Il dittico di Carlo Cecchi al Teatro Vascello

Carlo Cecchi torna al Teatro Vascello di Roma con un dittico: Abbastanza sbronzo da dire ti amo di Caryl Churchill, testo inedito del 2006, e Prodotto di Mark Ravenhill.
Nel primo dei due atti unici, due uomini, che rappresentano gli USA e l’Europa, vivono un rapporto d’amore omosessuale. Sam, alias “The Country”, è amato visceralmente da Guy, alias“The Man”, e la loro storia d’amore non fa altro che ripercorrere la politica imperialista degli Stati Uniti nel corso degli anni attraverso un fitto dialogo spezzettato, sospeso e indisciplinato.
In Prodotto, invece, siamo nello studio di un regista cinematografico che spiega alla sua star la parte che dovrà interpretare in una delle tante inutili fiction d’amore che Hollywood vuole produrre. Narra della storia d’amore tra un’americana e un islamico, piena di pregiudizi e stereotipi, con colpi di scena in pieno american style e un finale imbarazzante. Il compito del regista, ovviamente, è quello di convincere l’attrice a prendere la parte per avere i finanziamenti necessari alla realizzazione del film.
Cecchi sceglie due testi contemporanei che sono, in realtà, due critiche precise all’etica capitalistica. La Churchill gioca con l’eccesso del linguaggio, con il paradosso per mettere in scena il fallimento e la povertà d’idee della politica americana ed europea, mentre Ravenhill, non meno duro, ironizza con toni beffardi sull’industria cinematografica e sull’arte come prodotto, merce da consumare.
Bravissimo Tommaso Ragno nel primo atto, che riesce a seguire, senza perdersi un attimo, quel recitare jazzato di Cecchi, estemporaneo, volto a straniare sia gli attori con cui gioca sia il pubblico. Il suo teatro rifiuta tratti veristici e si presenta artificiale (ma non artificioso), costruisce i due personaggi senza dover, per forza di cose, svolgere un’indagine psicologica su di essi. Meraviglioso, nella seconda parte, nel dialogo-monologo con la sua attrice, riesce a uscire dal testo e a rientrarci con una semplicità disarmante, interrompendo ritmi, spezzando battute, creando un effetto dissonante assolutamente personale. E, nonostante il suo “modus operandi” sia ormai conosciuto, ogni volta è una gradita sorpresa.


Abbastanza sbronzo da dire ti amo?
di Caryl Churchill
con Carlo Cecchi eTommaso Ragno


Prodotto
di
Mark Ravenhill
con Carlo Cecchi e Barbara Ronchi

traduzioni di Giorgio Amitrano
regia di Carlo Cecchi

Andato in scena al Teatro Vascello di Roma dal 23 al 26 febbraio. Lo spettacolo sarà in scena, a Milano, al Teatro Elfo Puccini dal 28 febbraio all’11 marzo, poi a Brescia al Teatro Sociale il 12 e 13 marzo e chiude a Buti, al Teatro Francesco di Bartolo il 15 marzo.

“Do It” dei Bud Spencer Blues Explosion

«Italians do it better». Spesso ci portiamo dietro questo detto. Ma quante volte, in fin dei conti, si rivela azzeccato?

Inutile sottolineare come nel campo musicale il confronto si riveli anche più accentuato che in molti altri ambiti. La competizione con le proposte straniere è all’ordine del giorno e, come se non bastasse, molti cantanti o band nostrane abbandonano la madrelingua per “convertirsi” all’inglese che musicalmente concede di più e regala risultati di sicuro effetto.

E allora è bene sottolineare quando i nostri talenti riescono ad emergere anche all’estero senza passare tra le fila del “nemico anglofono”.

Parliamo in questo caso dei Bud Spencer Blues Explosion, band romana formata nel 2007 da Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio. Questi due ragazzi hanno saputo mischiare nel modo migliore l’America con l’Italia (e viceversa) attraverso un progetto decisamente ambizioso.

Già analizzando il nome da loro scelto si capisce quanto il dualismo che inizia qui da noi e arriva oltreoceano sia marcato: la fusione tra gli americanissimi Jon Spencer Blues Explosion (gruppo rock americano) e il famoso attore italiano Bud Spencer ha creato un ibrido che mostra subito come le due anime del duo romano riescano a convivere assieme come un’unità ben amalgamata.

Le loro canzoni rendono comunque molto più chiaramente l’idea. Il rock dei BSBE è infatti chiaramente ispirato al blues, contaminato da una chitarra elettrica che riporta echi dei Led Zeppelin, ma tutti i testi sono rigorosamente in italiano. Una scelta sicuramente rischiosa – e i due lo sanno bene – ma indubbiamente riuscita. Non si sente assolutamente la mancanza dell’inglese ascoltandoli live (si sono fatti conoscere al Circolo degli Artisti nella capitale registrando anche alcuni brani dal vivo, ma soprattutto al concerto del primo Maggio, prima di volare addirittura negli Stati Uniti per un tour dove hanno portato cover di band americane miste a loro tracce originali) o nei loro dischi.

La loro ultima fatica è stata una delle rivelazioni di fine 2011. Ancora una volta il titolo rivela le due anime della band romana: Do It può essere inteso sia come acronimo di «Dio odia i tristi» (l’idea originale nella scelta del nome), sia semplicemente come imperativo del verbo inglese to do.
Il tutto può rivelare, almeno in parte, anche una dichiarazione di intenti dei BSBE: un’idea di musica allegra e immediata, ma priva di quella malinconia e tristezza dei vecchi cantanti blues che vivono dall’altra parte del mondo.

Le dodici tracce che compongono l’album sono chiara rappresentazione di quanto detto fino ad ora: dai pochi secondi dell’iniziale “Slide” (che introducono tutto il resto) al brano finale “Mi addormenterò”, Do It è quasi una registrazione in studio di un live senza sosta, in cui il ritmo non cala mai, passando dal rock della chitarra elettrica di “Più del minimo” o “Giocattoli” ai ritmi decisamente più blues di “Jesus on the Mainline”, cantata assieme a Stefano Tavernese e già portata in studio da Ry Cooder e dagli Aerosmith, nonché unica delle dodici tracce in inglese.
C’è il tempo anche per sperimentare: nei quasi cinquanta secondi di “Scratch Expolsion” assieme a DJ Myke, il duo romano apre una parentesi quasi hip-hop in mezzo a sonorità ovviamente diverse.
Il risultato comunque non cambia: se Do It doveva essere la prova di maturità dei BSBE, si può tranquillamente dire che è stata superata con brillantezza.
Qualcuno ha azzardato il paragone con i White Stripes o con i Black Keys, due tra i gruppi che sicuramente hanno influenzato la band (anche per la formazione del duo chitarra /batteria), ma non c’è bisogno di scomodare nessuno: i ragazzi romani hanno creato il loro sound, la loro identità e sono semplicemente se stessi, senza inutili accostamenti.

Ritornando allora al dilemma iniziale potremmo rispondere così: forse gli italiani non sempre fanno le cose in maniera migliore, ma di certo se la sanno cavare comunque bene.

“Personaggi” di Antonio Albanese

Antonio Albanese, con i suoi Personaggi, propone al pubblico romano un greatest hits delle sue caratterizzazioni migliori, a partire dall’Ottimista, che chiama un call center per ricevere delucidazioni su cosa fare di una valigia sospetta, fino ad arrivare al candido Epifanio, con la sua piantina di valeriana, passando per l’imprenditore padronale Ivo Perego, col suo figlio degenerato e per l’osannato Cetto La Qualunque, forse uno dei pochi casi in cui la satira viene superata dalla realtà. Albanese riceve l’appoggio del pubblico preparato, che lo incita e sostiene ogni suo personaggio, e propone per un’ora e mezza uno spettacolo-rivista, una carrellata di uomini con debolezze e timori, fragili, vittime e carnefici, che cercano di farsi spazio nella società reinventandosi. Perego è un ricco imprenditore del Nord che ha dedicato l’intera sua vita al lavoro e ai suoi capannoni trascurando la famiglia; Alex Drastico accetta una protezione mafiosa per trasferirsi al Nord ed emanciparsi ; di Cetto La Qualunque, parodia del nostro ex presidente del consiglio, è ormai inutile raccontare il programma politico ; Epifanio è la speranza, il sognatore, la semplicità che manca ai nostri giorni. Bis con il Sommelier, personaggio che è un po’ un ritorno alle origini, surreale, fisico e dirompente.

