“I giorni scontati. Appunti sul carcere” a cura di Silvia Buzzelli

I giorni scontati. Appunti sul carcere (Sandro Teti Editore, 2012) è un’opera curata da Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, che raccoglie scritti di autori che, seppur con livelli e mansioni differenti, si trovano a contatto con la realtà carceraria.

C’è un connubio fra il contributo di docenti universitari di diritto processuale, penale, di filosofia del diritto, di neurologia, di scienze dell’educazione, e dirigenti delle strutture penitenziarie. Ma non solo. C’è anche l’apporto di professionalità che, per i non addetti ai lavori, sembrerebbero cozzare con il contesto penitenziario, come ad esempio l’esperienza di un medico veterinario omeopata che dal 1989 è consulente della casa di reclusione di Gorgona, l’ultima isola-carcere italiana, situata nella parte settentrionale dell’Arcipelago Toscano.

Ad arricchire l’opera, un documentario di Germano Maccioni che, lungi dal voler essere un film sulla detenzione, introduce nel carcere lasciando alle immagini stesse, ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria, la possibilità di raccontare una realtà che, come asserisce Massimo Filippi, docente di neurologia presso l’Università “Vita-Salute” al San Raffaele di Milano, «intrattiene un rapporto complesso con la visibilità. Da un lato, infatti, delimita uno spazio che relega al di fuori dal campo del visibile. Dall’altro rende chi vi è recluso perennemente sottoposto agli sguardi, lo arresta dentro lo sguardo, in una visibilità accecante e ininterrotta».

Chi si trova dietro le sbarre è un fuorilegge. Nel rapporto fra binomi come inclusione/esclusione, dentro/fuori, visibile/invisibile si costruisce la reclusioneIl testo sembrerebbe porre l’accento sull’assunto che «non si può educare alla libertà sopprimendola», principio fondamentale per una rilettura della situazione attuale e come punto fermo da cui partire per ripensare le strutture di detenzione solo come estrema ratio, a cui far riferimento laddove sono falliti altri percorsi educativi, oggi non sufficientemente considerati come uno strumento efficace con valenza socio-pedagogica ed economica allo stesso tempo.

Se da un lato, infatti, le alternative alle misure detentive restituiscono amor proprio e integrazione nella società, fin dal primo momento, al reo che contravvenendo alla legge si è posto, con il suo comportamento, al di fuori della norma (nella duplice accezione di significato, come sinonimo di legge e come concetto statistico di devianza) e quindi, di pari passo, al di fuori della società che la condivide, dall’altro incarnerebbe un ottima possibilità dare un significativo taglio alle spese pubbliche. A quanto ammonta la retta giornaliera che viene corrisposta per ciascun detenuto? Che ulteriori costi verranno aggiunti per la costruzione di altre carceri, dal momento che in molte di quelle attualmente presenti sul territorio nazione si registra un alto tasso di sovraffollamento? E ancora. Quanto è già costato all’Italia questo sovraffollamento? Decisamente non poco se si tiene conto che, proprio l’8 gennaio 2013, la Corte Europea per i Diritti Umani ha condannato, per la quarta volta, la nostra Nazione a un risarcimento per danni morali, di circa centomila euro, in favore dei sette carcerati detenuti nella struttura penitenziaria di Busto Arsizio, ritenendo l’Italia colpevole di tortura, violando l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che sancisce che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

Dai dati forniti dal Ministero della Giustizia e, ampiamente discussi all’interno de I giorni scontati, si apprende che circa il 40% della popolazione carceraria è in attesa di giudizio e che più della metà dell’intera popolazione detenuta è composta da imputati/condannati per reati contro il patrimonio. Ad oggi l’unica alternativa alla pena detentiva sembrerebbe essere quella pecuniaria che difficilmente inibisce le recidive nel commettere reato. Vengono ignorate invece misure “a costo zero”, come l’affidamento in prova al servizio sociale di competenza territoriale o gli arresti domiciliari, misure decisamente applicabili su tutta quella porzione di detenuti che non sono da ritenersi dei “pericoli pubblici”.

C’è del capitale umano dietro le sbarre che viene disumanizzato lontano dai nostri occhi distratti o dai nostri sguardi giudicanti, seppur privi di una adeguata conoscenza del fenomeno. Voltaire diceva: «non raccontatemi della bellezza dei vostri palazzi, ditemi piuttosto come si vive nelle vostre carceri». I giorni scontati. Appunti sul carcere è un libro che, con competenza, offre la possibilità al lettore di essere introdotto in quella parte di non-visibile che però riflette, e fa riflettere, su ciò che siamo e dove viviamo. Nel 2013 ancora in un paese incivile.

(I giorni scontati. Appunti sul carcere, a cura di Silvia Buzzelli, Sandro Teti Editore, 2012, pp. 205, euro 20)

[SongList] Musica e Storia (seconda parte)

Fabrizio De André – “Fiume Sand Creek”

Nel 1858 vennero scoperti nuovi filoni aurei sulle Montagne Rocciose, all’interno dello Stato del Colorado, nella zona che era stata ufficialmente riconosciuta nel 1861 alle tribù indiane dei Cheyenne e degli Arapaho. Successivamente un’ondata di coloni cominciò a stabilirsi nelle zone indiane alla ricerca dell’oro. Questo causò l’inizio di alcune scaramucce tra i coloni e i nativi americani, che portò però alla stipulazione di un primo trattato, il Trattato di Fort Wise, che riconosceva agli Stati Uniti la proprietà dei territori precedentemente occupati dagli indiani e prevedeva il trasferimento di questi ultimi nella riserva dell’Oklahoma, a sud di Sand Creek. Nello stesso anno, il 1861, iniziò la Guerra di Secessione americana che portò alla formazione della Milizia del Colorado sotto il comando del colonnello John Chivington – «un generale di vent’anni, figlio del temporale» – che, di comune accordo con il governatore dello Stato del Colorado John Evans, adottò una linea durissima contro gli indiani al fine di scacciarli definitivamente dal loro territorio. Questo portò all’attacco dell’insediamento pacifico di Sand Creek della comunità Cheyenne, guidata dal capo indiano Pentola Nera il quale, fidandosi delle promesse di pace statunitensi, allontanò, come raccontato da De André nel brano, tutti i suoi guerrieri dal villaggio, i quali al momento dell’attacco si trovarono così «troppo lontani, sulla pista del bisonte», lasciando l’insediamento completamente indifeso. Ottocento uomini della Cavalleria del Colorado piombarono sul villaggio la mattina del 29 novembre 1864, massacrando quasi duecento indiani: tutti donne, bambini e anziani. Il tragico epilogo diventa poesia straziante nelle parole di De André: «anche i bambini dormono, sul fondo del Sand Creek».

 

Francesco De Gregori e Giovanna Marini – “Il monarchico Bava”

Questo storico canto del canzoniere popolare italiano ha per protagonista il generale Fiorenzo Bava Beccaris, nato in provincia di Cuneo nel 1831. Entrato all’età di 14 anni nell’Accademia Militare del Regio Esercito, partecipa prima alla Guerra di Crimea (1853-1856) e in seguito alla seconda e terza Guerra d’Indipendenza, rispettivamente nel 1859 e nel 1866, divenendo nello stesso anno il direttore generale dell’artiglieria e del genio al Ministero della Guerra.

