“Personaggi precari” di Vanni Santoni

Dopo film, libri, spettacoli, canzoni, saggi, disquisizioni dotte e lezioni di economia sul precariato, il tratto dominante di questo nuovo millennio ecco che si chiude il cerchio: non solo storie di precariato, ma Personaggi precari, l’ultima pubblicazione di Vanni Santoni (Voland, 2013).

Ad aprire questo libro la prima impressione è di confusione. Quasi non c’è testo, sembra un copione teatrale, sembrano citazioni, sembrano commenti estratti da un blog. La lettura della prefazione è fondamentale e da lì si scopre che quello di Personaggi precari è un esperimento che Vanni Santoni porta avanti, con grande fortuna, dal 2004 e che le prime impressioni non potevano essere più sbagliate.

«I personaggi offerti da Personaggi precari», leggiamo, «sono disposti ad apparire indifferentemente in commedie, racconti, cortometraggi e lungometraggi, giochi di ruolo, serial tv, atti teatrali tradizionali e sperimentali, cartoni animati, romanzi, fumetti, trasmissioni radio e telefilm. […] I personaggi offerti da Personaggi precari sono pienamente consapevoli della propria condizione di soggetti flessibili, atipici, interinali, sostanzialmente precari, e perciò non opporranno alcuna obiezione di utilizzo pur di lavorare».

Poche righe ed ecco quindi che emerge il senso che, sulle prime, era impossibile cogliere. Aprire questo libretto diventa l’equivalente dell’essere dei supereroi in grado di entrare in una stanza piena di gente e cogliere, in un istante, un fatto, un aneddoto, un tratto caratteriale, un dettaglio in grado di inquadrare la persona, di situarla e descriverla nella sua essenza.

L’effetto di questo esperimento è un gradevole straniamento. Il lettore, che si aspettava una lettura leggera e scorrevole, si scopre a dover impegnare attenzione e concentrazione per poter cogliere tutti i dettagli, detti e non detti, che l’autore concentra in poche righe con la forza di un raggio laser.

Eppure, dopo aver voltato l’ultima pagine, oltre al ricordo affilato di alcuni personaggi resta un interrogativo: sentivamo davvero il bisogno anche di “personaggi” precari?

Come alla fine di un contratto a tempo determinato ci sentiamo, infatti, un po’ orfani: di noi il personaggio non ha avuto niente, non si è fatto in tempo a “formarlo” con la nostra passione di lettori, di investirlo di significati, e anche noi non ne abbiamo tratto niente perché, per quanto essenziale, il carattere che cogliamo rimane, necessariamente, monco e parziale. In un mondo instabile forse abbiamo bisogno ancora che la narrativa ci dia qualche sicurezza.

(Vanni Santoni, Personaggi precari, Voland, 2013, pp. 157, euro 13)

“Don Jon” di Joseph Gordon-Levitt

Per il suo esordio da regista, Joseph Gordon-Levitt (dal 2010 a oggi apparso in otto film tra cui Lincoln e l’ultimo Batman) decide di confrontarsi con una materia insolita per i canoni hollywoodiani, la dipendenza da pornografia, inserendola in uno dei registri classici del cinema come la commedia sentimentale.

Jon Martello Jr. ha una vita che lo soddisfa basata su una serie di certezze: il suo appartamento, la sua macchina, il suo corpo, la sua famiglia, la messa della domenica, i suoi amici e le sue ragazze. Un sistema di valori rigidamente piantato nelle sue convinzioni e nelle sue abitudini su cui predomina un solo momento di concentrazione ed estasi individuale. Il momento del porno. Perché Jon è fissato con la pornografia online. È un rituale che si concede ogni giorno, più volte al giorno, secondo un codice che si è preoccupato di stabilire e perfezionare nel tempo. Non c’è niente che gli dia la stessa soddisfazione del rito masturbatorio, neanche il sesso con le infinite conquiste nei locali che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di Don Jon. Nelle donne cerca invano quel brivido di smarrimento che trova davanti allo schermo del computer. Pensa di trovarlo in Barbara, ragazza di avvenente bellezza che gli resiste inizialmente per condurlo poi sulla strada del cambiamento, diventando il centro di tutte le sue abitudini. Ma non del porno.

Il contrasto tra sentimentalismo e pornografia funziona e l’esordio di Gordon-Levitt si fa notare per la capacità di inserirsi, anche con un linguaggio registico innovativo, nel filone delle commedie senza timore di essere originale. Il suo Don Jon, da lui stesso interpretato, è un anti-eroe di pratico e semplice egoismo, autoriferito come il suo passatempo preferito e fermo a un’immagine di superficie che si collega all’idea di consumo cannibale che l’immaginario pornografico messo a disposizione dalla rete applica alla sfera sessuale. La sua vita è scandita da cicli precisi di routine, che la regia si preoccupa di sottolineare con indovinate sequenze ripetute in ogni identico dettaglio, che non prevedono deviazioni. Rigidamente cattolico, Jon conosce il peccato, ma anche la confessione, che si concede ogni settimana con un prete invisibile che gli assegna penitenze da vivere come punteggi, senza sviluppare la colpa dal perdono.

A Gordon-Levitt non interessa soffermarsi sulla dimensione della mania del suo Jon quanto piuttosto evidenziare il tessuto di solitudine che veste il suo personaggio e l’immagine irreale che certe proiezioni falsate – il porno per Jon, il romanticismo a tutti i costi per Barbara – riescono a creare della dimensione relazionale.

