“Schulz e i Peanuts” di David Michaelis

Schulz e i Peanuts. La vita e l’arte  del creatore di Charlie Brown, Snoopy & Co. (Tunué, 2013)  è la biografia di Charles Monroe Schulz scritta da David Michaelis.

Il rapporto con il padre, Carl, barbiere e uomo retto, e con la madre, Dana, fredda con tutti coloro che non facevano parte del cerchio familiare, e sempre affettuosa nei suoi confronti. Il padre come modello di vita per il proprio lavoro. Come Carl, infatti, avrebbe fatto del proprio lavoro una questione di artigianato, di dedizione, di lucente routine. E la madre non è solo una figura fondamentale nella vita di Schulz, ma è protagonista della sua più grande tragedia: «Quella sera, prima di tornare ai suoi alloggi e firmare il rientro, Sparky si trovava nella camera da letto della madre. Lei era coricata di spalle rispetto a lui, con il viso rivolto al muro, rivolgendo la schiena alle finestre che davano sulla strada. Egli a un certo punto le disse che immaginava fosse giunto il momento per lui di andare. “Sì”, rispose Dena, “suppongo che dovremmo dirci addio”. E a quel punto, guardandolo, cambiò espressione meglio che poteva. “Bene”, soggiunse, “addio, Sparky. Probabilmente non ci rivedremo mai più”».

L’origine del soprannome “Sparky”, datogli dallo zio, in riferimento al ronzino nel fumetto Barney Google di Billy DeBeck, chiamato Spark Plug. Gli spostamenti dal Minnesota alla California. L’arruolamento in Kentucky. Una parentesi sul fumetto negli anni Venti e Trenta, in qualche modo l’anticamera di quello che poi sarebbero stai i Peanuts e il fatto che «i più amati erano quelli dai difetti più immediatamente riconoscibili»: da The Timid Soul di Harold Tucker Webster, con il leggendario e timidissimo Caspar Milquetoast («Dire che qualcuno era un Milquetoast era un modo per identificarlo, come dire che era uno Scrooge, o un Lothario, una Pollyanna, o un Amleto»),  a Krazy Cat di George Herriman, che narra le vicende di un topo, un gatto e un cane.

La moglie Joyce. L’essere padre. La fama contrapposta alla sua propensione alla riservatezza, fino alla malattia che alla fine del Novecento lo costrinse a disegnare l’ultima striscia.

Una commistione di ciò che è sé e ciò che è fuori da sé che si riflette, per esempio, nella dignitosa timidezza di Charlie Brown (da ricordare che anche entrambi hanno un padre barbiere), mischiata alla propria visione della morale e dell’etica dei suoi tempi (l’eccentrica Piperita Patti nei panni di donna emancipata, per citare un esempio).

Michaelis ha l’enorme pregio, in un tomo di quasi settecento pagine, di sviscerare a fondo la vita di uno degli autori post-bellici più importanti per la cultura occidentale, senza mai far venir meno uno degli aspetti fondamentali della forza e della grandezza dell’opera di Schulz: la sospensione del tempo (“beffare il tempo”, secondo l’autore), del non detto, azzardando quasi una traslazione del principio dell’iceberg hemingwayano, quei sette ottavi della parte sempre visibile e sempre sommersi dall’acqua che risplendono nelle sue strisce.

Tutto questo, e molto altro, è stata la vita qualunque di un uomo qualunque, come si definiva lo stesso fumettista americano, narrata da Michaelis con sapiente equilibrio.

Una biografia massimalista della vita e dell’opera di un autore minimalista, possibile erede della grande narrativa realista americana alla stregua di John Cheever e Richard Yates, testimone di come l’accezione concettuale del fumetto sia sempre stata fuorviante rispetto al suo reale impatto sulla cultura.

(David Michaelis, Schulz e i Peanuts. La vita e l’arte del creatore di Snoopy, Charlie Brown & Co., trad. di Marco Pellitteri, Tunué, 2013, pp. 708, euro 29)

“House of Cards” di Beau Willimon

House of Cards è decisamente il cavallo di battaglia di Netflix, rete di streaming di cui abbiamo parlato recentemente in occasione di Orange Is the New Black, ed è la serie che per prima l’ha consacrata come piattaforma del futuro. Sarà perché House of Cards è di per sé una serie intrigante, ma c’è da dire che è stata sicuramente una scelta intelligente da parte di Netflix quella di lanciare una storia che parla di politica e di corsa al potere, un genere che agli americani non dispiace mai ma che è in grado comunque di guadagnarsi il favore di una larga fetta di pubblico.

Il merito, senza nulla togliere agli altri protagonisti, tutti convincenti nei loro ruoli, è di un nome altisonante come Kevin Spacey, attore di grosso – oserei dire grossissimo – calibro che in House of Cards veste i panni del democratico Frank Underwood, primo supporter di Garret Walker, in corsa per il ruolo di Presidente con una promessa: quella di ripagare la fiducia di Underwood con un incarico da segretario di Stato.

Quando Walker sale al potere e nomina un altro segretario al posto di Underwood, quest’ultimo intraprende un percorso di vendetta personale nei confronti di tutti coloro che lo hanno mancato le sue aspettative.

Come nella vita di gran parte degli uomini di potere, dietro di lui operano due donne, entrambe fondamentali: da una parte la moglie Claire che si infiltra spesso negli affari politici del marito con la società no profit di cui è a capo, e dall’altra una giovane giornalista, Zoe Barnes, alla ricerca della svolta. Svolta che arriva nel momento in cui Underwood si serve di lei per attuare il suo piano tramite le pagine del Washington Herald.

House of Cards, che è la trasposizione di una miniserie omonima già andata in onda in Inghilterra, vince soprattutto grazie alle sue ambientazioni, per la maggior parte cupe e opprimenti, che rendono perfettamente l’idea delle zone d’ombra del mondo politico di Washington: grande merito va senza dubbio alla narrazione, piuttosto lineare ma con una particolarità stilistica che cattura immediatamente l’attenzione, ovvero lo sguardo in camera. L’unico a dialogare direttamente con lo spettatore rivolgendosi a lui in prima persona è Frank, incaricato di spiegare senza troppi giri di parole come funziona la sua vita e come sono davvero le persone che la popolano, al di là dei riflettori, delle interviste e delle telecamere: quando le luci si spengono, infatti, nessuno sa veramente chi sono i burattini e chi la mano che li manovra.

