“Se te ne vai, non torni” di Rolando D’Alessandro

Se te ne vai, non torni di Rolando D’Alessandro (Ensemble, 2012) è un titolo emblematico, che anticipa una storia dura. La storia di un ragazzo che è andato senza poter tornare, costretto a vivere una vita clandestina per sfuggire a un’ingiusta condanna. Una latitanza durata trent’anni.

Rolando ha diciannove anni, è un giovane studente militante di sinistra nell’Italia degli anni Settanta, con idee e progetti di vita, quando un giorno la sua spensieratezza viene spezzata da una terribile accusa: l’omicidio di un ragazzo del suo paese. Un omicidio che non ha commesso, per il quale viene condannato lo stesso senza prove, senza la possibilità di difendersi. Si aprono così le porte del carcere: un mondo nuovo, violento, brutale ma anche amichevole per certi versi. Una realtà sconvolgente per un giovane cresciuto nella stazione ferroviaria di un paesino della Toscana, ma alla quale non soccombe, riuscendo a creare una sua dimensione, nella speranza di uscire presto da lì. Perché Rolando è innocente e spera che il processo gli dia ragione.

Purtroppo la sentenza non gli lascia scampo: viene condannato a trent’anni, senza appello, e Rolando non ci sta. I giochi sono fatti e lui non accetta di pagare per qualcosa che non ha fatto, di piegarsi a un processo basato solo su indizi, senza nemmeno una prova e senza la possibilità di dimostrare la sua innocenza. Evade e trascorre i successivi trent’anni in latitanza, senza una casa fissa, tra Roma e Trieste, tra Parigi e la Francia meridionale fino ad arrivare a Barcellona, dove vive tutt’ora. Dove finalmente vive da uomo libero, perché la pena è andata in prescrizione.

Rolando D’Alessandro nel suo libro riesce a esprimere la violenza e il dolore che ha visto e subito in carcere e fuori, racconta i soprusi, le angherie, le lotte che non ha mai smesso di combattere. Pur esprimendo idee politiche apertamente schierate, lo fa con pacatezza, con la tranquillità di chi ha ormai vinto la sua battaglia e può esprimersi liberamente senza censure. La sua storia racconta anni amari trascorsi lontano dalla sua famiglia, in un mondo in cui è come se non esistesse, senza documenti, senza nome, senza identità. Rolando non esiste ma c’è: lavora, ha una figlia, è impegnato politicamente, ma vive con la costante paura di essere scoperto, come un animale braccato.

Un animale braccato che anche ora che non ha più bisogno di fuggire, non è tornato lo stesso.


(Rolando D’Alessandro, Se te ne vai non torni, Edizioni Ensemble, 2012, pp. 238, euro 14,90)

“Buongiorno Papà” di Edoardo Leo

Secondo lavoro di regia per Edoardo Leo, Buongiorno Papà riprende un tema, quello del passato che ritorna, già presente nella sua opera di esordio di tre anni fa, 18 anni dopo, seppure con modalità ed esiti molto diversi. Il passato irrompe nel presente e mette il protagonista davanti a un bivio drastico.

Andrea (Raoul Bova) è un quarantenne che rispecchia completamente l’immagine dell’uomo di successo dei nostri giorni. È bello, single, disinvolto; ha una carriera affermata, un loft arredato impeccabilmente, una Porsche fiammante, frequenta le discoteche e si abbandona a una serie di avventure sentimentali che non durano mai più di una notte. Vive con l’amico Paolo (Edoardo Leo), disoccupato alla ricerca della propria identità, con il sogno nel cassetto di organizzare feste per bambini, che ricopre il ruolo dell’amico “scemo”, (come ammette lui stesso in una scena: «Il ruolo del figo era già occupato, ho preso l’altro»), quasi una spalla involontaria, nonché la fondamentale seppure inascoltata coscienza del protagonista.

Tutto cambia quando una mattina Andrea trova alla sua porta Layla (Rosabel Laurenti Sellers), una ragazzina dai capelli viola che gli annuncia di essere sua figlia e di aver appena perso la madre per una malattia. L’adolescente è accompagnata da Enzo (Marco Giallini), nonno rock con capelli lunghi e tatuaggi, musicista degli Enzo e i Giaguari che vive in un camper e la notte sogna i New Trolls. Inizia così una convivenza forzata, attraverso la quale Andrea viene catapultato in una realtà completamente nuova e sconcertante, fatta di pasti di famiglia, musica rock all’alba, colloqui con i professori, in particolare con Lorenza (Nicole Grimaudo), professoressa di Scienze Motorie che avrà un ruolo centrale nel percorso di crescita di Andrea; per non parlare delle incomprensioni più che ordinarie fra adolescenti e genitori, seppure a volte si stenti a capire chi sia il vero adolescente e chi il genitore. L’eterno ventenne si trova insomma a fare i conti con le proprie responsabilità e finalmente dovrà occuparsi di qualcun altro oltre che di se stesso, prendersi cura di questa ragazzina che continua incessantemente a scattargli foto e cercare di conoscerlo un po’.

Buongiorno papà è una commedia sulla crescita, quasi più complicata per Andrea che per Layla, sulla paternità e sulla difficoltà di costruire rapporti veri nella società odierna, come dimostra la scritta che campeggia nel salone del protagonista: «I am mine», che rispecchia perfettamente la filosofia attuale del bastare a se stessi, senza aver bisogno di famiglia, amici e relazioni stabili di alcun tipo. E infatti è proprio l’unica persona che è sempre rimasta accanto ad Andrea nonostante tutto, Paolo, a salvarlo, a svegliarlo dalla vita superficiale che ha portato avanti finora, a farlo sbattere violentemente contro le responsabilità di padre che Andrea continua a fuggire. È Paolo infatti che, accogliendo Layla ed Enzo nella propria quotidianità, aiutando Layla nei compiti e ascoltando le sue confidenze e le sue paure, riesce a costruire quel ponte necessario per far capire ad Andrea che sua figlia, lungi dall’essere il problema che lui pensa, «è in realtà la cosa più bella che gli potesse capitare».

