“L’amore non si cura con la citrosodina” di Alessandra Racca

Amore come modo di esprimersi, di raccontarsi; amore come istante che dura un’eternità o forse un secondo solo. Amore bastardo, cattivo, tenero, affettuoso, curioso, malsano; amore malato. No, questo no.

L’amore non si cura con la citrosodina di Alessandra Racca (Neo, 2013) mette in disordine composto i pezzi di cuore sparsi nelle nostre vite, dà loro una logica comprensibile per chi nell’amore ci crede, per chi d’amore ha sofferto, per chi ancora ne soffre e per chi ne dovrà soffrire. Non una cura ma una piccola magia. Come quella della citrosodina che solleva dallo stomaco i pesanti effetti di una cena sostanziosa.

D’altronde, si dirà, chi non ha sofferto per amore? Eppure la realtà dimostra che nella moltitudine di esseri viventi colti da questo irrefrenabile impulso, l’impulso ad amare, quelli che somatizzano o che costruiscono mondi interi attorno a un gesto o a una persona, quelli che cercano di farli scivolare via come fossero scartoffie ma non ci riescono, be’, non sono poi così tanti.

Perché l’amore porta conseguenze a lungo, lunghissimo termine, che non si possono controllare. Le persone che ami, o quelle che hai amato, o quelle che amerai, spuntano e rispuntano fra una metro e l’altra, da una città all’altra, fra una camicia e un caffè, un ricordo e un libro. E tu non puoi farci niente. Sei destinato a ritrovartele lì, come le bomboniere inutili dei matrimoni spolverate da tua madre, quando ha tempo:


Non è gentile nemmeno di domenica
appena sveglia mi salta addosso
e domanda: Allora sei felice?
Lo ami?
Sei quello che volevi essere?
Sai chi sei?

Non ho un animo gentile mai
mentre scrivo, attaccato all’ultimo verso
soffia come un gatto.
Smettila di fare trucchetti
hai ancora qualcosa da dire,
un briciolo di onestà?
 

La poesia di Alessandra Racca nasconde una persona, un ricordo, un dolore, quindi un amore, che non si trova, che non si cura, che non si spiega. Nel farlo, però, ci svela i segreti delle nostre vite. Che sia davanti a uno specchio o davanti a una pagina di questo libro, non importa. Il continuo misurarsi dell’uomo con gli altri, col suo passato, col suo presente e col suo futuro, avviene sempre, o quasi, attraverso il sentimento dell’esperienza d’amore. Ed è inutile cercare rifugio nel fluire quotidiano degli eventi. Si ama quando non si è, si ama quando si è stanchi, quando si è fermi. Si ama nei minuti che passano quando tu non te ne accorgi, magari davanti a

un paio di scarpe vecchie – e ci si innamora –
del loro modo di assecondare il mio particolare
                                                                          camminare

 

Con carattere deciso e leggero, i testi di L’amore non si cura con la citrosodina saltellano fra le emozioni singolari di chi scrive, attraversano suoni teneri, briosi, scottanti, amari eppure mai volgari o  eccessivi; semplicemente veri.

Le pagine cambiano colore, su di esse vivono le stagioni, le città, i paesaggi; le coccole di un padre, i frammenti di vita di una madre, le serate degli amici e dei sorrisi, gli incontri, la musica; i riti del paese e le abitudini di un nonno.

Ogni cosa è al posto giusto e ogni parola resta all’interno di una bolla che non scoppia; l’amore non si cura con la citrosodina, non è un mal di stomaco, non è un fastidio. L’amore, quando si sposta da una parte all’altra del tuo corpo, spesso ti ferisce e non ti fa dormire. Meno spesso come un analgesico ti addolcisce la pena. Ma l’amore è sempre lì, per chi lo sa e non sa nasconderlo:

“L’amore è come la poesia (certe volte non si capisce)”

L’amore amore mio non si può fare in prosa l’amore
è come la poesia e noi amore mio ad un certo punto
anche se non c’era il punto

siamo andati a capo.

(Alessandra Racca, L’amore non si cura con la citrosodina, Neo, 2013, Euro 10)

“Philomena” di Stephen Frears

Irlanda 1952. Philomena Lee, rimasta incinta ancora adolescente viene mandata nel convento di Roscrea per essere rieducata, come altre ragazze accomunate da un simile destino. Il bambino le verrà strappato subito dopo il parto per essere mandato in adozione negli Stati Uniti. Dopo aver cercato suo figlio per cinquant’anni inutilmente, Philomena incontrerà Martin Sixmith, un cinico giornalista grazie al quale scoprirà la straordinaria storia del figlio, nient’affatto scontato attraverso un viaggio sorprendente ed emozionante.

Se apparentemente sembra che Philomena di Stephen Frears racconti un vecchio-nuovo dramma a sfondo materno, lo humor, l’intelligenza e l’interpretazione brillante di entrambi i protagonisti smentiscono sin dall’inizio questo pregiudizio.

Judi Dench, solitamente interprete in ruoli di donne consapevoli e di grande spessore intellettuale, interpreta attraversoPhilomena una donna del popolo, una come tutte, un’ex lavandaia di convento, una donna molto semplice, vittima di un sopruso da parte delle suore che la ospitavano. Proprio nel giorno in cui il figlio avrebbe compiuto cinquant’anni, Philomena confessa la storia del bambino segreto alla figlia, la quale entrerà casualmente in contatto con il giornalista Martin Sixsmith, interpretato dal bravissimo Steve Coogan, anche co-atuore con Jeff Pope della sceneggiatura premiata a Venezia, capace di calamitare su di sé una discreta attenzione senza mai scavalcare la protagonista.