Non è un film sulla pornografia o sulla dipendenza, come il superfluo sottotitolo italiano vorrebbe far intendere, che l’iperesposizione ai contenuti illimitati di internet può portare, ma un romanzo di formazione sentimentale e sessuale. Jon cresce con l’evoluzione del film passando dalla dimensione onanistica che lo contraddistingue a ogni livello, che lo porta a essere isolato, incapace di comunicare realmente con gli amici o la famiglia, a una dimensione sociale di scambio e reciprocità con gli altri. Centrale al riguardo è l’incontro con Eshter, donna sola e carica di lutto, più grande di lui, che saprà confrontarsi con il suo vizio senza pregiudizio aiutandolo a superarlo.

Se Scarlett Johansson, nei panni molto aderenti della trucida Barbara, incarna un altro tipo di superficie sentimentale, più attenta all’immagine pubblica che al vero senso del sentimento, solo la Eshter di Julianne Moore sembra in grado, tra i personaggi rappresentati, di intendere il senso della condivisione nella sua interezza.

Accanto agli interpreti principali, divertenti apparizioni di Channing Tatum, Anne Hathaway e Cuba Gooding Jr. nei film che Jon e Barbara vanno a vedere al cinema.

 

(Don Jon – A ciascuno la sua dipendenza, di Jospeh Gordon-Levitt, 2013, commedia 90’)

 

“Lezioni d’amore”, a cura di Ginevra Bompiani e David Riondino

Siamo più di sette miliardi di individui su questo pianeta e si potrebbe dire che altrettanti siano i modi esistenti di concepire e vivere l’amore. Dovrebbe essere ormai indubbio che è inutile cadere nella tentazione di ingabbiare in una definizione assiomatica un sentimento talmente complesso, mutevole e soggettivo. Eppure è l’eterna storia dell’essere umano trovare modi e mezzi, più o meno vari o inconsueti a seconda del momento e delle circostanze, per capirne di più su ciò che al di sopra di ogni cosa attrae e fa paura, quell’inevitabile «desiderio fortissimo di formare relazioni affettive e di non esserne vincolati» allo stesso tempo.

Avere tra le mani Lezioni d’amore (Nottetempo, 2013) significa avere la possibilità di assistere in un’unica volta a dieci incontri con dieci scrittori che in un teatro di Roma hanno parlato e dibattuto d’amore con il pubblico presente alla loro lezione. Dieci sono anche le diverse prospettive da cui si è guardato a questo composito sentimento e alle sue più comuni e coinvolgenti sfaccettature.

Desiderio, passione, amore platonico, gelosia, disamore, seduzione, tradimento sono alcune delle declinazioni della parola più ovvia e impegnativa che tutti conosciamo e che hanno provato a interpretare o raccontare in base alla propria esperienza Sandro Veronesi, Concita De Gregorio, Barbara Alberti, Luciana Castellina, Vittorio Lingiardi, Giuseppina Torregrossa, Gabriella Caramore, Gianrico Carofiglio, Franca Valeri e Alfonso Berardinelli. Come spiega nell’introduzione Ginevra Bompiani, curatrice delle lezioni insieme a David Riondino, il risultato di questi dieci incontri che si sono svolti nell’autunno del 2012 è stato un dialogo ricco, brillante e anche spiritoso tra pubblico e relatori, catturato e riportato successivamente nelle pagine di questo libro.

Molto interessante, inoltre, l’idea evidenziata dalla stessa curatrice di un nuovo modo di fare editoria, un’editoria che Riondino definisce «on stage», risultato diretto di un momento di partecipazione collettiva a un dialogo, una riflessione e non un semplice prodotto consegnato nelle mani di un destinatario mai coinvolto nella discussione.

Non spaventatevi, dunque. Lezioni d’amore non è il solito manuale di auto-aiuto o auto-flagellazione per curare le proprie pene d’amore o prepararsi al matrimonio perfetto. È piuttosto l’occasione per capire che cosa implica vivere questo sentimento prendendo spunto dai diversi punti di vista degli scrittori che sono intervenuti, ciascuno con la propria interpretazione o visione critica, di sicuro mai banale o scontata. Leggendo questi testi capiterà anche di considerare alcuni aspetti dell’amore in un modo nuovo o inaspettato. Mi riferisco, per esempio, all’idea e all’originale definizione di disamore suggerita da Concita De Gregorio, allo sguardo intelligente e ironico di Franca Valeri nel parlare di tradimento o, ancora, alla scelta di Luciana Castellina di occuparsi della passione amorosa citando, per cominciare, un’enciclica di Papa Ratzinger.

Insomma, per quanto impossibile sia capire «di cosa parliamo quando parliamo d’amore», qualche lezione sul tema può essere utile a tutti, ancor più quando l’ascolto delle opinioni altrui risulta piacevole e al di fuori dai soliti schemi. Romantici, cinici, illusi e disillusi si facciano avanti, c’è per tutti un assaggio. Poi, si sa, l’unico modo per capirne davvero qualcosa è caderne vittima, tenendo sempre a mente che si tratta della più bella illusione di questa nostra vita.