Deve la sua fama alla repressione dei moti milanesi del maggio 1898. Milano era già all’epoca diventata la capitale finanziaria d’Italia, di cui era la seconda città per numero di abitanti dopo Napoli, e al tempo stesso si apprestava a divenire uno dei principali centri industriali della penisola. La situazione economica alla fine dell’Ottocento non era delle più rosee per le classi sociali più basse a causa della larga disoccupazione e dell’abbassamento dei salari: la goccia che fece traboccare il vaso fu il generale rincaro dei prezzi dei generi alimentari primari e in particolare l’aumento del prezzo del pane, che passò nel 1898 da 35 a 60 centesimi al chilo. La situazione precipitò presto in sommovimenti popolari spontanei, che raggiunsero il loro apice nel maggio del 1898 proprio a Milano, dove Bava Beccaris era comandante dell’artiglieria e del genio, quando le proteste popolari, «la folla che pan domandava», divennero più dure, scatenando la conseguente reazione delle forze dell’ordine. Venne proclamato lo sciopero generale e vennero alzate le barricate a Porta Venezia, Porta Vittoria, Porta Romana, Porta Ticinese e Porta Garibaldi. Il Governo Rudinì incaricò quindi il generale Bava Beccaris di riportare l’ordine nella città ed egli non esitò a far intervenire duramente l’esercito tra il 7 e il 9 maggio di quell’anno, utilizzando anche numerose batterie di artiglieria pesante – il «fuoco degli armati Caini e al furor dei soldati assassini» La carneficina fu impressionante: rimasero uccise all’incirca 100 persone e altre 400 ferite. La sera di domenica 8 maggio il feroce monarchico Bava telegrafò al Governo che la rivolta poteva considerarsi domata e il 5 giugno dello stesso anno ottenne dal re Umberto I una decorazione al valore militare seguita, il 16 dello stesso mese, da un seggio nel Senato del Regno.
 


 

Francesco Guccini – “Primavera di Praga”

Il 5 gennaio 1968 salì al potere in Cecoslovacchia il riformista slovacco Alexander Dubcek, che diede il via a una serie di riforme tendenti a liberalizzare e democratizzare la vita politica e sociale nel paese che era, dalla fine della seconda guerra mondiale, sottoposto al potere sovietico e sottostante al Patto di Varsavia. Proprio l’Unione Sovietica, però, non appoggiò gran parte delle riforme promosse da Dubcek – in particolare il decentramento economico e la libertà di stampa – e, dopo una serie di negoziati falliti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 invase il paese centro-europeo insieme agli alleati del Patto di Varsavia, a eccezione della Romania. Dubcek venne arrestato e portato a Mosca insieme ai suoi più stretti collaboratori, dove venne costretto a firmare un protocollo d’intesa con il Cremlino nel quale si accettava il ritorno della Cecoslovacchia alla situazione politica precedente il 1968. In seguito Dubcek venne rimosso dal suo incarico ed espulso dal Partito Comunista Cecoslovacco nel 1970: al suo posto prese il potere Gustav Husak, che annullò tutte le riforme precedenti, salvo la decisione di dividere il paese in due nazioni distinte: la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca. Le truppe del Patto di Varsavia rimasero comunque all’interno del paese fino al 1990.

 

“Gli amanti passeggeri” di Pedro Almodóvar

Un ritorno colorato di psichedelia e sensualità quello di Pedro Almodóvar con Gli amanti passeggeri dopo i toni drammatici e venati di horror dei precedenti Gli abbracci spezzati e La pelle che abito.

Il volo 2549 della compagnia Península continua a volare in circolo sopra il cielo di Toledo da più di un’ora. È diretto a Città del Messico ma non può continuare la crociera per un guasto a uno dei carrelli di atterraggio: al momento della partenza la distrazione di due tecnici di pista (Antonio Banderas e Penélope Cruz in un divertito cammeo) ha lasciato uno dei “tacchi” di sicurezza a bloccare il ritiro automatico.

A bordo i passeggeri della classe turistica dormono narcotizzati per evitare il panico. I pochi presenti in business class – una nota dominatrice sessuale, un finanziere in fuga, un attore in declino, una giovane coppia dedita alle droghe in viaggio di nozze, una sensitiva “rabdomante di morti” e un killer che legge Bolaño – aspettano nervosi di capire cosa stia succedendo. Ad assisterli ci sono due steward e il responsabile di cabina Joserra, tutti e tre (evidentemente) omosessuali, mentre in cabina di comando il pilota, bisex e impegnato in una relazione clandestina con Joserra, e il suo secondo Benito attendono informazioni dalla torre di controllo. Qualcuno inizia a spazientirsi e Joserra è costretto a rivelare la verità dell’avaria. Si diffonde il terrore, si beve molta tequila, un giro di agua de Valencia corretta alla mescalina. Mentre il personale di bordo si impegna con canzoni e coreografie per distrarre i passeggeri dal pericolo, i sensi si risvegliano stimolati dalla droga e la passione, etero e omo, esplode finché via radio non arriva l’atteso via libera all’atterraggio d’emergenza.

Può essere visto come un’allegoria socio-politica, Gli amanti passeggeri. L’aereo (significativamente della compagnia Península, penisola, come la Iberica), sarebbe la Spagna, la panne la crisi, il volo l’incertezza economica che colpisce il Paese in rotta verso uno schianto o un atterraggio di emergenza. Ci sono riferimenti espliciti nel personaggio del finanziere, il dottor Más, il primo ad accorgersi dell’avaria, in fuga dall’accusa di bancarotta fraudolenta del suo gruppo bancario, nei simbolismi che relegano la classe media nel buio della turistica, all’oscuro dalla verità e ancora narcotizzata dalle illusioni dello zapaterismo, mentre nella business inondata di sole una variegata élite attende che l’equipaggio/governo ponga rimedio all’inevitabile.

Può essere visto, ancora, come un invito alla riscoperta del piacere come unico antidoto all’incertezza della vita e alla minaccia della morte. Di fronte all’orrore del vuoto solo l’oblio e la frenesia sessuale assistono e sollevano l’uomo, non la ragione. È l’uomo stesso, nella sua radice animale, l’unica catarsi possibile per l’uomo razionale. Solo lasciando esplodere le passioni l’uomo si può liberare dalle paure.

Può essere visto, infine, come un nostalgico ricordo della spensieratezza della Spagna dell’immediato postfranchismo, di quella movida madrileña che Almodóvar ha conosciuto dall’interno e che ha raccontato nei suoi primi film. Ce lo dicono i colori, il ritorno ad un ironico estremismo sessuale che ricollega il regista alle tematiche delle origini accantonate sul finire degli anni novanta. Ce lo dice anche Norma, la dominatrice sessuale, mentre sorseggia la sua agua de Valencia e ricorda che ne andava matta, negli anni ottanta.

Tralasciando le letture ulteriori, Gli amanti passeggeri è soprattutto una commedia dalla sessualità esuberante e sfacciata, senza mezze misure, irresistibile nella sua impertinente comicità. Partendo da un cliché narrativo già rodato (si pensi a L’aereo più pazzo del mondo, per rimanere sulla commedia, o al recentissimo Flight), Almodóvar si muove libero dai canoni di genere aggiungendo ingredienti a piacere presi dal dramma familiare, dal catastrofico, dal musical. Torna a divertirsi dopo anni, e film, di indagine sul passato e sulla morte, con la leggerezza irriverente di un tempo. Non provoca, non ne ha bisogno. Il suo mondo di droga e sesso è una semplice realtà di cui prendere atto, una folle variazione di normalità in cui nessuno si scandalizza. In terra come in cielo.