La satira di Albanese è, a tutti gli effetti, un racconto lucido del presente, uno sguardo assennato sul nostro avvenire e i soliloqui dei suoi personaggi raccontano una realtà vuota, senza prospettiva : il temibile Ministro della Paura, su tutti, non è lo specchio dei giorni che stiamo vivendo? Scritto con Michele Serra, Personaggi è un lavoro, seppur destinato al grande pubblico, sulla follia e sulla mostruosità dei nostri giorni e non è necessario, per lui, imitare un politico italiano, basta insistere sui vizi degli italiani per offrire una satira comunque pungente e ficcante. E se, stando al Ministro della Paura, una nuova arma del terrore sono «Celentano e Pupo che parlano di welfare e Costituzione», allora c’è davvero di che temere.


Personaggi
testi di Antonio Albanese e Michele Serra

In scena fino al 3 marzo 2012 presso l’Auditorium Conciliazione di Roma.

“Signorina Giulia” di Strindberg riletta da Malosti

La scena si apre su un interno obliquo e rialzato, con diversi antri che ospitano stanze da letto, credenze, porte d’uscita. Grazie alla magnifica scenografia di Margherita Palli, Valter Malosti mette in scena la sua personale rilettura di Signorina Giulia di August Strindberg, testo sottoposto a censura nel 1888 e che racconta il tentativo di seduzione del servo Jean da parte della venticinquenne Julie, figlia del conte proprietario della tenuta dove si svolge l’intera vicenda. Jean, fidanzato con la serva Christine, una Federica Fracassi bravissima e morbosamente sensuale, ha l’occasione di dare sfogo a un desiderio da sempre represso e cede alle lusinghe della sua padroncina ma diventa carnefice di un gioco erotico condotto all’estremo. Malosti riadatta, secondo il suo stile personale, un testo sempre attuale, sul possesso carnale spinto fino al sadismo e alla morte. È la notte di San Giovanni e si dà una festa, di sottofondo si avverte il rimbombo di un ritmo da discoteca. Sin dall’inizio, il regista fa respirare al pubblico la tragedia, con rumori fuori scena, di stampo deliberatamente “beniano”, con una recitazione concitata e serrata e una scena affatto agevole. Il conte è una presenza solo invocata ma mai presente fisicamente: due stivali, posti al margine sinistro della scena, lo ricordano.

Due mondi a confronto, un tentativo distorto, quello di Julie, di avvicinarsi alla servitù attraverso l’arma immediata del sesso e un affronto, quello di Jean, una vendetta per essere nato servo, senza possibilità di riscatto sociale. Spinge al suicidio la Signorina Julie, dopo averne approfittato, ed è spietato, non ha rimorsi. È un essere riprovevole, ambizioso, viscido. Esce di scena senza un minimo di ripensamento e resta, alla fine, solo un alone di grigio e rosso e un vuoto, incolmabile, per un attimo riempito da una passione, annunciata come pericolosa ma che finisce per essere fatale.


Signorina Giulia
di August Strindberg
regia Valter Malosti
scene Margherita Palli
con Federica Fracassi, Valter Malosti, Valeria Solarino

In scena al Teatro Eliseo fino al 26 febbraio

“Flanerí Mag”: numero zero.uno

F di febbraio. F di Flanerí Mag. È finalmente on line il secondo numero del nuovo trimestrale di Flanerí, dedicato alla narrativa. Lo zero.uno, per la precisione. Perché la strada è ancora lunga e la giusta andatura è quella fatta di piccoli passi.
Come già anticipato a dicembre, questo numero esce in versione ePub e pdf: potete scaricare entrambi i file direttamente dai link presenti in questa pagina. In alternativa potete “sfogliare” direttamente on line la rivista cliccando sul link di Issuu.
Flanerí Mag #0.1 contiene sei racconti, selezionati e messi insieme con cura, che vi terranno compagnia fino a maggio, quando, in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, replicheremo in versione cartacea. Non ci resta che augurarvi buona lettura.

 

 

 

 

Flanerí Mag #0.1: Sommario

  • Due indizi fanno quasi una prova di Dario De Cristofaro
  • Meglio fortunati che ricchi di Diego Rossi
  • Un sabato bestiale di Daniela Rindi
  • Un giorno giallo senza tempo di Chiara Apicella
  • Gran Caffè Rattazzi di Francesco Vannutelli
  • I can do it! di Luigi Ippoliti
  • Un brutto lavoro di Giuseppe Felice Cassatella

 

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(I file sono stati aggiornati il 21 Feb 2012)

“In Time” di Andrew Niccol

«Amore! Stasera andiamo al cinema? C’è un bel film di fantascienza con una trama molto interessante!», spacciandolo come un «film del regista di Gattaca»,
«Ma dai, davvero? Ricordo che mi piacque molto Gattaca… andiamo! Ma precisamente di che tratta?»
«L’idea è che a Napoli gli euri vengano sostituiti col tempo, le persone vadano al bar spendendo quattro minuti di tempo per una sfogliatella o otto per una pizza fritta cicoli e ricotta, due ore di tempo per andare dal centro a Torre Annunziata all’ora di punta in autobus e che naturalmente, con buona pace degli ambulanti ai semafori, sopravviva un’unica marca di fazzolettini. Ah, il tempo è limitato e si riguadagna lavorando come barista, facendo le pulizie a casa della gente ricca di tempo o impegnandosi le catenine della comunione alla banca dei pegni del tempo».
«E le persone come fanno a trasferire il tempo tra di loro?»
«Eh, si danno la mano, fanno flik e flok girando le braccia prima in un verso e poi in un altro e magicamente la cifra di tempo che uno pensa o pronuncia viene trasferita all’altra persona».
«Ma perché fai quella faccia schifata? Cosa c’è di strano…? Però… bah…»
«Mah… la sospensione dell’incredulità…»
«Ma che ti frega? È già tutto assurdo!»
«Sì, però…»
Quando parte la visione, dopo l’amara constatazione degli otto euri a biglietto, c’è subito il primo colpo di scena:
«Justin Timberlake? Ma non faceva il cantante…?»
Colazione mattutina nella cucina di un interno semi-fatiscente ma dignitoso, Justin accanto ad una giovane ragazza della sua stessa età:
«Ciao mamma», e cominci a capire cose del mondo che ti si para dinanzi.
Tipo che se finisce il tempo la gente va all’altro mondo e che i minuti, ore, giorni, mesi e anni li vedi perennemente sul tuo braccio, tramite led verdi sempre accesi, come la morte sulla noce del collo.
Sullo schermo appare anche Leonard di Big Bang Theory, che interpreta un amico del protagonista cantante ed è coadiuvato dall’unica persona che sembra abbia fatto proprio il leit motiv del film: la costumista; ella si è immedesimata talmente tanto nella mancanza di tempo imperante nella pellicola che gli avrà messo addosso le prime cose che ha trovato sulle bancarelle, con l’effetto di renderlo ridicolo quasi quanto il vestito di Doc che con la sua DeLorean torna a recuperare Marty nel finale di Ritorno al futuro.
Ah pardon, è semplicemente la costumista di Alice in Wonderland di Burton.
Ma i costumi di Leonard non sono l’unico aspetto figo del film. La sceneggiatura è infarcita di dialoghi da tombeur de femmes dedicati al protagonista cantante, quando interagisce con gentil donzelle:
«Signore, lei viene dal ghetto?»
«No perché?»
«Perchè a differenza di come si comporta la gente qui, lei fa tutto di fretta».
«Non tutto…»
Elegantissime finezze a parte, il film diverte e non è un capolavoro; nonostante sia lontano da Gattaca, dalle implicazioni morali e dalla politica del mondo descritto, la particolarità della sua struttura e delle sue regole valgono il prezzo del biglietto.
Purtroppo è lontano anni luce da quel film in cui allo stesso modo appare il tempo sul braccio del protagonista, mentre una vecchia pazza disquisisce sui viaggi nel tempo e un coniglio brutto brutto scandisce gli attimi con la sua presenza immanente.
…Ma questa è un’altra cronistoria.