(AA.VV., Lezioni d’amore, a cura di Ginevra Bompiani e David Riondino, Nottetempo, 2013, pp. 268, euro 16)

“Mio salmone domestico” di Emmanuela Carbé

Il primo approccio a Mio salmone domestico di Emmanuela Carbé (Laterza, 2013) lascia un po’ sconcertati, quasi infastiditi: cos’è questa lingua così antiestetica, sconclusionata e spesso addirittura sgrammaticata? Perché l’autrice non usa gli articoli e si esprime quasi come un bambino? Eppure basta proseguire un poco nella lettura per rendersi conto che Emmanuela Carbé non avrebbe potuto scriverlo meglio, perché solo con questo stile espressionistico si può rendere fedelmente quella confusione e quello smarrimento che si prova nel momento in cui si arriva alla conclusione del cammino prestabilito che caratterizza gli anni fino alla laurea.

Perché dopo questo percorso definito, almeno nelle sue linee più generali, occorre uscire allo scoperto, entrare nel mondo, esporsi alle difficoltà senza che nessuno più ti sappia dire come muoverti e cosa fare. Allora forse conviene chiudere il mondo fuori, sia fisicamente, rimanendo dentro una palla di vetro come fa il pesce rosso delle tavole che chiudono il volume, sia mentalmente, osservando quel che succede in modo passivo come invece preferisce l’anonima protagonista accompagnata dal suo salmone domestico.

Il racconto si svolge quindi in un mondo fatto di sagome di carta inventate dal salmone, a rappresentare pezzi di vita ricostruiti piuttosto che realmente vissuti, in compagnia di amici che sono significativamente indicati con un nome che ne descrive soltanto la specie. E la protagonista osserva quel che accade in un continuo dialogo con il suo alter ego, quel salmone domestico, Crodo, piombato improvvisamente nella sua vita e che incarna forse il suo lato più cinico e spietato, ma che alla fine è anche il suo lato più fragile.

In fondo si tratta di un diario. La protagonista utilizza il suo salmone domestico per raccontare quel che le succede, è la metafora di se stessa, come ammette a metà racconto: è Crodo che va dallo psicanalista, che si laurea, che crea le sagome e che ha una tormentata storia d’amore con una medusa. Tutto questo però viene descritto da un punto di vista unico e particolare, che all’apparenza dà l’impressione di non aver capito nulla di ciò che accade, che si sta guardando solo alla superficie senza cogliere il vero significato delle cose.

E invece sta proprio in questo la peculiarità di Mio salmone domestico, perché la protagonista capisce e vede più a fondo, ma rimane fuori, e studia, e analizza. Ha paura di vivere, si immobilizza, inganna se stessa fingendo di vivere mentre rimane ferma. Per questo le occorre il suo salmone, perché possa nuovamente ingannarsi e addossare a qualcun altro paure e smarrimento, come tutti.

(Emmanuela Carbé, Mio salmone domestico. Manuale per la costruzione del mondo, completo di tavole per esercitazioni a casa, Laterza, 2013, pp. 160, euro 12)

“Reflektor” degli Arcade Fire

Prima di tutto: rispetto. A prescindere che il disco vi piaccia oppure no. Per che cosa? Direte voi. Per aver voluto rischiare. Per aver scelto di cambiare, di non adagiarsi sugli allori, per aver tirato al massimo l’arco della creatività. Per aver voluto evitare l’ennesimo disco con il marchio di fabbrica ben impresso sopra. Ovvio, non basta solo questo per meritarsi il rispetto musicale, ma gli Arcade Fire fortunatamente ci permettono questo e altro.

Con The Suburbs gli Arcade Fire hanno definitivamente rotto i legami più stretti e le convenzioni del giro indipendente, diventando una band famosa a livello planetario e pluripremiata. Questo ha portato – ma è vecchia storia – alle solite polemiche sul fatto di essersi venduti e l’aver rinunciato alla crescita artistica. Arrivati a questo livello, cosa hanno scelto di fare i canadesi?

Di andare ad Haiti e sfornare un doppio disco pieno di ritmo e vita chiamato Reflektor.

Avviso preliminare: se volevate gli Arcade Fire di Funeral e Neon Bible, lasciate stare. Se le tracce di Suburbs vi avevano ammaliato, idem. In Reflektor gli Arcade Fire suonano come se non fossero loro (infatti nei live di anticipazione all’album si fanno chiamare The Reflektors), ma un altro gruppo che è arrivato al punto di potersi permettere di reinventare se stessi e la propria musica, fregandosene di tutti. Con un pre-marketing promozionale davvero unico, fatto di graffiti e murales sparsi per i muri del mondo.

Non c’è nessun cambiamento a livello di band, solo un cambio in cabina di regia – James Murphy – e un prologo in cui Win Butler e la moglie Régine Chassagne, per ricaricare le batterie decidono di soggiornare per un po’ ad Haiti, città natale di Régine. L’anima del luogo li avvolge e li contagia talmente tanto che le basi tribali, la vocazione al ritmo e a lunghi momenti strumentali domineranno. Il risultato all’inizio è spiazzante e per essere assimilato richiede un paio di ascolti attenti. Poi – quando ti accorgerai di essere stato avvolto completamente – capirai che Reflektor è l’azzardo più grande degli Arcade Fire e il loro ennesimo grande album.