Quella di Philomena è una fede vera e genuina: la nostra protagonista non lascerà mai alla disperazione e al rancore prendere il sopravvento, non metterà mai in luce l’aspetto negativo della semplicità ma anzi, sarà in grado di trasformarla in una virtù come una vera e propria eroina “credente” fedele e devota.

Martin e Philomena formeranno quindi una coppia insolita: lei, donna semplice e di fede, lui intellettuale medio-borghese, licenziato dalla BBC, scettico ma desideroso di una rivincita. Partendo per gli Stati Uniti alla ricerca dell’identità e della storia di Anthony, Philomena e il giornalista affronteranno insieme un viaggio geografico e sentimentale, dagli esiti tragici e romantici, costruendo tra loro un rapporto che ricorderà a tratti quello di una madre e un figlio. L’anima del film sembra risiedere proprio qui: nel confronto dapprima culturale e successivamente psicologico tra Martin e Philomena, tra l’ingenuità e l’intuito e le sovrastrutture intellettuali del giornalista, che sembra essere il vero destinatario della “morale della favola”.

Philomena concorre con ben quattro nomination all’Oscar, come miglior film, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale e miglior colonna sonora (Alexandre Desplat).

 

(Philomena, di Stephen Frears, 2013, drammatico, 98’)

 

“Tempo di imparare” di Valeria Parrella

«Senza potere accettare, figlio, ogni cosa bella ebbe il potere di ferirmi senza recupero».

In una realtà parallela la maternità assume un valore imperante nel percorso della donna non più bambina non più adolescente, il passo successivo e naturale, la gioia della compensazione tra ciò che era e ciò che sarà. Ma questo blando ideale, appunto, può esistere (e resistere) soltanto nella metafisica concezione della vita fine a se stessa, dove l’essere e l’altro mantengono lo status di unica entità anche dopo il parto.

Mettere al mondo il più fragile dei figli, però, cambia le cose, le ingigantisce, le complica. La realtà trasforma l’occasione in frustrazione, ci rende consci dei limiti, alimenta le paure più che le certezze. Ed ecco che diventare genitori, diventare madri, senza smettere di avere le esigenze di figli, è solo il primo degli ostacoli da vaso di Pandora a cui bisogna sottostare con il rischio, a lungo andare, di votarsi alla sopravvivenza più che alla felicità.

Si impara così, un passo alla volta, a rimanere in equilibrio per insegnare l’equilibrio, a valorizzare le banalità per dare un nuovo significato ai gesti quotidiani, a trovare la forza proprio dentro quella fragilità che bisognava proteggere.

«E tutto quello che era frammento dentro di me, e confusione e dubbio, mi appare intero. Ognuna di quelle spade per tutta la schiena del drago ho dovuto superare per arrivare qui. E tu sempre con me, mano piccola nella mano grande, ma chi reggendo chi non saprò mai».

Libro splendidamente intimo questo della Parrella che ricorda nello stile il rigore e l’essenzialità di Dürrenmatt, e che centralizza le illimitate articolazioni genitoriali in un unico perimetro focale: l’accettazione. Perché di accettazione si parla in Tempo di imparare (Einaudi, 2014), ovvero di riuscire a individuare il giusto compromesso tra la negazione e l’eccesso di apprensione imparando, appunto, a chiamare le cose con il proprio nome, a dire finalmente senza remore la parola “handicap” ad alta voce.

Da qui in poi la strada dovrebbe essere in discesa sempre in quella famosa realtà parallela, ma non funziona così da questa parte, perché nonostante la 104 e l’abolizione(?) delle barriere mentali e architettoniche, il mondo resta un posto non accessibile a tutti in cui si combatte quotidianamente con la burocrazia e l’indifferenza ad armi impari.

«Siamo quella disperazione che impariamo a nominare perché non vinca, siamo quelle spade attraversate. Negli occhi, liquido scorre lo stupore che ci vede qui, ognuno di noi, senza pesare il problema del figlio suo o d’altri, senza un dio che ci accomuni, né la fiducia incontaminata nella scienza. Ma soli, liquidi nel nostro liquido dubbio sappiamo che l’altro sa, capisce, comprende. E allora siccome abbiamo quaranta anni, e non ci siamo votati al sacrificio, bensì tentiamo la felicità: restiamo attoniti. Nudi attoniti a riconoscerci in un incontro che voi figli ci avete regalato, nuova possibilità, senza che neppure lo sappiate: “Ma siamo noi, i genitori dei bambini disabili? Non eravamo genitori soltanto?”».
(Valeria Parrella, Tempo di imparare, Einaudi, 2014, pp. 136, euro 17)

“Snowpiercer” di Bong Joon Ho

Presentato fuori concorso all’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, lasciando un segno deciso con il suo carico immaginario, Snowpiercer è il primo film internazionale del coreano Bong Joon Ho, già noto a critica e pubblico per The Host (2006) e Mother (2009).