Un cast perfettamente amalgamato, fra cui una divertentissima Paola Tiziana Cruciani, Ninni Bruschetta, e Mattia Sbragia, che regala a questa commedia momenti di grande ironia ma anche di ragionata riflessione, senza mai risultare scontata grazie alla scelta di modalità originali con cui sviluppare il soggetto. Per quanto Raoul Bova stupisca con un credibilissimo quarantenne superficiale e innamorato di se stesso, meritano particolare menzione le interpretazioni dei due attori non protagonisti che tengono insieme il filo del film con magistrale bravura. Da una parte Edoardo Leo, a suo agio nel ruolo dell’amico timido e insicuro ma tutt’altro che scemo, e di gran lunga più maturo di Andrea, dall’altra Marco Giallini, credibilissimo fricchettone, che rifiuta di essere chiamato nonno, eppure mostra tutta la sua saggezza dispensando consigli utili e sensati a tutti i personaggi.
(Buongiorno Papà, regia di Edoardo Leo, 2013, commedia, 109’)

“Il Piccolo Principe” di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco

Tre coni di luce e parole che scorrono nel mezzo. Un astronauta narratore bloccato in un deserto che finisce per essere narrato. Un principe narrato che finisce per narrare la storia di ogni uomo che cerchi di sorvolare la stratosfera delle idee seriose degli adulti. Poco dietro un cono di luce illumina invece volute sonore, che si attorcigliano ai corpi dei personaggi.

Narratore e narrato si incontrano in una storia apparentemente scritta da sempre. È la fiaba di chi osserva la vita dall’altalena della purezza, che oscilla prima lentamente, poi più velocemente, in un continuo alternarsi di ritorni e fughe. Nessun contatto tra i coni di luce. Perché il puro rimanga tale c’è bisogno di osservare senza far bagnare il proprio sguardo nel sudiciume che imperla i viventi. L’astronauta può infatti solo disegnare oggetti da fornire al principe, merce di scambio che nel passaggio acquista continuamente sensi inattesi. Perché se la vita sfiorasse la purezza non potrebbe che farlo con i denti acuminati del veleno di un serpente.

Invece lo sguardo del Piccolo Principe (Sonia Bergamasco) si posa su esseri delle più varie forme, ciascuno vittima della propria presunta unicità. Il tratto saliente dei personaggi incontrati dal Piccolo Principe diviene infatti per loro stessi una gabbia di vita. Quest’ultima si traduce nelle brillanti e perturbanti caratterizzazioni di Fabrizio Gifuni. L’uomo d’affari, come il sovrano, quanto la volpe non riescono ad approdare a quell’Altrove che, nel mancar loro, li descrive, ma sono tutti esattamente imprigionati nei gesti stereotipati dei loro corpi.

L’uomo d’affari è l’unico proprietario delle stelle, ma è ingabbiato nei suoi tesi movimenti, nel suo rimanere visibile solo in un costante profilo. La volpe ha il corpo inarcato, la mano che rabbiosa striscia sulle cosce, proprio come il suo essere finge di abbandonarsi all’addomesticamento altrui, mentre si intuisce un indomito orgoglio rabbioso rivoltarsi all’accettazione dei propri bisogni.

È proprio questa inquietudine, pienamente umana, eppure così distante dal candore dei personaggi de Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, il marchio della rappresentazione di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni. Tanto la prima è diafana nelle sue semplici vesti bianche, tanto il secondo è carnale, intriso di una passione tutta umana, interprete di quelle vite immerse nell’ambivalenza struggente del desiderio di se stessi e dell’altro.

Sono mondi destinati a rimanere distanti, immersi ciascuno nel proprio cono di luce, uniti solo dall’impellente necessità di scambiarsi emozioni e consapevolezza di vita.

Il Piccolo Principe ha compiuto un viaggio nella mente di un viaggiatore astronauta, da sempre impegnato nella ricerca delle risposte che solo la sua fantasia potrà dargli. Nel paesaggio lunare della propria mente l’astronauta saprà riconoscere i tratti della purezza che, come ogni degna meta ideale, svanirà come per il pubblico la fiaba svanisce nell’aridità del reale.

 

Il Piccolo Principe
da un’idea di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco
con Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco


Prossime date:
5-6/4/2013 – Teatro Giuditta Pasta – Saronno 

“Malacrescita” di Mimmo Borrelli

Il palcoscenico può diventare una tela se i colori pescano in tutte le sfumature del sangue e se le parole sanno essere pennelli dalle setole di spine. Non è detto che questo non possa dispiacere a chi si aspetta una tela visibile. Ma forse il pittore saprà con solerzia scartare dalla vista del suo pubblico i residui di umanità che l’immagine porta in dono. In quel caso vedreste proprio quei pennelli di parole passare su corpi che non il linguaggio ha partorito, ma i suoni che in esso germogliano. Sboccerebbero dunque fiori di suoni scabrosi e inquietanti, fiori docili ma fieri, fiori coltivati nel terreno di un’onomatopea che diventa incarnazione nelle viscere degli uditori del suono della parola viscere.

Tra questi fiori vedreste la storia di una madre. È una madre composta di parole orfane quella ritratta da Mimmo Borrelli. Parole slegate, straziate e strazianti, urlanti disegnano nell’aria organi spossati, liquidi infettati dalla vita. La madre è decomposta sul palco senza alcuna pietà e senza alcuna immagine cui appigliarsi. La parola di Borrelli trancia colpo dopo colpo ovaie, uteri e vagine, li stacca dal corpo di una madre lacerata dal piacere, sacrificato per il proprio ideale materno. L’accetta di Borrelli è intrisa di sudore mentre affonda sul ventre sfatto della storia di una madre non più donna. Maria Sibilla Ascione sale sul palco pezzo dopo pezzo, organo dopo organo, fino a ricomporre la sua storia di vittima in un impianto narrativo esplicitamente invertito.

Non si tratta dunque di una storia che si serve di suoni e parole, ma di suoni e parole che attraversano la storia di una ragazzina, la ingravidano e, nel loro essere partoriti con travaglio sul palco, divengono teatro. Il violento marito e il suo seme non sono altro che accidenti di una vicenda già vaticinata fin dalle prime mestruazioni di Maria Sibilla. La stessa donna forse è solo un pretesto dei suoni delle viscere della vita per riemergere nella carne di due gemelli. Gemelli questi ultimi che non avrebbero potuto dunque non essere allattati con il rosso del vino.