Come ogni doppio, ci sono dei momenti superflui: era necessario iniziare con “Hidden Track”, ovvero dieci minuti di rumori e reverse? Fortunatamente c’è “Reflektor”, primo singolo dal video bellissimo diretto da Anton Corbijn: sette minuti pieni e densi di tutte le atmosfere e le scelte strumentali che popoleranno l’album. Le voci dei coniugi si mischiano tra inglese e francese su un andamento molto Disco anni ’80. E che dire del basso di “We Exist” – già secondo estratto – che ricorda non poco il groove di “Daddy Cool”? Poi arrivano i cori della popolazione e l’aria della festa, e la batteria e la chitarra si scatenano in “Here Comes the Night Time”, tra i pezzi più possenti e ipnotici. A proposito di chitarre che si scatenano, bellissima la distorsione che accompagna “Normal Person”. L’altro lato di Reflektor, ancora più folle e variegato, è aperto dal ritornello ripetuto a mo’ di rituale di “Here Comes the Night Time II”. Qui si mischiano brani che vanno dal distico mitologicotribale – “Awful Sound (Oh Eurydice)” e It’s Never Over (Oh Orpheus)” – alla più esplicita “Porno” e alla sciamanica “Afterlife”, chiudendo con i dieci minuti di “Supersymmetry”.

Reflketor è un album che divide (e in un contesto di piattume come quello attuale, già questo è un pregio): lo si può amare o odiare, ma non per la qualità dei pezzi (inattaccabile), più che altro per non aver condiviso la scelta del gruppo. Rimane il fatto che chi lo sta amando – fortunatamente la stragrande e lungimirante maggioranza – ha già consumato il vinile, nell’attesa che la notte arrivi. E con lei, la festa dell’anima.


(Arcade Fire, Reflektor, Merge/ Mercury, 2013)

 

“Ombrello” di Will Self

Will Self non crede che Ombrello (ISBN, 2013) sia un romanzo joyciano in senso stretto. Accennare al postmodernismo joyciano è un modo per aiutare i critici a comprendere Ombrello:una sfera di voci narrative accavallate, giocate con pazienza e lirismo, eros e citazioni musicali, senza rinunciare a esperimenti linguistici sulla possibilità di esprimere ciò che i personaggi pensano e non dicono e ciò che potrebbe dire di loro un ipotetico narratore.

Lo psichiatra Zack Busner, arrivato nel 1971 al Friern Hospital, manicomio alla periferia di Londra, ha in cura una paziente molto particolare, Audrey Death, nata nel 1890, affetta da encefalite letargica, persa secondo il medico in una follia densa e fluida. Grazie al L-DOPA, la paziente si risveglia e racconta di esser stata una giovane suffragetta nella Londra agli inizi del secolo: «Evoca nella mente di Audrey una visione della città in cui tutto è collegato da correnti di energia invisibile: i cavi telegrafici che fanno scorrere lettere e cifre, l’elettricità che sfreccia nei manicotti di guttaperca».Cosa sia reale e cosa sia ricordo è uno dei temi che muovono la narrazione: quando inizino i rapporti fra i personaggi è molto arbitrario e tentare di spiegare i raccordi emotivi di questo libro sarebbe violarne l’equilibrio. Busner raccoglie materiale su Audrey dando vita a una marea di ricordi, con lo sguardo vivo, commosso verso i suoi pazienti, un’eco che Self ha scelto dal classico della letteratura psichiatrica Risvegli di Oliver Sacks. Self si lascia prendere dall’idea di analizzare in maniera molto dettagliata i disturbi dei pazienti: li scuote dal profondo, li anima di parole e di visioni, intrecciando la claustrofobia del manicomio con la guerra in trincea di Stanley fino alla vecchiaia di Zack Busner in un libro-universo ben riuscito.

La limpida consapevolezza di Will Self di aver avuto problemi mentali non dovrebbe allontanare il lettore dal leggere ancor più a fondo questo romanzo, forse come un rovescio abbastanza palese della sofferenza dello scrittore, che spiega quanto Zack Busner sia il risultato di una serie di personaggi, influenzati dal dottor Benway, del Pasto nudo di William Burroughs, «un gerofante, un sommo sacerdote scismatico della religione della sanità mentale e del suo credo farmacologico» evolutosi fino a incorporare i tratti narrativi dei vari terapeuti che Will Self ha frequentato. Se nei suoi primi testi la figura dello psichiatra aveva un risvolto satirico, in Ombrello, Self è riuscito a confrontarsi con i pensieri più profondi del medico, penetrando nella sua vita interiore, rivoltando completamente la satira verso i medici dell’anima: «Ho trovato questo fatto molto commovente: finalmente ho fatto la conoscenza di una persona che frequentavo superficialmente da vent’anni».

Self cerca un intrattenimento che solleva i personaggi da vicissitudini che non hanno scelto e fa sorridere di un gioco più serio, i rapporti umani fra un padre e due figli, Stanley e Albert, con un finale struggente: le chiacchiere sulle delicate e amabili illusioni degli anni Settanta circondano l’ostinatezza del medico nel salvare la vecchia Audrey. Nello sguardo di Self c’è una sottile patina di intrattenimento, non senza una coriacea volontà di esprimere un vero tarlo che anima il personaggio di Busner che verso Audrey ha un rapporto di attaccamento quasi patologico finché non comprenderà che salvare la paziente sarebbe stata un’impresa impossibile con le conoscenze tecniche di cui disponeva in passato. E la sua morte diventa così un evento straordinariamente naturale.