Straordinari, nella loro genuina gaiezza, i tre assistenti di volo Javier Cámara, Carlos Areces e Raúl Arévalo.

(Gli amanti passeggeri, di Pedro Almodóvar, commedia, 2013, 90’)

La collana Vie di Keller

Spesso, all’interno di una casa editrice, le collane servono per diversificare zone del dire e del sapere. Sono i nomi assegnati ai distretti, gli organi che insieme pompano il battito di tutto quel mondo. Oppure, come in questo caso, possono richiamarsi intimamente. Essere quasi l’una l’espansione dell’altra.

Il progetto di Keller editore, su cui ci siamo incentrati questo mese, verte su due sole collane: PASSI e VIE. Ed è già possibile intuire quanto intimo sia il loro legame e quanto sia incessante il gioco di dialoghi e rimandi. Quanto quindi una strada s’imbocchi soltanto impastando chilometri e quanto, per conoscerla davvero, serva segnarla coi propri piedi, sporcando le scarpe, sparpagliando le proprie impronte.

La collana VIE rappresenta perfettamente questa visione. Una collana che raccoglie perle dissimili, sconfinando in generi vicini alla letteratura, come il reportage, un vero intreccio di sentieri narrati.

I suoi testi sono piccoli ritratti preziosi, come suggerisce la stessa veste tipografica. Formato tascabile 13×18, di rado superiore alle 200 pagine, copertina raffinata e ridotta all’essenza, guarnita solo con i dati irrinunciabili. Fotografie minute cucite al centro della cornice pastello, proprio come un prodotto artigianale, a ricordare l’attenzione costante su ogni singolo titolo. Le firme appartengono principalmente all’area est e mitteleuropea, con presenze di scrittori in lingua inglese e spagnola. I primi testi a comparire nel 2005 sono Voci di fiume, raccolta di autori vari, e Crescere è un mestiere triste, di Santiago Roncagliolo.

Si prosegue con Bogopol di Raúl Arévalo e Little girl lost di Richard Aleas. Attraversando scritture intense e originali, come quella di Aglaja Veteranyi, anima gitana e circense morta suicida poco prima di vedersi pubblicata, o quella della tedesca Angelika Overath, apparsa prima con Giorni vicini e da da poco con Pesci d’aeroporto, diciannovesima e più recente uscita.

Sguardi sull’altrove, punti di vista e di parola trasversali, inediti e mai banali, in cui spiccano il Premio Nobel Herta Müller e Eduard Márquez, finalista del Premio Llibreter. Collezioni di orme e di passaggi, nomi insoliti e coraggiosi che tracciano un percorso. Nomi e realtà scelti da chi conosce e ama il rischio costante di raccontare un cammino. La mappa di una storia e gli odori dei viandanti.

Ovviamente passo dopo passo.

“Il tempo materiale”: a tu per tu con Giorgio Vasta e Luigi Ricca

Qualche mese fa è uscito in libreria il graphic novel Il tempo materiale (Tunué, 2012) di Luigi Ricca, tratto dall’omonimo romanzo cult di Giorgio Vasta – pubblicato da minimum fax nel 2008 e candidato al Premio Strega 2009. Siamo riusciti a intervistare entrambi durante una delle presentazioni del volume.


Il graphic novel Il tempo materiale riesce a fondere il linguaggio usato da Giorgio Vasta nel suo romanzo con lo stile illustrativo di Luigi Ricca: quali sono gli aspetti importanti di questo incontro di codici?

Luigi Ricca [R.]: Il linguaggio utilizzato da Giorgio nel suo romanzo poteva risultare spiazzante soprattutto per il fatto di essere messo in bocca a dei bambini di undici anni, ma era parte integrante del racconto e della personalità dei protagonisti e andava assolutamente mantenuto. Ho lavorato facendo alcuni tagli perché lo spazio della pagina permette solo una certa quantità di testo, ci sono dei pesi e degli equilibri da rispettare tra parole e immagini, ma ho cercato di utilizzare quanto più possibile il testo originale: se lo avessi modificato sarebbe venuta fuori un’altra cosa, con un altro significato.

Giorgio Vasta [V.]: Quello che mi ha colpito è che il segno di Luigi – prima ancora che le scene fossero disegnate, cioè quando ancora era nella fase di studio dei personaggi – era per certi versi refrattario, aggressivo, come se non fosse ricavato da una matita bensì attraverso una piccola colluttazione, un conflitto tra lo strumento che traccia il segno e la piattaforma su cui il disegno viene rappresentato. In questo senso mi è sembrato di ritrovare, meravigliosamente sintetizzato in questo tratto, lo stesso tipo di antagonismo e di continuo conflitto con le frasi che ho cercato di generare scrivendo Il tempo materiale, come se non ci fosse semplicemente un fluire libero e limpido del discorso, ma questo fluire fosse sempre strettamente collegato alla sua negazione, a ciò che lo ostacola. Partendo da tutto questo, la narrazione viene conquistata contrapponendosi a un’istanza che spinge nella direzione opposta, un impulso che spinge a tacere. Un segno graffiato somiglia allora a come avevo immaginato la scrittura del mio romanzo.
 


Sicuramente l’iperverbalizzazione del romanzo di Giorgio, ma anche il silenzio e le emozioni, hanno richiesto uno studio particolare per essere rappresentate con efficacia nel disegno. Luigi, come hai deciso di gestire questi aspetti?

R.: Il silenzio è dato dall’immagine muta e dal ritmo del racconto e poi c’è un altro tipo di silenzio dato dal bianco della pagina. Anche la scelta del bianco e nero, del tratteggio nel disegno sono un modo per porsi in una precisa relazione con la scrittura: si tratta di un segno quasi calligrafico che cerca di essere il più libero possibile, pur essendo alla base molto geometrico. C’è il piano del racconto in cui mi affido alla recitazione dei personaggi, che ha richiesto uno studio profondo. Un altro aspetto interessante nella rappresentazione del silenzio è dato dai disegni con cui ho espresso l’alfamuto, cioè il linguaggio di segni che i protagonisti utilizzano per comunicare da un certo momento in poi. Riprodurre le pose dell’alfamuto è stata forse l’operazione più difficile perché alcuni di questi gesti erano molto caratterizzati dal movimento. Il più difficile è stato sicuramente quello della “vergogna”, ma spero comunque di essere riuscito a tradurre correttamente quella sorta di giravolta buffa.
 


La storia si ambienta in una Palermo non turistica, conosciuta solo dai palermitani. Credo che questa scelta abbia una valenza narrativa, è stato difficile renderla attraverso il disegno?

R.: Essendo palermitano anch’io, come Giorgio, ho provato una certa emozione nel leggere il libro e nel dover rappresentare quelle particolari zone della città che non hanno niente di interessante per i turisti, né sono caratterizzate da un degrado estremo. È stata una sfida rappresentarle perché ho cercato di trovare un interesse visivo in luoghi che di per sé ne sono privi, ma fanno comunque parte del mio immaginario della città. Tant’è che all’inizio avevo in mente di disegnarli in maniera diversa. Pensavo di far ricorso a uno stile non dico da manga, ma sicuramente più architettonico, un’esatta raffigurazione di questi palazzi e questi balconi avrebbero richiesto la pazienza certosina di un giapponese, che io non ho sicuramente. Alla fine è emerso il mio segno che è più violento, più schizzato, meno preciso. Quello che è venuto fuori è esattamente il paesaggio di Palermo, che trovi rappresentato anche in copertina, con la coesistenza tra il degrado materiale dell’edilizia più antica e quello estetico di quella più moderna, caratterizzata da questi palazzoni anonimi. È il paesaggio di Palermo, da cui non si scappa.