Il colore dominante, pur non apparendo sulla scena, passa dalle mani del carnefice, al corpo della donna vittima/carnefice, per approdare a quello dei figli, vittime della follia materna, ma carnefici di un pubblico straziato dalla loro narrazione. Quando il sangue si mescola alla follia non rimane che attendere la (de)generazione del suono. Quella di Antonio Della Ragione non è musica di armonia, ma battiti nel vuoto della mente, non sostegno alla parola spezzata, ma la tensione prima del prossimo colpo di mannaia di Mimmo Borrelli. La parola nasce infatti dai suoni indifferenziati emessi da bocche di figli e di madri troppo chini sulla vita per potersi risollevare e tornerà a essere mugugno, perché le storie di follia non possono che essere scandite solo per una volta.

 

Malacrescita
regia di
Mimmo Borrelli
tratto dalla tragedia La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimmadi Mimmo Borrelli
Con Mimmo Borrelli e Antonio Della Ragione

Per maggiori informazioni:
http://www.officinateatro.com/spettacoli-stagione-2/malacrescita/

“Istantanee d’inquietudine” di Norberto Luis Romero

Dieci racconti, dieci rapidi istanti catturati dalla penna di Norberto Luis Romero: Istantanee d’inquietudine (Edizioni Arcoiris, 2012) è una breve raccolta che ci viene illustrata in un’attenta postfazione dalla traduttrice e curatrice del libro, Dajana Morelli.

Racconti che sono come dei brevi flash, cui accediamo in medias res, senza alcuna introduzione e, soprattutto, senza alcuna conclusione, come se fossimo entrati in sala una decina di minuti dopo l’inizio del film: una volta terminati, siamo liberi – forse anche troppo – di dar loro una nostra interpretazione, di ritornare alla realtà con numerose domande e pochissime risposte certe, siamo lettori lasciati a noi stessi. L’inquietudine menzionata nel titolo vale per molti di questi racconti, in primis il “Diario del tassidermista”, che riesce a trasmetterci una sensazione profonda di disagio e di disturbo toccando le corde della nostra sensibilità con una forte forza evocativa: all’improvviso siamo proiettati in un ambiente tetro, popolato da uomini e donne a dir poco peculiari, come dei reietti sociali che diventano oggetto dell’attenzione di una non meglio precisata “mamma”. A narrare i fatti è il tassidermista del titolo, che sembra rivolgersi ai lettori da pari, da normale, pur dimostrandosi un personaggio tanto angosciante quanto le restanti caricature umane che lo circondano.

Come leggiamo nella quarta di copertina, c’è chi intravede nella scrittura di Romero – autore dalla crescente importanza all’interno del panorama contemporaneo – un richiamo a grandi della letteratura in lingua spagnola come Jorge Luis Borges o Julio Cortázar: in effetti, elementi come un’ironia sottile, autentica, sono indubbiamente presenti fra le righe di questo breve libro, e non si può certo evitare di riconoscere in alcuni racconti, così autonomi e “a sé stanti”, un’eco di Borges e del suo L’Aleph, capaci come sono di darci forti emozioni e di lasciarci altrettanto fortemente interdetti.

Paradossi e irrealtà sono la normalità del libro; come dice la Morelli, all’interno di questi racconti «scopriamo paure nascoste, paure sepolte, ma familiari […]; ci mettono faccia a faccia con ciò che solitamente resta in ombra»: paura della morte e del dolore, paura degli altri, paura dell’ignoto. Se alcuni racconti non ci colpiscono particolarmente, forse perché quasi eccessivamente autonomi e privi di introduzioni di sorta, di un contesto che stimoli in noi un pensiero più profondo, altri sono permeati da richiami alti, che li tramutano in una sorta di costante citazione dei grandi della letteratura.

Come molto spesso accade, un numero di pagine limitato non sempre è sintomo di lettura semplice o leggera e, ancora una volta, è necessario grattare la superficie per scoprire che cosa vi si nasconde sotto.


(Norberto Luis Romero, Istantanee d’inquietudine, trad. di Dajana Morelli, Edizioni Arcoiris, 2012, pp. 121, euro 10)

“Sherlock - Le cascate di Reichenbach”

«Deve riuscire a dirlo…»
«Il mio migliore amico Sherlock Holmes è morto».

Spesso si sostiene a piena voce questo concetto: una serie tv – fatta come si deve – possiede i valori e i pregi di un film. Bene, chi non è di tale parere dovrà rivedere la sua posizione. Mentre chi, come il sottoscritto, lo sostiene, ora ha un appiglio inamovibile a cui a fare riferimento durante il dibattito: The Reichenbach Fall.

Ovvero, Le cascate di Reichenbach, terzo e ultimo episodio della seconda stagione di Sherlock. Non ci soffermeremo sui pregi immensi del lavoro targato BBC, anche perché ci ha pensato più che degnamente Mirko Braia nel suo articolo. Parlandone velocemente, la seconda stagione supera sotto ogni aspetto la prima annata e – sembrava impossibile – riesce a rendere Sherlock ancora più complesso, intrigante e affascinante. In queste righe ci concentreremo solo sull’episodio finale, molto probabilmente uno dei momenti qualitativamente alti della storia della fiction tv. Ma andiamo con ordine.

Holmes e Watson sono diventati due star. Grazie al blog tenuto dal dottore e il continuo chiacchiericcio sui mass media, la coppia di consulenza investigativa è sulla bocca di tutti. Non c’è tabloid dove non campeggi la foto del geniaccio britannico con in testa il famoso cappello, qui donatogli come ringraziamento da Lestrade, ispettore capo di Scotland Yard. Con la risoluzione del caso Reichenbach i nostri beniamini raggiungono il top di prestigio e popolarità. La puntata si apre così, mostrando la felice conclusione delle indagini, e le ancora poco consone maniere di Sherlock nel ricevere gli allori. Non viene fatto nessun accenno all’inchiesta: la puntata parlerà d’altro. Lo si capisce quasi subito, perché a prendere la scena ci pensa la Nemesi.

Moriarty, il consulente criminale, il ragno del web, l’acerrimo nemico e rivale di Holmes, stavolta ha dato pieno sfogo a ogni atomo della sua depravazione. Come? Organizzando tre rapine simultanee, in tre posti inaccessibili: la Torre di Londra, la Banca d’Inghilterra e al carcere di Pentonville. Ma come sappiamo, il suo fine non è mai il mero gesto criminale: troppo banale. Lui vuole sfoggiare la sua grandezza e umiliare Holmes. E infatti, l’obiettivo reale è farsi catturare per “far bruciare” il rivale. Dal processo inizierà un duello capace d’inchiodare lo spettatore scena dopo scena. Anche perché stavolta la vittima designata sembra proprio il nostro Sherlock…

Le cascate di Reichenbach  – come gli altri  episodi – è la trasposizione di un racconto di Sir Conan Doyle. Qui si tratta de L’ultima avventura (The Final Problem) e come molti appassionati delle opere dello scrittore sapranno, questo è il titolo passato alla storia poiché vede la morte di Sherlock Holmes. Fedele alla sbalorditiva maestria, la serie trasporta quest’evento sullo schermo offrendo un’ora e mezza che non ha nulla da invidiare a qualsiasi prodotto cinematografico. Anzi, supera tranquillamente la maggioranza della concorrenza. Vedere per credere.