Dante nella poesia del primo Novecento

L’ombra sua torna che era dipartita
(Dante Alighieri, Inf IV)

 

Dante e Petrarca, i due grandi occhi della letteratura italiana delle origini spalancati verso il futuro (prendo la metafora da Benvenuto da Imola, che la utilizza a proposito di Dante e del suo «primo amico», Cavalcanti) rappresentano, nel corso della cultura italiana, una diarchia litigiosa, la storia della quale è scandita da lunghi e reciproci spodestamenti. Per molti secoli – quelli del classicismo di antico regime – è Petrarca il princeps indiscusso della civiltà letteraria italiana, autore, con i Rerum vulgarium fragmenta, del libro che, nel Cinquecento, Pietro Bembo innalzerà a «tavola della legge» della poesia volgare. La poesia italiana si orienta così per secoli osservando l’astro petrarchesco, stella luminosa ma fissa. È a partire dalla fine del Settecento, con la poesia di Varano e di Monti – coeva in parte alle riflessioni del Vico intorno alla grandezza di Omero e Dante –, che le azioni della poesia dantesca conoscono il primo rialzo nella borsa dei valori poetici; l’Ottocento romantico – l’era del De Sanctis e del Leopardi – conosce una fervida ripresa e polarizzazione dell’interesse intorno al poeta fiorentino, e si configura, dal nostro punto di vista, come la grande vigilia culturale che annuncia la riscoperta di quell’immenso forziere di lingua e stile – la Commedia – fino ad allora rimasto misteriosamente sigillato.
È con Giovanni Pascoli (1855-1912), traghettatore della poesia italiana tra i due secoli, che la vigna poetica dantesca conosce, alle soglie del moderno, la prima, ricchissima, vendemmia. La rivoluzione inconsapevole del Pascoli (per dirla col De Benedetti) è ascrivibile in una sorta di involontario “auerbachismo” che, rompendo le paratie tra generi e stili (una propagazione sismica di quello che era stato il sommovimento tellurico provocato dal Romanticismo europeo), apre al parlato la lingua di tutti i giorni, rinnovando – dopo secoli di stagnazione classicistica – il linguaggio poetico italiano.
Il poeta romagnolo, già a partire dal debutto myriceo (1891), mostra la più ampia capacità orchestrale che la nostra poesia abbia mai conosciuto dai tempi di Dante. È stato Contini a ragionare sull’ampiezza verbale della poesia pascoliana, che – distribuita sui livelli del linguaggio grammaticale, pre-grammaticale, e post-grammaticale – dà vita a un plurilinguismo moderno, cancellando le ultime ipoteche di tipo classicistico che ancora gravavano sulla tradizione letteraria italiana. L’icasticità del linguaggio pascoliano rappresenta una novità in una poesia che si era piuttosto riconosciuta nella sublime evasività ereditata da Petrarca, e che aveva a lungo avuto, vezzo più volte rimproverato dallo stesso Pascoli, una certa tendenza all’improvvisazione nomenclatoria (si pensi alla censura pascoliana del leopardiano «mazzolin di rose e viole»).
Attraverso la rivoluzione retorica pascoliana, la poesia lirica italiana dimette i paramenti festivi e domenicali tipicamente petrarchistici (il monolinguismo di Petrarca è, se lo osservi da una specola bembiana, una sorta di «domenica linguistica») e riscopre l’immensa sartoria dantesca, dalla quale prende le vesti formali che indosserà lungo il Novecento.
Il dantismo pascoliano si configura su piani diversi; oltre ai dantismi situazionali presenti già in Myricae (si pensi a un madrigale come quello dedicato alla rivisitazione del personaggio purgatoriale di Belacqua), alla ripresa di neologismi danteschi (cfr, nella medesima raccolta, il verso incipitario «nel ciel dove ogni vision si immilla»), storicamente significativo è il dantismo metrico, legato alla ripresa del metro della terza rima, mediato da archetipi montani e varaniani. Già la prima poesia di Myricae, “Giorno dei morti”, lugubre ricognizione dei propri defunti, è scritta in questo metro: «Io vedo (come è questo giorno oscuro) / vedo nel cuore, vedo un camposanto / con un fosco cipresso alto sul muro)».
Al tempo della raccolta esordiale l’utilizzo del metro della Commedia dantesca è un’iniziativa che convive con la volontà di ripercorrere e ripristinare forme e moduli della tradizione, e non ha ancora grande spazio; è al tempo dei Poemetti, quando la poesia pascoliana incontra una sempre più conquistante seduzione poematica, che la maggiore richiesta di narratività, implicita in questa poesia, permetterà a tale metro di raggiungere gli esiti quantitativamente e qualitativamente più alti, conferendogli quel pedigree retorico che è la causa della sua fortuna nella poesia primonovecentesca.
Sempre intorno alla Commedia e alle Rime si svolgono diversi momenti intertestuali della poesia pascoliana successiva ai Poemetti, come quella dei Canti di Castelvecchio o dei Poemi conviviali. Parlando di dantismo pascoliano, non può essere certo trascurata, contestuale all’attività poetica, l’esegesi del testo dantesco, consegnata a saggi come Minerva oscura o Sotto il velame, scritti sul crinale tra i due secoli. È un Pascoli dalle profonde risorse esegetiche, che insegue nella Commedia tesori allegorici mai visti prima di allora; di grande importanza è la ripresa di alcuni spunti che erano già stati del Perez (autore, nel 1865, della Beatrice svelata) legati alla figura di Beatrice e alla sua riapparizione in Purg XXX; oltre a questo, è di grande importanza la riflessione sulla presenza, nella poesia dantesca, dell’allegorismo vittorino, linea critica che avrà grande fortuna nella dantistica successiva.
Insieme a Pascoli l’altro poeta che spalanca le porte della letteratura italiana moderna è Gabriele D’Annunzio (1863-1936). La grande tendenza all’intertestualità del poeta pescarese si annuncia sin dalle prime raccolte, orientandosi in base ai diversi momenti culturali conosciuti dalla sua letteratura. Un forte interesse è rivolto alla Vita Nuova, libro che, alla fine dell’Ottocento, incontra una grande fortuna europea, sull’onda del preraffaelismo inglese che influenza lo stesso D’Annunzio sin dai tempi dell’Isotteo. Nel meriggio della poesia dannunziana, celebrato da Alcyone (1903), il Dante del libello giovanile è un interlocutore discreto e continuo, come testimoniano i versi incipitari della poesia “Beatitudine”: «Color di perla ha quasi in forma, quale / conviene a donna aver, non fuor misura. Non è, Dante, tua donna che in figura / della rorida sera a noi discende?»
L’erede più diretto della tradizione pascoliana e dannunziana è il poeta torinese Guido Gozzano (1883-1916) che, sulla base di questi archetipi, fa dell’intertestualità il motore retorico della sua poesia. Si tratta di una poesia animata, potremmo dire, da un moderno pathos di gusto callimacheo, stemperato da un sottile humor, che sfida il lettore nel riconoscere gli imprestiti ricavati dalla tradizione. Molti sono i versi della Commedia riorchestrati in una diversa chiave tonale: nella poesia “L’onesto rifiuto”, il verso, più volte ripetuto, «Non sono lui!, non quello che t’appaio», riprende le parole rivolte da Niccolo III al poeta agens in Inf XIX. («Non son colui, non son colui che credi»). I versi conclusivi della poesia “Pioggia di Agosto” («O mia musa dolcissima che taci, / allo stridio dei facili seguaci, / con altra voce tornerò poeta») contengono la memoria delle terzine che aprono Pd. XXV (vv. 1-8: «Se mai continga che il poema sacro / al quale han posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per più anni macro, / vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi agnello, / nimico ai lupi che gli fanno guerra, / con altra voce omai, con altro vello, ritornerò / poeta / e in sulla fonte, del mio battesmo prenderò il cappello»). La poesia gozzaniana rappresenta, con l’esempio pascoliano alle spalle, un momento di felice unione tra istanze tipicamente narrative e istanze squisitamente liriche: un tale matrimonio è permesso ancora una volta dalla forma terzina, che si conferma nuovamente come metro per eccellenza di racconto lirico.
A quanto mi risulta non è mai stato sufficientemente valutato il dantismo presente nell’opera poetica di Camillo Sbarbaro (1888-1967). Al poeta ligure è stato riconosciuto come ascendente più diretto (e il rilievo è indiscutibile) il Leopardi petroso dell’ultima stagione poetica (quello definitivamente congedatosi dalla Vita nova recanatese) dal quale riprende il tema della desertificazione del mondo, del nulla come unico orizzonte emotivo. Questo tema, pienamente novecentesco, viene talora arricchito con spunti che vengono sia dal Baudelaire dei Tableaux parisiensis, sia dall’Inferno di Dante. Basti pensare al componimento “Talor mentre cammino per la strada”, dove il mondo si svela come un luogo di detenzione, popolato da uomini condannati ad esistere: («Ché ciascuno di loro porta seco / la condanna di esistere»). I versi finali («E se poco ciò dura, io veramente / in quell’attimo dentro m’impauro / nel vedere che gli uomini son tanti») ricordano da vicino i versi danteschi di Inf III («ch’io non avrei mai creduto / che morte tanta ne avesse disfatta»); versi celeberrimi, che verranno, pochi anni dopo, citati da T. S. Eliot, uno dei più grandi poeti-dantisti del secolo, in The Waste Land, opera spesso salutata come inaugurale della poesia moderna (1922).