In un futuro non troppo lontano – inizia tutto nel 2014 – la Terra è colpita e sconvolta da una nuova era glaciale che rende impossibile la vita sul pianeta. Ironia della sorte, o della scienza, dietro l’ondata di freddo c’è l’azione dell’uomo che, per fronteggiare il surriscaldamento ormai inarrestabile, ha disperso nell’aria il CW7, un refrigerante artificiale che ha esagerato il proprio effetto precipitando le temperature. Le poche migliaia di sopravvissuti dell’umanità vivono nel 2031 sullo Snowpiercer, un treno dalla locomotiva inarrestabile che percorre una tratta lungo tutto il globo senza mai fermarsi. Al suo interno, la società è divisa in classi: i poveri, in coda, i ricchi, in testa. Le risorse sono spartite con militaresco e matematico rigore. A ogni infrazione corrisponde una punizione. Gli ultimi sono lasciati nel caos e nella sporcizia, mentre più ci si avvicina alla locomotiva e maggiori sono i lussi e gli sprechi. Finché i poveri non si ribellano.

Ogni lotta tra uomini è lotta per la scarsità delle risorse, così in treno come in terra. L’umanità costretta in vagoni ripropone nei diciassette anni del suo viaggio i contrasti e la divisione sociale sulla base del prezzo pagato per il biglietto. L’élite del pianeta ha avuto, in sostanza, facoltà di mantenere se stessa e il proprio status pagando un prezzo più alto. Chi aveva poco si è dovuto accontentare di una sistemazione in condizioni subumane.

Va oltre la semplice fantascienza, Snowpiercer, la più grande produzione di tutti i tempi della Corea del Sud affidata alla regia di Bong Joon Ho e interpretata da un cast internazionale, con Chris Evans capo dei ribelli, John Hurt, Tilda Swinton (straordinaria), Ed Harris. Dietro la distopia dell’apocalisse di neve (la Morte bianca, come è chiamata nel fumetto francese da cui il film prende ispirazione) c’è una riflessione sulla società e sul concetto di ordine.

Rimanendo fedele allo scopo principale dell’intrattenimento e dello spettacolo, declinato in chiave oscura con i colori e le luci della fotografia di Hong Kyung-pyo e la scenografia spettacolare di Ondrei Nekvasil, Snowpiercer aggiorna la lotta di classe trasferendola dal mondo del lavoro all’equilibrio della società sopravvissuta sul treno. Il convoglio non è una semplice riproposizione in scala della vita sulla Terra, è un ecosistema in cui ogni elemento deve essere in equilibrio, per quanto esso possa essere feroce e spietato, e in cui le alterazioni non sono ammesse, pena il collasso dell’ordine. È il dogma di Wilford, il creatore dello Snowpiercer che dall’eremitico avamposto della sala di controllo gestisce le vite di tutti, capotreno e demiurgo unico contro l’ineluttabilità del gelo. C’è violenza e arbitrio nella sua gestione, ma è l’unico modo che possa garantire alla specie umana la sopravvivenza, al costo del sacrificio del singolo.

Quella che viene fuori da Snowpiercer è l’immagine di un’umanità feroce, sprovvista della solidarietà universale, ma ridotta al senso di appartenenza della classe, della condizione. L’homo homini lupus si trasferisce dal tutti contro tutti alla difesa della parte o, come nelle intenzioni di Wilford, del tutto.

Pur modificandone radicalmente la trama e gli sviluppi, Snowpiercer mantiene nella sua impostazione e nel suo immaginario l’impianto fumettistico, coniugato con un’estetica e un andamento per livelli-vagoni da videogioco. Il risultato è un susseguirsi di suggestioni potenti e incisive che coniugano, nel solco di una tradizione antica e internazionale, la fantascienza con il cinema d’autore.

 

(Snowpiercer, di Bong Joon Ho, 2013, fantascienza, 126’)

 

“La bisbetica domata”, regia di Andrej Konchalovskij

L’innegabile merito della “bisbetica” diretta da Andrej Konchalovskij è quello di trasportare lo spettatore, dal momento in cui si apre il sipario, in una dimensione surreale, approssimativamente in una Padova degli anni ’20, tra proiezioni delle architetture di De Chirico, occhiali e baffi finti di Groucho Marx, passando dai costumi che spaziano dal fez e stivali di memoria fascista, a cappelli a tuba e frac, fino agli abiti da giullare con i quali Petruccio prende in sposa Caterina.

La storia è nota a tutti, Battista Minola, ricco mercante di Padova, ha due figlie: l’indemoniata Caterina, che affetta i suoi pretendenti con una lingua tagliente come una spada, e la civettuola Bianca, tanto piena di pretendenti quanto volatile nel concedere le grazie.

Da qui “l’immortale bardo” intreccia le sue trame, con Battista che pone il veto di dare in sposa Bianca (con dote annessa) fintanto Caterina (l’ottima Mascia Musy) non trovi l’amore; con Lucenzio (il brillante Flavio Furno) figlio di un ricco mercante di Pisa che si innamora anch’esso di Bianca, e per spacciarsi per il suo tutore cede la sua identità al servo Tranio; con Petruccio (un esuberante Federico Vanni), a corto di fortune, che prende in nozze (la dote di) Caterina con relativo caratteraccio; e con la pletora di spasimanti di Bianca che con mezzi, mezzucci, offerte in denaro e le sopracitate vesti di tutori marxiani, dovranno alla fine arrendersi di fronte all’astuzia di Lucenzio.

La fusione surreale tra scenografia e recitazione raggiunge forse il punto più alto nell’incontro tra Caterina, Petruccio e il padre di Lucenzio (Vincenzo), quando, un’enorme luna (Fritz Lang non avrebbe potuto immaginarla meglio) rende ancor più surreale il gioco con cui Petruccio ammaestra Caterina in cui la Luna diventa Sole, il vecchio Vincenzo diventa una giovane fanciulla, e alla fine Caterina, vinta da una follia più grande della sua, diventa moglie devota.