La tensione drammatica ed emotiva è inclassificabile. Merito degli attori, le cui interpretazioni sono fonte di adorazione da parte dei fan e della critica, vista la bravura con cui danno nuova vita a personaggi strausati tra cinema e televisione, anche in chiavi di rilettura poco consone. Robert Downey jr. e Jude Law se ne sono fatti una ragione. Prima dello struggente epilogo, lo spettatore vede e capisce la mole della complessità del rapporto tra Holmes e il fidato braccio destro. In un indimenticabile dialogo, l’amica scienziata Molly spiegherà a Holmes come alcuni suoi atteggiamenti più stravaganti e bizzarri siano dovuti proprio all’influenza subita dal dottore reduce di guerra. Ciò porterà alla lacerante scena – post duello definitivo con la Nemesi – in cui Sherlock, in piedi sul cornicione di un palazzo, sarà obbligato a confessare il falso, pur di salvare la vita a Watson.

Ma oltre all’aspetto emotivo e drammatico, Le cascate di Reichenbach è un capolavoro sia a livello registico che di sceneggiatura. La prima continua in evoluzioni e avanguardistici movimenti di macchina che non hanno paragoni tra gli attuali prodotti televisivi. Alcune soluzioni visive saranno sicuramente saccheggiate a breve. Sempre godibili e originali gli effetti per mostrare i fulminanti  ragionamenti deduttivi del protagonista. Il ritmo poi, è da considerare come una sfida: stai vedendo un caso di Sherlock Holmes? Benissimo, preparati a entrare nel vorticoso mondo della sua mente. La sceneggiatura, forte della base letteraria, viene riadatta e modernizzata offrendo qualcosa di più attuale e diverso rispetto alla base originale. Se Conan Doyle fosse nato alle soglie del terzo millennio e avesse fatto l’autore di serie tv invece che lo scrittore, il suo eroe sarebbe stato così.

Per il resto, non possiamo che invitarvi caldamente a vedere tutta questa mirabile opera televisiva, arrivando carichi e rapiti al gran finale. All’ultima avventura. E lunga vita a Sherlock.

 

L’Argonauta. Libri per viaggiare

Oltre Porta Pia, passeggiando tra piazza Fiume e la Nomentana, accanto al Macro, il museo d’arte contemporanea e punto d’attrazione di uno dei quartieri più eleganti di Roma, capita di “incontrare” una libreria e di rimanerne incantati. Capita perché solo se la conosci ti accorgi di quella vetrina sempre curata, che riflette (e nasconde) le installazioni degli artisti del nuovo millennio che spesso spuntano dall’altro lato della strada.

Se è vero che via Reggio Emilia è l’avamposto della mostra, è ancora più vero che per chi vuole perdersi tra quegli odori e quei sapori antichi che solo i libri sanno offrire è qui, in questo luogo dalla luce garbata e pacata, che bisogna fermarsi.

C’è un’insegna in alto, nobilitata dal tempo, che ti dice dove sei: L’argonauta, libri per viaggiare.

Luogo indiscusso di viaggi, reali e virtuali (quelli del lettore), se apri quella porta sei costretto a partire per mete ancora da decidere.

Ti accolgono il sorriso delle due proprietarie (Cristina e Valentina, ormai storiche “padrone di casa”), l’arredamento coloniale, una musica di sottofondo, cartine e stampe geografiche, un pianoforte al lato della sala più grande e grosse librerie in legno (di quando Ikea non aveva ancora disinnescato la nostra idea di bello) che contengono centinaia di libri.

Come se non bastassero mappe e mappamondi si potrebbero osservare i dorsi o le copertine dei volumi per capire che l’Argonauta nasce e si sviluppa come libreria specializzata in viaggi.

Ma è limitativo. Perché, come spiegano benissimo le animatrici di questo luogo di rara bellezza, «l’idea di rilevare una libreria nacque un po’ per caso, accomunando la passione per i libri e per i viaggi di due amiche allora nemmeno trentenni; passioni che continuano a essere il motore di questo spazio, che si è pian piano trasformato in un vivo centro culturale, grazie alla costante organizzazione di eventi, presentazioni, concerti e manifestazioni».

Più che il viaggio, è l’indipendenza il leitmotiv che racchiude il senso della libreria.

Indipendenza su tutto e da tutto: dalla sedentarietà, dall’immobilismo, dal gusto omologato dei “book store”, dalle violenti leggi di mercato, dall’editoria di “regime”, dal lamento continuo di chi crede che a trent’anni non si possa creare un’attività al tempo stesso funzionale e di qualità.

Largo spazio è dato agli editori indipendenti che, come le ragazze della libreria, non vogliono sottostare ai ricatti delle grandi catene librarie e distributive.

Il lavoro che hanno portato avanti Cristina e Valentina dal 2009 (la fondazione della libreria risale invece al 2002) e che continuerà, è stato quello di modificarsi costantemente, specchiandosi in altri settori e andando ad ampliare il concetto di “viaggio”, conducendolo ad un’idea di “percorso” esistenziale.

La divisione per continenti ci inserisce in una dimensione “universale” ma, man mano che guardiamo bene, capiamo che si tratta soltanto di contenitori di qualcosa di più grande.

In un continuo salto tra globale e locale l’occhio non può non cadere sui libri dedicati, per esempio, alla nostra città, una Roma che si traduce in volumi d’architettura, in raccolte di poeti dialettali, in stradari, in guide dei locali alla moda, in romanzi più o meno conosciuti.

Si viaggia con le gambe e col pensiero. Si viaggia pure con la gola, con il gusto: ampio spazio è dato, infatti, anche al settore gastronomico, regionale e internazionale. E con i sogni: quelli dei bambini, potenziali lettori di domani, a cui sono dedicati spazi ed iniziative.

