quale le cose non necessarie costituiscono le nostre sole necessità». 

“Dalí: un artista, un genio” al Complesso del Vittoriano

Fino al 1° luglio il Complesso del Vittoriano di Roma dedica al genio di Salvador Dalí una mostra in tre sezioni: una introduttiva, con tanto di filmato biografico e una stanza/laboratorio didattico rivolto soprattutto alle scolaresche, la seconda dedicata ad alcuni capolavori del maestro catalano e l’ultima incentrata sui suoi soggiorni italiani.

Si ripercorrono le ossessioni, cioè quegli elementi fuori contesto che danno una maggiore carica espressiva alle opere e, tra quelle esposte, ritornano sistematiche le grucce, simbolo di morte e di resurrezione, o le formiche che, a causa di un episodio legato all’infanzia, hanno assunto, per Dalí, un significato legato alla putrefazione e alla morte. Le opere presentano vari livelli di lettura, immagini multiple o tempi immaginati, spesso rappresentati da orologi, il più delle volte molli. A spingere Dalí a creare il suo immaginario è il suo metodo paranoico-critico di conoscenza irrazionale basato sull’oggettivazione critica e sistematica delle osservazioni e interpretazione dei fenomeni deliranti, ma anche la sua unica musa ispiratrice, Gala, moglie di Paul Éluard, che, in seguito, diventerà la sua compagna. Secondo Dalí, Gala tesseva e ritesseva la tela di Penelope del suo disordine e viveva il dramma della sua pittura con un’ansietà spesso più intensa della sua.

Questa retrospettiva, che è soprattutto un’occasione di ricerca, mette in particolar modo in luce il rapporto tra Dalí e l’Italia. Amava Raffaello – si può ammirare infatti il suo “Autoritratto con collo di Raffaello” – e aveva stretti rapporti con numerosi artisti del nostro paese, tra cui Luchino Visconti con cui collaborò come scenografo e costumista, per Rosalinda o Come vi piace di William Shakespeare.
 


 

La mostra comincia con le illustrazioni dell’autobiografia di Benvenuto Cellini, su commissione dell’editore Doubleday & Company di New York, e prosegue con la straordinaria “Madonna di Port Lligat”, dove viene sviluppato il concetto di “mistica nucleare”, cioè la riconsiderazione delle nuove frontiere della meccanica quantistica, in cui è possibile cogliere numerosi rimandi all’arte classica. L’uovo sospeso, infatti, deriva direttamente dalla “Pala di Brera” di Piero Della Francesca – la forma perfetta, essenziale, priva di principio e fine – e la figura, invece, dalla “Madonna con bambino” di Crivelli. Sin da subito, quindi, il percorso mette in evidenza un Dalí italiano, appassionato di Palladio, artista daliniano, secondo il pittore spagnolo, per le sue false prospettive.
Basta, allora, addentrarsi nella seconda parte della mostra per essere abbagliati dal mondo onirico di Dalí, annunciato da quelle “Impressioni d’Africa”, che rimandano all’“Annunziata” di Antonello da Messina e all’“Autoritratto con Mercurio” di Giorgio De Chirico, con il quale il pittore catalano ha molto in comune. Giunti alla sala centrale, invece, non si può non rimanere colpiti da “Singolarità” o da “Alla ricerca di una quarta dimensione” del 1979 che presenta, al centro del paesaggio, la nativa Figueres e, in primo piano, due figure vestite all’antica, un ulteriore rimando all’amato Raffaello della “Scuola di Atene”. Legame con Roma che – rimanendo sulla stessa opera – si può ritrovare nella citazione, posta in fondo a sinistra, della scena del pagamento del tributo in “La consegna delle chiavi”, del Perugino, situato nella parte sinistra della Cappella Sistina.
 


 

Infine l’ultima sezione si concentra, come già accennato, sulle permanenze italiane di Dalí. Parecchi sono i rimandi alla pop-art riscontrabili nel “Divano-labbra di Mae West” o nelle tre bottiglie ideate per il liquore Rosso Antico e viene presentata la famosa “Rivoluzione del Rinoceronte”, annunciata il 15 aprile del 1959. Inserita anche da Woody Allen nel suo ultimo film, nonostante non ci sia corrispondenza tra il tempo vissuto dal suo protagonista e il periodo del “Rinoceronte”, le corna vengono definite da un estasiato Dalí come una «curva matematica completamente logaritmica» e diventano un punto costante di riferimento a partire da quegli anni. Sezione meno interessante ma che ha il suo vertice nelle illustrazioni dedicate a Don Chisciotte, uscite sulla rivista Tempo, che rimandano a quel progetto televisivo, definito impopolare, che avrebbe unito Carmelo Bene, Eduardo De Filippo e Salvador Dalí. Ma, purtroppo, l’uomo è sempre al di sotto della potenza e del valore dell’arte e possiamo, oggi, solamente immaginare quel che sarebbe stato.

 


Dalí: un artista, un genio
Complesso del Vittoriano
Dal 9 marzo al 1° luglio 2012.


Per ulteriori informazioni:
http://www.exibart.com/profilo/eventiV2.asp?idelemento=119124

“Il ciclista di Cernobyl” di Javier Sebastián

«Io non ho più nulla da perdere e a Pripjat’ non si sta così male. L’unica cosa è che muori, ma dappertutto si muore».