Altra tappa del dantismo primonovecentesco è la poesia di Clemente Rebora. Il poeta milanese si distingue per il grande espressionismo stilistico della sua lirica, caratterizzata da una violenza deformante, dove, come scrive Contini, il linguaggio tende alla «rappresentazione dell’azione invece che alla descrizione».
Un esito come questo è riconducibile alla presenza del magistero dantesco, sia quello delle «petrose», orientato a corteggiare la «verbalità del difficile» (sempre Contini), sia quello della Commedia, dove assistiamo, specie nella terza cantica, a un vero e proprio «vulcanismo glotto-poetico» (Mazzucchi). Come il Dante onomaturgo del Paradiso, impegnato a investire tutte le proprie risorse espressive per comunicare una metarealtà – in quanto tale incomunicabile –, anche Rebora è inventore di neologismi (i verbi parasintetici preceduti da in-, come “inombra”) nonché miscelatore di dialettalismi lombardi con voci della tradizione aulica, realizzando in questo modo le più audaci oltranze espressive.
Già da questi esempi possiamo misurare quella «maggiore solidarietà di noi moderni con il temperamento linguistico di Dante» di cui parlava Contini nel saggio dedicato a un’indagine preliminare del linguaggio volgare di Petrarca. Sempre un Dante petroso è quello che incontriamo nella poesia di Ungaretti e Montale (poeti considerati i campioni del dantismo novecentesco in Italia).
Nella poesia di Ungaretti (1888-1970) già ai tempi de L’allegria, diversi sono i richiami al Dante delle rime per Madonna Petra. È il caso della poesia “Sono una creatura” («Come questa pietra del San Michele / così fredda, / così dura / così prosciugata / [..] / Come questa pietra è il mio pianto che non si vede»), di grande tenore allegorico, in quanto dedicata al tema della mineralizzazione della vita emotiva; tema che rinvia alla canzone “Così nel mio parlar voglio esser aspro”. Diversi sono i dantismi situazionali della prima raccolta ungarettiana: la lirica eponima («E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare») è organizzata intorno alla memoria della prima similitudine dell’Inferno dantesco («E qual è quei che con lena affanata / si volge intorno al pelago alla riva / e volge l’acqua perigliosa e guata»); gli ultimi versi de “La notte bella” («Ora mordo / come un bambino la mammella / lo spazio. / Ora sono ubriaco / d’universo») riconducono alla memoria i versi finali di Pd XXXIII in cui Dante si rappresenta come «un fante che bagni ancor la lingua alla mammella». Accanto a Dante non va trascurato, nel primo tempo della poesia ungarettiana, la presenza di Iacopone da Todi, che emerge nel fremito creaturale che domina questa poesia, un planh dedicato a ogni fibra creata.
Sia Iacopone sia Dante sono stati autori a lungo studiati da Ungaretti, che dedicò loro diversi saggi scritti nel periodo di insegnamento della letteratura italiana in Brasile.
A proposito delle raccolte successive (Sentimento del tempo, 1933 e Il Dolore, 1947) si è più volte parlato di una specie di «petrarchismo di ritorno»: una ripresa cioè di più consueti canoni formali ed espressivi (legati a fenomeni come il ritorno dell’endecasillabo o il ripristino della punteggiatura) che rappresentano un «mutamento di maniera» abbastanza rilevante rispetto alla prima produzione. Segnalo però, in una zona ancora successiva della poesia ungarettiana, quella della Terra promessa, la sestina “Recitativo di palinuro”, inevitabile richiamo a quella dantesca “Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra”.
La poesia di Eugenio Montale (1896-1981) rappresenta forse il momento più alto del dantismo novecentesco in Italia. È molto forte la parentela, non solo geografica, ma anche linguistica, con Camillo Sbarbaro. Il paesaggio ligure, vero protagonista della prima raccolta, Ossi di seppia (1925), rappresenta un deposito inesauribile di emozioni liriche, raccontate spesso con parole dantesche. Recenti sondaggi intertestuali hanno svelato nell’idioletto lirico montaliano un forte timbro dantesco, che si denuncia in particolari scelte retoriche, nell’uso di sequenze rimiche, o attraverso citazioni dirette. Per offrire qualche riscontro testuale si pensi a una delle poesie più famose della raccolta, “Meriggiare pallido e assorto”, dove nella seconda strofa leggiamo: «Nelle crepe del suolo o sulla veccia / spiar le file di rosse formiche, / che ora si rompono e ora si intrecciano / a sommo di minuscole biche», versi che riprendono una famosa similitudine di Inf XXIX, contenuta in una terzina che presenta la medesima rima «formiche-biche». La stessa poesia esordiale, “In limine”, si apre su una memoria dantesca («Godi se il vento ch’entra nel pomario / ti rimena l’ondata della vita.») che rinvia a Inf XXVI (vv. 1-3: «Godi Fiorenza, poi ch se’ sì grande / che per mare e per terra batti l’ale / e per lo Inferno tuo nome si spande»). Nel secondo libro di versi, Le occasioni (1939), particolarmente interessante è la sezione costituita dai “Mottetti”, definita magistralmente un piccolo «Canzoniere d’amore risparmiato dal desiderio» (Garboli). Troviamo uno stilnovismo moderno, quasi d’en bas, caratterizzato da angeli femminili con le penne lacerate dai cicloni, causa voli transoceanici (cfr “Ti libero la fronte dai ghiaccioli”). Diversi sono i dantismi lessicali, come nel mottetto “Non recidere, forbice, quel volto”, (una preghiera al tempo, di sapore petrarchesco, affinché – nella memoria che si spopola – protegga il volto della persona amata) dove l’explicit («nella prima belletta di novembre») contiene un lemma, «belletta», che rinvia a Inf VII («nella belletta dicon: tristi fummo»), passando attraverso la mediazione di un madrigale dannunziano di Alcyone («Nella belletta i giunchi hanno l’odore / delle persiche mézze e delle rose / passe, del miele guasto e della morte»). Ancora nel terzo tempo della poesia montaliana, quello della Bufera (1956) vari sono i dantismi situazionali, disseminati in poesie come “Primavera hitleriana” (la quale reca tra l’altro in exergo un verso di Dante da Maiano: «Né quella che a veder lo sol si gira») o “Piccolo testamento” (si pensi all’immagine dell’«angelo dalle ali di bitume» che scende sulla terra) che rappresentano la continuazione di un dialogo ininterrotto.
Chiudo questa ricognizione con alcune considerazioni intorno al dantismo di Mario Luzi, (1914-2004), alfiere della cosiddetta poesia ermetica. Egli esordisce nel 1935 con la raccolta La Barca, incunabolo tematico e linguistico della nuova poetica di orientamento simbolistico, dove qualcuno ha notato spunti che vengono dallo Stilnovo (come nel componimento “Alla vita”, dove l’immagine dei poeti-amici riuniti in una medesima barca rinvia senza troppa difficoltà a quella del sonetto “Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io”). È alla fine degli anni ’40, con Quaderno gotico, che emerge, sin dal titolo, il desiderio dell’autore di restaurare archetipi medioevali. Si tratta di una raccolta di 14 poesie che racconta, in forma lirica, un susseguirsi di emozioni amorose, accadute in un tempo che è «un barbaglio / di là dal gelo eterno». Il tema, squisitamente stilnovistico, della epifania della bellezza femminile, torna in questi versi coniugato con ricordi più recenti provenienti da Mallarmé e dalla tradizione del simbolismo. Nella poesia luziana molto forte è l’interesse verso la seconda cantica dantesca, la riscoperta della quale è un fenomeno in parte novecentesco; diversi sono i momenti della sua poesia caratterizzati da atmosfere purgatoriali, come nella lirica “La Notte lava la mente”, dove troviamo tracce di topografia purgatoriale: «La notte lava la mente. / poco dopo si è qui come sai bene, / fila d’anime lungo la cornice. / Chi pronto al balzo, chi quasi in catene». Non vada trascurato inoltre il lavoro teatrale di Luzi proprio intorno al Purgatorio, insieme a quello fatto, per la prima cantica, da E. Sanguineti, e, per la terza, da G. Giudici. La fortuna novecentesca del testo dantesco, già così profonda nella prima parte del secolo, conosce, successivamente, importanti stazioni nell’opera in versi di Giorgio Caproni (specialmente nel Seme del piangere), nelle Ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, fino alle più recenti esperienze dell’avanguardia. Invito a ripensare a questa vicenda tenendo a mente le parole del poeta russo Osip Mandel’štam, il quale parla dei canti della Commedia come di «proiettili scagliati verso il futuro, che esigono un commento ad futurum».