Quando si va all’Argonauta si trovano spesso molti amici, legati dal comune amore e dalla comune passione per la carta stampata. Amici che sono qui a presentare i loro libri, a suonare, a ballare, a discutere e, troppo spesso, a mangiare. Amici che si ha la fortuna di conoscere, amici che si sono soltanto “letti” o “ascoltati”, amici persino che si ha la fortuna di incontrare in quel determinato momento. Amici che si chiamano Dacia Maraini, Luciano Violante, Folco Quilici, Edoardo Bennato, Gianrico Carofiglio, Emanuele Trevi, Giuseppe Aloe e portano il nome di tutte le persone che in questi anni sono passati per qui. Amici che si chiamano Cavallo di Ferro, Nova Delphi, Giulio Perrone, Ensemble, Lozzi, Il lupo e che portano il nome di tutte quelle case editrici emergenti di cui troviamo qui i libri.

Per un evento che passa, altri ne arrivano. E allora, se capiterà di passare di qui nei prossimi giorni, non potremmo perderci, giovedì 14 Marzo alle 18.30, la presentazione del libro Addio a Roma, di Sandra Petrignani, che, insieme a Barbara Alberti ci porterà a spasso tra gli anni Cinquanta e Settanta in una città intellettualmente ricca, tra Pier Paolo Pasolini, Palma Bucarelli, Elsa Morante, Giorgio De Chirico e Natalia Ginzburg. 

Non prendete impegni, infine, per il fine settimana del 22 e 23 Marzo prossimi. Si terrà infatti la seconda edizione di Libri in Onda, una manifestazione dedicata all’editoria indipendente, dove importanti case editrici quali minimum fax, Voland e Giulio Perrone Editore si affiancheranno a case editrici più piccole ma altrettanto valide, proponendo al pubblico l’intero catalogo con uno sconto del 10%, incontri con gli autori, firma copie e molto altro. Un modo per passare delle giornate e delle serate diverse, tutti insieme come se libreria e editori, autori e lettori, fossero dei soggetti unici, coraggiosi, intraprendenti. O, probabilmente, dei veri e propri argonauti del nuovo millennio.

“Due fiumi” di Tatiana Salem Levy

«Due fiumi ai due lati della spiaggia, l’oceano in mezzo. Allora mi tornò tutto, e vissi nuovamente le notti in cui io e mio fratello fuggivamo da casa, mentre i nostri nonni dormivano, ci rifugiavamo dove il fiume ricco d’acqua sfociava nel mare e aspettavamo che le stelle cadenti comparissero in cielo per esprimere desideri».

C’è qualcosa nel rapporto tra fratello e sorella per cui a volte si finisce per assumere un ruolo in reazione all’altro e si resta come bloccati. È quello che succede ai protagonisti di Due fiumi (Cavallo di Ferro, 2013) della giovane scrittrice portoghese Tatiana Salem Levy. Dois Rios (due fiumi) è un’isola vicino Rio de Janeiro dove i gemelli Antonio e Joana trascorrevano le estati a casa dei nonni. È sotto il sole cocente brasiliano che improvvisamente la vita di entrambi, inseparabili fino ad allora, subisce una brusca interruzione nel suo percorso. Violentemente e inspiegabilmente una linea d’ombra, un confine attraversa la vita dei due adolescenti.

Quello che all’inizio il romanzo ci presenta è un immaginario familiare luttuoso in cui la normalità diventa ben presto una chimera e il racconto diventa man mano la dimostrazione di come a volte famiglia e identità non sempre lavorino insieme ma anche contro.

La morte improvvisa del padre, quando Antonio e Joana hanno solo dodici anni, abbatte il fragile edificio familiare e a questo evento i personaggi della storia reagiranno in modi diversi per venire a patti con il dolore.

La madre Aparecida finirà per richiudersi nella sua gabbia di ossessioni: la disposizione millimetrica di fotografie e posate; il gioco di calpestare solo o il bianco o il nero del marciapiede che diventa mania; il ripetuto gesto di aprire e chiudere la porta; il lavarsi le mani usando una nuova saponetta a ogni lavaggio sino allo spellamento. Joana farà della follia materna una colpa da espiare e rimarrà a prendersi cura di lei mentre il fratello preferirà «il mondo, invece della piccolezza dei dolori domestici», farà suo il sogno del padre di viaggiare e diventerà fotografo.

Il rapporto fra Antonio e Joana subirà così un drastico cambiamento: all’inizio si sottolinea l’estrema vicinanza, quasi borderline, che si spinge pericolosamente oltre l’amore fraterno, e subito dopo l’estraneità di un legame che comunque non è frutto di una scelta. Inevitabilmente, con un fratello si condivide una parte importante della vita. Quando Antonio se ne va, per Joana è come se insieme a lui avesse perso tutta la sua infanzia e non avrà il coraggio di separarsi dalla sua «colpa». Sarà lo sgretolarsi di tutte le illusioni dell’infanzia: «…non serve a niente vedere le stelle cadenti, non serve a esprimere desideri, la vita è quello che è, non quello che vorremmo fosse».

A innescare una sterzata narrativa potente e illuminante è l’apparizione di Marie-Ange, una graziosa ragazza corsa con il cuore di una quattordicenne, un’epifania che alla fine il lettore stenta a credere reale ma così nitida nei ricordi dei due gemelli che se ne innamorano. Marie-Ange è una figura numinosa, una benefica forza simbolica, quasi una presenza mitica. E infatti i loro racconti e le loro emozioni sembreranno quasi sovrapporsi tanto da rendere indistinguibili e parallele le due parti di cui si compone il romanzo, due monologhi interiori intrecciati dall’andatura evocativa, portatori ognuno della voglia di cambiare. Per Joana, Marie-Ange rappresenta una vera salvezza. Prigioniera del suo passato, solo con lei riassaporerà la libertà.

Sarà ancora un’isola («la tua isola risveglia i fantasmi della mia»), un altro sole e un altro mare in cui rinascere immergendosi come nel liquido amniotico, a schiarire le idee e i sentimenti dei due gemelli. Allora forse ci sarà un nuovo inizio.

È proprio questo vissuto che aggalla nei due protagonisti, unito a un passato struggente che la Levy riesce a rifuggire da caratterizzazioni vaghe o meramente funzionali creando personaggi dal connotato spessore psicologico. Ciascuno racconta il proprio passato perché vuole accantonarlo definitivamente e ritorna su fatti vicini e lontani con la speranza che con la loro luce possano illuminare il presente e rischiarare il futuro.