Ombrello ha dentro di sé un atto di rivisitazione delle ossessioni che Will Self ha conosciuto e un urlo ventriloquo verso le angustie della mente umana, nei suoi recessi e proiezioni.


(Will Self, Ombrello, trad. di G. Cenciarelli, A. Lombardi Bom e D. Petruccioli, ISBN, 2013, pp. 368, euro 26,50)

“La scimmia sulla schiena” di William S. Burroughs

Padre spirituale della Beat Generation, scrittore e saggista, William Seward Burroughs è una delle figure più controverse della letteratura del Novecento. Uxoricida, omosessuale dichiarato e sperimentatore di ogni sorta di sostanza, legale o meno, la sua critica rabbiosa e ironica svela la finzione e la moralità grottesca del secolo scorso.

Junkie: Confessions of an Unredeemed Drug Addict, o nella traduzione italiana La scimmia sulla schiena, è il primo libro dell’autore pubblicato nel 1953 negli Stati Uniti. Da molti critici definito un saggio sulla dipendenza, scevro da qualsiasi forma di esaltazione o demonizzazione della sostanza, in questo libro Burroughs descrive in maniera clinica gli effetti delle droghe che sperimenta, grazie anche agli eccellenti studi di Medicina.

Il suo alter-ego, William Lee, si muove in un sottobosco di consumatori di marijuana, barbiturici, anfetamina, codeina, cocaina, morfina ed eroina sullo sfondo dell’America puritana e conservatrice degli anni ’50. Ne viene fuori un racconto preciso che mette a nudo, forse per la prima volta in maniera esaustiva, la lenta caduta nella tossicodipendenza: «Il tossicomane, il più delle volte, crede di condurre un’esistenza normale e pensa che la droga sia un fatto incidentale. Non si rende conto che, pur svolgendo le sue attività estranee alla droga, sta scivolando lungo la china. Solo quando gli viene tagliata la fonte dei rifornimenti capisce quale importanza abbia la droga per lui».

In un avvicendarsi di tentativi di disintossicazione e ricadute, nei quali gli effetti dell’uso e dell’astinenza sono narrati in maniera scientifica, William Lee racconta la droga «non come mezzo per intensificare il godimento della vita» ma come modo di vivere. Scritto in Messico nel 1951 Junkie è l’unico libro in cui Burroughs non usa la tecnica del cut-up e il suo stile risulta semplice anche se con un ritmo narrativo frastagliato e irregolare. Siamo dinanzi a una narrazione personale e allo stesso tempo antropologica di uno stile di vita che, in quegli anni, non è ancora di massa e che tuttavia già raccoglie un numero considerevole di individui che esplicano la propria esistenza nella droga e che per essa vivono.

In modo brutale e cinico, Lee racconta come «il vizio prende piede, le altre cose alle quali si interessava l’intossicato si svuotano d’ogni importanza. La vita si riduce alla droga; una dose, e già si guarda con ansia a quella successiva, ai nascondigli e alle ricette, agli aghi e alle pompette contagocce». Un barlume di speranza ci viene fornito dalla terapia di disintossicazione a base di apomorfina; tuttavia Burroughs in quel momento è già in partenza alla ricerca dello yagè, droga esotica che dovrebbe favorire la telepatia, in una continua ricerca di sperimentazione degli stati alterati e della loro descrizione.

Un’opera prima che Burroughs scrisse in seguito alla morte della moglie, per trovare qualcosa da fare ogni giorno, e che tuttavia rimane impressa nella storia della letteratura come la prima descrizione, minuziosa, spietata e non edulcorata, della tossicodipendenza.


(William S. Burroughs, La scimmia sulla schiena, Rizzoli, 1962)

“Avventura brasiliana” di Peter Fleming

Il fratello come topos letterario: già dal «fratello Giovanni» – suicida quando si scopre, nella cassa del reggimento da lui amministrata, l’ammanco per ripianare debiti di gioco – che valica la memoria scolastica, con accanto il frater cui Catullo «multas per gentes et multa per aequora vectus» porta le sue lacrime; ma ci sarebbe, ovviamente, anche il fratello Gherardo, ex compagno di stravizi, che, ormai certosino, ospita a Montrieux un azzimatissimo Petrarca, dapprima entusiasta del silenzio claustrale, ma entro pochi giorni incapace di reggerlo un minuto di più; e Paolina Leopardi, cui un provvido destino di zitella impedì di mettere al mondo i figli «o miseri o codardi» che le profetava Giacomo; oppure Mariù Pascoli che parla in giardino con l’amica ex-collegiale minata da una consunzione che ha dietro un po’ più, della digitale purpurea; o anche, per totale preterizione dalla Recherche, il fratello minore, il medico Robert cui toccò vigliare sull’agonia di Marcel. Con Heinrich Mann, invece, si entra nella specialissima fattispecie del fratello scrittore: e perciò da oggetto di letteratura, a rivale in letteratura: che sarebbe poi anche il caso di Peter Fleming, la cui condizione di antecedente letterario, e perfino di mentore editoriale (e non del tutto congetturale modello del pluri-cinematografato James Bond) del fratello minore Ian, non sarebbe probabilmente mai venuta alle nostre orecchie, senza questa Avventura brasiliana (Nutrimenti, 2013), soltanto ora, dal 1933 in cui uscì, tradotta in italiano.