Pripjat’ si trova a tre chilometri da Černobyl’. Dal lontano 26 aprile 1986, giorno dell’esplosione del reattore 4 della centrale nucleare durante un banale test di sicurezza, è una città fantasma dall’aspetto apocalittico alla Cormac McCarthy. Per le sue strade si aggirano cani randagi «magri, sporchi di fango», alcuni con «le zampe spelacchiate e sanguinanti», e sciacalli. Palazzi abbandonati con le porte sventrate, carcasse di auto incendiate, cabine di autoscontro trasformate in rifugi. E poi c’è il cesio 137 a saturare l’aria. E ci sono i samosjol. Sono gli evacuati di Černobyl’ che, non avendo un posto dove andare, tornano a casa. In fondo sono contenti di poter tornare, anche solo a morire, perché a Pripjat’ «respirare costa molto, dicono che la lingua alla fine diventa nera. E che ti si solleva la pelle e cominci a vomitare. O sputi saliva gialla».

C’è poi un uomo che gira su una bicicletta di ospedale in ospedale a visitare i bambini con addosso due cappotti. Tutti lo chiamano Vasja. È Vasilij Nesterenko, fisico nucleare, direttore dell’Istituto di Energia Nucleare di Minks. È lui il ciclista del titolo del libro dello scrittore spagnolo Javier Sebastián, Il ciclista di Cernobyl, appena uscito per Guanda, con la traduzione di Bruno Arpaia.

All’inizio del romanzo è sempre lui il vecchio malato e mezzo intontito che viene lasciato da una signora tra due sacche di vestiti in un self-service parigino. L’uomo non può non attirare dapprima l’attenzione e la curiosità, poi l’apprensione e lo sconcerto dell’altro protagonista della storia e voce narrante, il rappresentante spagnolo alla Conferenza Internazionale Pesi e Misure tenutasi a Parigi per l’omologazione del Chilo campione negli anni Duemila. Per una serie di circostanze complicate ed equivoci, lo spagnolo si troverà a doversi occupare di Vasja, affidatogli dai servizi sociali francesi. L’uomo è senza documenti e le uniche parole che sa dire sono: «Non lasciare che mi uccidano».

A poco a poco anche noi lettori scopriamo insieme al narratore le vicende di Nesterenko e dei suoi tentativi di dissotterrare le verità sul disastro di Černobyl’ insabbiate dal governo centrale russo: «Secondo lo Stato, le conseguenze di Cernobyl venivano esagerate, anche le evacuazioni erano, secondo loro, un errore». Ben presto infatti Nesterenko si accorse che le autorità russe alteravano i dati sulle radiazioni alzando la soglia di pericolosità per l’uomo e invitando la gente a tornare nelle proprie case, limitandosi anche per i cibi a poche e semplici accortezze (come tenere a bagno per varie ore carne o ortaggi). L’unica fonte di informazione veritiera diventa così il Belrad, l’istituto fondato dallo stesso fisico nucleare. È a questo punto che la vita di Nesterenko è in pericolo. Scampato a due attentati, si rifugia a Pripjat’, città altamente contaminata, dove resistono pochi sopravvissuti attaccati alle proprie radici o ai propri morti, saccheggiatori, una guida che porta “turisti” curiosi a visitare la città per 400 dollari o si fa procurare dai “coloni”, in cambio di viveri non contaminati, animali modificati dalle radiazioni da rivendere al mercato estero e un cantante che ancora si esibisce al cinema-teatro Prometeus, ma che nessuno applaude più.

Invenzione e accurata documentazione di alternano e si confondono (a volte un po’ troppo). Sullo sfondo di una tragedia, di cui ancora oggi sono tangibili le conseguenze nell’alto tasso di incidenza dei tumori e delle malformazioni sugli abitanti delle zone colpite, si delinea la storia di una scelta coraggiosa, quella di non tacere a costo della propria sopravvivenza perché quel che noi crediamo di conoscere è soltanto ciò che le autorità vogliono farci credere.


(Javier Sebastián, Il ciclista di Cernobyl, trad. di Bruno Arpaia, Guanda, 2012, pp.229, euro 17)

“La scena perduta” di Abraham B. Yehoshua

È nei meandri della creazione artistica e dell’invenzione estetica, che s’addentra Abraham B. Yehoshua con il suo ultimo romanzo La scena perduta, pubblicato sul finire del 2011 da Einaudi. Attraverso una scrittura ormai matura e sempre tendendo verso la formula del cosiddetto «simbolismo realistico» (così è stato definito il suo stile dal critico Gilead Morahg), l’autore israeliano si cimenta in una riflessione che abbraccia la sfera del visivo, cinema e pittura. Benché Yehoshua si serva di modi espressivi diversi, la sua riflessione rinvia puntualmente e anche con una vaga tendenza autobiografica alla narrazione. La scrittura è difatti un atto complesso, che richiede diversi requisiti e innumerevoli competenze, e ingloba – così come già era sotteso nei trattati di retorica antica [Quintiliano, ndr] – le capacità proprie a tutte le arti.

L’incipit del libro trova appiglio in una tela del Seicento, la “Caritas romana” di Matthias Meyvogel. La rappresentazione di un uomo morente, al quale una giovane donna tende il nudo seno per nutrirlo, accompagna lo sviluppo dell’intreccio dello scrittore israeliano. Yair Moses, un regista di cinema d’autore, ormai settantenne, ripercorre involontariamente la sua carriera a Santiago de Campostela, dove gli è stata dedicata una retrospettiva. È qui, nella sua stanza d’albergo, che scopre una riproduzione della “Caritas romana”. Il quadro innesca una serie di analogie e di ricordi che ruotano attorno alla sua produzione cinematografica e al suo rapporto – da anni interrotto a causa di una stretta similitudine con la scena rappresentata nel dipinto – con il suo sceneggiatore Trigano. Al ritorno in Israele, nasce in Yair la volontà di ristabilire questo rapporto, realizzando la scena perduta rappresentata nel quadro seicentesco.