Questo dialogo diretto con lo spettatore aiuta a comprendere la storia in quei punti in cui la narrazione avrebbe rischiato di diventare troppo didascalica e crea un feeling con il personaggio di Underwood, uomo composto e algido che non manca però di dare fiducia a una giornalista troppo giovane e avventata e che non si fa problemi a mangiare costolette in un locale da due soldi in un angolo remoto della città.

La seconda stagione di House of Cards è appena ricominciata e l’attesa sembra essere stata ripagata; il successo ottenuto ha dato alla Netflix la conferma che la distribuzione in streaming sembra essere davvero il futuro delle serie tv.
 

“Coco Chanel. Il profumo del mistero” di Massimo Roberto Beato

Per l’anniversario dei 130 anni dalla nascita di Gabrielle Bonheur Chanel, in arte Coco, icona mondiale di uno stile fatto di classicità, semplicità e comodità, va in scena al Teatro Stanze Segrete di Roma Coco Chanel. Il profumo del mistero, biopièce della Compagnia dei Masnadieri scritta e diretta da Massimo Roberto Beato.

La vita Coco si svolge all’interno di una scenografia ispirata all’appartamento di Rue Cambon. Tra fantasia e realtà ripercorriamo le tappe principali della vita della stilista, sfioriamo il suo dolore, prendiamo atto del crescere del suo nome, ascoltiamo le note citazioni che le vengono attribuite e camminiamo con lei lungo il Secolo Breve che trascorre rapidamente scandito dalle grandi guerre e dai tre cambi d’abito realizzati dagli allievi dell’Istituto Italiano di Moda e ispirati alle creazioni originali e alla bigiotteria della Maison.

In continua alternanza, il presente e il ricordo si mescolano e si sovrappongono quando le ore dell’insonnia lasciano il posto alle ore del riposo indotto dal Sédol, ipnotico a base di morfina da cui la stilista fu per lungo tempo dipendente. Quando Chanel è presente a se stessa è una donna forte e risoluta che prende atto del proprio successo con una scrollata di spalle e un «Forse, chissà», ma quando la notte cala senza essere accompagnata dalle promesse del sonno e del riposo, una visione si sostituisce ad un’altra e uomini diversi, ma con sul viso tutti lo la stessa maschera, si presentano per essere gli interlocutori del cuore orfano di Coco.

Raccontare un personaggio notissimo non è mai un’impresa da poco perché è necessario cercare di non scadere nel didascalico e si deve mirare a esaltare il poco noto rendendo comunque il personaggio riconoscibile per i suoi tratti essenziali. In questo spettacolo, che riesce nell’impresa di esaltare le sfaccettature dell’animo della donna nascosta sotto l’algida stilista, gli abiti fanno già molto, il resto è affidato a Nicoletta La Terra che indossa con disinvoltura il viso dell’icona sfruttando una fortunata somiglianza fisica, un’eleganza naturale dei gesti e dei modi e una gestualità studiata ed evocativa.

 

 

Coco Chanel. Il profumo del mistero
Scritto e diretto da Massimo Roberto Beato
con Nicoletta La Terra, Giovanni Carta e Marco Usai

Prossime date
Roma – Teatro Stanze Segrete dal 4 febbraio al 2 marzo 2014

“L’eco delle città vuote” di Madeleine Thien

Janie ha lasciato la Cambogia poco più che bambina a causa dell’imperversare della guerra, per trasferirsi in Canada, seppellendo a Phnom Penh, sua città natale, i genitori, il fratello minore, i suoi ricordi e il suo vero nome Mei. Da qui ripartirà la sua vita: la famiglia adottiva, l’adolescenza, gli studi, l’amore e la gioia della maternità. Una circostanza inaspettata la riporta all’improvviso a tornare con la memoria a Phnom Penh, rimasta ormai quasi deserta dopo la spietata dittatura del 1975 per mano dei Khmer Rossi. Un giorno, infatti, Hiroji, collega e amico di Janie, le chiede di aiutarlo a ritrovare James, suo fratello scomparso durante la guerra. Per la protagonista sembra essere arrivato il momento di confrontarsi con il suo triste passato, e la sua apprensione si evince dalle parole che lei stessa usa per descrivere la condizione dei tanti cambogiani che hanno vissuto gli stessi orrori visti dai suoi occhi e vissuti sulla sua pelle: «Eravamo il sole al tramonto, nient’altro che la proiezione di luce sul muro».

Janie (Mei), in piena crisi esistenziale, cerca di ricostruire le tracce della sua famiglia, rivivendo la crudele realtà del regime dittatoriale, caratterizzato da fame, malattie e morte sempre in agguato. Così i brutti ricordi che ormai sembravano essere stati sepolti per sempre, ricominciano a farsi strada nella sua mente: dall’arresto del padre, alla sua deportazione insieme alla madre e al fratello in un campo di prigionia.

La protagonista sottolinea più volte come il suo infelice passato abbia lasciato profonde cicatrici che minacciano continuamente anche la tranquillità del presente: «Credevo che tutto il mio passato fosse una fantasia. Solo il presente era reale».

La Cambogia, sempre sullo sfondo di queste toccanti vicende, diventa così punto di incontro e di ritrovo dei protagonisti di un viaggio attraverso ricordi drammatici, che però aiuterà Janie a ricomporre il suo passato familiare e a ritrovare l’amore per il marito e il figlio, messo in crisi dalla sua inquieta personalità.

L’eco delle città vuote (66thand2nd, 2013) è un romanzo di personaggi sopravvissuti che sembrano rincorrersi, adoperando nomi e identità diversi da quelli originari, («a volte ci viene data una seconda, o anche una terza possibilità. Non ti devi vergognare di aver vissuto tante vite»), per sfuggire a una terra martoriata dalla terza guerra d’Indocina e a un passato che sembra non voler lasciare spazio al presente. L’eco del silenzio talvolta può essere assordante, soprattutto se a riempirlo sono le voci di ombre lontane.

Il libro conduce dentro la realtà di una terra distrutta dalle barbarie e dalla crudeltà umana, lasciando però trapelare una buona dose di speranza affinchè le cose cambino, insieme alla necessità di riaffermare che il diritto alla vita non può essere stabilito solo da un gruppo di esagitati rivoluzionari.

Allo stesso tempo la complessità del quadro narrativo riflette perfettamente il senso di smarrimento dei protagonisti; il focus si sposta continuamente su ognuno di essi nel corso dei capitoli come una lente d’ingrandimento, soffermandosi di volta in volta sulle varie sfaccettature della tragica vicenda umana presentata, lasciando però sempre a Janie la voce narrante.