V.: Già nel romanzo c’è una specie di confronto e di conflitto tra i due modi in cui Palermo può esistere: il centro storico che ha qualcosa di misterioso e di insopportabile, una zona cittadina che fino a una ventina di anni fa era davvero una “no man’s land”, un luogo in cui, se eri nato in altri quartieri, non avevi ragione di andare e che non ti capitava nemmeno accidentalmente di attraversare. Il centro storico è per Nimbo qualcosa al contempo di attraente e repulsivo, l luogo del dialetto, che lo attrae proprio perché lui non proviene dalle case del centro storico ma da quei quartieri costruiti negli anni ’60 e ’70, un’edilizia programmaticamente anonima, irrelata e monotona. Cresciuto in questa parte di città mi sono reso conto che quando cresci in uno spazio anonimo e contemporaneamente ibrido (perché sovrapponibile a luoghi analoghi che si sono sviluppati in altre medio-grandi città negli stessi anni) è come se questa dimensione anonima desse vita a una specie di sfida con cui ti misuri. Il movimento di Nimbo verso il centro storico è un’occasione rischiosa per riuscire a darsi un nome, per conquistarselo, proprio perché nei quartieri nuovi questo non è possibile, c’è solo genericità. Una condizione che mi sembra contenere una grandissima potenza espressiva (Gabriele Basilico, in ambito fotografico, l’ha riconosciuta e rivelata magnificamente) e che Luigi ha saputo risvegliare conferendo a queste zone dignità narrativa.


Come nasce l’idea di rappresentare Il tempo materiale di Giorgio? Come si è articolato il vostro rapporto durante la realizzazione del graphic novel?

R.: Questo risveglio del graphic novel mi ha fatto venire voglia di misurarmi con questa forma di fumetto-romanzo che era in qualche modo diversa rispetto a quella con cui mi ero formato io, cioè quella del fumetto degli anni Ottanta, più legato alle riviste. Ultimamente c’è stato un exploit di graphic novel a carattere autobiografico, perché è giusto in fondo che si parli di ciò che si è vissuto e che si conosce meglio. Personalmente, non credo di aver avuto una vita così interessante da poter appassionare i lettori. Così l’incontro con il romanzo di Giorgio è stato straordinario perché mi ha comunque permesso di metterci qualcosa di mio: ho diretta esperienza della città di quell’epoca, quando avevo l’età dei protagonisti, era insomma la storia adatta per permettermi di affrontare il graphic novel, con la sua forza narrativa e la sua solida struttura a cui appoggiarmi.
Io e Giorgio non ci conoscevamo prima. Dopo aver letto la storia l’ho contattato per proporgli l’idea: in un primo momento avevo chiesto a lui di riadattare il testo, ma Giorgio, in un modo anche elegante, mi ha detto che non era interessato, che lasciava a me totale autonomia. Così ho avuto la libertà di pormi di fronte al graphic novel come un regista, come una sorta di Stanley Kubrick – forse il confronto è irriguardoso, ma mi aiuta a rendere l’idea – il quale non ha mai scritto un soggetto originale ma ha sempre adattato lavori di altri per fare film di cui comunque rispettava sempre il testo originario. Credo che fare l’autore sia un altro mestiere: ci sono casi di disegnatori che si rivelano deboli sulla storia. A me piace interfacciarmi con la storia di un altro perché mi trasformo in funzione di quella, riuscendo a far nascere qualcosa di nuovo, come un figlio che ha sia un padre che una madre. Il nostro rapporto quindi è stato bello perché lui mi ha dato totale autonomia, ma anche suggerimenti giusti al momento giusto. Ero infatti un po’ bloccato nella scelta del protagonista, che dalla lettura del romanzo immaginavo con una maggiore durezza, mentre nel graphic novel ha un volto un po’ più dolce che rende anche più credibile la sua evoluzione. Non c’è una trasformazione radicale e si riesce a comprendere meglio il suo ruolo all’interno di quel terzetto. Tutti e tre i personaggi mutano all’interno della storia, cambiando anche fisicamente. Ecco un altro grosso problema per un fumettista, perché a un certo punto della storia i protagonisti si rasano i capelli e la capigliatura aiuta moltissimo nella caratterizzazione e nel riconoscimento dei personaggi. È stato necessario lavorare molto sulla loro fisionomia per renderli ben identificabili durante tutto il racconto.

V.: Per aiutare Luigi nella rappresentazione di Nimbo gli ho consigliato di ispirarsi al protagonista di La pecora neradi Ascanio Celestini, un ragazzino che ha una fisicità tanto esile quanto seria. Non so perché scrivendo il romanzo immaginavo una specie di Thom Yorke da giovane, bellissimo nella sua irregolarità, occhio matto incluso. Fra l’altro in realtà all’inizio della scrittura pensavo che il protagonista fosse Scarmiglia, o meglio pensavo che il Nimbo che avevo in mente dovesse agire come nella storia agisce Scarmiglia. Via via mi sono reso conto che far coincidere l’io narrante con una figura così radicale, così ciecamente proiettata verso tutte le azioni, mi avrebbe tolto la possibilità espressiva di lavorare sull’esitazione. Ho anche capito che non mi interessava raccontare la febbrilità cieca del fanatico ma la maniera in cui il suo modo di procedere, i suoi passi, il suo ritmo, il suo inventarsi scopi, viene osservato da qualcuno che gli sta vicino, che condivide in buona parte la sua prospettiva ma che non è lui. È la posizione del secondo nella gara di corsa, che regola la sua andatura e per certi versi ha consapevolezza del proprio ruolo osservando la nuca di chi lo precede. Mi serviva quindi che l’io narrante stesse qualche passo indietro, in termini di capacità di azione, rispetto a una figura più sfrenata che invece è Scarmiglia, facendo dell’esitazione di Nimbo un tempo critico, un tempo da utilizzare per cambiare idea.
 


Giorgio, cosa hai provato quando hai visto la rappresentazione di quello che tu avevi in testa fatto da un’altra persona? Luigi è riuscito a interpretare e a dar vita a quello che tu avevi in mente?

V.: La sensazione è stata molto bella, anche se può sembrare strano vedere il lavoro che hai fatto riattraversato da un punto di vista forte come quello di Luigi. Considerato però che non ho nei confronti di quello che ho scritto un senso di proprietà, ero curioso di vedere in che cosa la lettura di Luigi aveva trasformato quello che avevo scritto. Fin dalle primissime tavole che Luigi mi ha fatto vedere ho capito che  non avevo davanti agli occhi la trascrizione o l’adattamento del mio romanzo ma una reinvenzione di quella storia. Come ho provato a dire nella postfazione del graphic novel mi sono reso conto che la lettura può essere un’esperienza autoriale tale da determinare una vera e propria riscrittura del testo così radicale da farti dimenticare la narrazione dalla quale ha avuto origine. Mi è dunque piaciuto confrontarmi con le differenze che la narrazione per immagini ha creato, forme di “distanziamento” che sono modi di reagire all’originale –che fra l’altro a quel punto non è più l’originale perché il libro di Luigi è un nuovo originale, una nuova matrice. Le volte in cui ho avuto davanti tavole in cui elementi secondari venivano sdoganati sprigionando la loro istanza embrionale e diventando una vera e propria forma, ero felice perché mi trovavo davanti al lavoro di qualcun altro che mi faceva scordare quello che avevo scritto.