(Tatiana Salem Levy, Due fiumi, trad. di Cinzia Buffa, Cavallo di Ferro, 2013, pp. 208, euro 14)

“Helmut Newton. White Women / Sleepless Nights / Big Nudes” al Palazzo delle Esposizioni

«Some people’s photography is an art. Mine is not. If they happen to be exhibited in a gallery or a museum, that’s fine. But that’s not why I do them. I’m a gun for hire».

Dal 6 marzo fino al 21 luglio a Palazzo delle Esposizioni, grazie alla collaborazione della Helmut Newton Foundation di Berlino, possiamo ammirare 180 scatti di uno tra i più innovativi e geniali fotografi di moda del XX secolo: Helmut Newton. La mostra prende il nome dai primi tre volumi che raccolgono le sue fotografie, White Women / Sleepless Night / Big Nudes, selezionate per noi dal curatore Matthias Harder.

La mostra, suddivisa in tre sezioni, accoglie le opere di queste sue prime raccolte e si trova al secondo piano del museo. Il curatore ha scelto di far parlare direttamente le foto, senza bisogno di un eccessivo sovraccarico di informazioni. L’allestimento tende a essere il più essenziale possibile, per dar spazio alle immagini e alla loro forza espressiva. Ci accoglie il colore viola delle pareti e una bellissima Elsa Peretti in “Bunny on the terrace of her apartment”, uno tra i primi scatti che lo rese celebre. La posa plastica, la maschera sul viso, il panorama di New York sullo sfondo e la pellicola in bianco e nero, sono l’emblema e la sintesi dello stile dell’artista. Precursore delle icone fashion tra gli anni ’70 e ’80, fotografa il nudo femminile per la prima volta in forma artistica e in chiave di emancipazione senza alcun tabù.
 


Negli scatti selezionati di White Women, la sua prima pubblicazione e prima sezione del percorso espositivo, troviamo la presenza ricorrente di tre modelle: Elsa, l’algida Roselyne e Laura, nude e statuarie, in pose che mettono in risalto non solo la loro bellezza fisica, ma anche la loro spiritualità. L’alternanza tra gigantografie e particolari in sequenza serve per farci esplorare e captare il filo conduttore “altro”, diverso da quello che sembra più semplice e appariscente delle riviste patinate che lo resero famoso, quello più intimo e personale, molte volte censurato o mai pubblicato perché troppo scandaloso.

Nelle foto scattate a Villa d’Este, un albergo sul lago di Como, c’è un uso predominante della pellicola colorata che fa risaltare il paesaggio incantato dal verde e blu acceso. Ritratti di volti noti della moda fotografati in angolazioni e pose rappresentative delle loro personalità, come Loulou de la Falaise allo specchio che si volta e guarda l’obiettivo. Newton usa lo specchio come un moderno Velázquez: superficie dove appare il riflesso dell’animo umano invece che quello delle sembianze fisiche.

Verso la fine della prima raccolta, sono state allestite le foto realizzate a Saint Tropez sul bordo di una piscina: «Una piscina ha un non so che di formale e riservato, incantevole specialmente di notte. Almeno in Europa una piscina è un bene di lusso al cui bordo possono accadere molte cose. È un luogo di mistero e incontri».

Nella seconda sezione, Sleeplees Night, veniamo avvolti dal blu delle pareti e siamo subito rapiti da “Over Paris”, spettacolare e gigantesca, dove, in un panoramico appartamento parigino che rievoca ambientazioni tratte da un film giallo-poliziesco, il personaggio principale è una bellissima modella nuda che si specchia e guarda il panorama dall’alto di una grandissima vetrata. Poi “Manhattan at Night”, “Central Park West” con le loro angolazioni insolite e mozzafiato.

Newton rappresenta spesso le stesse modelle negli stessi luoghi, ma in atteggiamenti diversi, usando lo specchio o la piscina come espedienti per rivelare il doppio e l’aspetto più segreto, intimo e nascosto dell’animo umano. Come, per esempio, le foto della famosissima Saddle ritratta in veste di dominatrice cavallerizza o come elegante modella. Anche in questa sezione ci sono ritratti di personaggi famosi e di stilisti, come i giovanissimi Karl Lagerfield, Yves Saint Laurent e Warhol.
 


Big Nudes, terza sezione della mostra, è ispirata ai manifesti usati dalla polizia tedesca per rintracciare gli appartenenti alla Raf: gli scatti sono centrali, quasi privi di ambientazione e gli unici protagonisti sono i maestosi corpi delle modelle. L’evoluzione e la trasformazione che negli anni ’70 del secolo scorso ha subito il corpo femminile, anche a livello sociale, è ben rappresentato attraverso la forza e la risolutezza dei nudi delle modelle.

“Self-Portrait with Wife and Models” è uno degli scatti più simbolici: oltre allo stesso Helmut, è presente anche la moglie seduta accanto a un grande specchio. La presenza dell’autore nell’opera ci rimanda a “Las Meninas”, come anche quella della moglie June, anche lei nota fotografa, che osserva il set, divenendone la sua rappresentazione filosofica. Nel suo voler essere un autoritratto, la foto sembra alludere a un punto che è necessariamente invisibile: lo sguardo del fotografo che lo organizza. Lo specchio è lo sguardo che esce dalla foto per mostrarci ciò che sta al di là della foto stessa, lo spazio reale e lo spazio del riguardante.
 


 

Helmut Newton. White Women / Sleepless Nights / Big Nudes
Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma
6 marzo – 21 luglio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.palazzoesposizioni.it

“L’eroe quotidiano” di David Foenkinos

Da poco tempo, sugli scaffali delle librerie è presente l’ultimo lavoro di David Foenkinos, L’eroe quotidiano (Edizioni E/O, 2013): racconta la semplice storia di un uomo pudico e melanconico, impiegato notturno alla reception di un hotel parigino. In una sorta di solitudine mistica e desolante, per quanto volontaria, attende l’ispirazione letteraria, desideroso di raccontare il grande amore. Sa di poter lasciare qualche cosa al mondo (pretesa in cui si può scorgere facilmente una leggera e voluta pecca di narcisismo dell’autore stesso).