Se quanto scritto finora vi è sembrato caotico è solo per sottolineare l’unico neo di questa trasposizione, frutto della collaborazione di tre teatri stabili: quelli di Genova, Napoli e Prato.

In questa cornice surreale i dialoghi di Shakespeare sembrano perdere di forza, i tempi imposti sembrano soffocare il ritmo delle battute che a volte arrivano troppo repentine o accavallate per coglierne appieno il senso, risate che restano accennate e i fili della trama che si perdono di vista per chi non conosce il testo originale.

La stessa morale dell’opera sembra smarrirsi nel monologo finale di Caterina, dove non si comprende se abbia vinto l’amore o il metodo pavloviano, se sia la follia ad aver ceduto alla devozione o se la devozione sia una nuova follia che abbia assalito Caterina.

Ironicamente si può dire che la vera “bisbetica” sia proprio la chiave di lettura di quest’opera che, come Caterina, pur non mancando di fascino non sembra essere del tutto “domata” al servizio dello spettatore.
 


La bisbetica domata di William Shakespeare
versione italiana di Masolino D’Amico
regia Andrej Konchalovskij
con Mascia Musy, Federico Vanni, Roberto Alinghieri, Peppe Bisogno, Adriano Braidotti, Vittorio Ciorcalo, Carlo Di Maio, Flavio Furno, Selene Gandini, Antonio Gargiulo, Francesco Migliaccio, Giuseppe Rispoli, Roberto Serpi, Cecilia Vecchio 

Roma, Teatro Argentina, dal 11 febbraio al 2 marzo 2014

“Giulio” di Erasmo da Rotterdam

Se aveva ragione un maestro come Eugenio Garin nel sostenere che un tema fondamentale nella riflessione di Erasmo da Rotterdam fosse quello della contrapposizione guerra-pace (il desiderio di «non vedere più la gente ammazzata, non vedere più le città bruciate, non vedere più i saccheggi, non vedere più dominate le pacifiche convivenze dai mercenari, dai soldati, non vedere più le armi»), ne consegue che l’ostilità del pensatore olandese verso il papa guerrafondaio Giulio II risulti tutt’altro che sorprendente. Al punto che Erasmo viene accreditato come l’autore di un libello satirico, lo Iulius exclusus, da poco in libreria con il titolo di Giulio, (Einaudi, 2014), nel quale il fin troppo celebre papa subisce lo smacco di un rifiuto clamoroso: San Pietro, davanti alla porta del Paradiso, gli nega l’ingresso. Ciò che ha fatto potente Giulio II (cristiano solo nominalmente) e che per lui costituisce motivo di vanto, per il custode del Paradiso è abominevole. Il fatto che si presenti armato non aiuta, anzi: la scorta di soldati che lo segue viene definita da Pietro: «un’accozzaglia della più turpe umanità».

Dopo la morte del papa, il testo ebbe a circolare anonimamente per l’Europa: Erasmo tendeva a evitare guai, ed esporsi così esplicitamente contro il capo della chiesa cattolica non conveniva a nessuno: lo spiega bene nel lungo saggio introduttivo la curatrice Silvana Seidel Menchi. Banali ragioni di prudenza, insomma, indussero Erasmo a confessare la paternità del pamphlet solo in ambienti molto ristretti.

Nel dialogo, Pietro snocciola al papa che aveva provocato le ire di Lutero, l’elenco delle sue nefandezze. Giulio II non le nega affatto, anzi, le conosce benissimo: solo che le interpreta per così dire diversamente. Lo fa ridere la nozione di cristianesimo evocata da Pietro. Lui, che ha così tanto edificato (in senso letterale) non può non considerare il cristianesimo che lo ha preceduto alla stregua di un mondo di poveracci: «Povero disgraziato», si rivolge a Pietro, «tu sei fuori del tempo! Ma ti credi sempre di vivere ai tempi di Gesù, e subito dopo, quando la chiesa era povera, piccola, cercava di imporsi con le virtù e via discorrendo. Ma dovevi venire a qualcuno dei miei trionfi! […] Che il grande Giulio sempre invitto si pieghi a un Pietro pescatore, per non dire altro, un quasi mendico, è una degradazione».

Giulio non si fece mancare nulla, è noto, e a parte il potere temporale guadagnato ed esercitato con la violenza e la corruzione, anche l’ambito della sua vita quotidiana, dall’avida e così poco austera intemperanza carnale, è segnato dall’invettiva di Pietro. Se va aggiunto che si tratta di un testo con una propria, precisa definitezza letteraria, che l’invettiva, il sarcasmo, il ribaltamento continuo dei punti di vista ne fanno un dialogo gustoso,  mentre ricostruisce la storia del testo la Seidel Menchi mostra come esso rappresenti soprattutto una chiara (“sovversiva“) presa di posizione contro la politicizzazione della Chiesa e la sua conseguente rinuncia al dettato evangelico originario. Un piccolo libro dalla fortuna laterale che aspetta di guadagnarsi quella di un classico.