Una buona prova per la scrittrice Madeleine Thien, resa possibile anche dall’utilizzo di un’ottima prosa e di un’accurata lirica.


(Madeleine Thien, L’eco delle città vuote, trad. di Caterina Barboni, 66thand2nd, 2013, pp. 240, euro 16)

La collana I Lucci di Indiana

«Letteratura pura». È questo il sottotitolo di I Lucci, la collana di Indiana Editore che prendiamo in analisi questo mese. Là dove appare più ambizioso il termine “letteratura” che l’aggettivo “pura” – di questi tempi infatti sarebbe preferibile parlare di “narrativa”, “saggistica” o “poesia” per lo meno in Italia, e se si osa vuol dire che si hanno idee ben precise.

Una collana coraggiosa, dunque, I Lucci, la cui linea da tracciare deve risultare ben chiara. La scia, anzi, visto che parliamo di lucci, pesci tra i più prelibati ma anche tra i più voraci d’acqua dolce.

L’esordio è forte e spavaldo. È il febbraio 2012 quando Indiana pubblica La dissoluzione familiare, di Enrico Macioci: uno sguardo allegorico sul terremoto dell’Aquila che unisce testi onirici, a tratti con la cupezza dell’incubo, a illustrazioni a mo’ di appunti lunghi i margini della pagina .

Seguono un interessante recupero di racconti del noto “cannibale” Matteo Galiazzo, finito per sua volontà nel dimenticatoio, raccolti nel volume Sinapsi. Opere postume di un autore ancora in vita, e il romanzo d’esordio di una giovane autrice italiana, Eleonora C. Caruso, dal titolo Comunque vada non importa.

Quando ormai la scia sembra evidente ecco un buon colpo: Mappe e leggende, una raccolta di saggi sulla letteratura del premio Pulitzer Michael Chabon, autore del noto Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (Rizzoli, 2001).

Poi il turno nuovamente di un italiano: Marco Lazzarotto con Il ministero della bellezza, a cui dopo poco si aggiungerà Paola Ronco con La luce che illumina il mondo.

Lydia Millet con Cosa sognano i morti è un altro colpo da Pulitzer, o quasi, visto che l’autrice è stata finalista del prestigioso premio nel 2010.

L’ultimo titolo in ordine cronologico è Adulterio in America Latina, del canadese Clancy Martin, dalla copertina accattivante ai limiti dell’ipnosi.


Come consiglio finale, elenchiamo di seguito tutti i titoli da noi recensiti, in modo che voi stessi possiate scegliere il “luccio” che più preferite:

Sinapsi di Matteo Galiazzo

Comunque vada non importa di Eleonora C. Caruso

Mappe e leggende di Michael Chabon

Il ministero della bellezza di Marco Lazzarotto

Dora di Lidia Yuknavitch

“Saving Mr. Banks” di John Lee Hancock

È il 1961 quando la scrittrice Pamela Travers si reca a Los Angeles per incontrare niente di meno che Walt Disney, interpretato da un sempre ottimo Tom Hanks, che vuole dare sostanza al romanzo più famoso della Travers, Mary Poppins, e farne un grande prodotto commerciale. Ne è convinto, il successo appare garantito. Il problema riguarda proprio Miss Travers restia e timorosa che il magnate hollywoodiano venga a snaturare la sua fatica letteraria. Il romanzo infatti nasconde vecchi ricordi d’infanzia e dolori mai del tutto sopiti.

Il nuovo lungometraggio del regista John Lee Hancock, Saving Mr. Banks, affronta la genesi di uno dei più grandi successi della casa cinematografica Disney. L’intento principale è proprio quello di riportare alla luce l’idea originaria di un sogno e di una fantasia che affonda con radici ben salde nel passato dell’autrice. Per Pamela Travers si tratta di un viaggio a ritroso nella propria vita, venendo così a creare una storia nella storia. Questo le darà la possibilità di rituffarsi in quella infanzia ormai lontana, alla ricerca delle origini della travagliata relazione con il padre, il Mr. Banks (Colin Farrell) protagonista del suo stesso romanzo.

Il cast scelto da John Lee Hancock è stellare e questo fa la differenza. Tom Hanks, seppur nel ruolo secondario, incarna un Walt Disney meno caricaturale di quanto ci si possa aspettare, sottolineando invece il volto umano di uno dei più grandi e controversi sognatori del mondo del cinema. La magia di Disney brilla nel fondo dei suoi occhi. Altre figure generiche ma centrali sono un convincente e forse sorprendente Colin Farrell, nei panni di Mr. Banks, mentre Paul Giamatti nel ruolo di Ralph, l’autista, offre un’esilarante ed eccellente performance. Vera e unica protagonista di Saving Mr. Banks è la scrittrice Pamela L. Travers, interpretata da una fantastica e amletica Emma Thompson. Un ruolo magistrale per una grandissima attrice del grande schermo. Emma Thompson incanta incarnando i pensieri e i timori di una donna moderna e di carattere, decisa e fredda fino alla fine. Dietro questa maschera coriacea poco alla volta trapela il travaglio di una donna che non ha mai saputo far fronte a quell’infanzia così difficile e tanto sofferta. Miss Travers è un personaggio scomodo, antipatico e orgoglioso. Emblema della società di oggi e di ieri, forse del domani, al denaro non riuscirà a dire di no. La genesi di uno dei più grandi classici della fantasia, per grandi e piccini, trova un inaspettato punto di partenza nella fragilità e nei sentimenti di una donna realmente esistita.

Aver o non aver visto Mary Poppins oggi, come ieri, può risultare un’evidente mancanza. Il non-senso del “supercalifragilistichespiralidoso” ha affascinato intere generazioni per decenni. Il mondo incantato della super bambinaia piovuta dal cielo ha accompagnato la favola della buona notte per molti di noi. Per chiunque avesse voglia di rituffarsi un po’ in quel passato che spesso tendiamo a nasconderci, Saving Mr. Banks è un buon film e vale la pena vederlo. Ovviamente le nostre attese rimangono fin troppo alte e speranzose. Tuttavia la trama è interessante e avvincente per lo sguardo che getta su tutto quel mondo che si agita dietro un grande successo hollywoodiano e che troppo spesso non ha niente a che vedere con il fantastico. Siamo consci, che proprio sul finale, il lungometraggio di John Lee Hancock manca di poco il bersaglio, perdendo la sua verve iniziale. Allo stesso modo, però, Saving Mr. Banks riesce a far divertire ed emozionare il grande pubblico, se non fosse per quel poco di zucchero che lo avrebbe reso un avvincente ed affabile prefazione a quel viaggio fantastico a cui speriamo di non dover mai dare la parola fine.