Lo stile e il modo di scrivere di Yehoshua, quantunque si tratti di un autore acclamato e da anni in lizza per il Nobel, non è esente da critiche. Del resto è l’autore in persona ad ammetterlo, in sede di alcune interviste: ha perso definitivamente qualcosa, nei suoi ultimi libri. Manca la sottilità, l’ambiguità, una tendenza verso l’astratto proprio di uno stile ellittico che in parte aveva fatto la bellezza del suo primo romanzo, L’amante. Dice invece tanto, dice troppo, in La scena perduta. La narrazione naufraga in un surplus di parola, che si rivela superfluo alla lettura. Scrittura allora impeccabile, quella di Yehoshua, ma che ha smesso di sedurre.

L’esponente di maggiore spicco della Israeli New Wave, rimane comunque inattaccabile nella sua capacità di abbracciare la sfera dei sentimenti e delle relazioni umane. La sua analisi è intrisa di un profondo psicologismo e affronta temi quali l’amore, l’amicizia, la malattia e la morte con maestria ed eleganza. Yehoshua ci regala un libro denso e complesso. Sempre attento alle dinamiche relazionali, sociali e religiose, il libro affascina attraverso la semantica dell’espiazione, che si protrae per tutto il corso della lettura.


(Abraham B. Yehoshua, La scena perduta, trad. di Alessandra Shomroni, Einaudi, 2011, pp. 367, euro 21)

“L’amica geniale” di Elena Ferrante

L’ultimo romanzo di Elena Ferrante, L’Amica geniale, si apre con l’immagine di Elena, una donna sulla sessantina che, dopo aver ricevuto una telefonata, apprende che la sua migliore amica, Lila, è scomparsa. Da qui prende avvio la vicenda, un lungo flashback in cui la protagonista, nonché voce narrante, ripercorre i luoghi della sua infanzia, trascorsa nella periferia di una Napoli anni Cinquanta ancora in bilico tra povertà postbellica e speranze di ricostruzione. In questo clima arroventato e violento nasce l’amicizia tra le due protagoniste, ritratte, in questo primo volume, prima bambine e poi adolescenti, ma altri romanzi seguiranno per narrare il periodo della loro giovinezza, fino alla maturità e all’incipiente vecchiaia.

Intorno alle figure delle due protagoniste si apre un vasto panorama di comparse popolari: il falegname, il salumiere, il muratore e le rispettive famiglie, i compagni di scuola, la maestra, le donne del rione che «combattevano più degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male» perché lì, in quella Napoli povera e primitiva «fare male era una malattia» e la morte, uno spauracchio da cui guardarsi di continuo, sotteso nel lessico quotidiano. Un mondo pieno di parole «che ammazzano»: il tetano, il tifo petecchiale, il gas, ma anche il tornio, le macerie, il lavoro, e soprattutto Don Achille, il camorrista del quartiere, l’“orco cattivo” da cui stare alla larga. In questo contesto le protagoniste si conoscono e si frequentano, attratte forse dalle loro opposte personalità: Elena, timida e diligente, e Lila, schiva, scontrosa, ma dotata di una rara intelligenza che le permette di riuscire in ogni cosa che fa, salvo poi stancarsi per cimentarsi in una nuova impresa. Tale qualità la rende carismatica, magnetica agli occhi della sua amica: «Dovetti ammettere presto che ciò che facevo io, da sola, non riusciva a farmi battere il cuore, solo ciò che Lila sfiorava diventava importante. Ma se lei si allontanava, se la sua voce si allontanava dalle cose, le cose si macchiavano, si impolveravano».

Così, Lila impara a leggere da sola tanto da cimentarsi nella stesura di un romanzo e anche quando sarà costretta a ritirarsi da scuola per dedicarsi all’umile bottega del padre calzolaio, riuscirà a non arrendersi al suo destino di miseria progettando di trasformare il negozio in un calzaturificio di successo, tanto che Elena afferma: «La scuola media, il latino, i professori, i libri, la lingua dei libri mi sembrarono definitivamente meno suggestivi della finitura di una scarpa, e questo mi depresse». Nel romanzo infatti, la protagonista appare spesso infelice, ansiosa di eguagliare e superare l’amica, così autonoma e adulta rispetto a lei. Le paure di Lila invece, si intravedono appena, perché il narratore non può coglierle. Solo di tanto in tanto si accennano disagi, come quello della “smarginatura”: «Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose mentre delle entità sconosciute spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa».

E quanto più Elena, crescendo, allargherà i suoi orizzonti, tanto più Lila si chiuderà nella provincialità di Napoli fino a sposare, davanti all’invidia di tutto il rione, un uomo abbiente, ma che non la merita. E lei lo sa. Ma crede che, così facendo, troverà almeno una forma stabile, lei perennemente ossessionata dai suoi continui cambiamenti di stato. Così, il giorno del matrimonio Elena si reca a casa sua, per aiutarla nei preparativi. È l’ultimo dialogo tra le due amiche prima che tutto cambi. Lila è seduta sul bordo del letto, bellissima. Accanto a lei, l’abito da sposa che sembra «il corpo di una morta» e, mentre fissa l’acqua brillante di una conca di rame, dice all’amica:
«Qualsiasi cosa succeda tu continua a studiare».
«Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito».
«No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre».
«Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono».
«Non per te: tu sei la mia amica geniale».
(Elena Ferrante, L’amica geniale, edizioni e/o, 2011, pp. 336, euro 18).