(Erasmo da Rotterdam, Giulio, a cura di Silvana Seidel Menchi, Einaudi, pp. CXLIV – 176, euro 28)

“High Hopes” di Bruce Springsteen

È ancora il fantasma di Tom Joad quello che Springsteen cerca. Lo cerca perché è il fantasma di un’America che oggi più che mai ha bisogno di terra promessa e sogni in cui credere, salvo poi naufragare nel mare delle illusioni delle opportunità uguali per tutti. Forse è per questo che nella sua ultima fatica, High Hopes, l’eterno ragazzo del New Jersey piazza una versione rabbiosa di The Ghost of Tom Joad (dall’omonimo album acustico del 1995). Brano rinnovato e capace di portare a compimento un testo già conosciuto, meraviglioso, ma conferendogli i connotati di vera canzone di condanna, o di riscatto, dipende da quale punto di vista si voglia vedere l’epopea di Tom Joad e della sua famiglia alla ricerca di una terra da coltivare (sfortunati protagonisti di Furore di Steinbeck).

Una vera gemma il duetto in questione con Tom Morello. A proposito, a scanso di equivoci la voglia di Bruce Springsteen di mantenere ben saldi identità e tentativi di rinnovamento trova ulteriore conferma negli arrangiamenti del nuovo disco, la cui collaborazione sostanziosa con lo stesso Tom Morello ne è prova convincente. Oltre a ciò, rivisitazioni dall’archivio personale e cover danno l’impronta a un lavoro che si muove tra raccolta e novità. Ottima la sensazione non solo all’ascolto immediato della performance di Morello, ma è l’intero sound dei 12 pezzi che ha una forza penetrante.

Come noto, “High Hopes” è una cover degli Havalinas, e si capisce già dalla title track che nell’album verranno trattati alcuni dei temi tanto cari al cantautore americano, e per lui fonte di indubbia ispirazione da ormai più di quarant’anni: orgoglio, ingiustizie sociali, avverso destino contro cui lottare («fuori la mia finestra il mondo scorre via, è più inspiegabile che in un sogno» canta in“Just Like Would”, ripresa dai Saints). Ma la speranza è una condizione che Springsteen non toglie mai neanche ai personaggi più sofferti e apparentemente sconfitti. C’è qualcosa di più della speranza, a dire il vero, in High Hopes: vi si scorge una spiritualità meno laica di altre volte, tanto che “Heaven’s Wall” è praticamente un inno religioso, dove viene indicata una soluzione alle infinite battaglie, una via per correre sicuri («La sua misericordia non fallì»). Mentre in “This is your Sword” è «l’amore rivelato» a essere spada e scudo assieme, da portare ovunque dando «tutto l’amore che si ha nell’anima».

Un ottimismo tanto marcato (ben radicato in una fiducia che diventa fede) viene sapientemente bilanciato da tratti di malinconia quasi lacerante, prima con una “American Skin” da studio sempre travolgente («È che puoi essere ammazzato solo per aver vissuto dentro la tua pelle americana»); poi, dopo la riproposizione di Tom Joad, quando ci si ferma pensierosi ad ascoltare “The Wall”, dolce, tenera, ma così sferzante nel ricordo dei dolori del Vietnam («Non c’è più posto per le scuse e il perdono di tutti davanti al muro»).

Tanto realismo e tanta necessità di sognare in un andirivieni di sentimenti contrastanti, forse mai così oscillante. Il tutto, nonostante la varietà delle canzoni scritte in diversi momenti della carriera, non pecca di unità (gli arrangiamenti contribuiscono molto a coagulare l’insieme), con uno sbilanciamento finale a favore del sogno in “Dream Baby Dream” dei Suicide («Coraggio, piccola, dobbiamo continuare a sognare»), ma sempre con in testa il fantasma di Tom Joad.


(Bruce Springsteen, High Hopes, Columbia, 2014)

 

“Cosa vuoi fare da grande”: a tu per tu con Angelo O. Meloni

Angelo Orlando Meloni si schiera: «Se qualcuno ti dice che la matematica è divertente e la letteratura istruttiva, non ti fidare di lui». In libreria Cosa vuoi fare da grande l’ultimo suo libro realizzato con Ivan Baio. Gli autori siciliani ci catapultano nella Milano degli anni ’70, per l’esattezza nella palestra della scuola elementare Attilio Regolo, dove sta per essere presentata l’invenzione del millennio: il Futurometro. Riponete ogni desiderio o ambizione nel cassetto, il Futurometro sa già cosa il destino ha in serbo per voi. Consigliato ai genitori che vogliono il figlio medico, ai ragazzi e al Ministro dell’Istruzione.


Scrivere un libro in due non è certo un’impresa semplice. Quattro mani che approcciano un pianoforte sanno che avranno il loro spazio, dividere la tastiera del pc in quattro non mi sembra una buona soluzione. Voi come vi siete organizzati?

Io e Ivan Baio ci conosciamo da secoli, per libri, film e fumetti abbiamo spesso gli stessi gusti. Abbiamo immaginari in comune. Non nascondo che la telepatia sarebbe di grande aiuto per la scrittura a quattro mani, ma per noi scrivere Cosa vuoi fare da grande è stato più facile di quanto lo sarebbe stato per Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Maradona e Pelé o Antonio Pascale e Franco Battiato.


Cosa vuoi fare da grande è un romanzo tragicomico sulla situazione dell’istruzione italiana. Secondo te una risata ci seppellirà?

Di fronte al tronfio bestiario contemporaneo, alle sue ossessioni, alla tecnofilia, al vuoto che cerchiamo di riempire con nuovi gadget o misticismi assortiti, di fronte alla controffensiva del pensiero magico, al principio di autorità, al pedagogese, al burocratese, insomma, di fronte all’orrore, al terrore, al raccapriccio, l’unica è smontarne la prosopopea con una bella risata.


