“Il ragazzo d’oro” di Pupi Avati

Torna al cinema Pupi Avati dopo le esperienze televisive per la Rai degli ultimi anni (Un matrimonio, 2011, Il bambino cattivo, 2013, e Il sole negli occhi che si vedrà a novembre), e lo fa con Un ragazzo d’oro, storia di un aspirante scrittore (Riccardo Scamarcio) che si trova a fare i conti con la memoria del padre.

Davide Bias è un pubblicitario che sogna di diventare scrittore. Soffre d’ansia, è in cura da un’analista che lo tiene in un regime controllato di farmaci e vede le sue proposte letterarie rifiutate da tutte le case editrici e agenzie letterarie di Milano. Sospetta che la sua ragazza continui a frequentare il suo ex fidanzato, non solo, che ne sia ancora innamorata. Quando il padre Achille, sceneggiatore di commedie di successo ma di basso valore artistico, muore, Davide deve tornare a Roma. Il rapporto col padre era pessimo. Donnaiolo, distratto e assente, Achille mortificava il figlio frenandone le velleità artistiche. Almeno, questo è quello che credeva Davide. Al funerale, una editrice di gran fascino gli offre l’opportunità di riconciliarsi con il ricordo paterno cercando il romanzo autobiografico che Achille stava scrivendo.

Il padre. Figura centrale nel cinema di Pupi Avati. La sua assenza, presenza, invadenza è stata il fulcro della quasi totalità delle produzioni degli ultimi anni (da La seconda notte di nozze del 2005 fino a Il cuore grande delle ragazze del 2011, passando per La cena per farli conoscereIl papà di Giovanna e Il figlio più piccolo). Figura a cui guardare, da cui cercare un’ispirazione o un confronto, o da cui fuggire. Questi sono stati i padri nel cinema di Avati, cresciuto dai dodici anni in poi senza il conforto del suo, di padre. Con Un ragazzo d’oro, Pupi Avati, però, non riesce in alcun modo a portare avanti il discorso, non riesce a svolgere in un modo nuovo un tema ormai diventato classico nel suo cinema.

Non basta la presenza della diva internazionale Sharon Stone (chiamata a interpretare l’editrice Ludovica Stern) a riqualificare la proposta o a spingere un qualsiasi tipo di curiosità. L’approssimazione è sovrana, sorprendente per un regista che, seppur tra alti e bassi, ha finora mantenuto uno standard di livello nel corso della lunga carriera. A stupire è la mediocrità della scrittura, incomprensibilmente premiata al Festival des Films du Mond di Montréal, con dialoghi a rischio di ridicolo e una superficialità di disegno dei personaggi da livello amatoriale, la regia che sembra risentire troppo dell’esperienza televisiva e non va oltre le riprese dal basso e un uso acrobatico dello zoom, la realizzazione tecnica a tratti sconcertante (il doppiaggio della Stone appare sempre fuori sincrono, ma è soprattutto l’uso a dir poco artistico delle location nell’ultimo incontro con Scamarcio a lasciare senza parole). Persino la direzione degli attori, che è da sempre il punto di forza del cinema di Avati, sembra organizzata senza la minima cura; la musica di Raphael Gualazzi è ridondante e retorica, addirittura l’ossessivo product placement è pessimo.

E cosa resta, allora? Resta lo sguardo disincantato, che già era stato utilizzato in La cena per farli conoscere (lì però il protagonista era attore mediocre che si sognava impegnato), sui meccanismi dell’industria cinematografica, con le commedie becere che strappano le risate del pubblico, «e piacerebbero tanto al mio amico Tarandino», come ripete a ogni occasione il regista Beppe Masiero, sodale del fu Bias, e la difesa estrema di una dignità artistica seppellita dalle logiche di mercato. Perché Davide scopre un animo sensibile nella scrittura del padre che mai è riuscito ad arrivare sul grande schermo, travolto e sconvolto dagli adattamenti registici. È in questa difesa della memoria che il figlio si riconcilia col padre, si rinchiude nel suo studio con le sue pantofole e il suo posacenere sempre pieno (e vabbé), indossa i suoi abiti (e vabbé), mette la sua colonia (e vabbé), si pettina e rade come lui (e vabbé). È da questa volontà di riscatto che scaturisce poi l’ossessione che dalla ricerca di contatto postumo finisce nell’identificazione, nel dialogo con le fotografie (e vabbé) e nel proseguimento dell’opera che non c’è mai stata.

Tutte cose che sarebbero magari anche interessanti se fossero rese con quel minimo di cura che si richiede al cinema. Cosa che a Pupi Avati non è assolutamente riuscita.

(Un ragazzo d’oro, di Pupi Avati, 2014, drammatico, 95’)

“La nostra terra” di Giulio Manfredonia

Resistere alla mafia coltivando i campi, opporre al sangue il rosso del pomodoro, riappropriarsi della terra. È la storia di una cooperativa sociale che ci prova in un terreno sequestrato alla mafia, schiacciato dalla presenza inquietante della casa del boss, quella che Giulio Manfredonia racconta in La nostra terra.

Filippo combatte la mafia dal suo ufficio di Bologna. Non è un poliziotto, è un’attivista della legalità, ma la sua lotta si basa su carte, documenti e conferenze. Non è mai stato sul campo, in prima linea, nei luoghi di mafia. Soffre d’ansia, a livello patologico, è metodico in modo maniacale. Allontanarlo dal suo ufficio è impossibile, ma diventa necessario per risolvere il blocco delle terre sequestrate al boss Nicola Sansone, che nonostante sia in carcere da quattro anni riesce ancora a impedire che la sua tenuta confiscata venga affidata a una cooperativa agricola. Suo malgrado, Filippo parte per il Sud e per la prima volta si scontra con la realtà quotidiana della mafia nella provincia italiana. Lontano da tutto quello che conosce, immerso in un mondo con cui deve imparare a confrontarsi, Filippo trova l’aiuto inatteso di Cosimo, l’uomo che serviva il boss come fattore e che un tempo, prima dell’arrivo dei Sansone, possedeva con la sua famiglia la terra confiscata.

Dopo i due film dedicati al personaggio di Antonio Albanese, Cetto Laqualunque, Giulio Manfredonia torna alla commedia corale, la dimensione più adatta alla sua idea di cinema dai tempi dell’esordio nel 2001 con Se fossi in teLa nostra terra ha molto in comune con il suo film più riuscito, quel Si può fare del 2008 che seguiva le vicende di una cooperativa di disabili psichici usciti dai manicomi dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia.

Non più disabilità, ma sempre cooperative, e sempre un riferimento a un momento specifico della storia sociale italiana. Perché se nel 2008 Manfredonia aveva posto in commedia le conseguenze della legge 180 del 1978, con La nostra terra, scritto ancora una volta con Fabio Bonifacci, si concentra invece sull’applicazione della legge 109 del 1996 per il riutilizzo sociale dei terreni confiscati alle mafie.

Come per Si può fare, Manfredonia e Bonifacci sono partiti da singole storie vere raccolte in giro per l’Italia e le hanno riunite in una trama unica di impegno e lavoro, di fatica e resistenza. È cinema importante, sociale nel senso più genuino del termine, che si impegna a rendere note storie di fatica e volontà granitiche capaci di resistere a tutto. È cinema che fa sorridere anche parlando di mafia, che parla del Sud senza mostrare cartoline, senza dipingere tragedie ma raccontando il quotidiano. Un’idea di sud che si concentra tutta nel personaggio di Cosimo, il fattore interpretato da un ottimo Sergio Rubini, ambiguo, aspro, testardo, legato visceralmente alla terra come già lo erano i personaggi di un altro film, di cui Rubini era il regista, che parlava di sud, di famiglie e di terre da dividere, e si chiamava La terra, appunto.