Grazie a entrambi per la disponibilità e le risposte dettagliate.


(Giorgio Vasta – Luigi Ricca, Il tempo materiale, Tunué, 2012, pp. 160, euro 14,90)
 

[LibriCome4] Salman Rushdie: “Come Joseph Anton”

«Informo l’eletto popolo musulmano che nei confronti dell’autore di I versi satanici contro l’Islam, il Profeta e il Corano, e nei confronti di tutte le persone coinvolte nella pubblicazione del libro che ne conoscevano il contenuto è proclamata la condanna a morte. A tutti i musulmani del mondo è lecito giustiziarli in qualunque luogo essi si trovino».

Durante l’ultimo incontro della giornata conclusiva di Libri Come, i temi sono caldi, scoppiettanti. Si parla di letteratura, di censura, di intolleranza e di vita, con uno scrittore di fama internazionale: Salman Rushdie.

Il libro in questione, I versi satanici,  viene pubblicato nel 1988: un’epoca molto diversa dai nostri giorni. Qualcuno – i fondamentalisti – ritiene che il romanzo di Rushdie offenda l’Islam: l’allusione a una storia fantastica, sicuramente in una rivisitazione romanzesca di alcuni aspetti della cultura islamica, contenuti nei versi che danno il titolo al romanzo, costa cara all’autore. E non solo a lui.
Poco dopo la pubblicazione, nascono spontaneamente alcune proteste; all’inizio, in maniera distratta, frastornata, poi insistenti, irruente. Il libro,messo al bando, viene bruciato, distrutto, calpestato. È 14 febbraio del 1989 quando una giornalista anonima chiama lo scrittore per annunciargli la fatwā di Khomeini, che aveva decretato la sua condanna a morte, per blasfemia. E da quel momento in poi, cala un silenzio lugubre, un sipario di terrore e di oscurità.

«I poliziotti della mia protezione mi chiesero di cercare uno pseudonimo da poter utilizzare per due motivi: per i gesti quotidiani, la vita di tutti i giorni come pagare bollette, firmare assegni, fare la spesa, ma anche perchè la mia scorta di protezione aveva bisogno di esercitarsi a dire un nome che non fosse il mio, per non farselo scappare in un bar, o in un qualsiasi luogo pubblico».

Salman Rushdie ha dovuto cambiare nome, usare uno pseudonimo, annientarsi in un’identità che non gli apparteneva, confondersi con la folla. Il suo nuovo nome, Joseph Anton, è una crasi tra quelli di celebri autori: Joseph è il nome di Conrad, Anton è il nome di Čechov messi insieme, compattati. «Questo» conferma l’autore «era l’unico nome che mi conquistava. Sembrava un nome plausibile, di un qualcuno veramente esistito».

È credendo nella letteratura ma anche nella vita e nell’umanità che Salman Rushdie affronta la sua battaglia contro la censura. Perchè, è risaputo, l’intolleranza va a braccetto con l’ignoranza. Ma ha una fitta schiera di complici: sostengono la sua causa scrittori di ogni genere e di ogni provenienza, figure umane nobili, coraggiose o di chi vorrebbe poterlo aiutare, nonostante la paura per la propria vita e per la propria famiglia. Lo scrittore confida di essere diventato molto acuto nel riconoscere nelle persone l’una o l’altra personalità: l’ipocrisia o la lealtà, il volto della giustizia o della cattiveria.

Ma è con la fiducia che non è mai mancata in lui che, oggi, a distanza di quasi venticinque anni, davanti a un pubblico attonito e calorosissimo, descrive ciò che ha vissuto con un sorriso.

Il mondo dei libri, che è composto da scrittori e lettori in un circolo disposto al dialogo e al confronto, lo ha visto uscire di scena, per tredici lunghi anni: «Il mondo dei libri è la mia patria ed è un mondo dove non è definita la patria, la politica, ma è un paese in sè. Questo mondo non ha frontiere, tutti si possono far plasmare e coinvolgere».

Un mondo che gli è stato in parte negato.


L’evento si è svolto domenica 17 marzo presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, all’interno del festival Libri come.

“È Stato la mafia” di Marco Travaglio

È Stato la mafia, la terza fatica teatrale di Marco Travaglio dopo Promemoria – Quindici anni di storia d'Italia e Anestesia Totale, è andato in scena a Roma, unica data, lo scorso 9 febbraio al Gran Teatro di Largo Sandro Ciotti.

Come già nel caso di Promemoria sotto la grande tenda del Gran Teatro si è riunito un pubblico numerosissimo, ben più consistente e variegato della solita platea che continua a riconoscersi nelle soirée capitoline. Nelle prime file volti noti di personaggi televisivi e politici hanno attratto la chiassosa attenzione di non noti, giornalisti e cameramen, ma, magia del teatro, una volta spente le luci, tutti sono tornati a essere uguali nel buio, di fronte alle due poltrone rosse e al cavalletto che, assieme alla postazione musicale di Valentino Corvino, emozionante violinista, costituivano tutta la scenografia necessaria.

Di fronte alla cronaca di uno spettacolo come È Stato la mafia la vera difficoltà sta nel valutare esclusivamente i tratti stilistici e formali della messa in scena e nel cercare di mantenere l’obiettività. Travaglio ci ha abituato, con libri, editoriali e sortite televisive, a uno stile eloquente, diretto e ironico, e anche in questo caso la narrazione dei fatti è lineare e convincente. Giuste le pause, giuste le inflessioni, giusto il pathos che lascia intravedere, oltre al mestiere, anche la passione che arde dietro un lavoro approfondito di ricerca e confronto dei fatti. È proprio la passione a trasformare giocoforza il recensore in un partigiano, lo spettatore in cittadino. Il teatro politico di Marco Travaglio costringe l’ascoltatore di fronte a fatti spuri, provoca risate che fanno lo stesso rumore dei chiodi piantati nelle bare e, qualità eccelsa, stimola la curiosità nell’individuo che, deriso nella sua passività, si sente finalmente stimolato a prendere una posizione e a informarsi per difendere il partito, pro o contro, che ha sposato.

Le quasi tre ore di lettura del vicedirettore di Il Fatto Quotidiano sono intervallate dalla musica di Valentino Corvino e dalle letture sceniche di Isabella Ferrari. Quest’ultima, bellissima in abiti semplici, è passionale e intensa. Attraverso di lei riprendono vita le parole di intellettuali della levatura di Pasolini, Flaiano, Gaber, Pertini e Calamandrei e la retorica politica sembra improvvisamente più bella.

È Stato la mafia è uno spettacolo di quelli che vale la pena vedere, anche, e soprattutto, per discuterne dopo, per litigare, per indignarsi o per alzare la voce e sostenere tutto e il contrario di tutto. Nessuno tra gli spettatori saprà più nascondere la testa sotto la sabbia (almeno non per qualche giorno), e gli si legge in faccia.

 

È Stato la mafia
di
Marco Travaglio
con Marco Travaglio e Isabella Ferrari
musiche di Valentino Corvino


Prossime date:
22 marzo – Palasport G. Panini, Modena
23 marzo – Pala Credito di Romagna, Forlì

“Nella zona proibita” di Eduardo Ramos-Izquierdo

Nella zona proibita di Eduardo Ramos-Izquierdo (Arcoiris, 2012) tratta uno dei temi più interessanti e oscuri da sempre al centro della letteratura e del folklore: il dopplegänger. L’esistenza di un doppio identico a noi in qualche parte del mondo presenta un fascino seducente e porta con sé alcune leggende e caratteristiche ricorrenti.