“Diario di un uomo superfluo” di Ivan S. Turgenev

Siamo sempre compiaciuti quando possiamo cogliere un talento fresco, di primo polline, un autore neonato di cui siamo certi parleranno in parecchi, tra corridoi di premi e di pagine, pronti a sfidarsi in lunghezza. Recensire vuol dire anche questo, camminare su un prato e scegliere un fiore. Sentire il fortore che gronda sul dito mentre lo stiamo sfogliando. E poi innamorarsene, fino all’ultimo petalo. Già finito e già nostro.

Lo scrittore di oggi è un certo Ivan S. Turgenev, un giovane nato a 400 km da Mosca, ovvero molto lontano da questa città, ma non sapendo menzionare un altro luogo limitrofo che ci racconti qualcosa, ci faremo bastare questo segmento. Credendolo breve. Come annunciato, è lui il nome di oggi. Sì, ma oggi che giorno è? E di che anno? Il 1850? Forse. Un’epoca strizzata da grandi contrasti, imbavagliata dal sentore di guerre letali, come tutte le guerre, che promettono pace offrendola eterna, dietro una lapide. I moti d’indipendenza hanno storto l’Europa, rovesciando poteri di marmo e seminando nuovi profumi. Di tutto questo, però, nel nostro libro nessuna traccia.

Perché? Perché il suo titolo ci ha già risposto. Stiamo pascolando nel Diario di un uomo superfluo (Voland). A comporlo è Culkaturin, un ragazzo già vecchio nei suoi trent’anni inoltrati che sa di dover morire.
Ma non come lo sa ciascuno di noi. Lo sa perché la morte lo vezzeggia, lo accudisce con premura e gli soffia nell’orecchio che manca proprio poco. Così Culkaturin scrive, verga i suoi giorni di coda, per poi trovarsi a sprofondare in quelli più lontani. Scrive perché non gli resta altro, se non la sua badante e troppi ettolitri di tè. Scrive per riconquistarsi, come ultimo atto di possesso di una vita che sta gocciando via, che si è asciugata troppo in fretta. E che forse non gli è mai appartenuta. Nasce figlio scontento, di una madre energica e di un padre inconsistente, impegnato a giocarsi ogni cosa, ovvero quel poco che ha, a maledire se stesso e poi a farlo di nuovo, in una spirale che lo corrode anche agli occhi del suo bambino. Che lo rende monco, anche quando lo accarezza. Cresce accanto a precettori nostalgici e diventa grande solo per la sua età, perché nessuno sembra accorgersi di lui. Come se fosse appena percettibile. E chi gli stringe la mano stringe un’assenza. Chi lo incontra esclama: «Ehi, allora ci sei anche tu!». È un uomo non pervenuto, una creatura aggiuntiva, di cui non si avverte il bisogno; un quinto cavallo rimasto impigliato nella carrozza, zampe che corrono loro malgrado. E quando incrocia l’amore, la tendenza non cambia. Sbarca in un posto innominato, atemporale, ospite di un funzionario del distretto e della sua famiglia. E s’imbatte in Liza, sua figlia, con cui conversa e passeggia sentendosi felice, sentendo che forse stavolta sarà diverso, che il suo viso per un altro può fare la differenza, respirando quelle settimane come un miracolo in mezzo alle foglie. Ma il suo sangue è incolore e i suoi passi non lasciano impronta. Anche per lei.

Bussa in casa un principe e lui, già tanto flebile, smette di esistere. Liza s’invaghisce del nuovo arrivato e in poco tempo lo ama perdutamente, mentre Culkaturin galleggia sullo sfondo, pallido e ridicolo. E a nulla servono gli affannosi tentativi di richiamare l’attenzione, perché nessuno si volta, se non per deriderlo. Culkaturin capisce bene, anche dal suo cognome, padroneggia a pieno la sua avara condizione. Sa di essere opaco, sa di essere superfluo, appunto. È lui stesso a battezzarsi in quest’acqua e ricorre all’etichetta, perché è quella che lo impalma, che riesce a descriverlo meglio di qualsiasi altra. Non superficiale, accorto e inclinato solo verso il superfluo, come un dandy wildiano o un Andrea Sperelli che vive a rebours. Superfluo egli stesso, un ignavo dantesco chilometri e secoli oltre il girone. Un inetto sveviano ante litteram, un personaggio che non può, nonostante sia quasi l’unico ad abitare l’intera vicenda, diventare un protagonista. Nemmeno della sua storia. Un debole forte abbastanza da afferrare la sua debolezza. E struggersi fino alla fine. 
Inserito alla perfezione nel paesaggio degli inutili, gli stessi di cui parlava Celine, i corpi grigi di Kafka, i senza qualità di Musil, gli infiniti Oblomov che popolano inchiostri e letture grandiose. Gli Adriano Meis che non sanno chi sono, che si ritrovano ad apprendersi defunti. E che probabilmente lo sono sempre stati. Quelli che come molti di noi non reputano mai di essere all’altezza. Gli invisibili costretti a ravvivare la tappezzeria del mondo. A guardare gli altri vincere o battersi. Ad agognare anche un solo orfano attimo di stima. A sforzarsi per sempre senza riuscire neanche una volta.

Nella bella traduzione di Alessandro Niero, il giovane Turgenev, col suo tratto immediato e pungente, con un linguaggio colto e delicato, sottile al punto di tagliare, ci parla di loro attraverso Culkaturin. Ci mostra un uomo acuto e sensibile. E per questo ferito ogni giorno, ogni minuto, in prima istanza da se stesso. Dalla sua congenita impotenza. Dalla consapevolezza di non raggiungere gli altri. Di restare quello che chiude la fila e che potrebbe anche sparire senza causare nemmeno una domanda.