Con la sua improbabile cooperativa (due gay, una naturista olistica, un malato di mente, un africano, un’attivista, un paraplegico, e solo due capaci di tenere una zappa in mano, Cosimo e un altro contadino di nome Veleno), Manfredonia rende omaggio al lavoro di Libera e delle tante altre associazioni che ogni giorno si impegnano per riportare la legalità laddove è stata sottratta.

La mafia di La nostra terra non è tanto nell’associazione criminale o nella potenza del boss Sansone, uomo di eleganza e cultura, inquietante nel suo essere lontano dalla rappresentazione comune del capo mafioso, quanto piuttosto nella mentalità passiva di chi accetta e non si oppone, di chi china il capo prima ancora che gli venga chiesto, di chi si arrende senza lottare. Per questo la cooperativa di Filippo (che mostra un inatteso e incoraggiante lato comico di Stefano Accorsi nel sommarsi di fissazioni e debolezze) rappresenta un simbolo di speranza. Combattere la mafia coltivando pomodori, riconoscendosi nella terra, senza perdere il contatto con le origini, ma anzi difendendole e riappropriandosene. Si può fare, ancora una volta, e Manfredonia lo dimostra.

(La nostra terra, di Giulio Manfredonia, 2014, commedia, 100’)

 

“The Giver – Il mondo di Jonas” di Phillip Noyce

È un futuro non troppo lontano quello di The Giver – Il mondo di Jonas diretto dal veterano Phillip Noyce, un futuro in cui la società e la vita di ogni giorno sono fortemente controllati dal consiglio degli anziani.

I cittadini vanno protetti dagli errori del passato, e per questo il consiglio ha bandito il dolore, il pericolo, la violenza e con esso ogni forma di libertà: di scegliere chi diventare, di scegliere chi amare, di scegliere la propria famiglia. Tutto è controllato, dal linguaggio all’abbigliamento, per annullare la diversità, per annullare ogni possibile distinzione. Regimentati con farmaci e iniezioni quotidiane che anestetizzano le pulsioni basilari, i cittadini vivono felici nel loro sistema di privazione dell’umanità elementare. Jonas ha sedici anni e sta per compiere il rito che lo renderà adulto. Gli verrà assegnato un lavoro con cui potrà servire la comunità, come a tutti i suoi coetanei. Solo che il giorno della celebrazione il suo nome non viene annunciato dal Capo Anziano come quello di tutti gli altri. A lui è riservato un destino più alto: diventerà l’accoglitore di memorie, colui chiamato a custodire i segreti del mondo come era prima del controllo. Jonas inizia quindi la sua formazione attraverso le lezioni del precedente accoglitore, divenuto ora donatore, e scopre l’emozione, il ricordo storico dei colori – banditi per bandire ogni diversità –, della musica e del ballo, e decide che tutti devono sapere, che Fiona, la ragazza che ha scoperto di amare ritrovando la funzione sentimentale del cuore, deve sapere.

Gestazione complessa quella di The Giver. Jeff Bridges acquistò i diritti del libro che ispira il film negli anni Novanta su suggerimento della figlia adolescente. Il suo progetto era quello di trarne il suo esordio alla regia e di assegnare il ruolo del donatore al padre Lloyd.

Di quell’idea iniziale non si è fatto nulla, se non una versione privata della famiglia Bridges che Jeff ha realizzato una domenica in Super 8 e che ora custodisce in casa da qualche parte. Oggi, a vent’anni di distanza dalla prima pubblicazione del libro, è l’attore premio Oscar per Crazy Heart a interpretare il ruolo che aveva immaginato per il padre mentre la regia è passata a Phillip Noyce, regista di action politici e thriller (Giochi di potere; Il collezionista d’ossa) capace anche di raccontare storie d’infanzia negata in La generazione rubata.

Non proprio il periodo migliore per trasformare il libro in film. Perché se il romanzo di Lois Lowry (oggi ha settansette anni, fino agli anni Settanta è stata fotogiornalista) è a tutti gli effetti – assieme a Ender’s Game arrivato al cinema lo scorso anno – il capostipite della letteratura cosiddetta young adult di tipo distopico, il film di Noyce arriva nelle sale dopo l’invasione degli emuli letterari The Hunger Games e Divergent che hanno replicato il modello del futuro di controllo e di libertà limitata. Lo hanno declinato in altre forme, questo è vero, ma il rischio del già visto è in agguato perenne per lo spettatore.

Dalla sua, The Giver ha alle spalle un testo che è diventato, negli Stati Uniti, un classico della letteratura non solo per ragazzi, inserito nei programmi scolastici accanto a monumenti come Il giovane Holden. Qualcosa, di questa dignità letteraria, traspare anche nel film. Con meno azione e più spazio al dialogo e alla riflessione rispetto alle altre distopie, il film di Noyce sfiora il lirismo nella gestione del colore, passando dal bianco e nero all’intera gamma dei colori mano a mano che Jonas prosegue nel suo addestramento, e nella messa in scena delle sensazioni percepite per la prima volta, dai piaceri più semplici ai dolori più grandi. La formazione di Jonas passa quindi, più che attraverso un’opposizione al potere fine a se stessa, per la riscoperta dell’umanità, con tutte le conseguenze, positive e negative, che questo comporta.

Tolta però la suggestione della (ri)scoperta dell’uomo, The Giver non lascia un’impronta che vada oltre a sensazioni già provate, e non sono solo quelle derivate dalla letteratura young adult. Viene in mente Gattaca di Andrew Niccol per l’utopia della vita senza malattie, o più semplicemente Pleasantville per come sono gestiti i colori. E vengono in mente spesso.

Meryl Streep fa il Capo Anziano, la cantante Taylor Swift esordisce al cinema in un piccolo ruolo. Il protagonista è il ventiquattrenne Brenton Thwaites che già non si era fatto notare come principe Filippo in Maleficent.

La serie di Lois Lowry è proseguita in altri tre romanzi. Per ora non si parla di seguiti cinematografici, saranno gli incassi a determinarlo.

 

(The Giver – Il mondo di Jonas, di Phillip Noyce, 2014, fantascienza, 97’)

 

La collana Fabula di Adelphi

Qualche matita a pastello e il migliore dei mondi possibili: la casa editrice Adelphi, quasi disponendo per ogni sua creatura di forza magica e irradiante, da sempre tocca, e trasforma per raffinamento, l’immaginario del lettore. Di chi sa che carta e inchiostro, in oggetto unico, si elevano a promessa di altre vie dell’anima. È la mistica del libro, la religione della Grande Letteratura.

L’archetipico valore della narrazione legittima e rende consistente ogni esistenza. Quando i genitori raccontano del proprio vissuto, i figli in ascolto si riconoscono in un disegno che, presenti pure pieghe indecifrabili, non può che appartenere anche a loro. E l’identità si avvia dunque a prendere forma, e dice di sé, guardando a ciò che è stato. Un destino, forse. La propria storia, senza dubbio.

In ogni caso, se l’entropia spinge la contingenza spazio-temporale, il disordine che ne consegue – e che ammalia, simile alla danza di uno stormo nel cielo – può essere in parte contenuto. Bisogna narrarlo.