È ad esempio credenza popolare che il doppio sia una versione malvagia di noi stessi, una sorta di gemello cattivo, e che vederlo o incontrarlo sia presagio di morte, mentre sulla forma che il doppio possa assumere esistono versioni discordanti. Contrariamente a quanto succede in alcune culture, in cui il doppio si manifesta in forma incorporea, uno spirito che non si riflette negli specchi e non ha ombra, in altre credenze esso si presenta come un sosia identico in tutto e per tutto all’individuo, dotato di un corpo e di una vita parallela ma indipendente, con un lavoro, una casa e delle relazioni interpersonali.

Cosa succederebbe se di doppi ne esistessero addirittura più d’uno?

È questo il caso su cui si trova a indagare l’investigatore privato Lino in Nella zona proibita. In un periodo di ristrettezze economiche e penuria di clienti, monsieurLino, francese di origini italiane, vede bussare alla propria porta un cliente particolare sotto molti punti di vista. Roberto Molina è messicano, ha con sé enormi somme di denaro in contanti che consegna immediatamente a Lino quale anticipo, e ha una storia che lo angoscia profondamente. Sostiene di aver incontrato varie volte alcuni suoi doppi in diversi posti del mondo; questi sosia sono sempre identici a lui, con la stessa corporatura, gli stessi tratti del viso e spesso indossano anche gli stessi suoi indumenti. Dopo aver assistito alla morte di uno di questi sosia, dopo essersi letteralmente guardato morire, Molina ha iniziato una ricerca metodica per rintracciare tutte le persone al mondo che considera suoi doppi, avendo scoperto per giunta che tutti sono accomunati dalle stesse iniziali RM e tutti condividono la stessa data di nascita.

Ingaggia quindi Lino al fine di rintracciare queste persone per capire come ciò possa essere possibile e che implicazioni sono sottese al vivere varie volte la stessa vita in luoghi diversi.

Fra indagini e intrighi tipici dei romanzi noir, Eduardo Ramos-Izquierdo ci fa entrare in un vortice di nomi, personaggi e scoperte inaspettate, trovando anche il tempo per mostrarci una dolcissima e sensuale storia d’amore fra Lino e Agathe, donna che viene dal passato ma che assume il ruolo di compagna e aiutante di Lino lungo tutta l’indagine e oltre.

Magistrale il colpo di scena finale, completamente aperto a varie interpretazioni e correlato di un epilogo in cui vengono fornite due principali possibilità di lettura, rispettivamente formulate e avvalorate da Lino e Agathe.

Molto interessante anche la guida «Istruzioni per uscire dalla zona proibita»di Stefano Tedeschi, inserita in calce al romanzo, con spunti di riflessione sul tema del doppio, sulle ambientazioni e sulla scrittura di Eduardo Ramos-Izquierdo.

Lo stesso autore afferma nella postfazione: «Traducendo liberamente alcuni concetti della poetica di Poe, ritengo Nella zona proibita un libro che si legge tutto d’un fiato. Chissà che qualche lettore non voglia provare a verificare questa affermazione».

Dopo essermi affidata al suo consiglio per la lettura di questo romanzo, mi sento di confermare la sua affermazione. Nella zona proibita è un romanzo breve che, una volta iniziato, non può essere richiuso prima di arrivare alla conclusione, salvo poi ricominciare a leggerlo per ritrovare gli spunti e gli indizi che ci erano stati forniti dall’autore lungo l’indagine, e che non abbiamo saputo individuare immediatamente.

(Eduardo Ramos-Izquierdo, Nella zona proibita, trad. di Giulia Pinchetti, Edizioni Arcoiris, pp. 96, euro 10) 

“Black Mirror”, la seconda stagione

Nel 2011 ha stupito la Gran Bretagna. Lo scorso inverno, con un po’ di colpevole ritardo, è finalmente giunto anche in Italia. Stiamo parlando di Black Mirror, uno dei migliori show televisivi di questi ultimi anni, brillante parto della mente di Charlie Brooker. Sul finire del 2012 vi avevamo presentato i primi tre episodi, e adesso è il momento della seconda stagione: Sky Cinema questa volta non ha ripetuto i vecchi errori, mandandola in onda giusto ieri sera nella sua interezza, a un solo mese di distanza dalla premiere inglese.

In molti siamo stati in spasmodica attesa, soddisfatti ma non appagati da tre storie appassionanti, sconvolgenti ma persino troppo corte proprio per via del coinvolgimento creato negli spettatori. Brooker si è trovato di fronte a uno dei momenti più difficili per un produttore e scrittore televisivo: spesso capita di vedere un calo di qualità in una serie in grado di raggiungere grande successo con la sua prima stagione. Le aspettative dei fan si fanno alte, l’idea è stata già presentata e quindi perde quell’alone di novità in grado anche di fare la differenza. La seconda serie di Black Mirror è riuscita quindi a replicare quanto già fatto vedere? Mai come in questo caso la risposta sta soltanto nel gusto del pubblico.

Questi tre nuovi episodi infatti sono stati di grande impatto come i precedenti, assolutamente originali e a tratti sorprendenti, ma vi spiegheremo tutto pian piano. Nel presentarvi le tre storie non seguiremo l’ordine italiano ma quello di Channel 4. Sky Cinema ha pensato bene di anticipare la terza per un motivo particolare, ma penso sia il caso di lasciare il “meglio” per ultimo.

Già da “Torna da me” si ha quel senso di continuità nel vedere che siamo ripartiti da dove avevamo lasciato, e quindi ancora una volta ci dobbiamo calare nelle singole realtà presentate nei vari episodi. Se siete particolarmente attivi su Facebook, Twitter e avete lasciato molti file ai posteri potreste pensare seriamente a cambiare attitudine dopo questi 50 minuti. Ricordate infatti che tutto ciò che lasciate su internet sarà per sempre una traccia di voi, anche dopo la vostra morte. Elaborare un lutto non è mai facile, ma si può cercare la soluzione in un software in grado di riprodurre personalità e voce del caro estinto grazie alla sua storia telematica? E chissà cosa potrebbe succedere quando una voce prodotta digitalmente non dovesse bastare più…

Lo scenario appena presentato è forse il più inverosimile di questa stagione. “Orso Bianco” sembra decisamente più inquietante nella sua atmosfera, ma paradossalmente più aderente alla nostra realtà. Il soggetto si sposta su Victoria, una donna che si risveglia in una camera senza riuscire a ricordare niente del suo passato. Uscita di casa troverà una situazione ben peggiore: ogni essere vivente incontrato non le rivolge nemmeno la parola, limitandosi a filmarla o fotografarla con il suo cellulare, mentre un gruppo di psicopatici la insegue cercando di ucciderla. E questo è solo l’inizio.

Ma vi avevamo detto di attendere il terzo episodio, e un motivo c’era. Chissà se Brooker si è reso conto di non aver creato un mondo “irreale” questa volta. Pensate a un personaggio comico della televisione. Seguitelo nel suo movimento diffamatorio contro un leader in piena campagna elettorale e nel suo tentativo di svegliare le coscienze sull’attuale classe politica. Adesso attendete il suo trionfante ingresso tra i candidati per l’elezione sotto la spinta del pubblico di Youtube, di internet e di tutti quei cittadini stanchi del solito vecchiume.