Recensisco con piacere quest’autore emergente di appena 194 anni. Perché non siamo nel 1850, ma molto più in là. Almeno secondo i giri del sole. Ma quando chi scrive ci regala uno specchio, una stanza grandissima in cui sistemarci e piroettare con le stesse incertezze degli altri, allora quello stesso scrittore continuerà a emergere. O quanto meno non affonderà. Sarà sempre un ragazzo, lo stesso di quando impugnò quelle righe, ignorandoci tutti, ignorando ancora e per sempre chi lo avrebbe sfiorato domani.


(Ivan S. Turgenev, Diario di un uomo superfluo, trad. di Alessandro Niero, Voland, 2011, pp. 104, euro 8)

“Cosa piove dal cielo?” di Sebastián Borensztein

Da poco uscito anche nelle sale italiane, Cosa piove dal cielo? (titolo originale Un cuento chino), è il film diretto dal regista argentino Sebastián Borensztein. La parte del protagonista è affidata a Ricardo Darín: l’attore principale del film premio Oscar 2010, Il segreto dei suoi occhi.

Il cinema argentino in generale sta avendo ampi riconoscimenti anche in Italia, come dimostra il fatto che Cosa piove dal cielo? ha vinto il Premio della Giuria Marc’Aurelio per il miglior film all’ultimo Festival di Roma. Un premio senza dubbio meritato perché si tratta di una commedia molto piacevole, delicata e che parla di temi universali come la morte, l’amore e la guerra senza però scadere mai nella banalità e in più usando un linguaggio narrativo originale.

Il film è quasi interamente ambientato a Buenos Aires, ma la primissima sequenza si svolge altrove, dall’altra parte del mondo, in Cina. Un idillio amoroso sta per essere interrotto per sempre e in maniera drammatica da un fenomeno che ha quasi del soprannaturale, una mucca precipita dal cielo. Una prima scelta narrativa che vuole suggerire qualcosa allo spettatore, una sorta di avviso, un richiamo da tenere a mente per il resto della proiezione, fino a che tutto non sarà spiegato. Subito dopo, infatti, con un vero e proprio capovolgimento di prospettiva della macchina da presa siamo catapultati in una nuova dimensione e, dimenticando quello che abbiamo appena visto, piombiamo nella vita del nostro protagonista, Roberto, un uomo di mezza età che gestisce da solo un piccolo negozio di ferramenta al quale è annessa anche la sua abitazione: la tipica persona “casa e bottega”. Le giornate di Roberto si svolgono in maniera monotona e sono programmate dall’inizio alla fine con una meticolosità che ha quasi del maniacale, lasciando poco o nessuno spazio alle emozioni. Queste ultime sono custodite gelosamente, come reliquie e come i piccoli animali di vetro che lui stesso colleziona in una teca, accanto alla foto venerata di una madre mai conosciuta.

Ma un bel giorno qualcosa di nuovo accade, questo equilibrio di forme inerti si rompe, il museo di vetro va in frantumi. Una nuova storia prende il via: nella quotidianità del protagonista piomba Jun, un giovane ragazzo cinese, appena arrivato in città, completamente solo e spaesato. Roberto si offre di aiutarlo. Così, un po’ per caso, un po’ per necessità, inizia una strana e difficile convivenza, resa ancor più complicata dal problema della lingua. Quest’avventura porterà i due personaggi a trovare ciò che stanno cercando o che non sanno ancora di cercare, e a sciogliere finalmente alcuni nodi della loro esistenza.

“Tutta la vita” di Alberto Savinio

Che ad alcuni uomini sia riservato il destino di nascere come “cadetti” d’una grande famiglia è già un’ingiustizia, una delle tante che attendono il nascituro alle soglie della vita, e diviene condanna qualora ai diritti del primogenito si aggiungano doti umane, politiche o artistiche di qualche valore. Non dev’esser stato facile dunque per Alberto Savinio liberarsi dell’ombra pingue e ingombrante del fratello Giorgio De Chirico (due fratelli, non a caso, separati da un diverso cognome), benché oggi è forse lecito dubitare dell’effettiva superiorità artistica del primogenito sul cadetto. In questo caso, la raccolta di racconti Tutta la vita (Adelphi, 2011) è una bella testimonianza del talento letterario di Savinio e della sua inusuale capacità di penetrazione del microcosmo dell’inanimato. Potreste leggere e rileggere i suoi racconti e non trovare nemmeno un tentativo d’indagine psicologica degli uomini e delle donne che, loro malgrado, si ritrovano al centro delle vicende narrate. In realtà, ciò che interessa Savinio, non è il mondo triste e plumbeo degli uomini, ma quello ben più interessante e animato degli oggetti, o meglio, la visione che gli oggetti hanno della vita umana. Nei racconti è sempre presente un vivace formicolio di mobili, poltrone, suppellettili e strumenti musicali, in contrasto con la staticità palustre di un’umanità scipita e meschina.

L’immobilità della vita umana, coartata dentro gli angusti confini di convenzioni, cerimonie e classi sociali, risulta ancor più incomprensibile quando la si osservi dal punto di vista di un oggetto. In ciò, Savinio non viene meno alla tradizione surrealista europea, in cui la percezione del mondo è rinnovata e vivificata da un continuo spostamento del punto di osservazione, sino a giungere a uno straniamento che riabilita quello “stupore della realtà” che è la base stessa dell’arte.