La collana Fabula di Adelphi nasce nel 1985 con il Milan Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere. E negli anni, giù a cascata i colori: tra copertine minimali, l’attualità veste un continuo di abiti differenti, dall’Europa all’America e ritorno, caotico viaggiare, e ancora sembra volersi trasfigurare, divenendo, con Fabula e tra centinaia di romanzi, incantevole sequela, nella vita che alla luce si espone, disnowdomes dalla rara capacità evocativa di mondi altri. Taumaturgia. O, più semplicemente, stato di grazia permanente.

Ed è così che scegliere qualche titolo, frenando la caleidoscopica corsa, equivale a estrarre oro alluvionale da un fiume ormai celebre per la sua ricchezza: le acque splendono, la collana non si disfa; ogni pezzo è una perla:

– La pelle, di Curzio Malaparte. Napoli è vinta e si offre agli Alleati. È il decadimento dello spirito che offende la carne. La verità accompagna i vincitori; ma c’è un’umanità che resiste anche al più insostenibile degli scempi.

– Pasto nudo, di William S. Burroughs. Il padre della beat generation, il prete della psicotropia taglia, incolla e ritrae un’America dal corpo drogato e dalla mente bucata. Kerouac e Ginsberg ancora ringraziano.

– Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Robert Pirsig. «Ragione e Qualità si sono staccate», Fedro lo sa e rischia la follia: quando si affronta un percorso iniziatico qualcosa va a perdersi, le strade più ardue sono quelle della propria mente. Si può giungere però a una più alta consapevolezza.

– Un bambino, di Thomas Bernhard. Nella propria infanzia l’autore ritrova in germe tutto l’uomo che ora ne scrive, e la lotta che a oggi non conosce tregua resta quella tra la sensibilità innocente e gli imperativi urlati dal mondo esterno. Prima parte, pubblicata per ultima, di una lunga autobiografia.

– Il lago dei sogni, di Salvatore Niffoi. I luoghi costretti non aspettano che l’insolito per riprendere a sognare. Accade che una giovane vedova in preda alla passione lasci abbacinato il paese di Melagravida, e che le suggestioni crescano veloci in visioni: realismo e surrealismo hanno in fondo la stessa radice.

E a questo punto verrebbe da dire acta est fabula.

Adelphi, però, ne siamo ormai a conoscenza, è un fiume. Che non si arresta, comunque in piena: esondazioni di Fabula, in questa policromatica cartografia. Perché di volta in volta la si riscriva, irriverente proliferazione, soggetta com’è a lasciarsi sedurre dai miracoli dell’entropia.

“I nostri ragazzi” di Ivano De Matteo

Una macchina taglia la strada a un’altra, gli autisti litigano mentre un bambino passeggero prega il padre tra le lacrime di paura di lasciar perdere il torto subito. C’è un inseguimento e insulti ai semafori finché l’auto con il bambino raggiunge l’altra e il padre scende con una mazza a minacciare il suo rivale ignoto. Parte un colpo di pistola, uno solo, che infrange il finestrino, colpisce il padre e lo trapassa e arriva al collo del bambino, rimasto seduto in macchina.

È l’inizio di forte impatto di I nostri ragazzi di Ivano De Matteo, presentato alle Giornate degli autori dell’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e premiato con il Label Europa Cinemas. È il bambino ferito il primo elemento inserito per evidenziare le differenze enormi che esistono tra i due protagonisti, due fratelli che oltre al cognome condividono ben poco. Perché Paolo, chirurgo pediatrico riflessivo e idealista, cerca con tutto il suo impegno di far tornare a camminare il ragazzino, mentre il fratello Massimo, avvocato di successo e di scarse considerazioni etiche, difende l’uomo che ha sparato, un giovane poliziotto in preda al panico. Non è solo Stefano, il bambino ferito, a segnare la distanza tra i due fratelli. È la vita che hanno scelto per loro e le loro famiglie, sono i loro interessi, le loro abitudini. Non hanno niente in comune, se non l’amicizia dei figli adolescenti Michele e Benedetta, e l’abitudine, radicata nel tempo e portata avanti da Massimo, di vedersi una volta al mese a cena, sempre nello stesso ristorante di lusso, allo stesso tavolo, per una rappresentazione borghese di un’ideale di famiglia. Sarà un sospetto feroce e orribile precipitato sui figli a spingere i due fratelli a uscire dallo stallo della reciproca indifferenza per trovare una definitiva soluzione.

Dopo l’esordio alla regia nel 2002 con Ultimo Stadio, Ivano De Matteo (anche attore, è stato Er Puma nella serie Romanzo Criminale) ha osservato e analizzato in modi e gradi diversi l’identità dei nuclei familiari italiani, salendo e scendendo la scala sociale per dedurre l’elemento umano comune al manifestarsi di un’anomalia capace di turbare equilibri stabiliti. Con La bella gente prima e Gli equilibristi poi, De Matteo, sempre partendo dalle sceneggiature della scrittrice Valentina Ferlan, era partito da una variabile esterna (la giovane prostituta nel primo caso, il tradimento nel secondo) che inserita all’interno di un sistema in equilibrio finiva per distruggerlo. I nostri ragazzi, che parte dal romanzo La cena di Herman Koch, muta le premesse abituali trovando l’elemento deviante non più all’esterno ma all’interno della famiglia. Sono Michele e Benedetta che fanno crollare il castello di certezze di Paolo e Massimo e delle loro mogli, sono i figli, l’appendice più personale dell’essere umano, a mettere in discussione ogni livello di abitudine, di credenze, di consapevolezze, ponendo di fronte alla drammatica scoperta di non conoscere affatto chi si è messo al mondo, alla realizzazione atroce che le creature che si credono innocenti e fragili sono capaci del male inutile, senza motivo, della violenza fine a se stessa.

Con I nostri ragazzi siamo, in una forma diversa, dalle parti di Il capitale umano di Virzì per gli scandali dei figli e le vite dei padri e delle madri che si intrecciano nel tentativo di capire e difendere lo status quo familiare. De Matteo affonda il suo sguardo più a fondo nel ventre molle della famiglia, pone i suoi protagonisti non di fronte all’incidente ma alla volontà criminale e li lascia a gestirne le conseguenze raschiando il fondo della coscienza borghese per osservarne le reazioni. Senza l’ironia feroce del Carnage di Polanski, e spingendo la portata del dramma a un livello molto più alto, il film di De Matteo costringe i padri a sedersi al tavolo e rispondere delle colpe dei figli, fino al crollo del velo della convenzione sociale. C’è un livello ulteriore che guarda allo sbando di generazioni desensibilizzate al male, capaci di tutto senza provare niente, avidamente alla ricerca di una riconoscimento, di un’identità, di una sensazione.

Strutturato attorno a due delle cene che uniscono mensilmente Paolo e Massimo, I nostri ragazzi finisce per ribaltare le premesse morali su cui si strutturano le due famiglie sottolinenando come ideale e realtà, teoria e pratica, sono in grado di spingere le certezze in direzioni opposte. Pur non riuscendo pienamente a mantenere la tensione drammatica, Ivano De Matteo si conferma, a due anni di distanza da Gli equilibristi, come autore consapevole delle proprie capacità registiche e in possesso di una specifica idea di cinema.