Migliori attori non protagonisti del romanzo sono il Futurometro e Ringo. Tu che rapporto hai con le macchine? Dal microonde al cellulare, ce n’è qualcuna che ti spaventa?

Mi spaventa la bomba atomica. Ce ne siamo dimenticati, ma le macchine della morte sono tutte lì e basterebbe lo psicopatico giusto al posto giusto per premere il pulsante sbagliato. E siccome gli elettori di tutto il mondo sembrano avere una certa propensione a eleggere psicopatici…


Gianni Serra e Guido Pennisi riescono a cavarsela senza utilizzare Wikipedia. Le generazioni odierne invece sembrano abusare del web. Continuiamo a preoccuparci per loro, esageriamo? I nativi digitali guardando un libro si chiederanno dove inserire le batterie?

In verità non lo so se è il caso di preoccuparsi. A me danno fastidio, invece, quegli adulti che stanno tutto il tempo a spedire messaggi. Maleducazione allo stato puro, la loro. Circa i nativi digitali, boh… forse da grandi si scopriranno appassionati di musica in vinile, chi lo sa. Predire il futuro, come scriviamo nel romanzo, è affare spinoso. Quante volte è stata annunciata la fine della letteratura? Eppure, nonostante le tonnellate di post-modern-qualcosa e tutta quell’immondizia imbellettata che compone la galassia del “chick-lit impegnato contemporaneo”, o peggio ancora nonostante la letteratura didattico-pedagogica dei miglioratori del mondo, ebbene, siamo ancora qui alla ricerca di belle storie.


Tu cosa volevi fare da grande?

L’astronauta, ça va sans dire.


(Ivan Baio/Angelo O. Meloni, Cosa vuoi fare da grande, Del Vecchio Editore, 2013, pp. 184, euro 12)

“La regina scalza” di Ildefonso Falcones

Porto di Cadice, 1748. Scalzi, sbarchiamo da una feluca insieme a Caridad, schiava di origini africane, e affrontiamo per la prima volta Siviglia e la libertà.

È attraverso i suoi occhi che viviamo le prime pagine del romanzo di Ildefonso Falcones: La regina scalza (Longanesi, 2013). Veniamo gettati, senza tanti complimenti, in una realtà di violenza, accattonaggio, contrabbando e miseria, nei pensieri e nelle sventure di una donna che ha conosciuto solo la vita da schiava, nelle piantagioni di tabacco, e non sa difendersi né osa farlo.

Il primo a provare pietà per Caridad e a soccorrerla è il capostipite gitano della famiglia Vega, l’anziano Melchor; con i suoi modi burberi ma sinceri, le salva la vita portandola in Callejòn de San Miguel, il quartiere gitano dove vive con la sua famiglia.

Qui incontriamo la seconda protagonista del romanzo, la giovane e bella Milagros Carmona, nipote di Melchor; presto Milagros e la nera “Cachita” stringeranno un’amicizia che le terrà legate, nonostante la distanza e le disgrazie, per gli anni a venire.

Milagros, cantante straordinaria e ballerina affascinante, oggetto di infatuazione e di desiderio di gitani e non, è una Vega come suo nonno e sua madre Ana, ma è innamorata di Pedro, della famiglia rivale Garcìa; il suo amore ovviamente non è consentito, a causa dei trascorsi di odio tra le famiglie, ed è questo il motivo di scontri e incomprensioni tra la giovane e la madre, e di rifiuto alle leggi non scritte legate all’onore gitano.

Falcones stravolge presto la vita dei protagonisti inserendo nel romanzo un reale, quanto tragico, evento storico: la retata del luglio 1749, che portò all’arresto e ai lavori forzati centinaia di famiglie gitane in tutta la Spagna, allo scopo di ripulire in regno da una stirpe considerata blasfema, amorale e delinquente.

Melchor, insieme alla sua Caridad, e Milagros, scamperanno alle guardie, ma non Ana e il padre di Milagros, e la famiglia Garcìa troverà quindi il momento propizio per far sposare contro il volere dei Vega i giovani innamorati. La sorte di Milagros però non sarà quella che ci si aspetta dopo una promessa d’amore: scoprirà cosa significa essere una donna bella e desiderabile in una realtà di uomini violenti e oppressivi, conoscerà abusi, umiliazioni, maltrattamenti di ogni tipo. Scalza, danzerà e canterà contro la sua volontà in uno dei più famosi teatri di Madrid, per arricchire e compiacere chi ha nelle mani la sua vita e la sua libertà.

E altrettanta violenza toccherà in sorte a Caridad e a Ana. L’epilogo di quest’opera intensa vedrà di nuovo riuniti tutti i personaggi in Callejòn de San Miguel, per un ultimo atto che lascia il lettore col fiato sospeso.

La regina scalza è un romanzo che parla di famiglia, onore, amore, violenza, disperazione. È un romanzo che parla delle donne e alle donne e di come sia possibile, pur dopo soprusi, umiliazioni, violenze, trovare la caparbietà per alzare la testa e far sentire la propria voce.

Lo stile di Falcones è volutamente semplice, pulito, in sordina rispetto agli eventi narrati: l’azione in svolgimento ha priorità sulle scelte stilistiche, e sebbene i sentimenti e i pensieri dei protagonisti siano ben delineati, azioni e dialoghi diretti hanno sempre una presa maggiore sul lettore.