Il racconto più rappresentativo in tal senso è forse “Poltrondamore”. Il commendatore Candido Bove (quasi una caricatura del Candide voltairiano, laddove il cognome “Bove” dissacra l’invocata ingenuità illuministica trasformandola nell’ottusità mansueta delle bestie) si ritrova da solo nel salotto buono della sua casa piccolo-borghese a piangere la moglie Teresa, morta qualche giorno prima. Nel silenzio della stanza, Candido inizia a udire delle voci, qualcosa come un chiacchiericcio che sembra provenire dal salotto stesso. Sono strane voci, come «voci di stoffa». La vecchia poltrona di casa, l’unica poltrona in stile Ottocento sopravvissuta a un recente rinnovo dell’arredamento, credendo assente Candido, conversa con i mobili più giovani, raccontando degli innumerevoli amanti che la signora Teresa portava in casa e con cui aveva rapporti proprio sopra di essa, al punto tale da averle consumato tutte le molle. Inutilmente la poltrona su cui è seduto Candido, impossibilitata a parlare proprio dalla grossa mole del commendator Bove, tenta di avvertire la poltrona Ottocento. Quando essa riuscirà a scrollarsi di dosso l’uomo e finalmente ad avvertire la poltrona pettegola sarà troppo tardi: Candido Bove, invece di riflettere sul fatto di aver sorpreso un prodigioso e segreto momento di vita delle cose, lui che s’era sempre aggirato ignaro in mezzo ai misteri, si avventa con ottusa ferocia sulla poltrona Ottocento dilaniandola con le sue mani grassocce e i suoi denti finti. Dopo qualche giorno, al rientro della governante, Candido Bove viene ritrovato riverso in terra, ucciso dalla sua stessa rabbia. Alla fine, Savinio commenta amaramente: «Perché gli uomini cedono alle più grosse impressioni fisiche, ma sono troppo rozzi ancora per fare attenzione a quel che di più sottile e ineffabile circonda la nostra vita; non sanno ascoltare le voci delle cose che nella loro ignoranza essi credono mute».


(Alberto Savinio, Tutta la vita, Adelphi, 2011, pp. 241, euro 12)

“Die Frau ohne Schatten” al Teatro alla Scala di Milano

L’intervista rilasciata a Classic Voice Opera n. 57 aiuta ad aprire uno spiraglio all’interno della logica (se così proprio vogliamo chiamarla…) che muove la lettura registica data da Claus Guth a Die Frau ohne Schatten, di Richard Strauss, in scena lo scorso mese alla Scala: contando anche, il regista se lo lascia incautamente scappare, sull’ignoranza crassa del pubblico cui si rivolge (lui dice, più educatamente, che «il pubblico milanese non ha un’idea preconcetta», di un’opera di sicuro tutt’altro che familiare, ai nostri malati di “bohèmite” e di “traviatite”). Così, dunque, sappiamo (udite udite!) che l’Imperatrice non è – ça va sans dire – la creatura fiabesca che il libretto pretende che sia (dunque, via costumi e scene più o meno orientali e di fantasia, se non per le “batmanesche”, e un tantino comiche, ali d’angelo nero che affliggono i personaggi villain quali la Nutrice: solo, com’è ormai d’obbligo, nelle regie d’opera “intelligenti”, camicioni bianchi, per il letto, e simili costumi del tempo e del luogo in cui l’opera è stata composta), e nemmeno, come più di uno spettatore avveduto potrebbe facilmente sospettare, un fin troppo trasparente calco di un Hofmannsthal che, sul versante sanguinoso della prima guerra mondiale (intercorre fra la stesura del secondo atto e quella, infinitamente più laboriosa – e si vede! – del terzo) si sente “senz’ombra”, messo, per storia famigliare, per cultura, forse anche per carattere, al di fuori del flusso pulsante di una esistenza che gli fa un bel po’ di ribrezzo. No, sappiate che qui siamo di fronte all’«incubo notturno» (e questo sì, lo si è avuto, anche noi…) di una giovane donna che il padre e il marito «tendono a considerare solo una “bambola”», e l’ombra di cui manca, non è – come ingenuamente pensavamo noi – la capacità (la voglia?, com’è poi per il suo alter-ego, la Moglie del tintore Barak) di entrare nel flusso della vita, dandola ad altri esseri umani: no, altro non è che «l’emancipazione». In pieno 2012! Ancora con questa solfa vetero-femminista (ibseniana, perfino)! Davvero, si fa fatica a comprendere perché tanta ruvida mancanza di sensibilità (per un’opera come questa, poi!, così pericolosamente in bilico sul crinale del simbolo, e magari anche non del tutto ben servita dalla greve speziatura della salsa orchestrale e motivica straussiana), debba essere premiata dall’offerta della prestigiosa regia del prossimo spettacolo inaugurale della stagione scaligera: non per un – mai abbastanza deprecato – provincialismo, ma davvero non avevamo proprio nessuno, qui da noi, che fosse un po’ meno macellaio?


Die Frau ohne Schatten
di
Richard Strauss
direttore Marc Albrecht
regia di Claus Guth

Andato in scena dall’11 al 27 marzo 2012 presso il Teatro alla Scala di Milano.

“Tre volte all’alba” di Alessandro Baricco

Tellurico. 
Questo libro ti smuove dentro, ti scuote e ti scava nel profondo.
Ti cava fuori l’emozione unica, esclusiva, che senti quella volta leggendo quelle pagine e che poi non senti più.
Tellurico, dunque. E giallo, come un vestitino fresco dell’estate, come le buone idee, come le consapevolezze (quelle belle, quelle che ti fanno felice). 
Sono di parte, lo dico subito che adoro Baricco, ma questo è un libro geniale, che merita davvero di essere letto e apprezzato.

Tre volte all’alba si compone di tre racconti brevi, apparentemente indipendenti ma legati l’uno all’altro da un meccanismo bellissimo, che li fa sfiorare in alcuni punti dando vita a un filo invisibile, eppure così evidente, che li lega. Li lega così forte da farli diventare, alla fine, una storia sola.