Funziona il cast con i quattro interpreti principali (Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassmann, Barbora Bobulova e Giovanna Mezzogiorno) perfettamente in parte e un ottimo lavoro dei due giovani interpreti Jacopo Olmo Antinori (già in Io e te di Bertolucci) e Rosabell Laurenti Sellers (che sarà anche nella prossima stagione di Il trono di spade).

(I nostri ragazzi, di Ivano De Matteo, 2014, drammatico, 92’)

Edizioni e/o: a tu per tu con Claudio Ceciarelli

Per fornirvi un panorama più chiaro su Edizioni e/o, abbiamo intervistato Claudio Ceciarelli, editor di narrativa italiana. Dopo le esperienze iniziali presso Theoria e Einaudi Stile Libero, Claudio ha mollato tutto per lavorare nell’editoria indipendente. Ci ha spiegato cosa fa in casa editrice, cosa pubblica e/o, ma – ahinoi – nemmeno lui sa chi sia Elena Ferrante.

Allora, Claudio, come sei approdato a Edizioni e/o?

Il mio lavoro nell’ambito editoriale è iniziato con la casa editrice Theoria, che ai tempi – parliamo dei primi anni Novanta – insieme a e/o era a Roma una delle realtà editoriali di riferimento. Successivamente ho trascorso un periodo abbastanza lungo presso Einaudi Stile Libero, da cui mi sono dimesso nel 2005. Dopo un anno sabbatico mi sono rivolto a Sandro Ferri che conoscevo da molto tempo. Gli chiesi una collaborazione e così è nato tutto.

Che differenza c’è tra lavorare in una casa editrice media qualè e/o, e lavorare in una casa editrice grande e mainstream come Einaudi Stile Libero, sebbene questa mantenga dei tratti più indipendenti?

Di fatto è una casa editrice a parte. Quando nacque, nel ’96, il progetto iniziale era di fare una ventina di titoli l’anno. Poi, da venti titoli, in pochi anni si è passati al triplo. A quel punto è diventata davvero una casa editrice a sé, cambiando la filosofia della collana, che era nata come tentativo di svecchiamento del pubblico einaudiano, quindi era attenta ai giovani, alle nuove tendenze, costumi, atteggiamenti culturali.

In fin dei conti era anche una collana spregiudicata: basti pensare ai “Cannibali”, un po’ anomali rispetto al resto del catalogo einaudiano.

Esattamente. Il primo successo fu proprio l’antologia Gioventù cannibale che riuscì a orientare i gusti del pubblico (e degli autori stessi) nel periodo successivo. Tornando alla tua domanda sulla differenza tra casa editrice grande e medio-piccola: in base alla mia esperienza, all’interno della grande casa editrice non c’è mai stato un tentativo censorio (della serie: pubblicare un autore piuttosto che un altro). Berlusconi, gran capo del gruppo Mondadori, è stato un editore liberale da questo punto di vista. Ma ogni anno c’è stata una pressione crescente sul fatturato, sul raggiungimento degli obiettivi, per cui i libri alla fine non erano altro che una merce come tante. Se un anno si era sotto del 20% rispetto al budget previsto, diventava necessario pubblicare titoli magari “di seconda scelta” per recuperare il fatturato perduto. Il progetto iniziale ne è uscito inevitabilmente snaturato. Poi, per rispondere sempre alla pulsione al fatturato della casa madre, si abbracciò la filosofia del bestseller a tutti i costi, che non era però nel Dna di Stile Libero: se prendi come esempio Gioventù cannibale, è stato a tutti gli effetti un bestseller, ma lo è diventato “in corso d’opera” e col passaparola, non era affatto programmato che lo fosse. Quindi, per quello che ho vissuto, posso dire che nella grande casa editrice vige un’ossessione economico-finanziaria maggiore rispetto alla piccola o media che, quando pubblica in un anno i suoi 3/4 libri che vendono un po’ di più e con cui si sta in piedi, è soddisfatta. E, quando si ha a disposizione qualche soldino in più, è ancora più contenta se riesce a mettere sul mercato un libro che si sa in partenza che non venderà tanto, ma che rimane comunque un bel libro.

A proposito di bei libri, nel saggio I ferri dell’editore, Sandro Ferri dichiara che e/o pubblica solamente romanzi che apprezza. Quali caratteristiche dovrebbe avere uno scritto per piacerti tanto da dire: «Lo pubblichiamo»?

Innanzitutto i gusti di Sandro Ferri e Sandra Ozzola non sono imprevedibili, sono semplicemente molto ampi e variegati, sia rispetto ai romanzi più “popolari” e bassi, sia rispetto a quelli “alti”. Non hanno problemi nel pubblicare un libro “facile” se a loro piace, e non temono di pubblicare un libro che,o per scrittura o per struttura, è indirizzato a lettori forti, con una ristretta previsione di vendita. Per quanto mi riguarda, io cerco di star dentro a questo ampio range di scelte, ma tieni presente che il mio ruolo è quello di lavorare con gli autori sui libri di cui si è già decisa la pubblicazione. Può capitare comunque che venga chiamato dagli editori a dire la mia quando sono in disaccordo su un titolo italiano, divenendo l’ago della bilancia. E capita anche che io stesso suggerisca loro delle proposte che poi vengono da loro accettate.

Quindi l’attività di scouting viene gestita dagli editori?

Un buon 80-90% dell’attività di scouting è gestita da loro. Io faccio per conto mio attività di scouting con una forte autocensura a monte, perché certi libri so per certo non rientrano nella loro linea editoriale. Mi adatto al loro gusto, cosa che non mi è difficile perché come dicevo i loro gusti spaziano molto, perciò i libri di cui mi occupo mi piacciono, con pochissime eccezioni di cui non faccio nomi per non dispiacere a nessuno. Cerco comunque di dare sempre il mio meglio con ogni libro. Lavorare con l’autore e il suo testo d’altronde è la parte del lavoro che mi piace di più.

Puoi dunque dirti soddisfatto della tua scelta lavorativa.

Sì, faccio un lavoro che mi piace in un ambiente molto sereno. Quest’ultimo aspetto è da non sottovalutare, perché per esempio la situazione a Stile Libero era diventata molto difficile per me. Lì il mio ruolo (oltre che lavorare su alcuni testi) consisteva nel fare da cinghia di trasmissione tra Roma e Torino, rispondendo dei tempi di consegna dei romani, in perenne ritardo rispetto ai desiderata dei torinesi. Non ci dormivo la notte, ero sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Mi toccava fare il mastino nei confronti delle persone che mi avevano chiamato a lavorare (i romani). Ero comunque diventato l’uomo di fiducia dei torinesi, che avevano visto in me una persona affidabile. Insomma, ero come don Abbondio, un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. A e/o, invece, la situazione è molto più facile da gestire. Tuttora alcuni colleghi dell’Einaudi mi danno del pazzo, ma c’è anche chi ha capito le mie ragioni. Tra l’altro, dopo anni di collaborazione, ero proprio alle soglie dell’assunzione, cosa non facilissima in Einaudi. Col senno di poi ho fatto bene. Ma ovviamente sono sceso a compromessi: non ci ho guadagnato in termini economici, ma almeno faccio ciò che mi piace.

Ritornando alla casa editrice, e/o indica sia le due congiunzioni che esplicitano una possibile alternativa, sia “est/ovest”. Che rapporto ha instaurato e/o tra la letteratura dell’est e quella dell’ovest fino a oggi?