Da Berlino conferme di una nuova prospettiva per il cinema italiano?

Il cinema italiano che vince a un festival, quello di Berlino poi, dove non accadeva da una ventina d’anni, è già una notizia. Non che a Berlino ultimamente si sia visto questo gran cinema, ben inteso: Locarno è probabilmente divenuto il terzo miglior festival al mondo e anche Toronto oramai non scherza affatto. Il dato però resta e fa maggiormente sensazione se a vincere sono i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, senza offesa per nessuno, non esattamente il nuovo che avanza. Non è però tanto il valore in sé del film a interessarci. A colpire e far riflettere, oltre all’apprezzamento per un prodotto culturale italiano da parte di una giuria internazionale (capeggiata in questo caso dal britannico Mike Leigh) è soprattutto la tipologia di tale prodotto, che spinge verso alcune considerazioni più generali.

A Rebibbia, da anni, è in atto un progetto di teatro all’interno del carcere che, oltre a essere lodevole socialmente, ha prodotto e produce spettacoli di grande qualità. Attorno a tutto ciò ruota Cesare deve morire, sorta di docu-fiction sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare all’interno delle mura del penitenziario.

A Berlino l’unica altra presenza italica, sebbene fuori concorso, era Diaz, di Daniele Vicari, un film che, tanto per capirsi, recita sulle note di copertina la frase di Amnesty International: «La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

Nelle sale italiane, giusto qualche settimana fa, imperversava l’esordio alla regia cinematografica di Stefano Sollima, quell’A.C.A.B. che racconta con durezza e senza sconti la vita degli appartenenti al reparto celere della Polizia di Stato. Curiosamente, in contemporanea, nel resto delle sale dominano commedie più o meno romantiche e più o meno comiche, che incassano milioni ma che lasciano un diffuso senso di mediocrità, lontane anni luce dalla gloriosa commedia all’italiana di un ormai lontanissimo tempo che fu. Dopo l’auto-implosione dei drammoni generazionali alla MuccinoVirzì sembra dunque che in Italia si stia tornando autorialmente a puntare su un cinema che potremmo definire “civile”, sulla scia di una tradizione solidissima che sembrava oramai sparita. Difficile prevedere cosa accadrà e se questa vittoria festivaliera, unita al riscontro degli altri film citati, possa segnare un rafforzamento di questa tendenza. Di certo, importante potrà risultare il consenso internazionale e l’eventuale accoglienza che i paesi stranieri riserveranno a questo tipo di approccio. Berlino potrebbe essere dunque un primo importante passo e un altro segnale positivo, in tal senso, viene dalla produzione francese dietro il prossimo film di Michele Placido che, stando alle anticipazioni, sarà un noir alla maniera transalpina, quindi con evidenti rimandi “civili”.

Sempre poi che a noi italiani questi film piacciano davvero.

“Hugo Cabret” di Martin Scorsese

«Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!»

Forse il mondo non è un unico grande meccanismo dotato di senso come lo racconta il giovanissimo Hugo Cabret all’amica Isabelle; piuttosto è ridotto a unico grande caos, unico grande labirinto. Di certo però il film del già premio Oscar Martin Scorsese, ora “incappato” in undici nomination, è un meccanismo perfetto, un meraviglioso prodigio dagli ingranaggi strabilianti che contiene solo i numeri di pezzi che servono, non uno in meno ma neanche in più. Opera di un superbo orologiaio del cinema che rende omaggio, sequenza dopo sequenza, alla settima arte. Se Marcel Proust nella sua vasta fatica letteraria andò alla ricerca del tempo perduto, Scorsese dopo tanti anni di carriera cinematografica di altissimo livello e di sorprendenti mutazioni, stavolta “esordisce” nel tridimensionale per andare alla ricerca del cinema perduto, quello delle origini. E ci riesce, lo trova, perché il suo film è insieme apologia del sogno ed esso stesso sogno integrale: cinema di immagini come estensione dell’immaginazione, proiezione onirica incessante a cominciare dalla scelta cromatica che caratterizza tutta la pellicola. Ambienti dai colori carichi, in prevalenza nelle sfumature dell’arancione, del marrone e dell’azzurro (irresistibile la divisa dell’ispettore di stazione), a rammentare l’origine fumettistica del cinema quando la pellicola era dipinta a mano fotogramma per fotogramma.