Nei tre racconti, infatti, i due protagonisti sono sempre gli stessi ma, per sfasature temporali, si incontrano in differenti età della loro vita e ogni volta sarà l’unica, la prima e l’ultima.Prima adulti, poi rispettivamente ringiovaniti e invecchiati, i due sovvertono le strutture temporali, sconvolgendone la linearità. E si incontrano quasi a volerla ricomporre, a cercare un senso forse, o per scombinarla ancora di più, perché forse un senso vero non c’è. Si incontrano sempre nella hall di un albergo. E si incontrano sempre all’alba, in quella luce a metà tra giorno e notte che è promessa di rinascita, che fa esistere un «tempo anomalo» a metà tra realtà e fantasia. Un tempo che diventa assolutamente reale se è abitato da qualcuno, se si racconta la storia che ci vive dentro.

Queste due persone hanno un passato difficile, quantomeno non comune, e in ognuno dei racconti si trovano a dover prendere delle decisioni, devono provare a ricominciare: «Si ricomincia da capo per cambiare tavolo. Si ha sempre questa idea di essere capitati nella partita sbagliata, e che con le nostre carte chissà cosa saremmo riusciti a fare se solo ci sedevamo a un altro tavolo da gioco. Cambiare le carte è impossibile, non resta che cambiare il tavolo da gioco».
È questo il nucleo dei racconti: avere il coraggio di cambiare per “ritrovarsi”.

Baricco sviluppa il desiderio di cambiamento già visibile nel suo romanzo precedente, Mr Gwyn, di cui quest’ultimo libro è un «lieve e lontano sequel», come dice lo stesso autore, e lo fa nel suo stile inconfondibile che cura il dettaglio e la musicalità della storia, con la sua lingua sempre attenta alla scelta di ogni singola parola. L’autore riesce a gestisce le tre storie con un’abilità davvero non comune, evidenziando la misteriosa permanenza dell’amore che resiste di fronte alle scelte dell’età e delle stagioni.

I libri di Baricco li devi leggere, non si possono raccontare, non ci si può nemmeno provare e io forse ho detto fin troppo, anche perché la lettura di Baricco ogni volta è l’unica, la prima e l’ultima.


(Alessandro Baricco, Tre volte all’alba, Feltrinelli, 2012, pp. 96, euro 10)

“Polisse” di Maïwen Le Besco

Polisse, vincitore al Festival di Cannes 2011 del Premio della giuria, della Palma d’oro del pubblico e della critica, è ambientato a Parigi e racconta le vicende di un gruppo di poliziotti dell’Unità di Protezione dell’Infanzia. Il gruppo si trova ad affrontare quotidianamente casi di abusi e violenze sui minori, abusi di tipo sessuale o psicologico, anche di matrice etnico-religiosa, ma il dipartimento interviene anche quando gli adolescenti diventano un pericolo per sé stessi, come nel caso di ragazzine che si spogliano in webcam. L’attività del dipartimento incontra diverse difficoltà, da parte dei familiari dei minori o dei minori stessi (è il caso degli adolescenti con comportamenti a rischio), ma viene ostacolata anche dai superiori, come quando a essere accusato di pedofilia è un uomo che ha dei legami importanti con le istituzioni.

Gli agenti di polizia si trovano abitualmente faccia a faccia con bambini picchiati o vittime di abusi sessuali e, pertanto, il loro approccio a queste realtà appare talvolta cinico, come si evince da alcuni dialoghi in cui i casi vengono trattati come una qualsiasi pratica d’ufficio. In realtà le vite dei protagonisti di Polisse sono particolarmente segnate dalla loro professione. Il film descrive la vita dei poliziotti sia dal punto di vista professionale che privata, mostrando i problemi che ognuno di essi si trova ad affrontare ogni giorno, ponendo così lo spettatore non dinanzi a degli eroi, ma a individui con le proprie debolezze e fragilità che, tuttavia, devono essere messe da parte in un lavoro che li pone a contatto con il lato peggiore dell’essere umano.

La regista, che nel film interpreta Melissa, fotografa incaricata dal Ministero degli Interni di documentare l’attività del dipartimento, descrive i casi di abuso e la lotta quotidiana di chi tenta di porvi fine, con un taglio narrativo a metà fra il documentario e la fiction, riuscendo a comunicare l’orrore senza la necessità di mostrare in maniera cruda le violenze subite dalle vittime. 

“Due storie pietroburghesi” di Nikolaj Gogol’

Da Angelo De Gubernatis a Cesare De Michelis. Al primo si deve il merito di aver fatto conoscere in Italia uno dei più grandi scrittori russi della prima metà dell’Ottocento, Nikolaj Gogol’, pubblicando su Rivista europea nel 1877 la prima traduzione, firmata con le iniziali E.Z., de “Il giornale di un pazzo”, racconto del 1834, compreso nella raccolta miscellanea Arabeschi (1835). Al secondo invece si deve l’ultima versione, per la collana Sírin Classica di Voland, di due famosi racconti dello scrittore russo: “Corso Nevskij”e “Brandelli dal memoriale d’un matto”.