Dunque, seguendo lo sviluppo storico della casa editrice, e/o ha iniziato battendo proprio sull’est. Le notizie sui Paesi d’oltrecortina all’epoca non arrivavano, era difficile portarle fuori dalle loro realtà; e/o ha portato in Italia la letteratura russa, la letteratura ungherese, autori importanti come Hrabal, Christa Wolf e tanti altri. Quando la situazione tra est e ovest si è normalizzata e gli editori si sono affezionati al confronto delle culture, hanno cominciato a sondare letterature e mondi che prima avevano trascurato in nome dell’istanza primaria di portare l’est a ovest. Hanno perciò iniziato a frequentare letterature minoritarie come quella cubana e sudamericana, poco battute dai grandi editori. Quindi, anche avvicinandosi alla cultura occidentale, hanno operato delle scelte mai all’insegna del gioco facile. Anche per la letteratura americana hanno proposto autori particolari, non affermati ma che erano narratologicamente all’avanguardia. E questa è stata la loro libertà in quanto editori, hanno sempre dato mostra di grande coraggio e coerenza.

Tu sei un editor di narrativa italiana. Qualè la differenza con un editor di narrativa straniera?

L’editor di narrativa straniera è sostanzialmente uno scout, che sceglie testi già pubblicati nella lingua originale e quindi già editati. Questa accezione di editor come scout non c’è nell’idea di editor che lavora su un testo. Solo nei (rari) casi in cui l’edizione originale non è particolarmente ben curata, ha un lavoro diverso. Ovviamente l’attività di scouting segue la politica editoriale della casa editrice. L’editor di narrativa italiana può sia essere uno scout sia lavorare sul testo. Per quanto riguarda me, come ti dicevo, l’80% del mio lavoro ha a che fare col testo.

Una prospettiva sull’ebook?

Senza avere aspettative miracolistiche, se dovessi fermarmi a questi primi anni di ebook, non sarei molto ottimista per l’Italia: i nostri numeri rispetto al mondo anglosassone sono pressoché ridicoli. Però si tratta di numeri in crescita. Bisogna considerare un dato fondamentale: in Italia si sono persi dei lettori, che hanno abbandonato il cartaceo non passando all’ebook, e si è ridotto lo zoccolo duro dei lettori forti, quelli che leggono 2 o 3 libri al mese. L’ebook per me può essere (non è detto comunque che lo sarà) il cavallo di Troia per entrare nei gusti e nelle abitudini della generazione 2.0. Ma ovviamente un conto è giocare con la PlayStation o smanettare su un tablet, un altro leggere un libro. E qui si potrebbe fare un bel discorso sulle politiche scolastiche di incoraggiamento alla lettura, ma te lo risparmio. Fossi un preside comprerei degli e-reader insegnando ai ragazzi a sfruttarli al massimo, perché ben utilizzato l’ebook è fantastico. Insomma, ciò che vedo è un segmento di mercato in crescita, ma non in maniera stravolgente (spero di essere smentito presto). È una crescita lenta e faticosa, però pur sempre una crescita, che porterà delle modifiche anche nel cartaceo, il quale dovrà tener presente dell’esistenza del libro elettronico.

Infine, una provocazione. Ritornando al saggio I ferri dell’editore, rimane impressa la metafora che usa Sandro Ferri per descrivere i suoi autori: li paragona a una squadra di calcio. Quali sarebbero gli 11 autori che costituirebbero la tua squadra?

È una domanda alla quale fatico a risponderti per una deformazione professionale e anche morale. Come ti dicevo prima, di fronte ai libri di cui mi occupo, che mi piacciano o no come lettore, da un punto di vista professionale cambia poco o nulla. Spesso mi capita di lavorare con più impegno su un libro che non mi piace proprio per contrastare la tendenza “da lettore” – che va assolutamente tenuta fuori. Potrei essere l’allenatore di più di una squadra, a seconda del ruolo che svolgo (lettore o editor). Ma è complicato. Infatti, si tratta di persone con cui sono diventato amico, anche se i loro romanzi non erano i miei preferiti. Una scrittrice che sicuramente inserirei nella mia squadra è Elena Ferrante, che persino io non so chi sia. Come tanti vorrei vederla in viso e farle tante domande.

Questo penso sia l’interrogativo che affligge tutti i lettori e/o.

Sicuramente. Qui, a parte gli editori che hanno tenuto duro, nessuno lo sa. Nemmeno chi ci lavora insieme. Il ruolo della Ferrante? Centravanti di sfondamento. Però non proseguo per non fare torti a nessuno.

“Anarchia – La notte del giudizio” di James DeMonaco

Il futuro di ordine e controllo ideato da James DeMonaco torna in Anarchia – La notte del giudizo, con un altro cast, altre storie, ma con le stesse premesse di violenza e caos.

Nell’anno 2023 negli Stati Uniti il potere è in mano ai Nuovi Padri Pellegrini, un gruppo politico-religioso che ha stabilito un nuovo rigidissimo ordine per contrastare il crimine dilagante e l’economia allo sbando. La notte tra il 21 e il 22 marzo è ogni anno la Notte della purificazione. Ogni crimine è permesso, ogni violenza tollerata. Il sistema giudiziario è sospeso, così come la pubblica sicurezza e il pronto intervento. Uccidere un uomo, nella Notte della purificazione non è solo legittimo, è anche necessario secondo l’interpretazione dei Nuovi Padri Pellegrini: necessario per sfogare la violenza naturale dell’uomo in una sola notte senza regole, necessario per regolare la crescita demografica inarrestabile eliminando i poveri. È la sesta Notte della purificazione quella in cui i destini di una giovane coppia in crisi, di una madre e una figlia e di un uomo misterioso si incontrano. È l’unico dei cinque a essere uscito di casa per compiere un crimine, un omicidio contro un uomo che gli ha fatto un torto. Il suo piano di vendetta si interrompe quando deve assistere gli altri che si sono ritrovati coinvolti loro malgrado, strappati in un modo o nell’altro dalla sicurezza del loro nascondiglio.

Un anno dopo il primo episodio, La notte del giudizio torna con tutte le premesse per diventare Anarchia. Sembra destinato a continuare ancora a lungo il futuro distopico e autoritario immaginato James DeMonaco per il suo The Purge. Le premesse ci sono tutte. Conciliando thriller e fantascienza James DeMonaco è riuscito a creare un film teso e compiuto. Senza il bisogno di collegarsi direttamente con il primo film, Anarchia – La notte del giudizio riprende gli elementi principali della distopia immaginata portando avanti un discorso nuovo, continuando ad analizzare le possibilità della violenza e la sua disturbante funzione sociale.

La certezza dell’impunità porta chiunque a calarsi nei panni del killer. Ci sono psicopatici che si organizzano in bande con asce e martelli, gang di motociclisti che rapiscono persone, cecchini solitari che sparano ai passanti bevendo birra. Poi ci sono i ricchi, che dall’alto del loro status pagano disperati per averli come facile preda in casa e massacrarli con cura, nel salone avvolto nella plastica per non macchiare i mobili, o si fanno portare sconvolti e disperati da cacciare come prede in un labirinto al buio, conquistando il diritto alla preda partecipando ad aste di grottesca formalità.

La violenza è elemento naturale dell’uomo come animale, dall’homo homini lupus allo stato di natura di Hobbes. È un modo di reagire alla paura, di allontanare l’altro riconoscendo in esso le possibilità della propria stessa natura. Il limite della legge è intervenuto nella formazione del concetto di civiltà garantendo il diritto alla violenza alle sole istituzioni – è il passaggio dallo stato di natura alla società civile di Hobbes, ancora, è l’idea di Stato come detentore del monopolio della violenza di Weber – sublimando la violenza primordiale umane in forme simboliche e rituali.