Il libro è sfacciatamente, beffardamente impostato su di un consapevole disattendere tutte le aspettative che la tradizione, soprattutto quella tardo-ottocentesca, dei libri di viaggio e di quelli d’avventura (ne era gemmato, in Italia, quanto meno il bonario esotismo casalingo di un Salgari) potrebbe legittimamente indurre nello speranzoso lettore: e invece, niente. La quête – dell’evanescente Fawcett, perso dietro fantasmi di eldoradeschi Machu Picchu nella foresta amazzonica – che era stata messa là come debole pretesto all’impresa, si rivelerà fallimentare, alla fine, quant’era inconsistente in partenza; l’ambiente tropicale verrà sì tratteggiato con appropriati tocchi di colore, ma anche col più spudorato sprezzo di qualsiasi osservanza di nomenclature scientifiche; l’abbattimento della fauna tropicale – non che far da culmine a mirabolanti climax narrativi – apparirà dominato dalla più piatta, gratuita delle accumulazioni, e così via.

Dov’è, allora, il fascino di questo libro? Sicuramente, nella forma: la raffinata tournure data costantemente alla frase da un vigile, insonne scintillio d’umorismo, d’ironia: lo sfolgorare della razionalità umana tanto più difficoltosamente – e vittoriosamente – a contrasto con il suo rovescio, la stupidità e l’assurdo, mai così copiosamente squadernati, come nelle mille anse-episodi in cui, fluvialmente, si snoda questa Avventura brasiliana.


(Peter Fleming, Avventura brasiliana, trad. di Francesca Valente, Nutrimenti, 2013, pp. 480, euro 22)

“Il passato” di Asghar Farhadi

Primo film francese per il regista iraniano Asghar Farhadi, che con Il passato è sbarcato all’ultima edizione del Festival de Cannes conquistando il premio per la miglior interpretazione femminile per la protagonista Bérénice Bejo.

Ahmad arriva Sevran, sobborgo di Parigi, da Teheran per incontrare sua moglie Marie. Si sono separati quattro anni fa, ora lei gli ha chiesto di firmare le carte per il divorzio. Il loro rapporto è sereno, ma è chiaro che c’è qualcosa che deve essere chiarito, che Ahmad non è stato chiamato solo per delle firme. Marie vuole che dormi a casa sua, che la aiuti a capire costa stia succedendo con Lucie, la figlia sedicenne che ha avuto da un altro matrimonio. Nella casa, Ahmad capisce molte cose, come che Marie è impegnata e incinta di un altro uomo, Samir, che vive già da lei con il figlio Fouad. Si rivelano intrecci di gelosie e di verità tenute nascoste o camuffate, con Lucie che non vuole che la madre si costruisca una vita con un altro uomo, l’ennesimo, che teme Samir e quella ferita che lo paralizza per il fallito suicidio della moglie depressa ormai costretta in coma da otto mesi.

È una realtà da cui non si sfugge, Il passato, che costringe e condiziona il presente come eco invisibile di un rumore lontano. Samir, Ahmad e Marie si sono convinti di poter andare avanti senza più voltarsi indietro, di essere pronti a costruirsi un nuovo futuro che non tenga conto delle basi del tempo che è stato per la sua crescita. Non è possibile immaginare un domani se non si guarda quello che è successo ieri. È questo il senso della riflessione di Farhadi. I tre vertici del suo triangolo dipendono l’uno dall’altro per risolvere loro stessi in qualcosa di nuovo e per lasciare allo stesso tempo che Lucie e gli altri figli, Fouad e la piccola Lea, che Marie ha avuto da un’altra storia ancora, possano far parte di un nucleo finalmente definitivo, che non si debbano marginalizzare vivendo nella periferia dei sentimenti dei genitori

Samir porta indosso il dolore della depressione, prima ancora che del tentato suicidio della moglie, in cui Marie riconosce gli ultimi tempi della sua relazione con Ahmad, anche lui incapace di reagire alla vita e di uscire nel mondo. Ahmad è tornato in Iran per allontanarsi da lei e pensava di avercela fatta, ma fare ritorno in Francia gli fa capire che non è una firma su un pezzo di carta a determinare una fine.

Sono tutti irrisolti, i protagonisti di Il passato, incapaci di guardarsi alle spalle con serenità ma allo stesso tempo impreparati ad abbandonare la stretta della mano della memoria, come mostra l’ultima scena.

Farhadi riprende il tema della fine di un amore già proposto in Una separazione, Orso d’oro a Berlino nel 2011 e Oscar per il film straniero nel 2012. Rispetto al precedente, con Il passato Farhadi abbandona l’Iran e le dinamiche socio-interpersonali che l’ambientazione in patria comportava ed estende lo spettro dell’osservazione passando dalla sola coppia a un triangolo e a quanti ci girano intorno. Nel nuovo contesto europeo il regista e sceneggiatore conferma la capacità assoluta di rappresentare le sfumature più impercettibili delle psicologie dei suoi personaggi, le loro fragilità e le maschere con cui ognuno le adorna. Il premio all’interpretazione di Bérénice Bejo, imposta all’attenzione internazionale da The Artist, è un tributo parziale al cast, che si completa con Tahar Rahim e Ali Mosaffa, che vive sulla pelle, più che interpretarli, i ruoli.