 

(Saving Mr. Banks, di John Lee Hancock, 2013, commedia, 120’)

 

“La promessa” di Silvina Ocampo

Un salutare antidoto alla sindrome da “romanzo-a-qualunque-costo”, da cui sembra afflitta inguaribilmente la nostra miope editoria casalinga, può sicuramente essere additato in questo singolare, poetico non-romanzo di Silvina Ocampo, La promessa (la Nuova frontiera, 2013). Non-romanzo, intanto, perché è l’autrice stessa a formulare dei dubbi sulla validità di una simile struttura narrativa; sicché a chi aprisse questo lieve libro, dalla grafica riposantemente spaziata e accattivante (di cui, ovviamente, va reso merito all’editore), con l’aspettativa di farsi risucchiare, poche pagine dopo l’incipit, in una vicenda di quelle “da leggere tutta d’un fiato”, o “da non poter lasciare il libro prima della fine”, come commentano di solito i recensori in sollucchero, ebbene a questo speranzoso lettore va subito detto che rischia di andare incontro a una delusione: non è qui, il fascino del libro. Che pure esiste!

Per non incorrere in equivoci, allora, bisognerà tener presente ciò che l’autrice stessa dice nelle pagine iniziali: «Come Sharazad al re Shahriyar, in un certo senso ho raccontato storie alla morte perché concedesse la vita a me a alle mie immagini»; parole che subito avvincono per la loro squisita cadenza poetica; e solo dopo, per la precisione con cui indicano il carattere dell’opera stessa: appunto, come nella tradizione novellistica orientale (ma anche Boccaccio, deve averne saputo qualcosa: apprendista, a Napoli, alla sede del banco dei Bardi, ascoltava l’incrociarsi, nelle parlate mediterranee, dei racconti in cui nulla è così reale come quando è inventato) una vicenda primaria fa da pretesto, più o meno labile, al fruttificare dei racconti, delle storie di secondo livello.

E ciò che in Boccaccio è la peste da cui è deturpata Firenze, fuggita, per non cadere in tentazione, dai dieci “onesti” giovani, nel libro della Ocampo è il mare: l’oceano, meglio, in cui il narratore (narratrice, andrebbe detto, giacché il fatto che il punto d’osservazione sul mondo sia quello di una donna – di una bambina, per la precisione – non verrà più sottaciuto, quasi in ogni pagina del libro; e ne costituirà, questo sì, uno dei fascini essenziali) immagina di precipitare, durante una noiosa crociera e, vani tutti gli sforzi di farsi notare da chi è rimasto sulla nave, occuperà il tempo sottratto all’annegamento registrando i lacerti della propria esistenza che le tornano alla mente.

Non una rigorosa struttura narrativa, dunque, un prima e un dopo e un “perciò” e un “quindi”, ma neanche uno stream of consciousness che viene consapevolmente, quasi caparbiamente evitato: ogni episodio è nettamente delimitato, con, a fargli da titolo, il nome del protagonista. E ciascun episodio è la storia di una scoperta, da parte dell’autrice: di uno squarciarsi di luce sulla assurda inspiegabilità dell’esistenza. Come prova il fatto che quasi tutte le figure, specialmente quelle femminili, presentino – delineati con sobria, incisiva puntasecca da una Ocampo non certo in vena di ghiribizzi da “prosa d’arte”, ma per ciò stesso di lapidaria nitidezza poetica – i tratti di una fisicità sgradevole, untuosa, bastantemente imbarazzante. E che la vita possa essere contemplata con questa impassibile, lenticolare asciuttezza d’occhi è, probabilmente, l’insegnamento più prezioso, più commovente, che queste lievi pagine ci lasciano, a chiusura di libro.


(Silvina Ocampo, La promessa, trad. di Francesca Lazzarato, La Nuova Frontiera, 2013, pp. 144, euro 15)

“Robespierre Revolutionary Party”: a tu per tu con Robespierre Revolutionary Party

Il suo primo EP, Robespierre Revolutionary Party, è uscito lo scorso aprile. Quattro brani per il giovane artista romano, una commistione di vecchio e nuovo cantautorato (De Gregori, Dente), dove attraverso semplici architetture si toccano zone grigie dell’essere. Gli aspetti che permeano maggiormente questo primo lavoro sono la consapevolezza e la credibilità, in particolar modo l’aspetto testuale, dove diversi strati di lettura e interpretazione (dall’abbandono, alla lontananza, alla passività) sono il mezzo per riprenderci tutto ciò che stavamo per perdere. Quattro brani che potremo ascoltare mercoledì 19 febbraio 2014 alla Flanerí Night al Contestaccio. Nel frattempo, abbiamo fatto qualche domanda a Robespierre Revolutionary Party.


Il tuo primo Ep, Robespierre Revolutionary Party, è uscito lo scorso aprile. Puoi parlarci di come è nato e cosa ti ha spinto concepirlo in questo modo?

L’EP non ha avuto una lunga gestazione, è stato piuttosto naturale. Prima di allora non avevo mai pubblicato qualcosa a mio nome, ma avevo sempre scritto canzoni. Ho deciso di pubblicarle perché, per la prima volta, sentivo di aver composto canzoni con una propria identità ed ero curioso di sapere gli altri cosa potessero pensarne.


Cosa c’è dietro la scelta del nome Robespierre Revolutionary Party?

Il cantautore è, tradizionalmente, molto più esposto rispetto a una band perché è sui testi che l’ascoltatore si focalizza. Per questo ho voluto scindere la mia vita privata dal mio essere cantautore ho ritenuto opportuno nascondermi dietro un moniker. Vorrei poter raccontare una storia avvincente sul perché ho scelto quel nome, ma l’ho dimenticata.


Cosa muove la costruzione dei tuoi testi?

Non conosco una formula esatta per scrivere una canzone e quindi lascio che il tutto avvenga in modo spontaneo. L’ispirazione per il testo può partire da una frase, da un libro o da una mia esperienza personale, ed è in questa fase che inizio a elaborarlo in contemporanea alla melodia e alla chitarra.