La sospensione del diritto porta il crollo del simbolismo, libera per una notte l’uomo dal vincolo della dimensione sociale, dalle sovrastrutture morali e civili per lasciar prevalere l’istinto nella sua forma più ferina.

James DeMonaco preferisce, però, non insistere su una dimensione ulteriore, limitandosi al puro intrattenimento lasciandosi scappare solo rare suggestioni per letture ulteriori (che sono sostanzialmente dei vicoli ciechi e sembrano messe lì solo per far credere che ci potrebbe essere qualcosa in più). Sul piano che è stato scelto come principale, Anarchia – La notte del giudizio riesce nel suo. Ha uno stile che lo definisce alla perfezione come proposta estiva. È un peccato perché le premesse per un passo in più, per cercare di calare nello spettacolo maggiori elementi di riflessione, per cercare in pratica di fare della serie di The Purge non un prodotto di semplice consumo ma per collocarlo tra i riferimenti del cinema di distopia sociale (1997 – Fuga da New YorkI guerrieri della notte, la saga di Hunger Games) ci sarebbero.

(Anarchia – La notte del giudizio, di James DeMonaco, 2014, horror, 104’)

“Roderick Duddle” di Michele Mari

Quando avevo quattordici anni ho trascorso un’estate, l’estate più piovosa della mia vita, a leggere romanzi di avventura, mentre dalla finestra aperta respiravo l’odore della pioggia e immaginavo rocambolesche peripezie attraverso paesaggi oscuri e misteriosi. Dieci anni dopo, inaspettatamente, ho provato la stessa sensazione perdendomi fra le pagine di Roderick Duddle di Michele Mari (Einaudi, 2014),

Roderick Duddle è uno di quei libri che iniziano con una mappa. Come quei volumi ingialliti con qualche pagina in meno che riempiono le librerie dei nonni, quei romanzi che sappiamo fin dall’inizio che ci porteranno da qualche parte. E fra le sue pagine vivono temibili personaggi dagli strani nomi, come Salamoia e Scummy, c’è una locanda buia e malfamata popolata da ubriaconi, marinai e vagabondi, e c’è un ragazzino di dieci anni di nome Roderick, figlio di una prostituta, erede di un’incredibile fortuna e protagonista di una fitta serie di misteriosi intrighi, sullo sfondo di un’Inghilterra ottocentesca di dickensiana memoria. Ma le suggestioni che le pagine di questo libro ci riportano alla mente non si fermano qui, e in un attimo ripensiamo ad alcuni dei più bei romanzi d’avventura mai esistiti, il pensiero si sofferma su Stevenson e Melville, ma c’è anche un momento, brevissimo, in cui ci ricordiamo di Steinbeck e del suo Uomini e topi, proprio quando ci troviamo al cospetto del personaggio di Lennie. E l’elenco sarebbe ancora lungo, ma non è forse più divertente riscoprire queste tracce durante la lettura?

La narrazione di Mari è priva di freni e restrizioni, è la scrittura di chi con le parole ci gioca e si diverte, rincorrendo la propria ispirazione e nient’altro, senza cadere in futili virtuosismi atti a conquistare l’attenzione del lettore. Un lettore con cui Mari intrattiene un dialogo continuo, diretto e provocatorio, arrivando a interrogarlo, a pungolarlo ironicamente e persino, talvolta, a farsi beffe di lui: «Chi mi dà il diritto di continuare? Me lo dai tu, autorevole lettore?»

Mari conosce colui che divora le sue pagine con morbosa curiosità, ne conosce le  debolezze, e fa di quest’arma una provocazione continua: «Integerrimo lettore, condannerai tu quest’uomo per la ricchezza della sua fantasia? Scaglierai la prima pietra della riprovazione? Attenderai invano, se speri che lo faccia io per te: angosciati anzi che io non venga a spiarti, per narrare di te».

Non vuole essere un romanzo di formazione, questo. Non trapela la minima intenzione di scrivere una storia edificante né di trasmettere una stucchevole morale: anche i personaggi più biechi, nella loro instancabile e spietata lotta per il potere, non fanno altro che suscitare autentica curiosità.

Le pagine sono quasi cinquecento, ma fin dall’inizio sembra già uno di quei libri che finiscono troppo presto, il ritmo è serrato e interrompere la lettura è davvero difficile: ci sono tante, troppe cose che succedono, e non si può aspettare un minuto di più.

Ci sono dei libri che, prepotentemente, privano il lettore del suo interesse per tutto il resto fino a quando, esausto ma felice, non legge la parola fine. Ecco, Roderick Duddle è uno di questi.

(Michele Mari, Roderick Duddle, Einaudi, 2014, pp. 496, euro 22)

“La città assente” di Ricardo Piglia

«Questi libri», disse una volta Jorge Luis Borges in riferimento allo Zohar e al Séfer Yetzirah, «non sono scritti per essere capiti, sono fatti per essere interpretati, sono stimoli affinché il lettore ne prosegua il pensiero». Senza alcun timore possiamo pensare che tale concezione del libro possa estendersi, nel sentire borgesiano, non solo ai cosiddetti testi sacri, quali lo Zohar e il Séfer Yetzirah, ma anche a qualsiasi altro prodotto della parola che si adagia sulla carta. D’altronde esistono molti altri punti dell’opera di Borges in cui si rende evidente una certa disposizione a rifuggire, per quanto possibile, dall’ammorbamento coercitivo che costringe il lettore all’unica via d’interpretazione, alla correttezza della lettura, ovvero a un impossibile carattere in un modo o nell’altro oggettivabile della letteratura (e già che ci siamo della vita) che definisca la validità assoluta di un qualsiasi impianto ermeneutico a detrimento degli altri. Forse, addirittura, potremmo dire il contrario: leggere un libro per capirlo, seguendo un sentiero dritto e senza svolte, è un obiettivo più che altro tracotante, probabilmente inutile, di certo piuttosto frustrante.

Quando questa consapevolezza borgesiana trasmigra dall’ambito della lettura alla pratica della scrittura, allora scopriamo che scrittore e lettore, cioè brutalmente l’autore e il fruitore dell’opera, devono operare più o meno attraverso le medesime strategie di sopravvivenza, cosicché il confine tra i due mondi che rispettivamente li ospitano, ossia quello di chi crea un universo e quello di chi lo abita, diventa a poco a poco una linea fittizia tracciata da una mano molto arbitraria. Quei due mondi, allora, sono soltanto uno.