Quella storia alla fine dei conti è lì a portata di mano. Dinnanzi ai propri occhi, ciascun uomo ha qualche cosa da raccontare. La vera tragicità è che non ce ne accorgiamo mai. Tutti, prima o poi, dobbiamo confrontarci con i nostri spettri, con la vita, con la fine.

Invertendo il ciclo esistenziale di una persona, il romanzo si apre proprio con la morte del nonno. Qui inizia il calvario dello stesso Foenkinos; oggigiorno dire «ti amo» a una persona cara risulta cosa assai ardua. Rimane la nonna, rinchiusa controvoglia in una casa di riposo. Vivere così è solo prigionia, e allora sono proprio i ricordi il terreno per una evasione che ha dell’incredibile: un’ultima fuga rinchiusa nella complice ed empatica relazione tra nipote e nonna.

Il titolo originale del romanzo è Les Souvenirs, i ricordi intesi come le dettagliate fotografie che l’autore cerca di immergere nella memoria collettiva, incitando i lettori a raccogliere ancora una volta la poesia del dolce rimembrare. Solo i souvenir rimangono, tutto il resto esplode in una bolla di sapone non appena esaliamo l’ultimo respiro. Il protagonista allora si concentra su pensieri legati a Nietzsche, Van Gogh, Serge Gainsbourg, persino sul rapporto con il cassiere notturno dell’autostrada A13; il pretesto è quello di sezionare, con amore e giustizia, la memoria. Foenkinos ci accompagna lungo una riflessione, la maggior parte delle volte dolorosa e turbolenta, sulla vita, sulla morte, sul tempo che scorre e fuga gli istanti, sulle relazioni intergenerazionali, sull’urgenza del sapere vivere. E poco importa se lo fa con una scrittura banale, da temino scolastico, poiché è così che tutti noi oggi parliamo e ci rapportiamo. Lo aveva già fatto nel 2010 con Lennon, piccolo e poco fortunato capolavoro ancora inedito in Italia: l’istante di qualche seduta psicoanalitica, prima che il grande John venisse ucciso.

Il “quotidiano” del titolo italiano è un aggettivo forse troppo superficiale, banale. Ma in fondo è l’uomo stesso a essere semplice: carne e ossa e la magia del saper pensare. Più che lo stile, comune, conciso, quotidiano appunto, sono i luoghi e le scenografie a essere asciutte. Un letto d’ospedale, la strada, casa, sono i luoghi di tutti, quelli che i nostri passi percorrono ogni giorno. La sintesi che se ne ricava è la vita in sé e per sé (quotidiana, una vita qualunque). Un uomo, il pertugiare del tempo. La mia esistenza, come la sua, come quella del vicino seduto sull’autobus o del cameriere che mi porta il solito caffè macchiato, sono dei souvenir, messi nero su bianco.

«Troppo spesso sono arrivato in ritardo sulle parole che avrei voluto dire. Non potrò mai più fare marcia indietro verso quell’affetto. Tranne forse, scrivendo qui, glielo posso dire».

L’autore, così come il suo alter-ego, il protagonista, si vuole far del male nella ricerca stessa del tempo perduto. È come la madeleine diProust: dagli oggetti sorgono i ricordi e, da questi ultimi, in un circolo che man mano diviene vizioso e sofferto, estrapoliamo i migliori aneddoti e i più grandi souvenir.

David Foenkinos non è lo Zola o il Sartre di turno, non scrive di filosofia, ma parla di mediocrità, rivolgendosi all’uomo qualunque. L’uomo di tutti i giorni. Lo fa pacatamente, con un vocabolario ridotto. Ma proprio qui sta la sua forza, nel ricreare in poco più di duecento pagine tutto il vuoto e l’instabilità che ci circonda, l’opaco e la nebbia che volutamente ci velano la possibilità di guardare lontano, guardare oltre. È facile nascondersi dietro la superficialità dell’insensibilità. La vita è una perenne macchina a vapore, sbuffa e si nutre di memoria e ricordi, e va alimentata continuamente.

(David Foenkinos, L’eroe quotidiano, trad. di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni E/O, 2013, pp. 224, euro 18)

“Human Quasar” degli Aemaet

Nomi rivelatori capaci di anticipare la Musica. In primis, quello della band: Aemaet. Termine ebraico, significa verità. Scelto dai membri del gruppo per omaggiare il film caposaldo dell’espressionismo tedesco Der Golem di Paul Wegener. Nel film, secondo la leggenda, il rabbino – usando tale parola – dà vita all’informe materia, diventando lui stesso Creatore. Citando le parole del bassista Cristian Ciccone, lasciateci in una precedente intervista qui su Flanerí: «Un gesto che dà vita e dà verità, ed è un po’ quello che la musica è per noi: vita vera».

Bene, ora parliamo di Human Quasar. Nome dell’album d’esordio targato Aemaet, uscito a Marzo. Lavoro profondo e coinvolgente, in cui vivono e dialogano l’umano reale e concreto, e il quasar, la parte della galassia più misteriosa e lontana, ai confini dello spazio e del tempo. Nella contrapposizione di due concetti così antipodici (basti pensare che il quasar è stimato a 10 miliardi di anni luce da noi!) nasce un concept dalla doppia natura distinta e contrapposta. Naturale e spontanea la cesura, come ai vecchi tempi, in un lato A e lato B. I nomi dei due side? Naturalmente White Matter e Black Matter.

Nella Materia Bianca è concentrata la parte della veglia, della concezione del reale, l’ambito in cui l’uomo si muove ogni giorno, secondo le gerarchie e classificazioni stabilite dalla società. Gerarchie che già del primi brano d’introduzione, sembrano crollare. Infatti i contorni della prima traccia “Vetus Ordo Seclorum” accompagnano l’ascoltatore in un anti-ordine da contrapporre all’attuale. Musicalmente siamo nei contesti cari al gruppo: un alt rock con basi solide e ben calibrate tra new wawe e grunge. Le chitarre scuotono l’aria e il virtuosismo scalpitante spezza subito il muro di perplessità che spesso nasce di fronte il lavoro di una band esordiente. Hanno le idee chiare gli Aemaet e la loro musica lo dimostra.