Avete appena letto in poche righe la trama di “Vota Waldo!”. E forse da italiani vi è suonato qualche campanello. Gli inglesi sembrano non aver apprezzato particolarmente questa storia, trovandola forse più debole delle altre due, ma non c’è dubbio che da queste parti possa essere recepita in ben altro modo. Per questo motivo probabilmente Sky Cinema ha deciso di anticiparla e mandarla in onda per prima.

Tra i personaggi spicca il candidato Liam Monroe, l’uomo più bersagliato da Waldo. Se le sue accuse vi sembrano familiari i riferimenti potrebbero non essere del tutto casuali: Brooker infatti ha commentato con parole non proprio d’elogio le ultime “imprese” di Silvio Berlusconi, ed è facilmente ipotizzabile che siano state ispirazione per il personaggio di Monroe.

Ad ogni modo il grande successo di Black Mirror è indiscutibile, e oltreoceano Robert Downey Jr. ha addirittura opzionato “Ricordi Pericolosi” (ultimo episodio della prima serie) per realizzarne un film prodotto con la Warner Bros. Un altro attestato, se mai ce ne fosse bisogno, della qualità di un prodotto tra i migliori presentati questi ultimi tempi.
 

[LibriCome4] Conversazione con Andrea Camilleri: “Come ho scritto i miei libri”

Quando si pensa ad Andrea Camilleri, non si può non pensare allo straordinario successo che anno dopo anno, e libro dopo libro, continua a riscuotere fra i lettori. Ma quando si ha la fortuna di ascoltare dal vivo Andrea Camilleri ci si può perdere in storie e luoghi forse persino più seducenti di quelli che descrive nei suoi libri. Con la “freschezza” dei suoi ottantasette anni, ma con la convinzione di averne qualcuno di meno, lo scrittore siciliano è stato ospite dell’ultima giornata di Libri Come, nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica: su un palcoscenico scevro, due sole poltrone rosse, e Serena Dandini che ha conversato con lui in via del tutto informale.

«Come scrivi i tuoi libri?», gli chiede la Dandini. «Con la mano destra», ironizza lo scrittore.

Questo è l’incipit, dal quale si intuisce già quale sarà il tenore dell’incontro. Colui che viene definito «un amico di tutti i suoi lettori» ci racconta che la scrittura è qualcosa che lo accompagna quotidianamente, come un rito. Camilleri la mattina alle 7 è già sveglio e pronto per il suo “impiego”, ma non prima di essersi «pulito, lavato e soprattutto sbarbato», condizioni senza le quali afferma di non riuscire a vivere. Questo modulo ripetuto con costanza ogni mattina è il metodo vincente per avere tutto «sotto controllo». Una persona «sciatta» scriverà in maniera sciatta e la conclusione è che la scrittura risentirà di questa poca accortezza: legame magico e personalissimo tra autore e testo.

«Perché scrivi?», è la seconda domanda, la più odiata da tutti gli scrittori.

In un’intervista a El País, Camilleri aveva detto: «Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale!» Confida inoltre al pubblico in sala che è l’unico modo per poter fare dediche ai nipoti, per dare «una parte di me stesso agli altri», ma anche una maniera per restituire tutto quello che ha letto: si impara a scrivere leggendo, e così lui scrivendo restituisce «quei pochi centesimi» che è in grado di ridare.

Non tutti sanno che i quasi cento libri scritti da Andrea Camilleri mantengono una tensione matematica rigidissima; non tutti sanno che ogni libro ha sempre diciotto capitoli e che ogni capitolo corrisponde a dieci cartelle. Una tensione da «direttore d’orchestra o da ballerina» che non può sbagliare un passo, una nota, che tiene il tempo. Mantenerla significa restare freddi in questi numeri contemplando comunque un’emozione, una sensazione. Una regola tutta personale, quella dello scrittore siciliano, un meccanismo computerizzato che non può uscire dagli schemi.

Approfondendo la tematica dei numeri e del ritmo si arriva a La rivoluzione della luna, il suo ultimo libro, edito da Sellerio. Un racconto in ventotto giorni, ambientato «sul finire del Seicento», in cui la protagonista, Eleonora di Mora, vedova del Viceré di Sicilia, succede al governatorato del marito. Un racconto che fuoriesce dalle righe perché viene preso dallo scaffale delle storie, da quella «biblioteca dei racconti da narrare da cui tutti gli scrittori attingono».

Una storia vera, in cui Camilleri si è infiltrato, facendosi spazio in uno spiraglio buio; ha ricercato dati, messo da parte carte e scartoffie, trovando questo passaggio di testimone nelle cronistorie; un passaggio di potere considerato poco e nulla da molti, ma che lui ha voluto riportare alla luce affinché gli fosse dato un giusto peso: la “governatora” combatté la corruzione, abbassò il prezzo del pane, mise in galera i politici corrotti e gli evasori fiscali, creò le corporazioni degli artigiani. Una donna straordinaria, insomma, che fece cose straordinarie.

«Un qualcosa di mirabile per il presente italiano», afferma la Dandini, che di donne e di politica si è sempre interessata. Sì, ed è per questo motivo che Camilleri, come affermava in un’intervista su La Repubblica, dice di «essere innamorato della sua Eleonora, innamorato della vittoria della bellezza sull’orrido, della voglia di fare sull’inerzia».

«Un libro molto poetico, che in un momento così buio ci rasserena il cuore; un’eventuale proposta di fare tutte le donne governatrici, cosa ne pensi?», chiede Serena Dandini. «È da anni che dico di fare un passo indietro, provando a imitare il governo di Le donne al parlamento di Aristofane, per riflettere. Sarò considerato un rinunciatario ma voglio dire una cosa fondamentale: il coraggio delle donne, enorme rispetto al sesso “forte”, è lo stesso coraggio che le porta a generare vita e ad averne fiducia».

La rivoluzione della luna è un libro che parla del potere e dell’intelligenza, di donne e di politica, del passato e forse, anche, del futuro e che cerca di dare una risposta al mondo e al nostro paese «occultato da una sorta di convinzione sbagliata: che il male sia sempre più forte del bene, del giusto», convinzione che a detta di Andrea Camilleri «sicuramente supereremo».

L’evento si è svolto domenica 17 marzo presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, all’interno del festival Libri come.

[LibriCome4] “Come il libro. Sfide e proposte”

Anche quest’anno a Libri come non poteva mancare la consueta tavola rotonda dedicata all’editoria, dal titolo Come il libro. Sfide e proposte: sette addetti ai lavori, coordinati da Stefano Salis, si sono incontrati pubblicamente per tastare il polso al mondo del libro e proporre eventuali rimedi alla crisi che investe ormai da qualche anno anche il settore culturale. Nell’ordine di intervento i partecipanti all’incontro sono stati: Gian Arturo Ferrari (Centro per il Libro), Marco Polillo (Aie), Alberto Galla (Ali), Stefano Parise (Aib), Giuseppe Laterza (Forum del Libro), Andrea Palombi (Odei) e Stefano Mauri (Gems).

Dopo un breve preambolo in cui delinea i tratti di una crisi non solo economica ma anche politica, Salis si rivolge ai suoi ospiti chiedendo a ognuno di loro un personale punto di vista sulla situazione attuale e facendo a tutti la medesima domanda: «Cosa fare per superare la crisi?»