La condizione difficile della realtà iraniana bloccata fino all’anno scorso dall’intransigenza di Mahmud Ahmadinejad, con cui Farhadi si è dovuto confrontare per le censure imposte ai suoi film, prima dell'elezione lo scorso agosto del moderato Hassan Rouhani, autorizza ad una lettura politica del film. Come i protagonisti del film, l’Iran deve conciliarsi con il suo passato sospeso tra innovazione e tradizione, tra laicità e religione, per aprirsi a un futuro nuovo.

 

(Il passato, di Asghar Farhadi, 2013, drammatico, 130’)

 

“L’ultima indagine” di Leif G.W. Persson

Il vento del Nord non porta solo Stieg Larsson.

Stoccolma, una calda estate svedese e il profumo di bratwurst che si propaga nell’aria: ecco le prime pagine de L’ultima indagine (Marsilio Editori, 2013). Leif G.W. Persson, docente di criminologia prestato alla letteratura, accoglie così il suo lettore facendo già intuire, nelle prime pagine, che queste calde temperature estive non avrebbero trovato corrispondenza nell’animo dell’anziano poliziotto a cui presto ci si affezionerà.

Sagace, diretto, pulito. Così la scrittura, così il protagonista di questo romanzo. Lars Martin Johansson: ex capo della polizia e dei servizi segreti, si ritrova a dover fare i conti con un fisico ormai debilitato da una vita di eccessi che presenta il suo conto con un ictus. Per il detective che vede dietro gli angoli sembra arrivato il momento di rassegnarsi a una tranquilla vita da pensionato. Tuttavia, proprio quella vita che sembra sfuggirgli via, gli presenta un’ultima possibilità. Un’ultima indagine.

La dottoressa che lo ha in cura offre al nostro uomo un nuovo inizio: una confessione del padre in punto di morte rivela nuovi indizi riguardanti un omicidio caduto purtroppo in prescrizione.

Era l’estate del 1985 quando Yasmine, dopo aver litigato con la mamma, usciva di casa per non farvi più ritorno. La bambina verrà ritrovata senza vita, all’interno di alcuni sacchi per la spazzatura abbandonati in un canneto. Quella fu la sua ultima estate.

Luglio 2010, venticinque anni dopo. Lars Martin Johansson trova la sua strada, quella di una bambina di nove anni stuprata e poi uccisa. Prima dal letto d’ospedale, poi dal divano del suo studio, Lars comincia la sua indagine. Con un braccio destro inutilizzabile e un peso sul petto che gli toglie il respiro, le giornate scorrono tra medicine e fisioterapia. Il nostro detective trova però un aiuto nell’amico di una vita Jarnebring, e ritorna quindi in pista. L’unico imperativo è trovare l’uomo che si macchiò di quel delitto, la sua punizione un problema successivo.

L’indagine segue il filo dei pensieri di Johansson, le sue intuizioni, le sue deduzioni. Un filo suddiviso in sei parti, un esergo biblico che si completa solo nell’ultima parte conducendo il lettore attraverso la storia e i suoi personaggi: la scacchiera dell’indagine si ricostruisce di pagina in pagina, alimentata dalla suspence sottesa alle intuizioni del vecchio poliziotto.

Un insieme di vite spezzate ruotano intorno a questa vicenda, apparentemente sconnesse ma sottilmente intrecciate. Ingiustizie e “giustizie mancate” in un mondo che sembra sempre più spesso cedere al compromesso, casi di prima classe e cold case facilmente abbandonati. Ecco dunque che al pettine del lettore giunge il nodo cruciale: come comportarsi quando la giustizia umana non può più spiegare la propria forza, la propria ragion d’essere? È lecito a quel punto cedere alla violenza della giustizia, quella più primitiva? Occhio per occhio…

Questi gli interrogativi del protagonista, questi gli interrogativi che si (ci) pone Leif G.W. Persson. La risposta, se tale può essere, giunge solo alla fine. Indizi disseminati qua e là, in queste avvincenti pagine come piccole molliche di Pollicino ci conducono sino all’ultima pagina, lasciandoci con un sorriso a metà.


(Leif G.W. Persson, L’ultima indagine, trad. di Giorgio Puleo, Marsilio Editori, 2013, pp. 507, euro 19,50)

“Nascita di un ponte” di Maylis de Kerangal

Non è poi così tardi imbattersi solo oggi in Maylis de Kerangal: se da una parte è vero che Nascita di un ponte (Feltrinelli, 2013) è la settima fatica dell’autrice nonché sua prima opera edita nel nostro paese, dall’altra è altrettanto vero che restano da scoprire della stessa ben altri sei romanzi; il che porta a sperare che il differito debutto della scrittrice francese in terra italica venga sapientemente compensato con la pubblicazione dell’intera sua creazione letteraria: si attendono nuove scosse.

Questo perché Nascita di un ponte è roba forte, che sa prendere allo stomaco.