Il pretesto per cimentarsi con il 3D è stato offrire a un pubblico formato famiglia la traduzione cinematografica di una bizzarra grafic novel, scritta e disegnata dallo scrittore Brian Selznick (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, Mondadori) che altrimenti sarebbe rimasta sconosciuta al grande pubblico. Scorsese però è andato oltre il compito ben svolto, la trasposizione riuscita da un genere a un altro di un soggetto già di per sé intriso di magia. Ha realizzato un film che è manifesto e testamento insieme, dichiarazione di poetica, celebrazione della settima arte e del suo artefice, dopo i fratelli Lumière, George Méliès: prestigiatore, illusionista, inventore del cinema come finzione anziché rappresentazione, e del montaggio, padre degli effetti speciali, pioniere a cui tutti siamo debitori di tante emozioni pur senza conoscerlo, qui interpretato da un sublime Ben Kingsley.

Scorsese intesse un continuo discorso meta-cinematografico, cinema nel cinema, tra continui rimandi e citazioni (dalla proiezione dei fratelli Lumière del treno che entra in stazione e atterrisce gli spettatori in sala aun Harold Lloyd di Preferisco l’ascensore nella celebre scena in cui sta appeso all’orologio che è riproposto nelle sequenze finali e che richiama analoga situazione-espediente da parte del giovane protagonista del film, fino agli omaggi a Charlie Chaplin, Buster Keaton, F. W. Murnau, Fritz Lang, Federico Fellini per citare quelli più evidenti). Se talvolta il film diventa didascalico è scelta voluta per poter offrire agli spettatori non esperti un affresco godibile della storia del cinema attraverso la vicenda di George Méliès. Tutto calato in una trama originale e magica che suggestiona e ipnotizza, proprio come i numeri di illusionismo di Méliès, spettatori di ogni età. È la vicenda di un bambino (il bravissimo esordiente Asa Butterfield) che negli anni ’30 del Novecento, dopo aver perso entrambi i genitori, vive alla stazione di Parigi nascosto tra i mastodontici ingranaggi degli orologi che sa aggiustare grazie agli insegnamenti di uno zio. Il suo vero e unico motivo per cui vivere è un automa meccanico guasto che stava tentando di riparare con il padre prima che morisse, ed è tutto ciò che gli resta di lui. In esso Hugo crede di trovare, una volta riparato, un messaggio del padre. Ma il proprietario del negozio di giocattoli della stazione gli sottrae il taccuino contenente le istruzioni per sistemare l’automa. Il bambino pur di recuperarlo fa amicizia con la figlia adottiva del giocattolaio, Isabelle, una bambina come lui amante dei libri di Jules Verne e Mark Twain e, manco a dirlo, del cinema. Insieme, i due riescono ad aggiustare l’automa e decifrare il messaggio contenuto. In una scena di grande forza lirica l’automa disegna l’atterraggio di un’astronave nell’occhio della luna (lo stesso del famoso film fantastico di Méliès, Viaggio nella luna del 1902) con tanto di firma: George Méliès. Si scopre che il giocattolaio, in realtà è il pioniere della storia del cinema.

Computer grafica e tecnologia sono al completo servizio della narrazione fantastica, non c’è nulla di forzato e l’uso delle tre dimensioni in ogni sequenza non è esibizionismo ma necessaria soluzione artistica. La scena d’avvio del film con la carrellata dall’alto fino a lambire i viaggiatori fermi sulla banchina della stazione già di per sé è un’opera d’arte che vale il prezzo del biglietto. Oltre lo straordinario Ben Kingsley nella parte di Georges Méliès, ci sono riuscite figure di contorno, come la musa-moglie, l’ispettore, il bibliotecario o l’umanità varia che affolla la stazione. L’abilità di Scorsese sta nell’aver fuso reale e fantastico: negli anni ’30, successe veramente che tale Léon Druhot, giornalista e direttore del Cine-Journàl, scovò George Méliès in un chiosco di dolci e giocattoli della stazione di Paris-Montparnasse, lo sottrasse all’oblio restaurando e proiettando i suoi film. Guarda caso Scorsese si è dedicato negli ultimi anni più che alla regia al restauro di film del passato e alla divulgazione della storia del cinema attraverso documentari. Questa vicenda dunque lo riguarda personalmente da cinefilo quale è.

Hugo Cabret è creatura del cinefilo e del regista che ama la sua arte. Il cinema, sembra dirci la narrazione filmica, è tante cose insieme: via iniziatica per il personaggio bambino e l’umanità bambina, recupero della memoria, archivio di immagini, meccanismo vivente, anche quando sembra morto, dato in pasto solo agli affaristi. Il burattino che è il movente della ricerca del tempo perduto non è che metafora del film, mezzo meccanico ma vivo che si può resuscitare in ogni istante se si ha la chiave d’accesso (come Hugo e Isabelle fanno con l’automa) per arrivare al cuore del suo funzionamento. Scorsese sembra anche volerci dire che cinema e cinefili non fermano l’avanzare del tempo (ingranaggi e lancette incalzano in ogni scena inarrestabili), non salvano il mondo né lo preservano dalla guerra (la prima guerra mondiale è presente in tutto il racconto), né le ingiustizie sociali o la malvagità umana. La cinefilia, però, come l’immaginazione creativa può unire persone distanti nel tempo e nello spazio, formare famiglie nuove (come accade a Hugo con George) o comunità virtuali, fare emergere sentimenti integri e puri. Elogiando il cinema con un uso sapiente e poetico delle tecniche più avanzate, unite a una trama fantastica, Scorsese apre dunque un nuovo sorprendente capitolo nella storia del cinema in piena continuità con il suo avo, il suo alter ego del secolo scorso. Il cinema è illusione, prodigio, incanto, viva macchina delle meraviglia e del sogno anche nell’epoca del digitale.

“La ciociara” di Roberta Torre

Roberta Torre si misura con le tavole del palcoscenico e, per farlo, sceglie Annibale Ruccello, uno dei più grandi teatranti del secondo Novecento, e la sua rilettura de La ciociara. Scelta, sulla carta, azzeccata dato che entrambi vogliono distaccarsi dai toni realistici del romanzo moraviano e dalla tragicità del film di De Sica. Una ciociara, quella di Ruccello, in flashback: Cesira e Rosetta sono figlie e vittime del consumismo, ormai la guerra è alle spalle e tutto è cambiato; il passato, che ha fotografato violenze, stupri, morti atroci, ritorna solo come apparizione fugace, quella di Michele, partigiano ucciso per salvare altre vite umane, ma è altresì riscontrabile negli atteggiamenti di Rosetta, profondamente segnata dallo stupro, non più angelo ingenuo e bambino ma donna con una ferita aperta al centro del cuore. «È la guerra», dice Concetta, una brava Dalia Frediani, fredda e glaciale come solo una persona altrettanto segnata dalla guerra può essere e Cesira vorrebbe, su quel corpo vecchio, ricurvo sul bastone, sfogare la sua rabbia. Non ha colpa quella donna, irrigidita dalla paura poiché i suoi figli possono da un momento all’altro essere catturati dai fascisti, e non ha colpa il papà di Michele che non riesce a distinguere tra tedeschi e inglesi, vuole solamente riaprire il negozio, tornare a guadagnare per pranzare, con gli amici, nei migliori ristoranti di Napoli. Tutti questi personaggi vengono resi da Roberta Torre sul palco come proiezioni mentali, brevi flash che si susseguono veloci. Cesira vorrebbe poter dimenticare ma quegli orribili avvenimenti ritornano e la trasportano nella dimensione altra della memoria. Una trovata geniale, quella di Ruccello, straordinaria, che rispetta il testo di Moravia ma, allo stesso tempo, lo sovverte. Purtroppo, la voglia indomita di Roberta Torre di sperimentare una nuova (eppure tanto vecchia) forma di teatro-cinema ha sminuito tutto. Donatella Finocchiaro non è mai in parte, troppo insipida e poco “ciociara”, mentre Daniele Russo rende il personaggio di Michele troppo scolastico. Buoni, invece, i personaggi secondari, tra cui Rino Di Martino nei panni di Tommasino. Cambi di scena troppo lunghi e caotici, proiezioni continue di foglie che cadono senza senso, brutti filmati leziosi, che vorrebbero sottolineare maggiormente alcuni passaggi ma di cui realmente non se ne sentiva il bisogno. Una “recita da fine anno” che non ha niente in più rispetto alle rappresentazioni amatoriali di tanti ottimi gruppi teatrali legati alle varie azioni cattoliche o associazioni culturali. Peccato, davvero, per la cocente delusione e per l’amaro in bocca che questo spettacolo ambizioso lascia alla fine. Peccato perché Roberta Torre è una regista mai scontata e Donatella Finocchiaro ha saputo offrire prove ben più intense. Peccato perché si poteva e si doveva fare di meglio.