Le tue canzoni sono paragonabili a un cantautorato più o meno nuovo di questi anni (Dente, Alessandro Fiori, Colapesce, Dimartino). Chi sono oggi, in Italia, i punti di riferimento? Credi sia un tipo di espressione che di questi tempi possa veicolare dei messaggi universali oppure c’è una tendenza a rifugiarsi in un iper-individualismo?

Nonostante io sia legato a un cantautorato del passato, da Francesco De Gregori a Flavio Giurato, apprezzo alcuni degli artisti che hai citato. Quel che è certo è che tento di non farmi influenzare dai lavori contemporanei ai miei. Non credo che la missione di un cantautore sia quella di evangelizzare un pubblico. Personalmente tendo a voler ricercare, da ascoltatore prima che da autore, una componente intimista in questo genere musicale poiché credo che un cantautore abbia una predisposizione al raccontare la vita in modo poetico.


Una domanda che ha nelle sue risposte diverse interpretazioni e scuole di pensiero. La scelta della lingua. Molti cantanti scelgono di cantare in inglese, altri come te, scelgono l’italiano. Cosa ti spinge a scrivere nella tua lingua madre?

Hai già detto la mia risposta. Semplicemente l’italiano è la mia lingua madre. Questo mi permette di poter esprimere, nel miglior modo possibile, ciò che voglio comunicare.


Per finire una domanda classica: progetti futuri?

Registrare un nuovo disco, continuare a scrivere canzoni, fare concerti e far crescere la mia barba.

 

[IlLive] Chorde 2014: suoni tra cielo e terra

Roma chiama a raccolta una composita schiera di alchimisti sonori, cavalieri erranti, mistici e apprendisti stregoni che, armati di manipolatori sonori, occupano la chiesa evangelica metodista di via XX settembre per cinque piovose serate all’insegna della sperimentazione musicale.

Tra indagini sul linguaggio e musica pittorica, slanci prometeici e specchietti per le allodole, quest’anno Chorde, festival organizzato dal Lanificio 159, si presenta come una nebulosa magmatica a suo modo coesa e coerente: non più serate sparse ma un intero blocco interamente dedicato alla musica sperimentale e d’avanguardia. Quello proposto al pubblico è un viaggio inteso come rifiuto metodologico dello status quo, costellato diazioni artistiche il cui esito è sconosciuto e che giustificano sé stesse unicamente attraverso la non accettazione di un obiettivo condiviso.

Ma come Itaca per l’Ulisse di Kavafis, la meta, in fin dei conti, non è poi così importante. La novità forte della proposta è quella di creare un ambiente condiviso da artisti e pubblico per la fruizione di espressività musicali insolite: Chorde diventa così uno spazio musicale che si pone al di là del conosciuto, oltre le colonne d’Ercole dell’abitudine, del consueto e del quotidiano, alla ricerca di tutte quelle musiche che ancora non ci piacciono ma che sono pronte per farsi amare.

I. Unicum: gli abissi del non-linguaggio

Assemblati per una serata unica, Roy Paci (tromba), Thurston Moore (chitarra), Andy Moor (elettronica) e Yannis Kyriakides (chitarra baritona) si ritrovano ad essere Unicum, progetto di musica improvvisata che nasce e muore in una sola serata appositamente per l’inaugurazione di Chorde.

Quel che viene dato in pasto al numeroso pubblico è un banchetto pantagruelico di suoni e rumori che presto si dimostrano, come l’idea stessa, senza capo né coda. Il problema di questo sciabordio di suoni non sarebbe neanche l’assenza totale di un linguaggio, che costituirebbe già di per sé un’unità discorsiva chiara e, a suo modo, coerente. Il problema sorge in quanto i percorsi sonori proposti dai quattro musicisti non si intrecciano mai tra di loro. Sono storie che non dialogano, insiemi complessi ma a sé stanti, che non intessono relazioni né tra loro né, tanto meno, con il pubblico. Gli ostinati monologhi proposti inscenano un continuo e disarticolato cambio di registro linguistico, si sovrappongono senza integrarsi, finendo per assomigliare a un convivio di ubriachi che, all’ennesima bottiglia di buon vino rosso d’annata, s’intestardiscono ognuno nel suo discorso senza curarsi di quel che dice il compagno seduto a fianco.

Non che gli spunti non siano presenti, sia chiaro: questi, però, sembra rimangano come sospesi in aria, simili a sincere promesse non mantenute. Roy Paci si lancia in fraseggi di sapore nordico, lunghe note effettate che ricordano le sonorità oceaniche del trombettista norvegese Nills Petter Molvaer, mentre Kyriakides esibisce un rumorismo abbastanza educato, notevole nei voli solisti ma poco orientato all’inter-play. Quel che maggiormente manca all’appello è soprattutto l’elettronica di Andy Moor, che dovrebbe, in un contesto di questo tipo, operare da fattore coagulante e risulta una semplice eco lontana e senza mordente. Thurston Moore spicca tra tutti per inventiva ed originalità, proponendo il suo stile ormai solidificato basato su un’improprietà di linguaggio unica e inimitabile. Si sente, però, la mancanza del supporto della gioventù sonica alle sue spalle: Moore appare così impacciato, quasi un pesce fuor d’acqua.

Una serata nata con l’intento di essere unica finisce per difettare proprio nella sua idea originale, producendo una performance senza spessore, senza passato né futuro. Alla fine si esce con l’amaro in bocca dell’insoddisfazione, coscienti che si sia semplicemente timbrato un cartellino, applaudendo per la storia dei protagonisti, non per l’esibizione ascoltata.

II. Cloud Boat: elettro-soul di un discorso amoroso

 

 

La seconda serata di Chorde presenta il duo britannico Cloud Boat, formato da Sam Ricketts e Tom Clarke. L’esordio dello scorso anno, Book of Hours (Apollo, 2013), è uno di quei classici esempi di una musica in cui non c’è nulla di nuovo tranne la musica in questione. I Cloud Boat non inventano assolutamente nulla, ma tutto quello che fanno lo fanno incredibilmente bene, con uno stile dolce e raffinato.

La musica proposta, infatti, vive di un raro equilibrio raggiunto tra le diverse forme musicali che contribuiscono alla costruzione del discorso nella sua interezza: lo stile chitarristico è tanto semplice quanto efficace, con soluzioni sonore dilatate nello spazio e nel tempo, per certi versi vicine al post-rock dei Tortoise di Millions Now Living Will Never Die (Thrill Jockey, 1996) e TNT (Thrill Jockey, 1998) . Sono trame e tessuti pregiati, intrecciati su un’elettronica soffice e soffusa, che dipinge grandi tele di colori tenui, inframezzati da incursioni dubstep. Su tutto svettano le melodie delle voci: timbriche tipiche di un soul bianco che rimanda direttamente al canto di Mark Hollis nei primi dischi dei Talk Talk, in particolare The Colour of Spring (EMI, 1986) e Spirit of Eden (EMI, 1998).