Analizzando il pensiero borgesiano, in «Parodia y propriedad», un’intervista del 1980 poi confluita in Crítica y ficción, Ricardo Piglia sostiene: «Borges lavora con le garanzie e i valori del sistema letterario portandoli all’irrisione, all’eccesso, all’irrisione per eccesso, bisognerebbe dire. Allo stesso tempo percepisce con nitidezza i meccanismi del sistema e li traduce nel fondamento della sua finzione». Sicché nel 1992, e veniamo a noi, quando scrive il romanzo recentemente tradotto qui in Italia La città assente (SUR, 2014), lo stesso Piglia sembra armarsi dell’irrisione e dell’eccesso, creando un libro che di certo non è fatto per essere capito in un senso unico ed esclusivo. Lì, infatti, anche in ossequio al modello borgesiano, Piglia fa confluire citazioni che diventano riscritture, sconvolgimenti frequenti del registro narrativo, una certa libertà nell’utilizzo dello spazio e nel tempo, diverse confusioni tra piani di realtà e finzione, una fertile instabilità di genere, richiami volatili alla storia grande che è stata e non e altri accorgimenti dal tono piuttosto argentino. Tanto che, per ammissione dello stesso Piglia, è anche da Borges che nasce La città assente. Il Borges dei dislocamenti, delle riarticolazioni delle riscritture e delle mistraduzioni, quello della riconfigurazione di significati in contesti altri, quello irriverente che attraverso gli stessi meccanismi del sistema letterario fonda la sua finzione. Quello che disprezza l’unica via di comprensione di un testo. Accanto a Borges, tuttavia, sono altri gli autori che assurgono al ruolo di modello nella Città assente, per esempio Macedonio Fernández, Roberto Arlt e James Joyce: altri tre autori che, come Borges e come Piglia, hanno tentato di fare della propria letteratura un vettore di resistenza e sovvertimento.

Ma sovvertimento di cosa? Sovvertimento delle regole della narrazione, prima di tutto; preludio a uno scopo più ampio: la lotta della periferia nei confronti della Metropoli (come sostiene anche Sergio Waisman, autore della prefazione all’edizione in inglese de La città assente). Perché La città assente, anche a leggere la bella prefazione di Tommaso Pincio in apertura del volume appena pubblicato, è un libro che, in linea con quanto si è fin qui detto, può essere letto seguendo numerosissime strade. Un romanzo in cui perdersi senza addomesticare la letteratura, un invito a continuare il pensiero che l’anima.

(Ricardo Piglia, La città assente, trad. di Enrico Leon, SUR, 2014, pp. 208, euro 15)

 

“La gemella H” di Giorgio Falco

Al centro della trama del romanzo La gemella H (Einaudi Stile Libero, 2014), di Giorgio Falco, c’è lo sguardo bifronte e sfaccettato delle gemelle Hilde e Helga. Il gioco del cliché è condotto in una narrazione abilmente alternata, che tratteggia la condivisione dei primi ricordi fin dalle prime pagine, macchiate del dolce sapore dello strudel.

Nei primi anni trenta, Hans Hinner, un buon padre di famiglia, compie il proprio dovere con sforzi esemplari, per garantire un benessere economico alle figlie, che studieranno in Svizzera. Il regime incide sulla mentalità di Hinner, che sempre più convinto dei vantaggi offerti dal Nazismo si impegna nella propaganda del giornale su cui scrive, costruendo un sostrato di opinioni funzionali al Reich. A mano a mano, Hinner abdica alla propria funzione critica e alla responsabilità di coscienza per raccogliere le responsabilità che il regime gli domanda, fino ad adempiere come organo di stampa una funzione di propaganda senza alternative.

Con uno studio dettagliato, Falco mostra la sottile prepotenza del regime, la forza vertiginosa con cui Hinner cede alle lusinghe di Hitler, senza alcuna resistenza personale, o slancio critico. Sono gli affetti, sono le circostanze a trasportare Hinner in una discesa morale inquietante per la totale assenza di ripensamenti e di dubbi. Hinner subisce la storia, ma al contempo è convinto di essere fra i fautori del destino della Germania.

La furia borghese, l’imporsi di un benessere graduale e incontenibile, i beni che sopraffanno i momenti di tempo libero sono cartoline ampliate dal tempo cheto, brulicante di innovazioni e leggere speranze degli anni cinquanta: il benessere è semplice, è funzionale a colmare il vuoto creato dal conflitto. Hilde e Helga sono a Milano Marittima, dove il padre ha messo su un albergo. Si conferma la diversità dei modi delle gemelle, Hilde restia ad accettare il lavoro presso l’albergo, Helga felice di sposare un cameriere ambizioso e contento di poter migliorare la propria condizione. La povertà sembra essere una delle madri dell’amore che sboccia nella coppia. Mentre per Helga e il marito l’albergo è la condizione necessaria per la salute e la spensieratezza, per Hilde è un limbo, che la custodisce rispetto al mondo. Annoiata, incompresa, stanca della confezione, la sola evasione che si permette è la lettura dei titoli dei giornali, protesa a misurare l’imponderabile delle stagioni. Succedono altre cose. La liaison con un chirurgo malato dalla presunzione di poter offrire l’elisir di giovinezza alla moglie. Anche se ancora “inappetente”, Hilde si rincuora. La malinconia si tinge di attesa. Helga è mondana, ambisce a un figlio. La psicologia di entrambe le gemelle è definita con tratti precisi, minimi. Due modi complementari di infilarsi dentro la storia familiare. Helga si impone, Hilde resta a guardare. Una raggiante, l’altra indifesa. O forse è solo una lettura superficiale. Helga sa stare al canovaccio che il padre ha scritto per entrambe e fa anche per la sorella. Hilde, non si sa dove stia. Dove abiti. È una donnetta pavesiana, nella bella estate.

Solo gli oggetti vivono una vita placida e composta. Hilde è sensibile verso gli animali e le creature non viventi. Il tempo non ha pietà e sbiadisce tutto, anche la silenziosa disperazione di Hilde, traghettata negli anni settanta e ottanta verso l’amore clandestino con un chirurgo senza scrupoli.

Hilde è lucida, impaziente di ricompensare il ciclo delle lune tristi. Helga non sa che cosa importi alla sorella, ammesso che le importi qualcosa. Stasi. Tempo vasto. Tempo vissuto. È come leggere un discorso sul metodo denso di affetti, di attenzioni rivolte al dettaglio. Lo sguardo di Falco è sempre franco, leggero e sa scavare dentro le contraddizioni delle due gemelle. Nello spaesamento di Hilde e nella mondanità composta di Helga.

Senza una conclusione netta, La gemella H si apre al giudizio del lettore nei confronti del declino, una ferita che attraversa il Novecento tutto di un fiato. E si propaga, secondo ricorsi storici nelle vite delle sorelle, quasi che le colpe si dovessero sgretolare, come una montagna che frana silenziosa e lascia un gusto amaro, ma vero della difficoltà di arginare le derive storiche.

(Giorgio Falco, La gemella H, Einaudi Stile Libero, 2014, pp. 360, euro 18,50)

“Mistaken For Strangers” di Tom Berninger

Matt e Tom Berninger sono due fratelli. Il primo è il leader di una delle band al momento più influenti al mondo, i National. Viene riconosciuto per strada, ha una moglie, una figlia e una bella casa a Brooklyn. Tom, più giovane di diversi anni, è un regista sconosciuto con all’attivo due horror amatoriali, Dirt Under His Nails e Wages of Sin, è visibilmente in sovrappeso e vive con i genitori nella loro casa a Cincinnati, Ohio. Se fosse stato uno dei commessi di Clerks non avrebbe stranito più di tanto. In più non ama la musica del fratello, definisce l’indie rock come «pretentious bullshit». Lui ama l’heavy metal.

Matt decide di coinvolgere Tom nel tour promozionale di High Violet (2010), il quinto album della band americana, come roadie. Non dovrà fare altro che portare cibo, da bere e asciugamani ai membri della band, occuparsi della lista degli ospiti e fare qualche video per il sito. Ma Tom ha altre intenzioni: sfruttare l’occasione per avere del materiale da cui ricavare un film documentario sui National stessi. Il risultato è Mistaken For Stranger (2013), che in Italia uscirà per un solo giorno al cinema, il 24 luglio, nell’ambito del Cinema Rock Festival; un lavoro atipico che più che un documentario su un gruppo musicale sembra il tentativo di auto-analisi di Tom Berninger per capire a che punto è la sua vita e quale direzione sta prendendo. E per capire quanto l’ombra del fratello maggiore abbia influenzato la sua esistenza, le sue scelte e le sue non scelte.