Un ponte deve dunque esser tirato su, nella città di Coca, non precisato luogo di una California che sa di altri tempi, di giorni di conquista, quando, così, d’emblée, si arrivava da lontano, per sfangarla. E in effetti una fantasmagorica umanità – unico e indivisibile corpo, vero protagonista del romanzo – si ritrova gerarchicamente concentrata sulle rive di un fiume a pianificare, sondare, eseguire gli ordini. L’atmosfera è elettrica, niente deve esser lasciato al caso, e come si potrebbe? Il dettaglio è l’estrema ratio, il ponte sarà un miracolo sotto tutti i rispetti. Ma uno stormo di uccelli in migrazione arresta l’ingranaggio, e niente lavoro per tre settimane, tra la gioia di chi si darà ai bagordi, e il dolore di chi nel proprio mestiere sublima ferite mai rimarginate. E volati via i sabotatori, si dovrà far fronte anche allo sciopero minacciato dagli operai: si sa, lo spettacolo deve andare avanti, venga l’imprevisto dall’esterno o dall’interno; la complessità è del resto di questo mondo, e non ci si tira indietro, non fa parte del contratto.

Un evento però sembra dare il tono alla vicenda tutta: lo scontro, sotto la pioggia e nel fango, tra chi rappresenta la ragione della monumentale opera e chi rappresenta il sentimento che, in quella terra nato e cresciuto, sente adesso forte il pericolo.

È una rappresentazione di prim’ordine quella che ci dona Maylis de Kerangal; attraverso una scrittura immediata e senza fronzoli, spietatamente diretta allo scopo, centra con indubbio talento quella dialettica che vede l’uomo e i suoi progetti inseguirsi e mordersi la coda, e chiedersi se il fine, dacché mondo è mondo, giustifica in ultimo la sopraffazione, di sé, dell’altro da sé: ci sono momenti incantati in cui chiunque, in un modo o nell’altro, viene in chiaro della propria esistenza, a volte dando seguito alla rivelazione, altre accantonandola; sono tanti i cadaveri eccellenti che nemmeno le più sfavillanti luci del più maestoso dei ponti riusciranno mai a nascondere, è in fondo una questione di ombre da addomesticare.

Maylis de Kerangal non ha la presunzione di indicare la strada, riesce invece con grazia femminea a rendere accattivante e sfavillante, per quanto tragica nella sua immanenza, anche l’umanità al suo nadir, consegnandola di petto per quello che è: umana, troppo umana. E comunque ancora capace di grandi opere.


(Maylis de Kerangal, Nascita di un ponte, trad. di Maria Baiocchi, Feltrinelli, 2013, pp. 256, euro 16)

“Servo di scena” di Ronald Harwood

Servo di scena di Ronald Harwood è una pièce sul teatro ed è, a tutti gli effetti, una critica e un atto d’amore verso quest’arte.

L’allestimento proposto da Franco Branciaroli, coadiuvato dalla scenografia su due piani creata da Margherita Palli, riprende fedelmente il testo mettendo in risalto, ancor di più, l’aspetto meta-teatrale.

Il testo, immaginato per grandi attori istrionici, è perfetto per Franco Branciaroli, che ha costruito una messa in scena perfetta, organica e ritmica grazie a un cast di alto livello. Tommaso Caldarelli è il servo di scena Norman, fedele a Sir Ronald, interpretato dallo stesso Branciaroli, capocomico di una compagnia di teatro shakespeariano, ormai spossato e a fine carriera.

È il 1942, in Gran Bretagna, fuori dal teatro ci sono le bombe, la situazione è pericolosa e, in più, Sir, qualche ora prima di salire sul palco, è colpito da frequenti amnesie. La compagnia decide di sospendere lo spettacolo ma la testardaggine di Norman impedisce questa soluzione e il Re Lear, così come programmato, va in scena. Non mancheranno tensioni e colpi a sorpresa, sino al finale drammatico.

Perché Norman vuole per forza di cose rappresentare lo spettacolo? Per un puro atto di devozione nei confronti di Siro per una miope ostinazione? Intanto la vita della compagnia va avanti e lo spettatore assiste, da voyeur curioso, al dietro le quinte, ai retroscena nascosti al grande pubblico, a partire dal momento del trucco fino alla vestizione. Anche lì, tra litigi, atmosfere tese e incomprensioni, c’è la magia del teatro, quel teatro fatto di passioni e mestiere. Solo il servo di scena, figura di raccordo tra il grande maestro, ormai anziano, e il resto della compagnia, può far andare avanti lo spettacolo.

In Servo di scena si rappresenta la finzione della finzione teatrale, si mostrano i vari strati del teatro. La finzione dell’arte di fare spettacolo si unisce alla finzione dei sentimenti (Milady, moglie di Sir, appare disinteressata mentre Madge, direttrice di scena, è segretamente innamorata di Ronald) fino ad attorcigliarsi, nel secondo atto, attorno alla messa in scena del Re Lear e alla figura del dresser che conosce ogni singolo aspetto della personalità del capocomico. Sarà lui a rendere possibile l’ultima recita del grande attore.


Servo di scena
di Ronald Harwood
traduzione Masolino D’Amico
regia Franco Branciaroli
con Franco Branciaroli e Tommaso Cardarelli,
e con Lisa Galantini, Melania Giglio, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Valentina Violo


Prossime date:

Napoli – Teatro Bellini, dal 19 al 24 novembre 2013
Pistoia – Teatro Manzoni, dal 7 al 9 marzo 2014
Catania – Teatro Ambasciatori, dal 10 al 14 aprile 2014