Qual è il senso di un’ulteriore traduzione oggi di Gogol’?
Intanto Due storie pietroburghesi permette di leggere o (si spera) di rileggere due gioielli di un genio della letteratura russa perché Gogol’, rappresentando ogni tipo umano, rispecchia la Russia di allora come quella di oggi.
L’operazione di Cesare De Michelis, ordinario di letteratura russa dell’Università Tor Vergata di Roma, è tanto più necessaria perché cerca di restituire la patina linguistica originaria del testo, recuperando i significati ottocenteschi di alcune lemmi (vedi le note) ormai obsoleti e i realia su cui si basano alcune trovate dei racconti. Le due storie fanno parte, insieme a “Il ritratto”, “Il naso” e “La mantella”, dei cosiddetti Racconti di Pietroburgo (titolo non gogoliano). È proprio la città di Pietroburgo con le sue ambiguità tra realtà scintillanti e meschinità la vera protagonista.

“Corso Nevskij”, meglio noto come “Prospettiva Nevskij” dall’attuale nome russo (nella postfazione De Michelis ci spiega la scelta di renderla in italiano con “corso” anziché “prospettiva” o “prospetto”), è la principale strada di Pietroburgo che, seguendo il fiume Neva, è fiancheggiata da palazzi molti dei quali opera di architetti italiani. Lunga 4,5 km, si estende dalla piazza del Palazzo d’Inverno a quella del monastero di Sant’Aleksandr Nevskij (principe di Novgorod, vittorioso sugli svedesi nel 1240 presso il fiume). È il vero cuore pulsante della città: «Non c’è niente di meglio del Corso Nevskij, almeno a Pietroburgo; per la città è tutto. Di cos’è che brilla, questa strada-maliarda della nostra capitale? […] Questo è l’unico posto dove la gente si fa vedere non per necessità, dove non è spinta dal bisogno e dal tornaconto bottegaio che permea tutta Pietroburgo. È come se uno, incontrato sul Corso Nevskij sia meno egoista che sulla via Morskaja, sulla Gorochovaja, la Litejnaja, la Meščanskaja, o in altre strade dove la cupidigia, l’interesse e il bisogno si rivelano nei pedoni e in quelli che sfrecciano in carrozze e calessi».
A ogni ora il corso si riempie di gente appartenente ai vari strati sociali: al primo mattino «i poveracci si radunano alle porte delle pasticcerie» a mendicare gli avanzi; dopo mezzogiorno i precettori e le istitutrici con i loro pupilli e fanciulle; alle due i genitori con i loro impegni privati; alle tre i «funzionari in verdi uniformi civili». Al crepuscolo il Corso Nevskij si anima sotto la luce dei lampioni di giovanotti scapoli alla ricerca di qualche avventura. La causalità degli incontri fa poi parte del folklore pietroburghese.
La lente deformante con cui l’autore russo guarda la realtà si sofferma su particolari insignificanti, fra vitini di vespa «non più grossi d’un collo di bottiglia» e «favoriti vellutati», per gettare una luce grottesca e straniante.
È da questo fulcro nevralgico che si dipartono i destini paralleli e speculari dei due protagonisti del racconto: il pittore Piskarëv e il tenente Pirogov. Entrambi subiranno il fascino di due fanciulle, una bruna e una bionda. Entrambi si scotteranno al fuoco della loro infatuazione, l’uno con esito tragico quando dall’idealizzazione del sogno si scontrerà con la mediocrità dell’esistente, l’altro con esito comico quando la sua cresta da bellimbusto verrà abbassata dalle bastonate del marito della biondina tedesca. 
Il racconto ha una struttura bipartita e in sé conclusa ad anello: si apre e si chiude su Corso Nevskij.

Meglio conosciuto come “Diario di un pazzo”, “Brandelli del memoriale d’un matto” è un viaggio nella schizofrenia di un povero impiegato piccolo borghese la cui smisurata ambizione frustrata porterà a smarrire identità e ragione. 
Akesentij Ivanovič Popriščin ha 42 anni e il compito di temperare le penne d’oca del direttore del suo Dipartimento e ha la sventura di innamorarsi della figlia di questi. Il divario sociale rende questo sogno d’amore impossibile. La mente di Popriščin sprofonda così nel più totale delirio il cui aggravarsi è certificato dal progressivo confondersi delle date nel suo diario fino all’ultima disperata pagina datata «Ad 34 dì Mes. Dell’anon.349 febbraio»: «No, non ho più forze per sopportare. Dio mio! Che cosa mi hanno fatto! Mi versano acqua fredda in testa che mi spacca il cranio come un dardo! Non mi danno retta, non mi vedono, non mi ascoltano! Che cosa gli ho fatto? Per quale ragione mi tormentano? Che cosa vogliono da me, poveretto? […] Mamma, salvail tuo povero figlio! Versa almeno una lagrima sulla sua testolina malata! Guarda come lo tormentano! Stringiti al petto, l’orfano infelice! Non c’è posto per lui a questo mondo! Lo perseguitano! – Mamma! Abbi compassione del tuo bambino malato!…Ma voi lo sapevate che il Dej d’Algeri ha una verruca proprio sotto il naso?».
I vari frammenti del racconto seguono le varie fasi della follia del protagonista fino al regresso infantile finale. Il “matto” era un tipo letterario che conosceva all’epoca una ricca fioritura (ad esempio Hoffmann), affondando le radici in Erasmo da Rotterdam, Ariosto, Shakespeare e Cervantes.
È veramente godibile seguire i ragionamenti strampalati di Popriščin. La follia non era che una vera e propria piaga sociale: la burocrazia e la mediocrità stritolavano i poveri impiegati in una morsa che portava gli individui alla morte o la pazzia.

Da Gogol’ ho imparato che la letteratura è dei miserabili e dei mediocri piuttosto che degli eroi. Fa godere delle sconfitte altrui per non costringere a piangere delle proprie.


(Nikolaj Gogol’, Due storie pietroburghesi, traduzione di Cesare Giuseppe De Michelis, Voland, 2012, pp.144, euro 10)