La ciociara
di Annibale Ruccello
tratto da La ciociara di Alberto Moravia
regia di Roberta Torre
con Donatella Finocchiaro, Daniele Russo, Rino Di Martino e Dalia Frediani

In scena al Teatro Bellini di Napoli dal 17 al 26 febbraio

“Lioness: Hidden Treasures” di Amy Winehouse

Lasciate stare quello che avrete sicuramente letto su internet o su Rolling Stones. Sì, in parte è vero: le case discografiche triplicano i loro incassi nel momento in cui un loro artista muore tragicamente ed esce il relativo album postumo. Sarà anche una accozzaglia di brani vecchi e scartati (come qualcuno l’ha definita), di incisioni e collaborazioni messe lì in un angolo, in attesa di essere scongelate. Ma Amy è Amy. E sicuramente Lioness: Hidden Treasures è un album da gustarsi come il sole d’inverno.

Di Lei si è detto e scritto tutto, troppo. Nata a Londra da famiglia di origini ebraico-russe nel settembre del 1983, mostra in età adolescenziale scarso impegno e attenzione per la scuola, ma subito grande passione per la musica, iniziando con un piccolo gruppo rap da lei fondato, i Sweet’N’Sour. A sedici anni la svolta: viene notata da Simon Fuller (ideatore di Pop Idol) e ottiene un contratto discografico con la Island Records. Nel 2003 esce Frank, il suo primo album, grande successo che però non la soddisfa in toto, nonostante il brano d’esordio “Stronger Than Me” scali le classifiche. Il resto è storia: serate di alcol e droga, problemi con la legge, gaffe e intemperanze varie riempiono le pagine delle riveste di gossip e cronaca made in UK. Il successo planetario viene raggiunto alla fine del 2006 con l’uscita di Back to Black. Il primo singolo estratto, “Rehab”, parla proprio dei suoi problemi con la droga e con le cliniche di disintossicazione («They tried to make me go to rehab but I said “no, no, no”»). Questo è l’album che la consacra, a 24 anni, voce n.1 del soul mondiale, grazie anche al singolo “Love Is a Losing Game”. Tra il 2008 e il 2010 alterna grandi concerti con settimane in cliniche riabilitative e ne esce alla grande, ma l’abuso di alcolici dopo un lungo periodo di astinenza la stronca una notte di fine Luglio, nel 2011. È la fine di una delle migliori voci dal dopoguerra ad oggi, se non la migliore.

Nel dicembre 2011 esce l’album postumo, dodici tracce tra cover di grandi canzoni e brani inediti mai pubblicati. «Se questo album non fosse stato all’altezza degli altri due, non avremmo consentito la pubblicazione, ma invece è il tributo migliore alla grandezza artistica di Amy», sono queste le parole del padre che si è sempre impegnato per stare vicino alla figlia. Il primo singolo estratto è “Our Day Will Come”, brano degli anni ’60 di Bob Hilliard e Mort Garson, registrato nel 2002 e reinterpretato in chiave raggae: la voce di Amy si esprime al meglio, uscendo fuori in tutte le sue sfumature migliori, nella certezza (o speranza?) che «il nostro giorno arriverà e avremo tutto», meravigliosa conclusione di un amore tormentato; come del resto avviene nel duetto di “Body and Soul”, con Tony Bennett, mostro sacro della musica americana. Scontato dire come i due artisti sembrino davvero “corpo e anima” mentre le loro calde voci interpretano questo brano jazz del 1939. Ancora profonda e seducente appare la sua voce in “A Song for You” e in “Tears Dry”. Quest’ultimo è brano malinconico e intenso, uno di quelli in cui il pubblico si immedesima rivivendo magari emozioni passate vissute sulla propria pelle. Il tema dell’amore e della sofferenza legata a questo sentimento è una costante dell’album, la ritroviamo in buona parte dei testi, compreso “Will You Still Love Me Tomorrow”: chitarra, nacchere e batteria accompagnano la Winehouse in questo storico brano del 1960 scritto da Gerry Goffin e Carole King, reinterpretato da lei nel 2004. Decisamente insolito ma molto originale il singolo “Like Smoke”, cantato con il rapper americano Nas, in un riuscito mix di rap e soul o più semplicemente R’n’B, che strizza l’occhio al mercato Usa. “The Girl from Ipanema” può forse sembrare un po’ azzardato come esperimento, ma mostra l’estrema duttilità vocale in un contesto inusuale e ricco di sfumature. Inedita è invece “Halftime”, registrata nel 2002. Ancora una volta (l’ennesima) le doti vocali di Amy rubano la scena, mentre nel testo il tema del cambiamento e dell’intervallo dominano, combinandosi con una sincera descrizione di ciò che è stata per lei la musica: melodia che nutre l’anima, emozione, un dono, una benedizione che la protegge.
Nonostante tutto, il brano che coinvolge di più, sembra proprio essere “Wake up Alone”: fuorisce tutto il senso di solitudine e disperazione di Amy, che mostra la sofferenza per un amore travagliato, oltre ai vari tentativi di trovare rifugio in piccoli gesti quotidiani, per distrarsi e non soffrire. Come del resto avviene in “Valerie” e “Best Friends, Right?”, altri contesti densi di sensazioni forti e tristezza, mentre pianoforte e coro seguono Amy in “Between the Cheast”, lenta ballata d’altri tempi in un misto di amore, amarezza e ironia.

Che dire di più? Penso basti così. In questi anni troppe volte si sono accesi dibattiti sul personaggio Winehouse, sulle sue abitudini, debolezze, problemi. È stato troppo facile per i media sparare a zero su una ragazza che sicuramente avrà commesso tanti errori, ma che si è trovata a gestire il successo e un’attenzione mediatico/musicale eccessiva a soli 24 anni. Allo stesso modo è stato facile criticare questo album, riducendolo a insieme di brani accantonati e cover di pezzi sentiti e risentiti. Il disco merita di essere ascoltato almeno una volta perché regala ancora forti e intense emozioni, grazie a una stupenda e unica voce, senza paragoni. The queen of soul is not dead.

“La ballata di Mila” di Matteo Strukul

Mettete insieme scene dal taglio cinematografico e dal ritmo incalzante e adrenalinico degne del miglior action movie. Shakerate il tutto con situazioni, dialoghi e onomatopee («Chunk», «Bang», «Zock», «Crack», «Mmmpf», «Ungh», etc.) che ricordano fumetti alla Tex Willer. Versate il tutto in un bicchiere dalla forma sinuosa come il corpo di una ragazza che ha le fattezze di una bomba sexy e l’abilità di una valchiria spietata alla Beatrix Kiddo di Quentin Tarantino o alla Nikita di Luc Besson o, perché no, alla Clorinda di Torquato Tasso o alla Lisbeth Salander di Stieg Larsson.