Per Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro e la Promozione della lettura, «il mondo dei libri in Italia sta cambiando. Purtroppo ancora non sappiamo quando e dove finirà, ma questo cambiamento non va percepito come un temporale bensì come un terremoto». A testimonianza di ciò riflette sui dati Nielsen: «L’editoria sta male, sono calati gli acquirenti, fatta eccezione per quelli comprano gli eBook – grazie soprattutto ad Amazon – e anche chi continua ad acquistare libri investe meno soldi. Si nota una crescita della grande distribuzione, rispetto alle librerie indipendenti o alle grandi catene, la gente compra sempre di più in contesti occasionali». Una delle soluzioni possibili per Ferrari coincide con «l’ampliamento della base di lettori, operando e insistendo fin dall’infazia ad avvicinare le persone alla lettura. È ciò che proviamo a fare in maniera sperimentale con il progetto Invitro, i cui risultati saranno analizzabili solo fra qualche anno».

Per Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori, sono tre le cause principali del malessere dell’editoria: «La crisi economica e il conseguente calo generalizzato dei consumi; il tradizionale scarso interesse degli italiani per i libri – un problema con radici storico-politiche –; il mutamento delle nuove generazioni che hanno perso l’attenzione univoca e unidirezionale che il libro richiede, preferendo forme di svago meno impegnative». La soluzione di Polillo è chiara: «Bisogna cerca di recuparare quella parte della popolazione ancora oggi esclusa dal mondo del libro, senza darla necessariamente per persa».

Alberto Galla, presidente dell’Associazione Librai Italiani, è più pessimista: «Più che di terremoto si tratta di un vero tsunami. E se penso a tutto questo mi vengono in mente due parole: disagio e disorientamento. I librai non sanno bene cosa fare in questo momento di cambiamento. La soluzione sta nella formazione: bisogna creare una nuova figura di libraio attraverso scuole specifiche».

Per Stefano Parise, presidente dell’Associazione Italiana Biblioteche, «il tema centrale è il valore della lettura nella società: bisogna ribaltare l’idea che leggere sia un’attività di scarso valore sociale. Questo può essere fatto attraverso la valorizzazione delle biblioteche quali veri e propri pilastri della società». E poi aggiunge: «Perché a incontri di questo tipo mancano i rappresentanti della scuola? È anche con loro che bisognerebbe parlare per avvicinare i giovani alla lettura».

Giuseppe Laterza propone «una europeizzazione del problema, attraverso un confronto con gli altri editori europei». Poi riprende il discorso di Parise sostenendo che «il valore della lettura si recupera attraverso una battaglia culturale. L’editore deve diventare un diffusore di idee». Laterza conclude il suo intervento mettendo in guarda i colleghi: «Attenzione a non perdere anche i lettori forti, perché troppo spesso vendono dati per acquisiti ma in maniera errata. Sono i lettori forti a essere uno dei traini migliori verso i non lettori».

Andrea Palombi, direttore editoriale di Nutrimenti, parla a nome dell’Osservatorio degli Editori Indipendenti: «Uno dei problemi principali riguarda la bibliodiversità e la concorrenza fra case editrici indipendenti e grandi gruppi. Sono necessarie a tal proposito garanzie di concorrenza reale con le grandi case editrici». Ribadisce poi «il ruolo centrale delle librerie indipendenti» e auspica «una collaborazione maggiore tra queste ultime e i piccoli editori».

Prende infine la parola Stefano Mauri, presidente di Gems e vicepresidente di Messaggerie, che in parte replica a Palombi sulla questione dei grandi gruppi che controllano catene di librerie come Feltrinelli, Mondadori e Giunti/Messaggerie: «Se non ci fossero le catene oggi il mercato dei libri sarebbe la metà. Le catene sono un’idea europea». Poi si concentra sui rimedi alla crisi: «Bisogna puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Ciò significa anche essere più mirati con le tirature, prestando maggiore attenzione alle richieste dei librai».

L’impressione finale dopo circa un’ora e mezza di discussione è che una linea comune di intenti sia ancora lontana da venire. Questo soprattutto perché alcuni degli interlocutori chiamati in causa sembrano avere opinioni troppo discordanti tra loro. L’unica cosa certa è che ci troviamo in pieno cambiamento. Un cambiamento che, a quanto pare, nessuno riesce ancora veramente a comprendere.


L’evento si è svolto sabato 16 marzo presso il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, all’interno del festival Libri come.

“La caduta” di Giovanni Cocco

Come saranno ricordati questi anni dieci del nuovo millennio? La caduta (Nutrimenti, 2013), il primo romanzo di Giovanni Cocco, dà una risposta a questa domanda: si ricorderanno come gli anni della caduta dell’Occidente.

Ci sono tutte, le cartoline del terzo millennio, in questa raccolta: l’uragano Katrina, lo scoppio della bolla immobiliare, la strage degli attentati di Londra e Madrid, la tragedia – di ieri, di oggi e di domani – della povertà, la virulenza dello scontro culturale. I personaggi della storia dell’oggi sono tutti modesti, eroici, non memorabili individui che nei diversi luoghi di questa macro-regione, concettuale piuttosto che geografica, cercano di restare in equilibrio, di gravitare con coerenza nella scia della fulgida stella del grande Occidente che nella notte del dieci agosto di qualche tempo fa, bombe, violenza, povertà e cinismo hanno staccato dal cielo. A rendere umane queste grandi tragedie, ci sono infatti piccole storie familiari in cui si sente riecheggiare, da un lato, la maledizione delle colpe dei padri che ricadono sui figli e, dall’altro, si possono intravedere le fondamenta del mondo che verrà. Divisa tra Prologo ed Epilogo è la storia di Rafael e Roberto, in cui figlio nasce alla luce del padre in età adulta; l’atra faccia della tragedia è la sorprendente la storia di Ray e suo padre, nelle acque trasparenti del Mississippi; commovente è quella di Paul e Philippe, dove a sopravvivere è l’individuo sbagliato.

Ciò che affascina maggiormente di questo romanzo è, però, l’impianto che lo sostiene, talmente articolato che senza l’aiuto concesso al lettore nella nota di chiusura non sarebbero immediate né l’intuizione dell’elaborato disegno architettonico né la sua comprensione. Cocco sceglie di scrivere un romanzo dalle atmosfere bibliche spiegando egli stesso come questa scelta si evidenzi soprattutto nei richiami alle sacre scritture che introducono ciascun episodio e nelle rispondenze interne tra le parti del testo che corrispondono ai simboli della tradizione numerologica biblica. Come negli affreschi della grande tradizione italiana, poi, Cocco rappresenta le scene bibliche all’interno di un involucro che richiama i cicli pittorici del Quattrocento e Cinquecento, segnatamente la cappella Ovetari del Mantegna e la cappella Portinari di Fossa. I capitoli rappresentano le scene principali e sono separate dai tondi che riportano le storie di Helladios, George, Jérôme e Carmine.

Con La caduta prende avvio il ciclo di quattro episodi annunciati da Giovanni Cocco di cui si comporrà La Genesi: una grande opera che, una volta conclusa la lettura, non si può fare a meno di considerare ambiziosa, ma sicuramente, nelle possibilità di questo autore. Un esordio brillante, un romanzo coinvolgente, crudo ed epico. Da leggere.

(Giovanni Cocco, La Caduta, Nutrimenti, 2013, pp. 223, euro 16)