La regina scalza coinvolge, emoziona, dove richiesto disgusta, e nelle ultime pagine, commuove. La forza dei suoi personaggi, non solo protagonisti, ma anche diversi comprimari, è tale da rendere autentica e potente l’immedesimazione.


(Ildefonso Falcones, La regina scalza, trad. di Roberta Bovaia e Silvia Sichel, Longanesi, 2013, pp. 704, euro 19,90)

“12 anni schiavo” di Steve McQueen

Nove candidature all’Oscar, tra cui quelle pesanti per regia e miglior film, per 12 anni schiavo, opera numero tre del già acclamato videoartista passato alla regia Steve McQueen, che dopo le proteste estreme di Hunger e la sessodipendenza di Shame torna con un racconto di schiavismo e violenza.

La storia è quella vera di Solomon Northup, violinista di colore nello stato di New York di metà ottocento, nato libero e libero in vita, con sua moglie e i suoi figli, una carriera internazionale, una casa e una reputazione da distinto signore. È una proposta di lavoro, a raggirarlo. Soldi facili promessi da due presunti impresari circensi per due settimane di tournée al loro seguito. Prima tappa Washington D.C. È lì che Solomon viene ubriacato e venduto a degli schiavisti. Senza documenti in tasca, ceduto a delle bestie che non considerano un nero un uomo, inizia i suoi dodici anni di schiavitù, costretto a mentire su e a se stesso, a non mostrarsi colto, a rinunciare alla sua umanità per sopravvivere e continuare a lottare e sognare di tornare un giorno alla vita piena e completa dell’uomo, non dello schiavo.

Gli Stati Uniti, il paese della democrazia nella comune rappresentazione, hanno un passato fin troppo recente di subumane concezioni di prevaricazione razziale, di sfruttamento e violenza basate su presunte superiorità di nascita. È il grande nervo scoperto della nazione (insieme al genocidio e alla ghettizzazione dei nativi), la macchia oscura sul paese della libertà e delle opportunità. Da circa un anno la grande industria cinematografica tenta con rinnovato vigore obamiano di espiare il peccato originale dello schiavismo portandolo in forme differenti sul grande schermo, dal biopic di Lincoln all’esplosione southern-pulp di Tarantino.

A differenza soprattutto dell’approccio politico del Lincoln di Spielberg, il britannico McQueen (che parte dalla vera biografia di Northup adattata da John Ridley) sembra interessarsi in maniera relativa al contesto storico per indagare principalmente la possibilità dell’azione umana, cercando di mostrare come si possa relativizzare la morale con l’evoluzione della civiltà e della coscienza, come il radicamento di certe convinzioni possa rendere possibile tutto e tutto giustificato. I vari strati di umanità schiavista che incontra (lo spregevole Paul Giamatti, il folle Paul Dano, il clemente Benedict Cumberbacth, il delirante Michael Fassbender, antagonista principale) sono tutti razzisti per convinzione sociale ancor prima che per convincimento personale. Il “negro” è proprietà da acquistare, nient’altro che un bene. Non c’è niente di umano nella sua sofferenza o nel suo stesso vivere. Per questo la violenza, in ogni forma, è cosa normale. Per questo diventa normale anche per gli schiavi accettare la condizione che li vuole oggetti e non soggetti e convivere con la violenza, mandare avanti la giornata intorno a un uomo appeso per il collo che tenta con la punta dei piedi di mantenere un contatto col terreno e con la vita. In questo, il protagonista Chiwetel Ejiofor (candidato assieme a Fassbender e Lupita Nyong’o) è bravissimo a rendere con la postura il passaggio dalla tranquilla sicurezza dell’uomo libero al passo incerto di chi deve sempre misurare le mosse per non ricevere punizioni.

Rispetto a Django Unchained, Salomon Northup si pone in un modo diverso nei confronti degli schiavi e degli sfruttatori. Più intelligente, colto e preparato della maggior parte delle persone che incontra, pur sforzandosi di mantenere un profilo basso, non cerca vendetta armata ma si appella alla legge, intesa sia come codice che come concetto assoluto di giustizia, attirando odio per la competenza che emana, per l’ostinazione nel voler mostrarsi uomo ed umano e non animale come lo vorrebbero. Non è solo odio razziale, è incapacità di capire che Solomon è un loro simile, un loro pari.

McQueen si concede spazi e luci alla Malick nel rappresentare la Louisiana. Lo accusano di estetizzare la violenza con gusto sadico. Si limita a mostrarla per quello che è.

 

(12 anni schiavo, di Steve McQueen, 2013, drammatico, 134’)

 

“L’analfabeta che sapeva contare” di Jonas Jonasson

Ci vuole coraggio per anticipare, nella prima pagina di un romanzo, quel che succederà quasi alla fine del libro, anche se si tratta solo di un indizio. Eppure Jonas Jonasson, nel suo L’analfabeta che sapeva contare (Bompiani, 2013), se lo può permettere, perché riuscire a indovinare, o anche soltanto intuire, come si arriva a quel punto è davvero impossibile. Certo, è già difficile immaginarsi come una ragazza di Soweto, un sobborgo di Johannesburg, possa decidere delle sorti della monarchia svedese, ma per spiegarlo, e in un certo senso giustificarlo, l’autore parte da lontano, molto lontano.