È un cantautorato moderno da cieli grigi e mari agitati: una musica a tratti filmica, che vive di un accompagnamento umbratile, foschie elettroniche e melodie vocali che schiariscono il tutto, come un raggio di sole che filtra tra le basse nuvole inglesi. La proposta musicale, come dicevamo, non è certo rivoluzionaria né sconvolgente: ma risulta pienamente, nonché piacevolmente, compiuta in sé stessa e comunica una bellezza che colpisce l’ascoltatore per la sua immediatezza fisica. Una musica fatta di ornamenti, che accompagna, consola e concilia, che evolve rimanendo immobile: un discorso d’amore in salsa elettro-soul.

III. Hauschka: l’immaginazione al potere

Hauschka, al secolo Volker Bertlemann, porta in scena nella terza serata di Chorde la sua performance per pianoforte preparato. Con il suo volto gioviale e sereno, Hauschka interagisce volentieri con il pubblico, spiegando e soffermandosi spesso sul funzionamento delle sue molteplici diavolerie musicali.

La tecnica è semplice quanto geniale, sia negli intenti che nei risultati. Nelle mani di Hauschka, che riprende una tradizione colta che risale a Erik Satie e a John Cage, il pianoforte, strumento perfetto per antonomasia, viene perfezionato ancor di più mediante l’introduzione al suo interno di un imprecisato e variegato numero di oggetti, che modificano strutturalmente la sonorità tipica dello strumento in questione: lastre metalliche, chincaglierie assortite, collanine di legno e gusci di conchiglie, carabattole e ninnoli vari, persino palline da ping-pong che, quando sollecitate, saltano ovunque regalando sorrisi divertiti in platea. Il principe degli strumenti si fa così re, acquisendo una dimensione ritmico-percussiva tanto insolita quanto affascinante.

Il pianoforte diventa una piccola orchestrina ritmica impazzita, che svicola abile tra scherzi, giochi e dotti rimandi accademici. Come avrete capito non è certo un tradizionale concerto per pianoforte quello a cui si è assistito, bensì, come afferma lo stesso Hauschka, il tentativo di suonare la disco-music con il pianoforte. Diciamo che il risultato non sembra propriamente musica da discoteca, ma forse è molto meglio così: si assiste infatti a ottime composizioni per lo più di natura percussiva, all’interno delle quali la tipologia, la quantità e la qualità dei suoni emessi sorprendono a ogni battuta.

Una musica che lascia quindi stupiti e divertiti. Hauschka porta avanti la tradizione colta della provocazione nei riguardi dell’inviolabilità degli strumenti classici, portando al potere l’immaginazione estrosa di artisti-artigiani che inventano suoni là dove nessuno li andrebbe a cercare.

IV. Emptyset: astrattismo pittorico-musicale

Allievi virtuali del maestro Alva Noto, gli Emptyset allietano la quarta serata di Chorde, suonando tecnologie assortite davanti ad uno schermo che proietta astrattismi visuali in continua evoluzione. A dominare la scena è un’atmosfera algebrico-musicale: anche se dovrebbe essere teoricamente privo di elementi, questo insieme vuoto è invece il frutto dell’incontro di giovani talenti inglesi di stanza a Bristol con l’elettronica di marca tipicamente tedesca, densa di rumori cibernetici e inserti glitch.

Siamo chiaramente nel campo degli imitatori, senza nessuna accezione negativa ovviamente. Imitatori nel senso che si registra un approdo leggermente in ritardo a forme musicali già sperimentate e perfezionate negli anni passati dallo stesso Alva Noto, da Mark Fell e da William Basinski.

L’obiettivo è quello di rivitalizzare questa micro-elettronica con ingombrante cassa in tempi dispari, ma aggiungere qualcosa al genere è decisamente compito arduo. Gli elementi del discorso sono sempre i medesimi, assemblati con diligenza e proprietà di linguaggio. La lezione è stata bene imparata, su questo non c’è nulla da ridire: la techno è minimale, certosina, condita da rumori bianchi posizionati su loop ciclici elevati a forma d’arte.

La rivoluzione stavolta non è stata neanche tentata, né tanto meno immaginata. Ma il risultato è una convincente sonorità per ambienti cibernetici, astrattismo pittorico-musicale di una forse già passata post-modernità tecnologica.

V. Teho Teardo e Blixa Bargeld: l’ala oltranzista della tradizione

 

 

Ribellarsi è giusto: ma bisogna saperlo fare bene. Imparare a farlo è il compito di una vita. Una vita come quella di Blixa Bargeld, vecchio ribelle del terrorismo sonoro europeo che interpreta per la serata un non meno rivoluzionario personaggio di filosofo gentiluomo, teatrante d’altri tempo nel suo immancabile completo nero. Compagno di viaggio è Teho Teardo, compositore maestro degli incroci e degli incastri, che si muove con abilità tra quartetti d’archi, chitarra baritona, spunti classicheggianti e inserti elettronici.

Sembra che la stessa struttura fisica e morfologica dei due protagonisti prepari e suggerisca la perfetta simbiosi musicale raggiunta. I due si compensano e completano a vicenda. Blixa è statuario, carismatico, affascinante. Il suo è un linguaggio che risiede nella corporalità, nei gesti e nell’espressività del volto e che solo in un secondo momento si concretizza in suoni, siano essi una lingua – inglese, tedesco o italiano – , un urlo acuto o un verso gutturale. La sua è un’espressività composita e variegata come un vestito d’Arlecchino. Teardo, da parte sua, somiglia a un figurante della commedia d’arte, che muove il suo corpo senza freni né inibizioni, oscillando al tempo delle sue composizioni e quasi dirigendo le medesime con il suo stesso esserci.

Infine – si fa per dire, è ovvio – la musica. Quello presentato ufficialmente stasera in anteprima è il nuovo EP, Spring!, la cui uscita è prevista in primavera, e che conterrà due brani inediti, oltre a una cover di Caetano Veloso – una “The Empty Boat” che viene splendidamente stravolta in una bossa nova europea e stralunata – e “Soli si muore”, versione italiana del 1969 di “Crimson and Clover”.