Neanche il tempo di rifiatare dopo l’intro e la tastiera sintetizzata di “The Iconosclasts” apre un brano ancora più furioso, sfociante nel folle finale. Interessante l’aggiunta in stereofonia contemporanea di due annunci giornalistici molto importanti per la storia dell’umanità: la telefonata fatta da Nixon nel ’69 agli astronauti sbarcati sulla Luna, e l’annuncio della CNN dell’attentato dell’119. A concederci un’oasi di melodia ci pensa la successiva “A Boy Called Hermes”, unico pezzo del disco a trattare esplicitamente d’amore, sorvegliato dalla divina e poetica presenza. A bruciare l’aria ci pensano i vorticosi assoli di “Demons of Dawn.” Gli strumenti simulano l’attacco fisico di questi demoni dell’alba, pronti ad accanirsi sul risveglio di ogni uomo. A chiudere il lato dello Materia Bianca, le pulsazioni di “Andy the Mothman”, che con i suoi cinque minuti e mezzo è la summa strumentale adatta a chiudere la prima parte. Una chiusura fortemente emotiva, poiché la vicenda di Andy tratta del suicidio di un artista amico del gruppo.

Sono i riff di “Slumber” ad aprire lo scenario sulla Materia Nera. Ora tutti i riferimenti al reale e al quotidiano saltano. Le interpretazioni e i contesti concreti s’annullano. Adesso inizia un viaggio notturno, onirico, oscuro e indefinibile. Un percorso musicale carico d’atmosfera, assicurato dalla successione di “The Hangman”, “Shadow”, “Paradoxical Sleep” e “A Shelter From A Dreams”, in cui è possibile lasciare ogni zavorra fisica per concedersi a un cosmico e appassionante trip rock capace di lasciare il segno subito dopo il primo ascolto.

Al loro esordio, gli Aemaet dimostrano d’avere le carte in regola per lasciare il segno. A loro favore gioca una costruzione del brano – testuale e musicale – davvero notevole, in cui la profondità e lo spessore del testo si miscela caparbiamente nello sfogo musicale inarrestabile. Se si aggiunge a questo anche l'edificazione di un album coeso e coerente che affascina e non stanca, il quadro è chiaro. Ora, non resta che vederli dal vivo. E che il viaggio verso il quasar possa continuare.

(Aemaet, Human Quasar, 2013) 

 

 

“La frode” di Nicholas Jarecki

Esordio promettente quello di Nicholas Jarecki con La frode, dietro le quinte del capitalismo finanziario più truffaldino degli ultimi anni, con un cast d’alto livello che vede Richard Gere affiancato da Susan Sarandon, Laetitia Casta, Tim Roth e dai promettenti Nate Parker e Brit Marling.

Robert Miller è un tycoon di successo, centro propulsore di una galassia finanziaria in continua espansione. Arrivato a sessant’anni, però, sente la necessità di liberarsi della sua impresa. Il motivo dichiarato è quello di voler passare più tempo con la famiglia. La verità nascosta nelle pieghe dei bilanci è un’ingente truffa, un mascheramento di un ammanco che potrebbe costargli tutto, dalla fortuna alla libertà, fino al futuro degli amati figli. Per questo Robert è teso la sera del suo compleanno. Attende che un importante gruppo bancario firmi il contratto di acquisto delle sue quote societarie prima che le irregolarità emergano, ma il direttore tergiversa, lo tiene sul filo. In casa nessuno sembra sospettare nulla, tranne la figlia Brooke, la più intelligente, la più amata, che interroga il padre su alcuni bilanci insoliti. La felicità per Miller è nella giovinezza di Julie, artista inquieta che protegge e foraggia mentre progetta sogni di fuga che si infrangono all’alba di un guard rail. È il fatto di sangue che stravolge un ordine imperfetto e scatena dietro Robert l’ispettore Bryer, segugio più temibile delle agenzie di revisione contabile.

Partendo dai ricordi personali del suo vissuto nell’alta società newyorkese e dalle esperienze lavorative accumulate come imprenditore, il trentaquattrenne Jarecki confeziona un’opera prima solida e interessante che punta i riflettori sulla vita privata della finanza statunitense. Quello che interessa al regista e sceneggiatore non è mostrare le dinamiche della finanza malata ma le logiche di un finanziere malato, afflitto da una megalomania patologica che lo porta a sentirsi un dio capace di tutto. Lo spirito stesso del capitalismo è tutto nel riuscire a mettere le mani su una parte il più grande possibile del denaro esistente al mondo, o quanto meno far credere di esserci riusciti, dichiara Miller/Gere all’inizio del film. Il suo scopo è quello di preservare la sua quota di ricchezza in un mondo in cui la morale non si declina mai in senso universale ma solo verso scopi relativi e utilitaristici. Non esistono buoni; tutti hanno un prezzo, nessuno ha un valore. L’ispettore Bryer di Tim Roth (il personaggio meno riuscito, non aiutato da un’interpretazione eccessivamente carica) cerca la verità senza badare troppo alla giustizia o alla legge, abusando del proprio potere inseguendo una punizione per Miller che assuma il valore di catarsi sociale. L’acquirente James Mayfield (interpretato da Graydon Carter, il direttore di Vanity Fair sulle cui inchieste si è basato Jarecki per descrivere la corruzione del mondo finanziario) è pronto a perpetrare la frode di Miller per difendere il proprio investimento.

Anche la famiglia, che Miller ama realmente – almeno quanto ama il brivido del denaro e la soddisfazione narcisistica di un’amante giovane e bellissima – e per cui è pronto a fare tutto, si muove in direzione di un’etica personale. La moglie Ellen/Sarandon sopporta i tradimenti e le bugie, solo all’apparenza ignara e paziente, controllando in silenzio che le azioni del marito non mettano a rischio il futuro dei figli. La figlia Brooke, erede designata dell’impero, elogia pubblicamente le virtù del padre dopo aver liberato in un serrato confronto quella verità capace di spazzare via il totem della perfezione paterna.

C’è una connotazione spaziale per la verità: è possibile solo all’aria aperta (il dialogo con la figlia, appunto, l’incontro con l’avvocato). Negli spazi limitati si comprime e si camuffa (in macchina, in ufficio, lo scontro Sarandon-Gere attraverso la barricata del talamo), nel chiuso della società, nei saloni delle feste, tra i tavoli delle cene formali, si perde completamente.

Sorretto dalla colonna sonora tesa di Cliff Martinez (messosi di recente in evidenza con Drive), La frode è un thriller finanziario compatto e spietato con il mondo cannibale degli affari, l’incoraggiante esordio di un regista da tenere d’occhio.

(La frode. Sesso, potere e denaro sono il tuo migliore alibi, di Nicholas Jarecki, 2012, thriller, 107’)