Ad animare il racconto non è però solo la ragazza sudafricana, dotata di un’intelligenza e di una sfrontatezza fuori dal comune, ma tutta una serie di altri improbabili personaggi: un fin troppo fervente sostenitore del re di Svezia che poi cambia idea, i suoi due omonimi figli gemelli di cui solo uno registrato all’anagrafe, un ingegnere tanto stupido quanto fortunato che si ritrova a dirigere il programma nucleare del Sudafrica pur non avendone minimamente le competenze, una ragazza borghese costantemente arrabbiata con tutti e tre cinesi incoscienti e anche un po’ stupide. E giusto per citare i più importanti.

Tutta la vicenda è ancora più improbabile dei personaggi che la animano, ma proprio su questo gioca l’autore. E gioca bene, perché lavorando sul filo della verosimiglianza – tutto quel che succede è improbabile, ma non impossibile – riesce a coinvolgere chi legge ben oltre quel che ci si potrebbe aspettare per un racconto così poco plausibile. Perché non c’è mai nulla di troppo in quello che si racconta, ogni dettaglio è funzionale alla storia, anche quando sembra partire un po’ per la tangente.

Per riuscirci non basta una trama coinvolgente, ma occorre anche uno stile che gli si adatti perfettamente. E Jonasson riesce a trovare un equilibrio perfetto: sempre ironico, divertente e abbastanza leggero anche quando interseca il racconto con avvenimenti storici rilevanti. Si va per piccoli passi, altrimenti non funzionerebbe nulla, mentre ogni piccolo episodio, raccontato con la più spontanea naturalezza, appare possibile seppur improbabile, costruendo infine una storia incredibile ma coerente.

Così il racconto, che a ben vedere è lungo sia se si contano le pagine sia dal punto di vista temporale, scorre velocemente senza ristagnare mai, animato da quella protagonista così particolare che con la sua intelligenza riesce a tirarsi fuori dalla più inverosimile delle situazioni, senza mai sbagliarne una. O quasi.


(Jonas Jonasson, L’analfabeta che sapeva contare, trad. di Margherita Podestà Heir, Bompiani, 2013, pp. 496, euro 19)

“Il malato immaginario ovvero Le Molière imaginaire” di Teresa Ludovico

Benvenuti alla quarta replica del Malato immaginario! Pulcinella vi saluta e vi augura una buona visione e non importa se il protagonista è un po’ stanco e fa preoccupare il suo servo-personaggio, non fa niente se la quarta replica del Malato immaginario è proprio quella in cui Molière muore soffocato dal suo stesso sangue, lo spettacolo si deve fare perché Molière e Argante – Molière è Argante! – sono malati bizzosi e non sono capaci di stare fermi e buoni.

C’è un castello di legno sul palcoscenico, una scenografia essenziale e divertente come una torta multistrato in cima alla quale la parte della ciliegina è affidata ad Argante. Il malato tossisce, sputa e conta le pozioni assunte e i clisteri somministrati, è afflitto dalla malattia della vita e dalla paura della morte, sta benissimo, ma è inguaribile. Attorno a lui, sbucando dalle botole che si aprono sulle diverse piattaforme o rotolando fuori dalla scenografia tra un piano e l’altro della stessa, gli altri personaggi della commedia imbastiscono un girotondo di cui la Ludovico esalta i tratti carnascialeschi e grotteschi.

A partire da Pulcinella, in cui viene incarnato il tributo che Molière ha sempre riconosciuto di dover pagare alla Commedia dell’Arte, tutti i personaggi sono studiati sull’impronta dei burattini. Non conversano ma esclamano, i loro visi esasperano l’espressione del sentimento, i loro stessi arti sembrano tirati da fili invisibili. Come marionette incarnano vizi e virtù che, al pari dei costumi indossati, sono neri o bianche, senza possibilità di grigio. Augusto Masiello è davvero eccellente nell’impersonare il malato petulante, ma altrettanto bravi sono Ilaria Cangialosi, Angelica, Michele Cipriani, Andrea Fazzari e Daniele Lasorsa in grado di sceneggiare un duello al rallentatore e di sostenere una recita nella recita capace di far scaturire sonore risate anche nello spettatore che non si aspetta sorprese dal testo.

Lo studio registico dietro lo spettacolo si rivela viepiù solido dal momento in cui apprendiamo dello studio dietro le scelte musicali della regista. La musica, negli spettacoli di Molière era fondamentale, storica la collaborazione con Lully e la rottura del loro rapporto in occasione della messa in scena de Il malato immaginario. La Ludovico dichiara di essersi immaginata che Nino Rota, compositore per questo Le Molière imaginaire, incontri e dialoghi con il musicista da cui è separato da tre secoli, impotenti nel dividere l’arte.

Divertente, efficace e curioso questo spettacolo è un colto divertissement, un’alternativa piacevole per lo spettatore che voglia riscoprire uno dei testi più noti di Molière, ma anche un modo semplice e intuitivo di avvicinare lo spettatore più ingenuo al teatro contemporaneo.


Il malato immaginario ovvero Le Molière imaginaire
regia, adattamento e riscrittura di Teresa Ludovico
con Augusto Masiello, Marco Manchisi, Ilaria Cangialosi, Serena Brindisi/Cristina Mileti, Paolo Summaria, Michele Cipriani e Daniele Lasorsa
musiche di Nino Rota


Prossime date
Roma – Teatro Vascello 11 – 23 febbraio 2014
Parma – Teatro delle Briciole 28 marzo 2014
Cervignano – Teatro Pasolini 31 marzo 2014