La gran parte della serata, però, scorre sulle note dei brani dell’acclamato album dello scorso anno, Still Smiling (Specula Records, 2013). Supportati da un intero quartetto d’archi e dal violoncello di Martina Bertoni, Teardo e Bargeld mettono in scena uno spettacolo intenso, dove le emozioni si fanno tridimensionali. Le corpose pennellate d’archi trascinano e incantano, mentre il sostrato elettronico interagisce con naturalezza con gli spunti classicheggianti: tutto è in perfetto equilibrio e ruota intorno al centro gravitazionale permanente rappresentato dalla profonda voce baritona di Blixa Bargeld che riempie fisicamente la distanza con il pubblico, creando una comunanza d’intenti tra ascoltati e ascoltatori.

Quella proposta è autentica musica d’avanguardia: è l’ala oltranzista della tradizione, che si appoggia sul passato per slanciarsi nel futuro, rendendo magica l’atmosfera della chiesa e chiudendo Chorde 2014 con quel particolare senso di malinconica ma al tempo stesso ironica dolcezza che viaggia da un paio d’anni tra i cieli di Roma e Berlino.

“Monuments Men” di George Clooney

Quinta regia per George Clooney che, con l’aiuto in scrittura e produzione del sempre sodale Grent Heslov, dirige un cast di grandi nomi in Monuments Men, ricostruzione in chiave di commedia della vera storia dell’esperto di arte di Harvard George Stout.

Mentre la seconda guerra mondiale lascia bruciare i suoi ultimi fuochi europei durante l’avanzata congiunta statunitense e sovietica, lo storico d’arte Frank Stokes ottiene il permesso dal presidente, e comandante in capo, Roosvelt, di mettere su un’improbabile compagnia di professionisti non della guerra ma delle belle arti (architetti, professori, mercanti), con l’eccezione di un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco facente funzione di interprete, per aggirarsi nelle varie zone di guerra alla ricerca di monumenti e patrimoni artistici da salvare e salvaguardare dalla ritorsione nazista (l’ordine del Reich è, in caso di sconfitta, di bruciare tutto) e dall’approssimazione degli alleati, già rei di aver raso al suolo l’abbazia di Montecassino, danneggiato il Cenacolo e minacciato fin troppo Firenze e i suoi tesori.

Nel cinema di Clooney, ormai da anni cineasta totale a pieno titolo (è l’uomo ad aver ricevuto il maggior numero di nomination in differenti categorie all’Oscar: attore protagonista e non, sceneggiatore originale e non, regista e miglior film), Monuments Men si piazza più vicino alla commedia di In amore niente regole che al cinema politico di Good Night, and Good Luck o dell’ultimo Le idi di marzo. Pur confrontandosi ancora una volta con la storia, Clooney la inquadra al di fuori, almeno fino a un certo punto, di ottiche ideologiche e smaccatamente politiche concentrandosi sul fine ultimo, e messaggio di fondo, della preservazione dell’arte a ogni costo come opera dell’ingegno e della bellezza umana anche in mezzo all’orrore.

È una lezione importante, da non trascurare, in cui vibra la genuina e autentica stima per uomini di studio che misero la propria vita in pericolo per salvare la traccia su tela o marmo o tavola della possibilità dell’arte umana. Siamo, in qualche modo e con toni diversi, dalle parti di Salvate il soldato Ryan. Se nel film di Spielberg la domanda era se avesse senso mettere a rischio la vita di un gruppo di soldati per permettere all’unico fratello sopravvissuto di tornare a casa dai genitori distrutti, qui l’interrogativo diventa, e Roosvelt lo pone direttamente a Stokes/Clooney nel finale, se valga la pena o meno rischiare di morire per preservare l’unica scultura di Michelangelo, o un Vermeer. La risposta è sì, e non può essere altrimenti, perché l’arte, in ogni sua forma, ricorda che l’uomo può essere ed è più della guerra e della distruzione, ed è importante ricordarlo sempre, soprattutto in Europa e in Italia, oggi che Pompei crolla a pezzi.

L’onestà dell’intento di Clooney è indiscutibile e lodevole. Il risultato, però, non è all’altezza della volontà. Indeciso se essere commedia, film storico di guerra o dramma, Monuments Men vaga e a tratti barcolla in cerca di definizione. Sembra come se a un certo punto Clooney e Heslov si siano ricordati che va bene scherzare, ma non bisogna dimenticare che la guerra è brutta e fa anche male, che si muore e non c’è tempo di fermarsi ad ammirare la bellezza di un cavallo selvaggio, e abbiano adeguato il registro di conseguenza alla ricerca di una dignità ulteriore rispetto allo spettacolo puro.

Disperso nelle sottotrame delle missioni dei vari monument men, il film, che ha più di un’analogia nello spunto fondamentale con Il treno di John Frankenheimer (1964) e con Bastardi senza gloria per la variegata brigata e il baffo condottiero, non riesce a sviluppare una completa caratterizzazione dei personaggi, appiattendo il cast internazionale (Matt Damon, Jean Dujardin, John Goodman, Cate Blanchett, Bill Murray) in un’etica alla Indiana Jones («Questo pezzo dovrebbe stare in un museo») contrapposta all’appetito totalitaristico nazista, che avrebbe voluto l’arte per sé per celebrarla nell’ipotizzato museo hitleriano, e nel dubbio anche sovietico, che già diventa minaccia per i monuments men prima della cortina di ferro e della Guerra fredda, scivolando in eccessi di patriottismo ed eccessiva retorica a stelle e strisce.

Dopo aver in passato dimostrato una dimensione autoriale consapevole e globale, qui Clooney si limita a un cinema di puro intrattenimento in cui la riflessione e il sottotesto passano in secondo piano. Abbassa il tiro e, paradossalmente, sbaglia la mira.

 

(Monuments Men, di George Clooney, 2014, commedia, 118’)

 

“On the road with Bob Dylan” di Larry Sloman

A volte si dice che per entrare nel mito un artista deve compiere almeno un gesto che rimane impresso, in maniera indelebile, nel cuore e nella testa delle persone. Altre volte, ma succede raramente, i gesti di quell’artista si ripetono, si modificano, si realizzano come in un moto continuo e instancabile.

Questo è il caso per esempio di Robert Zimmerman, alias Bob Dylan, cantautore capace di plasmarsi al tempo e allo spazio, lasciando i segni del proprio passaggio in un arco temporale che ricopre la seconda metà del Novecento e arriva ai nostri giorni.