Che poi quel fratello sia Matt Berninger dei National risulta quasi secondario.

Il tour inizia, spezzoni dei concerti a Berlino, Londra e Parigi. Tom è sempre lì con la sua telecamera a riprendere qualsiasi cosa. Non si fa alcuno scrupolo quando Matt è in bagno a sciacquarsi la faccia per rilassarsi. Lui si avvicina ancora di più e gli chiede come va. Matt vuole solo due minuti di tranquillità. Niente, non si stacca e Matt se ne va innervosito. Tom non si fa mai scrupoli e questo sembra mettere a disagio un po’ tutti. È fastidioso, un bambinone in cerca di attenzioni. Sembra che venga sopportato mal volentieri dal gruppo e che provino a sopportarlo: in fondo è il fratello del leader. Si prestano alle sue interviste sconclusionate, alle sue richieste senza senso – come quella di guardare intensamente verso la telecamera dicendo «aspettate un secondo» per nessun motivo. Un peso, una di quelle presenze di cui non sai come sbarazzarti. Vaga in questo mondo fatto di partenze e arrivi, viaggi interminabili, sbronze, cercando di piacere a tutti, facendo domande che possano infantilmente mettere Matt in cattiva luce. E Matt se la prende con lui perché beve troppo, deve darsi una calmata perché è sempre su di giri, e allora lui guarda verso la telecamera e bisbiglia un «è lui che beve sempre» (ed è davvero difficile dargli torto).

Si vola verso gli Stati Uniti: Los Angeles, Madison (concerto in piazza subito dopo un comizio di Obama), Cincinnati. È qui, in Ohio, che si arriva al cuore dell’epica familiare dei Berninger: l’intervista ai due genitori, Nancy e Paul. Si parla delle differenze tra i due, i loro pregi e i loro difetti filtrati da chi li ha cresciuti. La madre dipinge, mostra alcuni suoi quadri mentre parla dei due figli con palese trasporto. Il padre è un artigiano, sembra più distaccato.

Nel frattempo Tom perde la lista degli ospiti a un concerto, dice di averla lasciata sotto il computer, ma non c’è più, e questo genera ulteriore nervosismo attorno a lui. Fino a quando non sparisce senza motivo per diverse ore facendo ritardare la partenza di tutti. Viene licenziato dal fratello famoso, i giochi sono finiti.

Sei mesi dopo, Matt lo chiama invitandolo a finire il film da lui, a Brooklyn. Qui il clima sembra più disteso, il cantante dei National sembra più rilassato. Si scherza di più. C’è tempo per la proiezione di parte del film – una meta-visione del film –, di capire a che punto è arrivato il fratello un po’ strano di Matt. Ci sono dei problemi tecnici durante la proiezione, le immagini scompaiono, ma il gruppo sembra colpito.

Un ritratto familiare goffo, ma incredibilmente umano e sincero, come spesso goffe sono le relazioni familiari, tra genitori e figli, molte volte tra fratelli. La stupida normalità, la routine delle cose di famiglia. Le tensioni covate per una vita che spesso rimangono dentro generando incomprensioni fanno da scenario a queste due figure che sembrano (ma lo sono, in fondo?) così distanti tra di loro pur avendo lo stesso codice genetico.

A supporto di un discorso sulla famiglia profondamente intimo, le canzoni dei National, da Boxer ad High Violet, passando per alcuni brandelli di quello che poi sarebbe stato Trouble Will Find Me. A pensarci bene, non deve essere facile avere a che fare con l’ombra di un fratello del genere.

(Mistaken For Strangers, di Tom Berninger, 2013, documentario, 80’)

“Curarsi con i libri”
di Ella Berthoud e Susan Elderkin

Interessante e ambiziosa idea quella di Ella Berthoud e Susan Elderkin – due studiose londinesi diventate l’una pittrice e l’altra scrittrice – che in un corposo volume, Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (Sellerio, 2014), hanno provato a definire un vero e proprio vademecum letterario, partendo dall’idea che con una lettura mirata di alcuni libri si possano trarre giovamenti fisici .

Se non si può dimostrare la scientificità di questo “rimedio” che, a conti fatti, possiamo definire “libro-terapia”, sono certo che risultati positivi se ne sono visti, trattandosi di un qualcosa di cui si sente parlare da un po’ di tempo e che ha scomodato numerosi studiosi di fama internazionale.

La voglia di avvicinarmi a questo libro che, per mole, può allontanare qualcuno, mi è venuta dopo la lettura di un’altra opera molto valida, questa volta di un critico italiano come Piero Dorfles, chiamata I cento libri che rendono più ricca la nostra vita (Garzanti, 2014), che, seppur indirettamente, fa un’operazione molto simile, partendo però da categorie squisitamente letterarie.

Se Dorfles parla di un’ideale biblioteca di titoli imprescindibili per la vita di un uomo, dividendola in dieci grandi temi letterari – diventando di fatto uno strumento efficacissimo per l’insegnamento e per avvicinare le persone al libro –, Ella Berthoud e Susan Elderkin fanno anche di più e segnalano una serie di opere che possono porre rimedio a specifici malanni, che siano essi fisici, psicologici o sentimentali poco importa.

Il parametro scelto è naturalmente soggettivo e in chiave appunto soggettiva ho apprezzato alcune scelte – per esempio il trittico Caino di Saramago, Il mulino sulla Floss di George Eliot e Piccole donne di Louisa May Alcott –, un po’ meno altre – come la scelta di mettere Petrolio di Pasolini per guarire dalla “furbizia”, anche se suggerito dal curatore italiano, il quale ha apportato delle modifiche all’originale.

L’ordine scelto è banalmente ma efficacemente alfabetico, si procede come all’interno di un manuale di medicina: si vola dalla A di Abbandono alla X di Xenofobia, problema che mi piacerebbe davvero si potesse risolvere con la lettura. A ogni disturbo si riferisce un numero di titoli curativi (minimo uno, massimo cinque), scelti per contrasto o per somiglianza, spaziando da capolavori più o meno acclamati della letteratura mondiale a libri meno conosciuti.

Quello che rimane leggendo questo libro è, a mio avviso, la sensazione di trovarsi di fronte a un esperimento riuscito che raggiunge l’obiettivo prefissato: rivolgersi a un pubblico vastissimo formato da lettori più o meno “forti”, bibliotecari, librai, addetti ai lavori partendo semplicemente dalla pagina scritta e dal romanzo che è forse, come ci ricorda Fabio Stassi nella nota all’edizione italiana, «il primo e più riuscito esempio di globalizzazione».

E non poteva che essere così: c’è bisogno, in tempi di crisi culturale come questi, di un’opera che sa parlare di libri con erudizione e, al tempo stesso, con intelligenza, arguzia e con una buona dose di ironia.

Era da tempo che non prendevo appunti per il solo gusto di prenderli, arrivare fino in fondo ti fa sentire meglio. Come con le migliori cure che, a ben pensare, sono quelle che ti fanno stare in pace con la mente, più che con il corpo.

(Ella Berthoud/Susan Elderkin, Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno, trad. di Roberto Serrai, Sellerio, 2014, pp. 644, euro 18)