Questi gli ingredienti de La ballata di Mila, romanzo d’esordio di Matteo Strukul che inaugura Sabot/age, la nuova collana a numerus clausus delle Edizioni e/o, curata da Massimo Carlotto e diretta da Colomba Rossi. La collana raccoglie romanzi di vario genere (noir, pulp, commedia, western, thriller, post-apocalittico, etc.) accomunati dallo stesso peculiare anelito di denuncia di ciò che non viene detto e raccontato dai media, e di rottura di quella cortina di omertà che occulta tante storie italiane scottanti, «storie che il nostro Paese non ha più il coraggio di raccontare» (dal sito della casa editrice). Il nome della collana si presta a una doppia lettura: «“sabotaggio” ed “Era del sabot”, lo zoccolo di legno che, ai tempi della rivoluzione industriale, veniva lanciato dagli operai negli ingranaggi delle macchine quando erano esausti».
Matteo Strukul ci serve un Lagavulin, un whisky che «ti scalda le budella come l’inferno» con la sua ballata sanguinaria. Un romanzo pulp-noir, anzi Sugarpulp, dal nome del movimento culturale e letterario fondato nel 2009 dallo scrittore patavino insieme a Matteo Righetto: «Sugarpulp affonda le proprie radici nella natura fiera e selvaggia del Nordest, una terra epica, per certi aspetti ancora legata alle tradizioni arcaiche, e che tuttavia ha saputo assecondare i processi di una modernizzazione necessaria ma anche impietosamente perseguita. Sugarpulp è la polpa narrativa, adulterata con lo zucchero di barbabietola, con una gradazione saccarometrica crescente che rende lo scrivere alcolico, più tossico, più anfetaminico. Sugarpulp è narrazione a duecento all’ora, è scrittura montata in modo ipercinetico, è dialogo-azione-dialogo-azione, è un modo di scrivere che mescola il linguaggio cinematografico della sceneggiatura con i profumi di sangue e zucchero della Bassa, dei campi di mais, delle case coloniche, le osterie, i colli, gli ippodromi, il mito della Romea e del Delta» (così dal Manifesto Sugarpulp). Sugarpulp è diventato un vero e proprio genere letterario, con tanto di festival volti a celebrarlo, riconosciuto da autori del calibro di Joe R. Lansdale, Victor Gischler, Massimo Carlotto e Tim Willocks, un genere che unisce azione e dialogo, addolciti dal pulp dello zucchero di barbabietola prodotto a Pontelongo o altre località limitrofe. Letteratura e territorio. Tradizione americana narrativa e cinematografica ed epica del territorio.
Ecco allora che ne La ballata di Mila il Veneto e in particolare Padova e dintorni vengono dipinti come un territorio dominato capillarmente dalla criminalità organizzata, che si è fatta globale, dissimulata dietro ad attività commerciali apparentemente legali grazie a un falso perbenismo e moralismo di facciata. Si tratta di un argomento di bruciante attualità come sta a sottolineare l’esergo che riporta la notizia, apparsa su Il Mattino di Padova il 19 ottobre 2010, dell’allarme lanciato dal giudice Mastelloni sull’infiltrazione della mafia cinese nel Veneto.
Strukul mette al centro della narrazione la faida scoppiata fra la cosca locale del boss Rossano Pagnan e gli affiliati dei Pugnali Parlanti, una potente Triade cinese, la 14 K, capeggiata da Guo Xiaoping, che a poco a poco ha creato un impero economico fondato sul riciclaggio del denaro sporco derivante dallo spaccio dell’eroina Uoglobe, il traffico di esseri umani immigrati attraverso il ricatto del permesso di soggiorno e la concorrenza sleale: «[…] aveva spogliato il Veneto non solo delle sue aziende, che chiudevano una dopo l’altra al ritmo di duecento all’anno, ma anche della sua cultura artigianale: le scuole venete di taglio, cucito e modellistica stavano cominciando a scomparire, comprese quelle che rappresentavano un vero e proprio patrimonio di sapere. Eccola, la globalizzazione in salsa cinese. E questi idioti di italiani non se n’erano manco accorti».
Grazie dunque alla mancata integrazione e all’ignoranza la criminalità straniera si è espansa e radicata nel territorio.
A sconvolgere la scena e a travolgere tutto e tutti, come un uragano che spezza alberi e scoperchia tetti (solo che lei spezza ossa e spella vive persone!), arriva Mila Zago, orditrice di un doppio gioco che ricorda quello orchestrato da Joe nel famoso film Per un pugno di dollari di Sergio Leone.
Mila, da vittima, è diventata la Nemesi che si abbatte su quegli stessi uomini che l’hanno trasformata in quello che è ora, una killer professionista, e che forse non sarebbe mai voluta diventare: «Cosa devi pensare quando succede che tua madre non ti vuole, che tuo padre viene ucciso, che tu vieni stuprata e che il mandante dell’omicidio se ne sta libero e fresco a pianificare il prossimo progetto criminale? Per questo ho deciso di diventare quello che sono. Per questo il mio unico scopo è punire Pagnan».
Oltre a sviluppare un fisico perfetto grazie ad allenamenti massacranti e all’educazione marziale impartitale dal nonno sull’Altopiano dei Setti Comuni, Mila forgia il suo carattere diventando una fredda calcolatrice implacabile. Però è bellissima (in questo l’autore cede al cliché americano): «Uno schianto: statura media, dreadlock rossi, occhi verdi, inguainata dentro un paio di pantaloni di pelle e una giacca strettissima fatti apposta per esaltare le curve. Bella da mozzare il fiato».
È un personaggio dirompente in una cultura eminentemente maschilista come la nostra, destabilizzante e inedito nel panorama della narrativa italiana popolata da figure femminili gregarie e remissive. È una ragazza piena di contraddizioni, che emergono soprattutto nelle sue pagine di diario, destinato alla procuratrice di Padova Chiara Berton, e che hanno la funzione di svelarne il lato più intimo e fragile. Ha tanta rabbia introiettata, Mila. Ma è dotata anche di un’ironia e un sarcasmo abrasivi. A volte sembra quasi divertirsi a prendere in giro i malavitosi sfidandoli in duelli impari dall’esito scontato. E state pur certi che il sangue versato non sarà il suo (salvo spararsi da sola su una gamba per non partire avvantaggiata…). Infatti, Mila sa maneggiare armi di qualsiasi tipo con straordinaria precisione, dalla Colt.45 alla Desert Eagle.50 passando per la Beretta e la katana, la spada giapponese. Conosce ogni mossa del kung-fu. È determinata e con un profondo senso dell’onore. Non crede più nel sistema giudiziario italiano. Per lei conta solo una legge, quella arcaica del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Mila è un’eroina né buona né cattiva, sebbene il farsi giustizia da sé resti pur sempre un reato. Preda di un destino ineluttabile è e sarà una bounty hunter temibile. Ma non si può non tifare per lei.
In questo romanzo, che sovente cede allo splatter, la violenza viene rappresentata in modo estremo e iperrealistico con una escalation di spettacolari e crude efferatezze che potrebbero far storcere il naso a lettori e critici facilmente impressionabili o non frequentatori del genere. Strukul ha creato, con uno stile allenato dalle letture di Rodari, Calvino e Salgari, una storia emozionante che si presta al crossover. Sta per uscire infatti il fumetto di Mila disegnato da Alessandro Vitti, già illustratore per Marvel e Bonelli. Il finale aperto promette poi un seguito. L’ambientazione? Neanche a dirlo, sarà quell’amato Veneto, dall’Altopiano dei Sette Comuni alla Bassa e al delta del Po, con i suoi zuccherifici, sfasciacarrozze, ippodromi e partite di hockey sul ghiaccio. Aspettiamo fiduciosi.


(Matteo Strukul, La ballata di Mila, Edizioni e/o, 2011, pp. 224, euro 17)