Ma in quella storia incredibile di musica, di ballate folk e di protesta, di rock puro e influenze, di collaborazioni, di poesia e letteratura, di nobel sfiorati, c’è un evento che rende eterna la leggenda dell’autore di “Blowing in the Wind”, “Hurricane”, “Just like a Woman”, “Like a Rolling Stone”.

Si tratta naturalmente del Rolling Thunder Revue, una tournée considerata una tra le pietre miliari della storia della musica.

A raccontarci questo “viaggio” ci ha pensato Larry “Ratso” Sloman, allora giovane inviato di Rolling Stone e il cui soprannome gli venne affibbiato da Joan Baez.

Il libro in questione, On the road with Bob Dylan (minimum fax, 2013), uscito in Italia l’autunno scorso, riesce a ricreare le atmosfere del tempo, facendoci sentire parte di quel meraviglioso e incredibile tour.

Un ottimo testo, sicuramente uno dei migliori usciti sulla figura Bob Dylan la cui bibliografia non è, ahimè, sempre all’altezza, che ci prende per mano e ci fa tornare indietro in quel 1975, che chissà in quanti avrebbero pensato sarebbe diventato un momento di svolta della musica rock e del concetto stesso di musica dal vivo.

Il periodo del tour è quello di dischi incredibili, quali Blood on the Tracks e Desire, delle sperimentazioni che avrebbero portato il grande Bob alla mistura perfetta tra più generi musicali.

I toni più graffianti e una maggiore attenzione a tutti quegli elementi fondamentali per la musica moderna si abbracciavano, sempre di più, a una poesia altissima, un lirismo al tempo interiore ed esteriore, profondamente americano e totalmente internazionale.

Sloman, che ha avuto la fortuna di essere attore partecipante di quel grande passaggio dell’opera dylaniana, riesce a fuggire dal reportage nudo e crudo per creare un’opera ambiziosa e completa. Così l’attenzione si focalizza su quella squadra di “fenomeni” messa assieme da Bob Dylan: Joan Baez, Eric Clapton, Joni Mitchell, Arlo Guthrie, Ramblin’ Jack Elliott, il poeta Allen Ginsberg (il cui “Urlo” stava già scuotendo le coscienze di tutti gli americani) solo per citarne alcuni.

Tutto appare come un catalogo: interviste, chiacchierate tra amici, litigi, ricordi (come la scena commoventi della visita alla tomba di Kerouac).

Nessuno come Sloman può raccontare il “viaggio” iniziato a Plymouth e culminato nello spettacolo di beneficenza al Madison Square Garden (The Night of the Hurricane) e nessuno come Bob Dylan può, dall’alto dei suoi settanta anni e passa, ergersi a simbolo di un’erranza musicale che per lui non vuole cessare neanche oggi.

Un sogno che da quel lontano 1975 ci accompagna, ci scuote e ci riconcilia con quella bellezza profetica tanto agognata.


(Larry Sloman, On the road with Bob Dylan, trad. di Chiara Baffa, minimum fax, 2013, pp. 552, euro 18)

“Adelante” di Silvia Noli

«Il punto è che quando uno cerca lavoro, tante volte dovrebbe aver paura di trovarlo».

Assunta dalla Nebraska Surgelati senza sapere niente di pesce, né tantomeno di surgelati; occupata dietro al bancone di un bar di un Autogrill pur non avendo mai toccato una macchina da caffè; venditrice di prodotti turistici per la Godda Vacanze senza uno stipendio fisso in un villaggio turistico presentato come il paradiso ma molto più simile al purgatorio; cameriera ai piani in una splendida villa di Portofino dove capita che i ricchi ospiti smezzino la cocaina con il coltello del pesce; segretaria inesperta presso il reparto di Microbiologia in una palazzina situata all’interno del parco di un ospedale; massaggiatrice improvvisata in un centro relax dove uomini facoltosi dall’aria distinta chiedono l’happy ending.

Ricominciare da capo. Sempre, ogni volta. Andare avanti sperando che il domani sia meglio dell’oggi, nel lavoro come nell’amore, perché lei confida fortemente nel futuro. Quale giovane non lo farebbe? E quindi cambiare amici e case. Ma anche uomini. Prima Serge, poi Lucas, Riccardo e Rossano, cercando un equilibrio che non riesce mai a raggiungere.

Del resto il padre, un individuo collerico e privo di tatto, il giorno del diciottesimo compleanno l’aveva avvertita: «E ora sono cazzi tuoi. Io il mio dovere l’ho fatto. Mangiare hai mangiato, studiare hai studiato e inoltre non sei rimasta incinta. D’ora in avanti se vuoi drogarti è una tua responsabilità, se ti mettono incinta è una tua responsabilità e se fai qualche casino è te che verranno a cercare».

Responsabilità è una parola che mette ansia. Tutto dipende da te. Avere successo, costruire qualcosa, fallire. La responsabilità ti mette pressione. E la pressione non aiuta. Se non sei forte abbastanza, se non hai un equilibrio interiore rischi il tracollo.

Così, la protagonista di Adelante (Fazi Editore, 2014), romanzo d’esordio di Silvia Noli, corre, da un lavoro a un altro, da un ragazzo all’altro, da una casa all’altra ma in realtà non sa dove andare e quindi va sempre avanti. Apparentemente con grande leggerezza che potrebbe perfino sembrare, in un primo momento, superficialità. E invece no. Non è superficialità. È paura. Quella stessa paura che blocca molte persone. Che non fa fare loro ciò che desiderano, che non permette loro di amare e che le fa arrabattare e sopravvivere (invece di vivere).

Questo primo romanzo della giovane scrittrice genovese, intriso di grande umorismo ma anche, al tempo stesso, di pagine molto toccanti, riesce a offrirci un ritratto realistico della nostra epoca. Un tempo d’incertezze e di precarietà. Nel lavoro come nelle relazioni umane.

La bravura della Noli, definita dallo scrittore Riccardo Gazzaniga «l’Amelie Nothomb italiana», è di aver saputo affrontare aspetti così delicati dell’esistenza con grande leggerezza. Aprendo il suo profilo Twitter si legge: «Segretaria allo sportello, scrittrice esordiente, mamma single traslocante». E già si capisce quanto di Silvia ci sia in questa storia.


(Silvia Noli, Adelante, Fazi Editore, 2014, pp. 272, euro 14)